La
caratteristica piú significativa del gioco è di essere un atto libero, almeno
per l’uomo adulto. Inoltre il gioco si differenzia dalla vita normale come lo
scherzo dalla cosa seria, anche se a volte esso viene preso molto sul serio.
J. Huizinga, Homo ludens, Einaudi,
Torino, 1972, pagg. 10-12
Ogni gioco è anzitutto e soprattutto un atto libero. Il gioco comandato non è piú gioco. Tutt’al piú può essere la riproduzione obbligata di un gioco. Già per questa libertà il gioco esorbita dal processo puramente naturale. Vi si aggiunge, vi si sovrappone come un addobbo. Libertà dev’essere intesa qui evidentemente in quel senso aperto e largo, col quale si lascia intatto il problema del determinismo. Si potrebbe opporre: quella libertà non esiste per il bambino e per l’animale giovane; essi devono giocare, perché il loro istinto lo comanda, e perché il gioco serve allo sviluppo delle loro facoltà fisiche e selettive. Ma coll’introdurre il termine “istinto”, ci nascondiamo dietro una incognita, e con l’implicare d’avanzo la supposta utilità del gioco commetteremmo una petitio principii. Il bambino e l’animale giocano perché ne hanno diletto, e in ciò sta la loro libertà.
Comunque sia, per l’uomo adulto e responsabile il gioco è una funzione che egli potrebbe tralasciare. Il gioco è superfluo. Il bisogno di esso è urgente solo in quanto il desiderio lo rende tale. Il gioco può in qualunque momento essere differito o non aver luogo. Non è imposto da una necessità fisica, e tanto meno da un dovere morale. Non è un compito. Si fa nell’ozio, nel momento del loisir dopo il lavoro. Solo in un secondo momento, facendosi il gioco funzione culturale, i concetti dovere, compito, impegno, vi si congiungono.
Ecco dunque una prima caratteristica del gioco: esso è libero, è libertà. Immediatamente congiunta a questa è la seconda caratteristica.
Gioco non è la vita “ordinaria” o “vera”. È un allontanarsi da quella per entrare in una sfera temporanea di attività con finalità tutta propria. [...] In quest’idea del “soltanto per scherzo”, come è nel gioco, sta racchiusa la coscienza dell’inferiorità della “celia” di fronte al “serio”, coscienza che sembra essere primaria. Già osservammo però che tale coscienza di giocare “soltanto”, non esclude affatto che questo “giocare soltanto” non possa avvenire con la massima serietà, anzi con un abbandono che si fa estasi ed elimina nel modo piú completo, per la durata dell’azione, la qualifica “soltanto”. Ogni gioco può in qualunque momento impossessarsi completamente del giocatore. L’antitesi gioco-serietà resta sempre un’antitesi instabile. L’inferiorità del gioco ha i suoi limiti nella superiorità della serietà. Il gioco si converte in serietà, la serietà in gioco. Il gioco sa innalzarsi a vette di bellezza e di santità che la serietà non raggiunge.
Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991, vol. V, pagg. 79-80