Nel
mese di novembre del 1997 la Regione Toscana ha promosso un Convegno
internazionale sulla pena di morte: a oltre duecento anni dalla pubblicazione
del libro di Beccaria Dei delitti e delle pene, e
dall'abolizione della pena di morte nel Granducato di Toscana, questa rimane
ancora in vigore in 94 stati; secondo Amnesty International nel 1996 sono state
giustiziate nel mondo 5.139 persone in 39 paesi e 7.207 sono state condannate a
morte in 76 paesi. In occasione del Convegno è stato pubblicato un opuscolo che
contiene anche il testo della conferenza tenuta da Norberto Bobbio alla VI
assemblea nazionale di Amnesty International (Rimini, 1981), di cui riportiamo
alcune pagine. Bobbio, dopo aver messo in evidenza che la pena di morte è stata
accettata per secoli, sottolinea il ruolo avuto da Beccaria per l'apertura del
dibattito sulla questione, ed espone con chiarezza le argomentazioni
dell'illuminista milanese; ma conclude constatando che, evidentemente, le
motivazioni razionali non sono state sufficienti a eliminare la pena di morte.
” necessario pertanto fare ricorso a un principio morale che neghi in ogni caso
il diritto dello stato a uccidere: il comandamento “Non uccidere” non è per
Bobbio un imperativo religioso, ma piuttosto un imperativo etico, di tipo
kantiano, che può essere recuperato anche nelle società complesse dei nostri
giorni.
N.
Bobbio, Conferenza tenuta a Rimini il 3 aprile 1981 in occasione della VI
assemblea nazionale di Amnesty International
Se noi
guardiamo al lungo corso della storia umana piú che millenaria dobbiamo
riconoscere, ci piaccia o non ci piaccia, che il dibattito per l'abolizione
della pena di morte si può dire appena cominciato. Per secoli il problema se
fosse o non fosse lecito (o giusto) condannare a morte un colpevole non è stato
neppure posto. Che tra le pene da infliggere a chi aveva infranto le leggi
della tribú, o della città, o del popolo, o dello stato, ci fosse anche la pena
di morte, e che anzi la pena di morte fosse la regina delle pene, quella che
soddisfaceva a un tempo il bisogno di vendetta, di giustizia e di sicurezza del
corpo collettivo verso uno dei suoi membri infetti, non è mai stato messo in
dubbio. E tanto per cominciare, prendiamo un libro classico, il primo grande libro
sulle leggi e sulla giustizia della nostra civiltà occidentale; le Leggi,
i N-moi di Platone. Nel libro IX Platone dedica alcune pagine al
problema delle leggi penali. Riconosce che “la pena deve avere lo scopo di
rendere migliore” ma aggiunge che “se si dimostra che il delinquente è
incurabile, la morte sarà per lui il minore dei mali”. [...]
Bisogna
giungere all'illuminismo, nel cuore del Settecento, per trovarsi per la prima
volta di fronte a un serio e ampio dibattito sulla liceità od opportunità
della pena capitale, il che non vuol dire che prima d'allora il problema non
fosse mai stato sollevato. L'importanza storica, che non sarà mai sottolineata
abbastanza, del famoso libro di Beccaria (1764) sta proprio qui; è la prima
opera che affronta seriamente il problema e offre alcuni argomenti razionali
per dare ad esso una soluzione che contrasta con una tradizione secolare.
Occorre
dir subito che il punto di partenza da cui muove Beccaria per la sua
argomentazione è la funzione esclusivamente intimidatrice della pena. “Il fine
[della pena] non è altro che d'impedire al reo di far nuovi danni ai suoi
concittadini e di rimuovere gli altri da farne degli eguali”. [...] Se questo è
il punto di partenza, si tratta di sapere quale sia la forza intimidatrice della
pena di morte rispetto ad altre pene. Ed è questo il tema che si pone ancora
oggi e che ha posto la stessa Amnesty International piú volte. La
risposta di Beccaria deriva dal principio introdotto nel paragrafo intitolato Dolcezza
delle pene. Il principio è il seguente: “Uno dei piú grandi freni dei
delitti non è la crudeltà della pena ma l'infallibilità di essa, e per
conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severità di un giudice
inesorabile che, per essere un'utile virtú, deve essere accompagnata da una
dolce legislazione”. Mitezza delle pene. Non è necessario che le pene siano
crudeli per essere deterrenti. ” sufficiente che siano certe. Ciò che
costituisce una ragione, anzi la ragione principale, per non commettere il
delitto, non è tanto la severità della pena quanto la certezza di essere in
qualche modo puniti. In via secondaria, Beccaria introduce anche un secondo
principio, oltre la certezza della pena: l'intimidazione nasce non già
dall'intensità della pena ma dalla sua estensione, per esempio l'ergastolo. La
pena di morte è molto intensa, mentre l'ergastolo è molto esteso. Dunque, la
totale perpetua perdita della propria libertà è piú deterrente della pena di
morte.
I due
argomenti di Beccaria sono entrambi argomenti utilitaristici, nel senso che
contestano l'utilità della pena di morte (“né utile né necessaria”, cosí si
esprime Beccaria iniziando la sua argomentazione). A questi due argomenti
Beccaria ne aggiunge un terzo, che ha provocato le maggiori perplessità (e che
infatti oggi è stato in gran parte abbandonato). L'argomento cosiddetto
contrattualistico, che deriva dalla teoria del contratto sociale o dell'origine
convenzionale della società politica. Questo argomento si può enunciare in
questo modo: se la società politica deriva da un accordo degli individui che
rinunciano a vivere nello stato di natura e si danno delle leggi per
proteggersi a vicenda, è inconcepibile che questi individui abbiano messo a
disposizione dei loro simili anche il diritto alla vita.
Che il
libro di Beccaria abbia avuto uno strepitoso successo è noto. Basti pensare
all'accoglienza che ad esso fece Voltaire: gran parte della fama del libro di
Beccaria è dovuta soprattutto al fatto che esso fu accolto con gran favore da
Voltaire. Beccaria era un illustre ignoto; mentre nella patria dei lumi, che
era la Francia, Voltaire era Voltaire. ” altresí ben noto che per influenza del
dibattito sulla pena di morte fu emanata la prima legge penale che abol' la
pena di morte: la legge toscana del 1786, la quale nel § 51, dopo una serie di
considerazioni tra cui emerge, ancora una volta, soprattutto la funzione
intimidatrice, ma non è trascurata la funzione emendatrice, della pena (“la
correzione del reo, figlio anch'esso della società e dello stato”), dichiara
“di abolire per sempre la pena di morte contro qualunque reo, sia presente sia
contumace, ed ancorché confesso e convinto di qualsivoglia delitto dichiarato
capitale dalle leggi fin qui promulgate, le quali tutte vogliamo in questa
parte cessate ed abolite”.
Forse
ancora piú clamoroso l'eco che ebbe nella Russia di Caterina II, nella cui
celebre Istruzione del 1765, quindi immediatamente dopo l'uscita del
libro di Beccaria, si legge: “L'esperienza di tutti i secoli prova che la pena
della morte non ha giammai resa migliore una nazione”. Segue una frase che
sembra tolta di peso dal libro di Beccaria: “Se dunque si dimostra che nello
stato ordinario di una società la morte di un cittadino non è né utile né
necessaria, avrò vinta la causa dell'umanità”.
[...]
La
pena di morte di morte non serve a diminuire i delitti di sangue. Ma se si
riuscisse a dimostrare che li previene? Ecco allora che l'abolizionista deve
fare ricorso a un'altra istanza, a un argomento di carattere morale, a un principio
posto come assolutamente indiscutibile (un vero e proprio postulato etico). E
questo argomento non può esser desunto che dall'imperativo morale: Non
uccidere, da accogliersi come un principio che ha valore assoluto. Ma come?
Si potrebbe ribattere: l'individuo singolo ha diritto di uccidere per legittima
difesa e la collettività no? Rispondo: la collettività non ha questo diritto
perché la legittima difesa nasce e si giustifica soltanto come risposta
immediata in istato di impossibilità di fare altrimenti; la risposta della
collettività è mediata attraverso un procedimento, talora anche lungo, in cui
si dibattono argomenti pro e contro; in altre parole, la condanna a morte in
seguito a un procedimento non è piú un omicidio per legittima difesa ma un
omicidio legale, legalizzato, perpetrato a freddo, premeditato. Un omicidio che
richiede degli esecutori, cioè persone autorizzate a uccidere. Non per nulla
l'esecutore della pena di morte, per quanto autorizzato a uccidere, è sempre
stato considerato un personaggio infame [...]. ” una autorizzazione che non
giustifica l'atto autorizzato e non lo giustifica perché l'atto è
ingiustificabile ed è ingiustificabile perché è degradante per chi lo compie e
per chi lo subisce (come si vede, dicendo “degradante”, uso un giudizio
morale). Lo stato non può porsi sullo stesso piano del singolo individuo.
L'individuo singolo agisce per rabbia, per passione, per interesse, per difesa.
Lo stato risponde meditatamente, riflessivamente, razionalmente. Anch'esso ha
il dovere di difendersi. Ma è troppo piú forte del singolo individuo per aver
bisogno di spegnerne la vita a propria difesa. Lo stato ha il privilegio e il
beneficio del monopolio della forza. Deve sentire tutta la responsabilità di
questo privilegio e di questo beneficio. Capisco benissimo che è un ragionamento
arduo, astratto, che può essere tacciato di moralismo ingenuo, di predica
inutile. Ma cerchiamo di dare una ragione alla nostra ripugnanza alla pena di
morte. La ragione è una sola: il comandamento di non uccidere.
(Amnesty
International - Regione Toscana, Né utile né necessaria. Contro la pena di
morte, Giunti, Firenze, 1997, pagg. 19-23; 39-41)