Per Hegel quella che la
tradizione religiosa e il senso comune hanno indicato come Provvidenza divina è
in realtà la Ragione che governa il mondo. Conoscere Dio è quindi possibile, ed
è compito della filosofia. Il cristianesimo ha rivelato che Dio si manifesta
nella storia; la filosofia ha il dovere di comprendere e spiegare in termini
razionali ciò che la religione ha manifestato al sentimento e all'intuizione.
Hegel osserva inoltre che la dottrina della Provvidenza concorda con l'esigenza
razionale di negare l'azione del caso e la presenza di fini limitati nella
storia. Il cristianesimo si pone “piú in alto delle altre religioni” perché
offre una rappresentazione
trinitaria della realtà: la filosofia, come attività speculativa,
trasformerà quella rappresentazione in concetto.
G. W. F. Hegel, Lezioni sulla
filosofia della storia
Ma, parlando dell'esigenza di
conoscere il piano della divina provvidenza, io ho insieme alluso a un problema
che ai nostri tempi ha importanza primaria, e cioè a quello della possibilità
di conoscere Iddio: o meglio, giacché ha cessato di esser un problema, alla
tesi dell'impossibilità di conoscerlo, che è diventata pregiudizio e che
contrasta con ciò che la Sacra Scrittura comanda come dovere supremo,
quando ordina non solo di amare Iddio, ma anche di conoscerlo. Tesi che nega
ciò che ivi appunto vien detto, e cioè che è proprio lo spirito che guida alla
verità, che conosce tutte le cose e penetra anche le profondità del divino.
La fede ingenua può rinunciare a
un esame piú particolare, e arrestarsi all'idea generica di un governo divino
del mondo. Chi fa cosí non merita biasimo, finché la sua fede non divenga
polemica. Ma ci si può anche attenere non ingenuamente a questa idea, e tale
principio generale può, proprio per la sua generalità, avere anche uno speciale
significato negativo, nel senso che l'essere divino venga tenuto a distanza e
confinato al di là del mondo e del sapere dell'uomo. In tal modo ci si riserva,
d'altro canto, la libertà di allontanare l'esigenza di conoscere ciò che sia
vero e razionale, e si acquista la comoda facoltà di dare libero campo alle
proprie fantasie. In questo senso, quella rappresentazione di Dio diventa una
vuota chiacchiera. Se Dio vien posto al di là della nostra coscienza razionale,
noi siamo dispensati tanto dall'occuparci della sua natura quanto dal trovare
una ragione nella storia del mondo; campo libero hanno allora le ipotesi. La
pia umiltà sa bene ciò che acquista con le sue rinunce.
Avrei potuto tralasciar
l'avvertenza che il nostro principio, secondo cui la ragione governa e ha
governato il mondo, viene espresso in forma religiosa nell'idea del dominio
della provvidenza, per evitare l'accenno alla questione concernente la
possibilità di conoscere Dio. Tuttavia non ho voluto tralasciarla, sia per far
notare le connessioni ulteriori di tali argomenti, sia, anche, per evitare il
sospetto che la filosofia esiti o debba esitare di fronte alla menzione delle
verità religiose e perciò le scansi, e proprio per non avere, rispetto ad esse,
la coscienza tranquilla. Si è giunti piuttosto, in tempi recenti, al punto che,
contro certa specie di teologia, è la filosofia che deve prendersi cura della
materia religiosa.
Si può, come si è detto, sentir
spesso tacciare di presunzione il desiderio di conoscere il piano della
provvidenza. In ciò è da vedere il portato dell'idea, ormai quasi
universalmente passata in assioma, che non si possa conoscere Iddio. E se è la
teologia stessa che è giunta a disperare cosí, è necessario rifugiarsi proprio
nella filosofia, quando si voglia conoscere Iddio. Certo, viene imputato alla
superbia della ragione il voler sapere qualcosa in proposito. Ma piuttosto si
deve dire che la vera umiltà consiste appunto nel riconoscere Iddio in tutto,
nel tributargli onore dappertutto, e principalmente nel teatro della storia
universale. Una tradizione che ci si tira dietro è quella che la saggezza di
Dio vada riconosciuta nella natura. Cosí fu di moda, un tempo, l'ammirare la
sapienza divina in animali e in piante. Si mostra di conoscere Iddio facendo
meraviglie di destini umani o di prodotti della natura. Ora, anche concesso che
la provvidenza si manifesti in tali oggetti e materie, perché non si
manifesterà anche nella storia del mondo? Questa materia parrebbe forse troppo
grande? Vero è che, nel fatto, s'immagina di solito la provvidenza come agente
solo nel piccolo, e la si pensa come un uomo ricco, che distribuisce elemosine
agli uomini e provvede per essi. Se però si crede che la materia della storia
universale sia troppo vasta per la provvidenza, si erra, perché la sapienza
divina è una e medesima, nel grande e nel piccolo. Nella pianta e nell'insetto
essa è tale quale nei destini d'interi popoli e imperi, e non dobbiamo ritenere
Iddio troppo debole per adoperare la sua sapienza in cose grandi. Quando si
pensa che la sapienza divina non agisca dappertutto, la sfiduciata umiltà di
tale considerazione dovrebbe concernere la materia dell'azione, non la sapienza
agente. La natura d'altronde, a paragone della storia, è un campo d'azione
subordinato. La natura è la sfera in cui l'idea divina si trova nell'elemento
dell'aconcettualità; nello spirituale essa è invece nel suo proprio terreno, e
ivi appunto dev'essere conoscibile. Armati del concetto della ragione, noi non
dobbiamo esitare di fronte a nessuna materia [...].
Nella religione cristiana Dio si
è rivelato, cioè ha concesso agli uomini di conoscere la sua natura, in modo da
non esser piú qualcosa di chiuso, di segreto. Questa possibilità di conoscere
Iddio importa per noi anche il dovere di farlo, e lo sviluppo dello spirito
pensante, che ha avuto origine da questa base, dalla rivelazione dell'essere
divino, deve riuscire in ultimo a concepire anche con il pensiero ciò che
inizialmente si è presentato allo spirito nel sentimento e nell'intuizione. Se
il tempo sia maturo per tale conoscenza, è cosa che deve dipendere dalla
condizione che ciò che è scopo finale del mondo sia entrato finalmente nella
realtà in modo universalmente valido e consapevole. Ora, l'eccellenza della
religione cristiana consiste nel fatto che con essa è giunta questa età: fatto
che, nella storia del mondo, fa assolutamente epoca, cioè segna il piú
importante punto di svolta. é divenuto manifesto quel che sia la natura di Dio [...].
Nel cristianesimo è dottrina
fondamentale che la provvidenza abbia governato e governi il mondo, che quel
che in esso avviene abbia il suo posto determinato nel regime divino e gli sia
conforme. Questa dottrina si oppone all'idea del caso e dei fini limitati, come
per esempio quello della conservazione del popolo ebreo. é lo scopo affatto
universale e finale, esiste in sé e per sé. Nella religione non si procede
oltre questa idea generale: essa infatti si arresta al piano della generalità.
Ma il punto di partenza da cui bisogna muovere per giungere alla filosofia e
alla filosofia della storia è appunto questa fede generale, che la storia è un
prodotto della ragione eterna, e che è stata questa a determinare le sue grandi
rivoluzioni.
Si deve dire quindi che, anche in
senso assoluto, è giunto il tempo in cui questa convinzione, questa certezza,
potrà non rimanere soltanto nello stadio dell'intuizione, ma esser pensata,
sviluppata, conosciuta, in una determinata scienza [...].
Nel cristianesimo, invece, Dio è
rivelato come spirito, e infatti esso è in primo luogo Padre, Potenza, un
universale astratto, che è ancora velato; in secondo luogo è oggetto a se
stesso, un Altro da se stesso, qualcosa che si sdoppia, il Figlio. Questo altro
da se stesso è però, con eguale immediatezza, lui stesso; egli vi sa se stesso
e vi si contempla, e appunto questo sapersi e contemplarsi è, in terzo luogo,
lo Spirito stesso. Cioè, la totalità è lo spirito, non l'uno né l'altro momento
per sé solo. Dio, espresso nel modo del sentimento, è l'eterno amore, questo
aver l'altro come suo proprio. È per questa tri-unità che la religione
cristiana sta piú in alto delle altre religioni. Essa vi costituisce l'elemento
speculativo, ed è sua mercé che la filosofia trova anche in essa l'idea della
ragione [...].
Ciò che altrimenti ha il nome di
realtà vien considerato dalla filosofia come qualcosa d'inconsistente, che può
avere un'apparenza, ma che non è reale in sé e per sé. Questa nozione serve,
per cosí dire, di conforto contro l'idea dell'assoluta infelicità e stoltezza
di quanto è accaduto. Il conforto però non è che il compenso per un male che
non avrebbe dovuto accadere, ed ha il suo luogo nella realtà finita. La
filosofia non è quindi un conforto: essa è di piú, essa riconcilia il reale,
che sembra ingiusto, con il razionale, lo trasfigura in esso, fa vedere come
esso abbia il suo fondamento proprio nell'idea, e come debba perciò soddisfare
la ragione. Il divino è infatti nella ragione. Il contenuto che sta a
fondamento della ragione è l'idea divina, è essenzialmente il piano di Dio.
Concepita come storia del mondo, pari all'idea non è la ragione nella volontà
del soggetto, ma solo l'attività di Dio. Ma, nella rappresentazione, la ragione
è il percepire l'idea; anche etimologicamente, è il percepire ciò che è
espresso (L-gos), cioè il vero. La verità del vero, questo è il mondo
creato. Dio parla; egli esprime solo se stesso, ed è il potere di esprimersi,
di rendersi percepibile. Ed è la verità di Dio, la sua immagine, che viene
percepita nella ragione. La filosofia tende quindi ad affermare che ciò che è
vuoto non è un ideale, che tale è solo ciò che è reale: essa mira a che l'idea
si renda percepibile.
(Grande Antologia Filosofica,
Marzorati, Milano, 1971, vol. XVIII, pagg. 599-600, 602-603, 610, 626)