La critica di Erasmo alla
dialettica è una critica a tutto il metodo di studio proprio della Scolastica
medievale, che si risolve in “ostinata contesa e desiderio di rissa”. Inoltre
essa porta ad astrusità, a vuoti formalismi e allontana dal messaggio di
Cristo. Uno splendido esempio di ironia erasmiana lo troviamo nel brano sui
virtuosismi dialettici della Scolastica, nel quale sono ricordati i seguaci di
Giovanni Duns Scoto, di Guglielmo di Ockham e di Alberto Magno.
a) “È meglio ignorare qualche dogma di Aristotele, che ignorare i voleri di Cristo” (Erasmo, Ratio seu methodos compendio perveniendi ad veram theologiam)
Per di piú taluni che si servono della sola dialettica
pensano di essere già abbastanza istruiti da poter parlare di qualunque cosa e
danno tanto valore a questa disciplina da pensare che la fede cristiana vada in
rovina se non è sostenuta dalle difese della dialettica, mentre invece
disprezzano grammatica e retorica come scienze del tutto superflue e vane.
Eppure lo stesso Agostino ritiene che, se anche si accettano le ragioni dei
sillogismi, si tenga però almeno lontana la piaga peculiare di quest'arte e,
cioè, l'ostinata contesa e il desiderio della rissa. Ma, ti prego, che dividi e
definisci e che cosa mai “raccogli” se ignori la forza e la natura delle cose
di cui discuti? A che ti servirebbe l'aver apprestato un sillogismo in celarent
o in baroco parlando del coccodrillo, se non sai che genere di albero o
di essere animato esso sia? Né, invero, possiamo apprendere tali cose dalla
lettura degli otto Libri Naturalium di Aristotele, gli unici che vengono
tramandati nelle scuole, quanto piuttosto dai suoi eruditissimi commentari De
animantibus, dai Metereologicon Libri, dal De mundo, dal De
anima, dal De sensu et sensibili, dal De memoria et reminiscentia
e dai Problemata; e dai Libri de plantis, ventis, gemmis,
di Teofrasto, da Macrobio e Ateneo e Dioscoride, e dai Libri Naturales
di Seneca e da altri scrittori di tal genere; e a questa parte di erudizione ci
possono condurre, e in modo non mediocre anche i poeti, nei quali è frequente
la descrizione di simili cose [...]. Né penso che sia poi inutile se
l'adolescente destinato allo studio della teologia verrà esercitato diligentemente
sugli schemi e i tropi dei grammatici che si apprendono senza troppa fatica e
anche si eserciti a spiegare l'allegoria delle favole, specialmente di quelle
che hanno attinenza con i buoni costumi [...].
Se poi vi sarà qualcuno che abbia tanta forza d'ingegno da
poter abbracciare entrambi questi generi di studio, vada pure liberamente, vada
là dove lo chiama il suo valore e ci vada con ottimi auspici. Ma credo che si
debba incominciare da questi studi che abbiamo preferito; e che vi si debba
trascorrere la maggior parte della vita. E se si dovrà trascurare uno dei due
studi non posso non dire - cosa verissima - che preferirei volgermi da questa
parte. È meglio essere un po' meno sofista che conoscere meno i Vangeli
e le lettere degli Apostoli; è meglio ignorare qualche dogma di Aristotele, che
ignorare i voleri di Cristo. E, infine, io preferirei essere un pio teologo
insieme al Crisostomo che essere un teologo invitto insieme a Duns Scoto. Certo
non si può negare che quei vecchi teologi abbiano illustrato e difeso la
dottrina di Cristo; ed io permetterei che venissero ristabiliti, se ci
constasse che le loro argutissime arguzie e le loro sottilissime sottigliezze
sono riuscite a convertire un gentile alla fede di Cristo, a vincere o
convertire un eretico.
(Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano,
1964, vol. XI, pagg. 146-147)
b) “Dottori senza dottrina” (Erasmo, Elogio della Pazzia, III)
[...] Mi sembra che i cristiani dovrebbero cambiare le loro
truppe nelle guerre che fanno contro gl'infedeli. Se invece di quelle rozza e
materiale soldatesca, che già da gran tempo adoperano inutilmente nelle
Crociate, spedissero contro i Turchi e i Saraceni i clamorosi scotisti, gli
ostinati ockhamisti, gl'invincibili albertisti, e tutta quanta la malizia de' sofisti;
chi mai potrebbe sostenere gli assalti di queste truppe regolate? Ben gioconda
sarebbe, a mio credere, questa battaglia, e affatto nuova la vittoria. Chi
sarebbe tanto freddo da non accendersi al fuoco di tali dispute? Chi sarebbe
cosí poltrone da non correre alla puntura di quegli sproni? Chi può vantare sí
buona vista da non restare abbagliato dalla chiarezza di quelle sottigliezze?
Credete voi ch'io scherzi? Non v'ingannate.
Tra gli stessi teologi si trovano uomini di dottrina solida
e giudiziosa, ai quali fanno nausea queste frivole ed impertinenti arguzie, e
ve ne sono ancora di una coscienza sí retta, che ne provano orrore come d'una
specie di sacrilegio. Che orribile empietà! esclamano essi. Invece di adorare
l'impenetrabile oscurità de' nostri misteri (poiché appunto per questo sono
misteri), si pretende spiegarli. E in che maniera? Con un linguaggio immondo e
con argomenti non meno profani di quelli de' Gentili; e ci si arroga
insolentemente il diritto di definire e disputare delle verità incomprensibili,
profanando cosí la maestà della teologia con parole e con sentenze insulse e
triviali.
Intanto, questi dicitori di nulla vanno cosí tronfi come
della vota loro erudizione, anzi provano tanto piacere ad occuparsi giorno e
notte in queste soavissime nenie, che non hanno neppure il tempo di leggere una
sola volta l'Evangelo, e le lettere di san Paolo. Il piú bello è che,
mentre vanno in tal modo chiacchierando nelle loro scuole s'immaginano d'essere
i difensori della Chiesa, la quale cadrebbe senza fallo se cessassero un
momento di sostenerla con la forza dei loro sillogismi; appunto come Atlante,
secondo i poeti, sostiene il cielo con le sue spalle. I nostri disputatori
hanno ancora un altro grande soggetto di felicità. La Scrittura è nelle
loro mani come un pezzo di cera, poiché sogliono dare a questo libro quella
forma e quel significato che va loro maggiormente a genio: pretendendo che le
loro decisioni intorno alle Sacre Scritture, dal momento che sono state
accettate da alcuni altri scolastici, debbano essere rispettate piú che le
leggi di Solone, ed anteposte anche ai decreti de' Papi. Ergonsi costoro a
censori del mondo e se alcuno s'allontana tanto o quanto dalle loro
conclusioni, siano dirette o indirette, l'obbligano tosto a ritrattarsi, e
pronunciano come tanti oracoli: Questa proposizione è scandalosa, quest'altra è
temeraria; quella sente d'eresia, quell'altra suona male. Per tal modo né il Vangelo,
né il battesimo, né Paolo, né Pietro, né Girolamo, né Agostino, e nemmeno lo
stesso Tommaso d'Aquino, comunque sfegatato aristotelico, non saprebbero fare
un ortodosso, senza il beneplacito di questi baccellieri; tanto è necessaria la
loro sottigliezza per ben decidere della ortodossia. [...] Quante bellissime
storie questi dottori senza dottrina non ci vanno spacciando intorno
all'inferno? Ne conoscono cosí bene tutti gli appartamenti, parlano con tanta
franchezza della natura e dei vari gradi del fuoco eterno, delle diverse
incombenze dei demoni; discorrono finalmente con tanta precisione sulla
repubblica de' dannati, che sembrano di esserne già stati cittadini per il
corso di molti anni. Inoltre, qualora lo giudicano conveniente, non perdonano
alla fatica di creare anche dei nuovi mondi, come hanno mostrato col formare il
decimo cielo, da essi chiamato Empireo, fabbricato espressamente per i beati;
essendo troppo giusto che le anime glorificate avessero un vasto e delizioso
soggiorno per ivi godere tutti i loro comodi, per divertirsi, insieme, ed anche
per giocare alla palla se loro venisse in grado.
I nostri fini pensatori hanno il cervello cosí zeppo, cosí
agitato da queste fanfaluche, che certo non era piú gonfio il cervello di
Giove, allorché volendo partorire Minerva implorò il soccorso della scure di
Vulcano. Non vi fate pertanto meraviglia se nelle pubbliche difese hanno somma
cura di cingersi la testa con tante fasce, poiché si studiano d'impedire per
mezzo di questi onorevoli legami che non scoppi da tutte le parti quella massa
di scienza, di cui si trova sopraccaricato il loro cervello. Non posso fare a
meno di ridere (ora giudicate se non ve ne sia un grande argomento, poiché rare
volte trova da ridere la pazzia), non posso a meno di ridere, quando ascolto
questi celebri personaggi, i quali non parlano già, ma piuttosto balbettano. Costoro
non si reputano teologi, se non quando possiedono perfettamente il loro barbaro
e sporco linguaggio, il quale non può essere inteso se non da quelli dell'arte;
ma di questo se ne gloriano chiamandolo acume, e dicendo con arroganza di non
parlare per l volgo profano: soggiungono inoltre, che la dignità delle Sante
Scritture non deve soggiacere alle regole grammaticali. Ammiriamo la maestà
dei teologi! Non è permesso che a loro il parlare scorrettamente, e tutt'al piú
si concede al volgo di contrastar loro questa prerogativa. Finalmente i teologi
pongono se stessi immediatamente dopo gli dèi.
(Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano,
1964, vol. XI, pagg. 151-153)