Nella
lettera del 30 aprile 1944 da Tegel, di cui qui riportiamo i passi piú
significativi, Bonhoeffer annuncia il suo programma teologico: trovare un
linguaggio nuovo per l’annuncio in un mondo non piú religioso.
D. Bonhoeffer, Resistenza e resa
Ciò che mi preoccupa continuamente è la
questione di che cosa sia veramente per noi, oggi, il cristianesimo, o anche
chi sia Cristo. È passato il tempo in cui questo lo si poteva dire agli uomini
tramite le parole – siano esse parole teologiche oppure pie –; cosí come è
passato il tempo della interiorità e della coscienza, cioè appunto il tempo
della religione in generale. Stiamo andando incontro ad un tempo completamente
non-religioso; gli uomini, cosí come ormai sono, semplicemente non possono piú
essere religiosi. Anche coloro che si definiscono sinceramente “religiosi”, non
lo mettono in pratica in nessun modo; presumibilmente, con “religioso” essi
intendono qualcosa di completamente diverso.
Il nostro annuncio e la nostra teologia
cristiani nel loro complesso, con i loro 1900 anni, si basano però
sull’“apriori religioso” degli uomini. Il “cristianesimo” è stato sempre una
forma (forse la vera forma) della “religione”. Ma se un giorno diventa chiaro
che questo “apriori” non esiste affatto, e che s’è trattato invece di una forma
d’espressione umana, storicamente condizionata e caduca, se insomma gli uomini
diventano davvero radicalmente non religiosi – e io credo che piú o meno questo
sia già il caso (da che cosa dipende ad esempio il fatto che questa guerra, a
differenza di tutte le precedenti, non provoca una reazione “religiosa”?) – che
cosa significa allora tutto questo per il “cristianesimo”? Vengono scalzate le
fondamenta dell’intero nostro “cristianesimo” qual è stato finora, e noi
“religiosamente” potremo raggiungere soltanto qualche “cavaliere solitario” o
qualche persona intellettualmente disonesta. Dovrebbero essere questi i pochi
eletti? Dovremmo gettarci zelanti, stizziti o sdegnati proprio su questo
equivoco gruppo di persone per smerciar loro la nostra mercanzia? Dovremmo noi
aggredire qualche infelice colto in un momento di debolezza e per cosí dire,
violentarlo religiosamente? Se non vogliamo niente di tutto questo, se alla
fine anche la forma occidentale del cristianesimo dovessimo giudicarla solo uno
stadio previo rispetto ad una totale non-religiosità, che situazione ne
deriverebbe allora per noi, per la Chiesa? Come può Cristo diventare il signore
anche dei non-religiosi? Ci sono cristiani non-religiosi? Se la religione è
solo una veste del cristianesimo – e questa veste ha assunto essa pure aspetti
molto diversi in tempi diversi – che cos’è allora un cristianesimo
non-religioso?
Barth, che è stato l’unico ad aver cominciato
a pensare in questa direzione, non ha poi portato a termine e pensato fino in
fondo queste idee, ma è pervenuto invece ad un positivismo della rivelazione (Offenbarungspositivismus)
che in fin dei conti s’è ridotto ad una sostanziale restaurazione. Qui
l’operaio non-religioso o l’uomo in generale non hanno guadagnato nulla di
decisivo. Le risposte cui bisognerebbe rispondere sono invece: che cosa
significano una Chiesa, una comunità, una predicazione, una liturgia, una vita
cristiana in un mondo non-religioso? Come parliamo di Dio – senza religione,
cioè appunto senza i presupposti storicamente condizionati della metafisica,
dell’interiorità ecc. ecc.? Come parliamo (o forse appunto ormai non si può piú
“parlarne” come s’è fatto finora) “mondanamente” (weltlich) di “Dio”,
come siamo cristiani “non-religiosi-mondani”, come siamo ek-klesía,
cioè chiamati-fuori, senza considerarci religiosamente favoriti, ma piuttosto
in tutto e per tutto appartenenti al mondo? Cristo allora non è piú oggetto
della religione, ma qualcosa di totalmente diverso, veramente il signore del
mondo. Ma che significa questo? Che significato hanno il culto e la preghiera
nella non-religiosità? Acquista forse una nuova importanza a questo punto la
disciplina dell’arcano, ovvero la mia distinzione (che tu già conosci) tra
penultimo e ultimo?
[...]
Spesso mi chiedo perché un “istinto
cristiano” mi spinga frequentemente verso le persone non-religiose piuttosto
che verso quelle religiose, e ciò assolutamente non con l’intenzione di fare il
missionario, ma potrei quasi dire “fraternamente”. Mentre davanti alle persone
religiose spesso mi vergogno a nominare il nome di Dio – perché in codesta
situazione mi pare che esso suoni in qualche modo falso, e io stesso mi sento
un po’ insincero (particolarmente brutto è quando gli altri cominciano a
parlare in termini religiosi; allora ammutolisco quasi del tutto, e la faccenda
diventa per me in certo modo soffocante e sgradevole) – davanti alle persone
non-religiose in certe occasioni posso nominare Dio in piena tranquillità e
come se fosse una cosa ovvia. Le persone religiose parlano di Dio quando la
conoscenza umana (qualche volta per pigrizia mentale) è arrivata alla fine o
quando le forze umane vengono a mancare – e in effetti quello che chiamano in
campo è sempre il deus ex machina, come soluzione fittizia a problemi
insolubili, oppure come forza davanti al fallimento umano; sempre dunque
sfruttando la debolezza umana o di fronte ai limiti umani; questo
inevitabilmente riesce sempre e soltanto finché gli uomini con le loro proprie
forze non spingono i limiti un po’ piú avanti, e il Dio inteso come deus ex
machina non diventa superfluo; per me il discorso sui limiti umani è
diventato assolutamente problematico (sono oggi ancora autentici limiti la
morte, che gli uomini quasi non temono piú, e il peccato, che gli uomini quasi
non comprendono?); mi sembra sempre come se volessimo soltanto timorosamente
salvare un po’ di spazio per Dio; – io vorrei parlare di Dio non ai limiti, ma
al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque in relazione alla
morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo. Raggiunti i limiti, mi
pare meglio tacere e lasciare irrisolto l’irrisolvibile. La fede nella
resurrezione non è la “soluzione” del problema della morte. L’“aldilà”
di Dio non è l’aldilà delle capacità della nostra conoscenza! La trascendenza
gnoseologica non ha nulla che fare con la trascendenza di Dio. È al centro
della nostra vita che Dio è aldilà. La Chiesa non sta lí dove vengono meno le
capacità umane, ai limiti, ma sta al centro del villaggio. Cosí stanno le cose
secondo l’Antico Testamento, e noi leggiamo il Nuovo Testamento ancora troppo
poco a partire dall’Antico. Attualmente sto riflettendo molto su quale aspetto
abbia questo cristianesimo non-religioso, e quale forma esso assuma; te ne
scriverò presto ancora e piú a lungo. Forse a questo proposito a noi che ci
troviamo al centro tra est ed ovest tocca un compito importante.
D. Bonhoeffer, Resistenza e resa,
Paoline, Milano, 1988, pagg. 348-350