HOBSBAWM, SULLA GUERRA TOTALE

"I lampioni si stanno spegnendo su tutta l'Europa", Edward Grey, ministro degli esteri della Gran Bretagna, mentre osservava le luci di Whiteliall la notte in cui il suo paese entrò in guerra contro la Germania nel 1914. "Nel corso della nostra vita non le vedremo più accese". A Vienna il grande scrittore satirico Karl Kraus si preparava a documentare e a denunciare quella guerra in uno straordinario dramma-inchiesta che intitolò Gli ultimi giorni dell'umanità. Entrambi videro nella guerra mondiale la fine di un mondo e non furono i soli. Non fu la fine dell'umanità, sebbene ci siano stati momenti nel corso di quei trentun anni di conflitto mondiale, che vanno dalla dichiarazione di guerra alla Serbia da parte dell'Austria il 28 luglio 1914 alla resa senza condizioni del Giappone il 14 agosto 1945 - quattro giorni dopo lo scoppio della prima bomba nucleare -, in cui la fine di una gran parte del genere umano non sembrò lontana. Ci furono momenti nei quali dio o gli dèi, che nella credenza degli uomini pii avevano creato il mondo e tutte le creature, avrebbero potuto rimpiangere di averlo fatto.

 

Il genere umano è sopravvissuto. Tuttavia il grande edificio della civiltà ottocentesca crollò tra le fiamme della guerra mondiale e i suoi pilastri rovinarono al suolo. Senza la guerra non si capisce il Secolo breve, un secolo segnato dalle vicende belliche, nel quale la vita e il pensiero sono stati scanditi dalla guerra mondiale, anche quando i cannoni tacevano e le bombe non esplodevano. La sua storia, e più specificatamente la storia della sua età iniziale di crollo e di catastrofe, deve cominciare con i trentun anni di guerra mondiale. Per quanti erano cresciuti prima del 1914 il contrasto col passato fu così drammatico che molti di loro - compresa la generazione dei miei genitori o, in ogni caso, coloro che, in quella generazione, vissero nell'Europa centrale si rifiutarono di scorgere alcuna forma di continuità con esso. "Pace" significava "gli anni precedenti il 1914": dopo quella data venne un'epoca che non meritò mai più l'aggettivo di pacifica. Era un atteggiamento comprensibile. Prima del 1914 per un secolo intero non c'era stata una guerra generale, cioè una guerra nella quale fossero coinvolte tutte le maggiori potenze, o almeno la maggior parte di esse. I giocatori più importanti sullo scacchiere internazionale a quell'epoca erano le sei grandi potenze europee (Gran Bretagna, Francia, Russia, Austria-Ungheria, Prussia, ingranditasi nella Germania dopo il 1871 , e Italia, dopo l'unificazione), nonché gli USA e il Giappone. C'era stata solo una breve guerra alla quale avessero partecipato più di due tra le grandi potenze: la guerra di Crimea (1854-56), tra la Russia da un lato e la Gran Bretagna e la Francia dall'altro. Inoltre quasi tutte le guerre che non avevano coinvolto alcuna delle grandi potenze erano state relativamente brevi. La più lunga non era stata un conflitto internazionale, bensì una guerra civile: la guerra civile americana (1861-65). La durata di una guerra si misurava in mesi o perfino (come nel conflitto del 1866 fra la Prussia e l'Austria) in settimane. Fra il 1871 e il 1914 non c'erano stati conflitti in Europa nei quali gli eserciti delle grandi potenze si scontrassero sui propri territori, sebbene in Estremo Oriente il Giappone avesse combattuto e vinto una guerra contro la Russia nel 1904-5, accelerando così la corsa della Russia verso la rivoluzione.

 

Non c'erano state guerre mondiali durante l'Ottocento. Nel Settecento la Francia e l'Inghilterra si erano scontrate in una serie di guerre combattute su campi di battaglia in India, in Europa, in Nord America e sugli oceani. Fra il 1815 e il 1914 nessuna grande potenza combatté un'altra grande potenza che fosse lontana dalla propria area geografica, sebbene fossero comuni le spedizioni militari da parte delle potenze coloniali o aspiranti tali contro nemici più deboli in altre parti del mondo. La maggior parte di queste guerre erano visibilmente sbilanciate a favore di uno dei contendenti, come quelle condotte dagli Stati Uniti contro il Messico (1846-48) e la Spagna (1898) e le diverse campagne condotte da inglesi e francesi per estendere i propri imperi coloniali. Solo in un paio di occasioni le cose andarono in maniera imprevista, come quando i francesi dovettero ritirarsi dal Messico nel 1867 e gli italiani dall'Etiopia nel 1896. Perfino gli avversari più temibili di fronte agli stati moderni, i cui arsenali disponevano di una schiacciante e micidiale superiorità tecnologica, potevano sperare soltanto, nel migliore dei casi, di procrastinare l'inevitabile ritirata. Questi conflitti esotici erano materia di avventurosi resoconti letterari, scritti da quella nuova figura, sorta a metà dell'Ottocento, che fu il corrispondente di guerra, e non producevano effetti diretti sulla popolazione degli stati che avevano intrapreso il conflitto.

 

Tutto cambiò nel 1914. La prima guerra mondiale coinvolse tutte le maggiori potenze e tutti gli stati europei, a eccezione della Spagna, dell'Olanda, delle tre nazioni scandinave e della Svizzera. Ancor più considerevole è il fatto che truppe provenienti dalle colonie d'oltremare vennero inviate, spesso per la prima volta, a combattere e a operare fuori della loro area geografica di appartenenza. I canadesi combatterono in Francia, gli australiani e i neozelandesi formarono la propria coscienza nazionale su una penisola dell'Egeo - Gallipoli divenne il loro mito nazionale - e, fatto ancor più significativo, gli Stati Uniti non rispettarono più il monito di George Washington, che aveva invitato a non immischiarsi nelle beghe europee, e inviarono i loro uomini a combattere sul suolo del vecchio continente, determinando così la storia dei ventesimo secolo. Gli indiani furono spediti in Europa, battaglioni mediorientali e cinesi operarono in Occidente, truppe africane combatterono nell'esercito francese. Sebbene l'attività militare al di fuori del territorio europeo non fosse molto significativa, tranne che in Medio Oriente, la guerra navale tornò a essere combattuta su tutto il globo: gli scontri decisivi fra sottomarini tedeschi e convogli alleati si ebbero nell'Atlantico.

 

Non c'è bisogno di dimostrare che la seconda guerra mondiale fu globale in senso letterale. In un modo o nell'altro, volenti o nolenti, vi furono coinvolti tutti gli stati indipendenti del mondo, benché le repubbliche dell'America latina vi abbiano partecipato solo formalmente. Le colonie delle potenze imperiali non avevano scelta. Tranne che per la futura Repubblica d'Irlanda, per la Svezia, la Svizzera, il Portogallo, la Turchia e la Spagna in Europa, e forse l'Afghanistan fuori dell'Europa, quasi tutti i paesi del globo parteciparono alla guerra come belligeranti o furono occupati dalle truppe degli altri stati. Quanto ai campi di battaglia, i nomi di isole della Melanesia e di insediamenti nei deserti nordafricani, in Birmania e nelle Filippine divennero familiari ai lettori dei giornali e ai radioascoltatori - la seconda guerra mondiale fu, essenzialmente, una guerra vissuta attraverso i comunicati radiofonici - così come i nomi di battaglie nella regione artica o caucasica, in Normandia, a Stalingrado e a Kursk. La seconda guerra mondiale fu una vera e propria lezione di geografia planetaria.

 

Le guerre del ventesimo secolo, siano esse state locali, regionali o mondiali, hanno raggiunto dimensioni mai toccate prima. Fra i 74 conflitti internazionali avvenuti tra il 1816 e il 1965, classificati in ragione del numero delle vittime da specialisti americani che amano questo genere di calcoli, i primi quattro appartengono al nostro secolo: le due guerre mondiali, la guerra cino-giapponese nel 1937-39 e la guerra di Corea. In queste guerre sono morti in battaglia più di un milione di persone. La guerra internazionale del secolo scorso, in età postnapoleonica, sulla quale esiste una più ampia documentazione, cioè quella tra la Germania e la Francia nel 1870-71, provocò forse 150.000 vittime, un ordine di grandezza paragonabile all'incirca ai morti della guerra del Chaco del 1932-35 tra la Bolivia (che annoverava una popolazione di circa tre milioni di abitanti) e il Paraguay (con una popolazione di circa 1,4 milioni). In breve, il 1914 inaugura l'età dei massacri (Singer, 1972, pp. 66, 131).

 

In questo libro non c'è spazio per discutere le origini della prima guerra mondiale, che ho cercato di delineare ne L'Età degli imperi. Cominciò essenzialmente come una guerra europea tra la Triplice intesa (Francia, Gran Bretagna e Russia) da un lato e i cosiddetti Imperi centrali (Germania e Austria-Ungheria) dall'altro. La Serbia e il Belgio furono immediatamente trascinati nel conflitto, la prima dall'attacco austriaco, che fece scoppiare la guerra, e il secondo dall'aggressione tedesca, che era una conseguenza del piano strategico dell'esercito germanico. La Turchia e la Bulgaria scesero ben presto in campo a fianco degli Imperi centrali, mentre sull'altro fronte la Triplice intesa si trasformava gradualmente in una coalizione molto ampia. L'Italia fu indotta con allettanti offerte a unirsi a questa alleanza; la Grecia, la Romania e, in misura soltanto formale, il Portogallo,furono anch'essi coinvolti. Il Giappone si unì quasi immediatamente alle potenze dell'Intesa allo scopo di impossessarsi delle colonie tedesche nell'Estremo Oriente e nel Pacifico, ma non dimostrò alcun interesse per le vicende che esulavano dalla propria area geografica. Più significativo fu l'ingresso in guerra degli USA nel 1917. Quell'intervento doveva risultare decisivo.

 

I tedeschi, allora come nella seconda guerra mondiale, si trovavano a dover sostenere una guerra su due fronti, a prescindere dall'area balcanica nella quale erano stati coinvolti per effetto della loro alleanza con l'Austria- Ungheria. (Comunque, poiché tre dei quattro paesi del blocco degli Imperi centrali erano nella regione balcanica - Turchia, Bulgaria e Austria - il problema militare in quell'area non era pressante per l'esercito tedesco.) Il piano teutonico era di battere a ovest la Francia in tempi brevi e quindi di muoversi con altrettanta rapidità verso est per mettere fuori gioco la Russia, prima che l'impero zarista potesse mobilitare e rendere operativo tutto l'enorme potenziale umano di cui disponeva il suo esercito. Allora, come venticinque anni dopo, la Germania pianificò una campagna di guerra fulminea (quella che durante la seconda guerra mondiale sarebbe stata chiamata blitzkrieg) perché le circostanze la costringevano ad adottare questa strategia. Il piano ebbe successo, ma non del tutto. Le forze armate tedesche avanzarono in Francia penetrandovi anche attraverso il Belgio, che era, un paese neutrale, e furono fermate solo pochi chilometri a est di Pari, gi sulla Marna, circa sei settimane dopo la dichiarazione di guerra. (Nel 1940 il piano di invasione rapida della Francia ebbe pieno successo.) Poi i tedeschi si ritirarono un poco ed entrambi gli eserciti - a quello francese si erano aggiunti i resti delle forze armate del Belgio e un corpo di spedizione britannico, che ben presto sarebbe cresciuto a dismisura - allestirono linee parallele di trincee e fortificazioni difensive che subito si estesero senza interruzione dalla costa della Manica nelle Fiandre fino alla frontiera svizzera, lasciando gran parte della Francia orientale e del Belgio sotto l'occupazione tedesca. Il fronte non subì spostamenti significativi per altri tre anni e mezzo.

 

Era questo il "fronte occidentale", che si trasformò in una macchina di massacri quali non s'erano mai visti nella storia militare. Milioni di uomini si fronteggiarono dalle opposte trincee, protette da sacchi di sabbia, dove vivevano come animali in mezzo ai topi e ai pidocchi. Di tanto in tanto i loro generali cercavano di rompere la situazione di stallo. Giorni, perfino settimane, di incessanti bombardamenti di artiglieria - che uno scrittore tedesco chiamò più tardi "tempeste d'acciaio" (Ernst Jünger, 192 1) - dovevano "ammorbidire" la resistenza del nemico e costringerlo a ripararsi nei cunicoli sotterranei, finché al momento giusto ondate di uomini scavalcavano il parapetto della trincea, in genere protetto da rotoli e reticolati di filo spinato, entravano nella "terra di nessuno", un'area piena di fango e di pozzanghere, di crateri provocati dalle granate, di mozziconi di alberi e di cadaveri abbandonati, per avanzare sotto il fuoco delle mitragliatrici che li falcidiavano. E sapevano benissimo di andare al massacro. Il tentativo tedesco di sfondare il fronte a Verdun nel 1916 (tra il febbraio e il luglio) si trasformò in una battaglia che coinvolse due milioni di soldati e provocò un milione di morti. Il tentativo falli. L'offensiva inglese sulla Somme, che aveva lo scopo di costringere i tedeschi a interrompere l'attacco a Verdun, costò alla Gran Bretagna 420.000 morti, di cui 60.000 solo il primo giorno dell'attacco. Non sorprende che nella memoria degli inglesi e dei francesi, che combatterono quasi tutta la prima guerra mondiale sul fronte occidentale, essa sia rimasta impressa come la "grande guerra", un evento più traumatico e terribile nel ricordo di quanto non lo sia stato la seconda guerra mondiale. I francesi persero quasi il 20% dei loro uomini in età militare e se includiamo i prigionieri di guerra, i feriti, gli invalidi e i mutilati - quelle gueules cassés, quei volti sfigurati che diedero un'immagine cosi impressionante degli effetti della guerra negli anni postbellici - non più di un soldato francese su tre superò indenne la guerra. Più o meno accadde lo stesso per i soldati inglesi. Gli inglesi persero nel conflitto un'intera generazione - mezzo milione di uomini sotto i trent'anni (Winter, 1986, p. 83) per lo più appartenenti alle classi elevate i cui figli, destinati per la loro condizione sociale a diventare ufficiali e a dare esempio di virtù militare, marciarono in battaglia alla testa dei loro uomini e, di conseguenza, furono uccisi per primi. Un quarto degli studenti di Oxford e Cambridge sotto i venticinque anni che prestavano servizio militare nel 1914 vennero uccisi (Winter, 1986, p. 98). 1 tedeschi, quantunque il numero dei loro morti in valore assoluto fosse ancor più grande di quello dei francesi, persero in percentuale (il 13%) una quota più piccola dei loro effettivi, dato che in Germania la fascia di popolazione obbligata a prestare servizio militare era assai più vasta. Perfino le perdite apparentemente modeste degli USA (116.000 contro un 1.600.000 francesi, quasi 800.000 britannici, 1.800.000 tedeschi) dimostrano in effetti che il fronte occidentale, l'unico sul quale essi combatterono, fu un immane massacro. Infatti, mentre gli USA nella seconda guerra mondiale persero un numero di uomini dalle 2,5 alle 3 volte superiore rispetto alle perdite della prima guerra mondiale, le forze americane nel 1917-18 furono in azione per appena un anno e mezzo, in confronto ai tre anni e mezzo della seconda guerra mondiale, su un solo teatro operativo assai ristretto e non su scala mondiale.

 

Gli orrori della guerra sul fronte occidentale dovevano avere conseguenze assai più cupe. L'esperienza di una guerra così brutale si ripercosse nella sfera politica: se era lecito condurre la guerra senza riguardo per il numero delle vittime e a ogni costo, perché non fare altrettanto anche nella lotta politica? La maggior parte degli uomini che combatterono nella prima guerra mondiale, per lo più arruolati con la coscrizione obbligatoria, maturò un convinto odio della guerra. Invece i soldati che avevano superato la guerra senza ribellarsi contro di essa trassero dall'esperienza di essere vissuti insieme con coraggio davanti alla morte un sentimento inesprimibile di selvaggia superiorità, rivolto tra l'altro nei confronti delle donne e di chi non aveva combattuto, che doveva diffondersi nel dopoguerra tra i primi attivisti dell'ultradestra. Adolf Hitler fu uno di quegli uomini per i quali l'esperienza formativa della vita era stata rappresentata dalla condizione di soldato al fronte. Va però rilevato che anche la reazione opposta dava luogo a conseguenze parimenti negative. Infatti dopo la guerra i politici, almeno nei paesi democratici, si resero conto che bagni di sangue come quelli del 1914-18 non sarebbero stati più tollerati dagli elettori. La strategia postbellica della Francia e dell'Inghilterra, come la strategia degli USA dopo la guerra del Vietnam, si basò su questo presupposto. Nel breve periodo questa strategia dei paesi democratici aiutò i tedeschi a vincere nel 1940 l'offensiva a ovest contro la Francia, che si riparò dietro le sue incomplete fortificazioni e che rinunciò semplicemente, a combattere una volta che queste furono scardinate, e contro l'Inghilterra, che voleva evitare a tutti i costi di impegnarsi in quel tipo di massiccia guerra terrestre che aveva decimato i suoi cittadini nel 1914-18. Nel lungo periodo gli stati democratici non seppero resistere alla tentazione di salvare la vita dei propri cittadini senza dimostrare alcun riguardo per la vita delle popolazioni dei paesi nemici. Il lancio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki nel 1945 non venne giustificato come indispensabile per la vittoria, che a quel punto era assolutamente certa, bensì come un mezzo per salvare la vita dei soldati americani. Ma forse non fu neppure estranea alla mente dei governanti americani l'idea che l'uso della bomba atomica avrebbe impedito all'URSS, allora alleata dell'America, di rivendicare di aver contribuito in maniera determinante alla sconfitta del Giappone.

 

Durante la prima guerra mondiale mentre il fronte occidentale si assestava in una cruenta situazione di stallo, quello orientale restava in movimento. I tedeschi nel primo mese di guerra, con la battaglia di Tannenberg, polverizzarono le forze russe che tentavano goffamente di penetrare nella Prussia orientale; dopo di che, con l'aiuto solo a tratti efficace dell'Austria, respinsero i russi fuori della Polonia. Nonostante le occasionali controffensive russe, era chiaro che gli Imperi centrali avevano il sopravvento e che la Russia doveva combattere una guerra difensiva di retroguardia contro l'avanzata tedesca. Nei Balcani gli Imperi centrali avevano il controllo della situazione, benché la macchina militare del vacillante Impero absburgico non sempre ottenesse,.risultati soddisfacenti. Le nazioni belligeranti dell'area balcanica, cioè la Serbia e la Romania, furono di, gran lunga quelle che soffrirono il più alto numero di perdite militari. Gli alleati dell'Intesa, pur avendo occupato la Grecia* non fecero progressi fino al collasso degli Imperi centrali dopo l'estate del 1918. Il piano italiano di aprire un altro fronte nelle Alpi contro l'Austria-Ungheria falli, principalmente perché molti soldati italiani non erano motivati a combattere per uno stato che non consideravano il loro, la cui stessa lingua era parlata da pochi di loro. Dopo una grossa disfatta militare a Caporetto nel 1917, che lasciò una traccia letteraria nel romanzo di Ernest Hemingway Addio alle armi, gli italiani dovettero persino ricevere rinforzi dagli altri eserciti alleati, che trasferirono alcuni reparti su quello scacchiere. Nel frattempo la Francia, la Gran Bretagna e la Germania si dissanguavano sul fronte occidentale, la Russia veniva sempre più destabilizzata per effetto della guerra che stava perdendo e l'Impero austro-ungarico vacillava ed era sul punto di crollare; la sua scomparsa era desiderata dai movimenti nazionalistici delle singole regioni dell'impero, mentre invece i ministri degli Esteri delle potenze dell'Intesa vi si rassegnarono senza entusiasmo, prevedendo a ragione un'Europa instabile.

 

Il problema cruciale per entrambi i contendenti era quello di uscire dalla situazione di stallo sul fronte occidentale, perché senza la vittoria a ovest nessuno poteva vincere la guerra, tanto più che anche la guerra navale si trovava a un punto morto. A prescindere da alcune incursioni isolate da parte della marina germanica, le potenze dell'Intesa controllavano gli oceani, ma le flotte da guerra inglese e tedesca si fronteggiavano nel Mare del Nord immobilizzandosi l'un l'altra. Il loro unico tentativo di ingaggiare battaglia (1916) si concluse in maniera incerta, ma poiché dopo di esso la flotta tedesca fu costretta a rimanere ferma nelle proprie basi, nella bilancia della guerra quello scontro pesò a vantaggio dell'Intesa.

 

Entrambi i contendenti cercarono di sbloccare lo stallo grazie alle novità della tecnologia bellica. I tedeschi, che erano sempre stati molto forti nel campo dell'industria chimica, sparsero gas venefico sulle trincee e sui campi di battaglia, ma l'uso di quest'arma si dimostrò tanto atroce quanto inefficace e determinò l'unico autentico caso di reazione umanitaria da parte dei governi europei contro i metodi di conduzione della guerra. Questa reazione si tradusse nella Convenzione di Ginevra del 1925, con la quale tutti gli stati si impegnarono solennemente a non ricorrere più alla guerra chimica. Infatti, sebbene tutti i paesi continuassero a preparare armi chimiche e si aspettassero che il nemico ne avrebbe fatto uso, il gas non fu usato da nessuno dei contendenti durante la seconda guerra mondiale, benché i sentimenti umanitari non abbiano impedito agli italiani di impiegare il gas per domare le ribellioni dei popoli delle colonie. (Il rapido declino dei valori civili-dopo la seconda guerra mondiale riportò infine all'uso dei gas venefici. Durante la guerra Iran-Iraq degli anni '80, l'Iraq, allora entusiasticamente appoggiato dalle potenze occidentali, fece uso dei gas sia contro i militari sia contro i civili.) Gli inglesi impiegarono per primi il veicolo corazzato dotato di cingoli, tuttora conosciuto col suo nome in codice di tank, ma i generali britannici tutt'altro che brillanti non avevano ancora scoperto come utilizzarlo efficacemente in battaglia. Entrambi i belligeranti impiegarono i nuovi ma fragili aeroplani e i tedeschi ricorsero anche ai dirigibili, a forma di sigaro e riempiti di gas, sperimentando i primi bombardamenti aerei, per fortuna senza grande effetto. La guerra aerea ebbe però il suo massimo sviluppo, soprattutto come mezzo per terrorizzare i civili, durante il secondo conflitto mondiale.

 

L'unica arma tecnologica che ebbe un effetto di rilievo sulla conduzione della guerra nel 1914-1918 fu il sottomarino, impiegato da ambo le parti, utile non tanto a sconfiggere le forze militari quanto ad affamare le popolazioni civili. Dal momento che tutti i rifornimenti per la Gran Bretagna erano trasportati via mare, i tedeschi credettero di poter strangolare le isole britanniche con una guerra sottomarina serripre più spietata contro il naviglio diretto ai porti inglesi. Questa campagna di guerra sottomarina sembrò avere successo nel 1917, prima che fossero scoperte delle misure efficaci per contrastarla, ma essa più di ogni altra cosa ebbe l'effetto di trascinare gli USA nel conflitto. A loro volta gli inglesi fecero del proprio meglio per bloccare i rifornimenti alla Germania, cioè per danneggiarne l'economia e affamare la popolazione tedesca. Gli sforzi inglesi in tal senso si rivelarono più efficaci del previsto, poiché, come vedremo, l'economia di guerra della Germania non dimostrò quel grado di efficienza e di razionalità di cui i tedeschi andavano fieri; a differenza della loro macchina bellica, che invece, sia nella prima sia nella seconda guerra mondiale, si dimostrò superiore in maniera schiacciante a ogni altro esercito. Questa netta superiorità militare delle forze armate tedesche sarebbe potuta risultare decisiva se l'Intesa non avesse potuto contare sulle risorse praticamente illimitate degli USA a partire dal 1917. Accadde che la Germania, per quanto menomata dall'alleanza con l'Austria, si assicurò la vittoria piena sul fronte orientale e costrinse la Russia a uscire dalla guerra, a sprofondare nella rivoluzione e ad abbandonare nel 1917-18 una larga parte dei suoi territori europei. Subito dopo aver imposto condizioni di pace penalizzanti con il trattato di Brest-Litovsk, nel marzo del 1918, l'esercito tedesco, ora libero di concentrarsi a ovest, riuscì a infrangere le difese nemiche sul fronte occidentale e avanzò in direzione di Parigi. Grazie al flusso di rifornimenti e di attrezzature militari americane, l'Intesa seppe riprendersi, anche se per un attimo le sorti del conflitto parvero incerte. Quell'offensiva fu invece l'ultimo colpo sferrato da una Germania esausta che si sapeva vicina alla disfatta. Una volta che gli alleati dell'Intesa presero ad avanzare nell'estate del 1918 ' la fine della guerra si rivelò prossima. Gli Imperi centrali non solo riconobbero di essere stati sconfitti, ma crollarono. Nell'autunno del 1918 la rivoluzione, che era già scoppiata in Russia nel 1917, si diffuse nell'Europa centrale e sudorientale (vedi il prossimo capitolo). Nessun vecchio governo rimase in piedi nell'area che va dalle frontiere francesi fino al Mar del Giappone. Perfino i governi delle nazioni vincitrici erano scossi, benché ritengo assai improbabile che, anche in caso di disfatta, la Francia e la Gran Bretagna avrebbero perso la loro stabilità politica. Lo stesso non accadde però per l'Italia. Quel che è certo è che nessuno dei paesi sconfitti sfuggì ai sommovimenti rivoluzionari.

 

Se qualcuno dei grandi ministri o diplomatici del passato - personaggi come un Talleyrand o un Bismarck, ai quali si ispiravano come a modelli i ministri degli Esteri e i diplomatici delle nazioni europee - si fosse levato dalla tomba per osservare la prima guerra mondiale, si sarebbe certairnente chiesto perché degli statisti intelligenti non avessero deciso di trovare una soluzione di compromesso ai conflitti internazionali, prima che la guerra distruggesse il mondo del 1914. Noi pure dobbiamo chiedercelo. La maggioranza delle guerre non ideologiche e non rivoluzionarie del passato non erano state condotte come una lotta fino alla morte e all'esaurimento totale dei contendenti. Nel 1914 non era certo l'ideologia a dividere i belligeranti, se non per il fatto che si doveva combattere la guerra da entrambe le parti mobilitando l'opinione pubblica, ossia proclamando che si dovevano difendere dalla minaccia nemica i valori nazionali, come ad esempio la cultura tedesca dalla barbarie russa, la democrazia francese e inglese dall'assolutismo teutonico, o simili. Per di più ci furono uomini politici che caldeggiarono una qualche soluzione di compromesso, non solo in Russia e in Austria-Ungheria, ove i governi invitarono i propri alleati ad agire in tal senso con ansietà crescente quanto più la sconfitta si avvicinava. Perché, dunque, la prima guerra mondiale fu condotta dalle potenze che guidavano i due schieramenti come un gioco all'ultima mossa, cioè come una guerra che poteva essere o totalmente vinta o interamente perduta?

 

La ragione fu che questa guerra, diversamente dalle guerre precedenti, che erano condotte per obiettivi limitati e specifici, aveva come posta scopi illimitati. Nell'Età degli imperi, la politica e l'economia si erano fuse. La rivalità politica internazionale si modellava sulla crescita e sulla competizione economiche, ma la caratteristica di questi processi era per l'appunto la loro illimitatezza. "Le "frontiere naturali" della Standard Oil, della Deutsche Bank o della De Beers Diamond Corporation erano i limiti estremi del globo, o piuttosto i limiti della loro capacità di espansione" (Hobsbawm 1987, p. 318). Più concretamente per i due principali contendenti, Germania e Gran Bretagna, l'unico limite doveva essere costituito dal cielo, poiché la Germania voleva una posizione di predominio politico e marittimo mondiale pari a quella britannica, che avrebbe perciò automaticamente relegato a un rango inferiore la potenza inglese già in declino. Era un aut aut. Per la Francia, allora come nella seconda guerra mondiale, la posta in gioco non era così alta, ma era ugualmente pressante: controbilanciare la crescente inferiorità economica e demografica dinanzi alla Germania, che sembrava inevitabile. Anche in questo caso era in questione il futuro della Francia come grande potenza. In entrambi i casi un compromesso avrebbe semplicemente significato rimandare il confronto. La stessa Germania, si potrebbe supporre, avrebbe potuto aspettare finché le sue dimensioni crescenti e la sua superiorità avessero imposto quella posizione di supremazia che secondo i governanti tedeschi spettava alla loro nazione; un fatto che presto o tardi si sarebbe verificato. Infatti ai giorni nostri, pur essendo stata sconfitta due volte e senza pretendere di essere in Europa una potenza militare autonoma, la Germania gode di una posizione di dominio che nessuno mette in dubbio, ciò che mai era accaduto prima del 1945, quando essa aveva preteso di ottenere il dominio continentale con la forza militare. Tuttavia questo è accaduto perché la Francia e la Gran Bretagna, come vedremo, sono state costrette dopo la seconda guerra mondiale, sia pure controvoglia, ad accettare di essere relegate al rango di potenza di seconda classe, così come la Germania federale, con tutta la sua forza economica, ha riconosciuto che nel mondo uscito dalla seconda guerra mondiale era impossibile esercitare da sola una posizione di supremazia. Nel 1900, al culmine dell'Età imperiale e imperialistica, sia la pretesa tedesca a una posizione unica nel mondo ("Lo spirito tedesco rigenererà il mondo", come allora si diceva) sia la resistenza inglese e francese, che erano ancora innegabilmente "grandi potenze" in un mondo eurocentrico, permanevano intatte. Sulla carta era senza dubbio possibile un compromesso su alcuni degli obiettivi bellici che entrambe le parti, con ottica megalomane, formularono non appena scoppiò il conflitto, ma in pratica il solo obiettivo che contasse era la vittoria totale: ciò che nella seconda guerra mondiale venne definito "resa incondizionata".

 

Era un obiettivo assurdo e autolesionistico che condusse alla rovina vinti e vincitori. Gli sconfitti furono trascinati nella rivoluzione, mentre i vincitori conobbero la bancarotta e il dissanguamento di ogni energia. Nel 1940 le forze tedesche, inferiori numericamente, invasero la Francia con una facilità e una rapidità che rasentavano il ridicolo e il paese accettò di sottomettersi al dominio hitleriano senza esitazione, proprio perché era stato dissanguato a morte nel 1914-18. La Gran Bretagna non fu più la stessa dopo il 1918, perché aveva rovinato la propria economia, conducendo una guerra al di là delle proprie risorse. Inoltre la vittoria totale, ratificata da una pace punitiva, imposta dai vincitori, distrusse quelle poche possibilità che ancora esistevano di restaurare un ordine che fosse, anche vagamente, simile a quello dell'Europa liberale e borghese, come l'economista John Maynard Keynes immediatamente riconobbe. Senza reintegrare la Germania nell'economia europea, senza cioè riconoscere e accettare il peso economico di quel paese, non poteva esserci alcuna stabilità. Ma reinserire la Germania era l'ultimo pensiero di coloro che avevano combattuto per eliminarla.

 

Cinque furono le considerazioni predominanti nella definizione degli accordi di pace imposti dalle potenze vittoriose (USA, Gran Bretagna, Francia, Italia) e che sono solitamente, anche se impropriamente, conosciuti col nome di Trattato di Versailles. ** La prima fu la preoccupazione per il crollo di molti regimi in Europa e per l'insorgere in Russia di un regime bolscevico rivoluzionario, dedito alla sovversione mondiale, polo d'attrazione per le forze rivoluzionarie in ogni parte del mondo (vedi capitolo secondo). Il secondo motivo ispiratore fu la necessità di tenere sotto controllo la Germania, che aveva quasi sconfitto da sola l'intera coalizione alleata. Per ovvie ragioni questa fu, e sempre rimase da allora, la principale preoccupazione della Francia. In terzo luogo bisognava ridisegnare e ridefinire la cartina geopolitica dell'Europa, sia per indebolire la Germania sia per riempire quei larghi spazi vuoti che si erano formati in Europa e nel Medio Oriente, in seguito alla sconfitta e al tracollo simultaneo degli imperi russo, absburgico e ottomano. I principali pretendenti alla successione, almeno in Europa, erano diversi movimenti nazionalistici, che i vincitori tendevano a incoraggiare almeno finché essi si dimostravano antibolscevichi. Il principio fondamentale per riordinare l'assetto politico europeo fu quello di creare stati nazionali su basi etnico-linguistiche, secondo l'idea che le nazioni hanno il diritto all',,autodeterminazione". Il presidente americano Wilson, le cui opinioni erano considerate l'espressione della volontà di quella potenza senza di cui la guerra sarebbe stata persa, era un appassionato e convinto assertore di questo principio, che era (ed è) facilmente abbracciato da coloro che non conoscevano da vicino le realtà etniche e linguistiche delle regioni che dovevano essere divise in precise entità nazionali. Quel tentativo si rivelò disastroso, com'è facile vedere ancor oggi, nell'Europa degli anni '90. I conflitti nazionali che lacerano alcune aree europee ai nostri giorni altro non sono che i nodi di Versailles che ancora una volta vengono al pettine. *** Il riassetto del Medio Oriente, segui le tradizionali linee di suddivisione imperialistica tra Francia e Gran Bretagna, a eccezione della Palestina, che il governo britannico, ansioso di ricevere l'appoggio dell'ebraismo internazionale durante il conflitto, aveva incautamente e ambiguamente promesso agli. ebrei perché potessero stabilirvi la loro patria. Fu questa un'altra eredità indimenticata e controversa della prima guerra mondiale.

 

Il quarto ordine di considerazioni nasceva dalle esigenze di politica interna dei paesi vincitori - in pratica, della Gran Bretagna, della Francia e degli USA - e dai loro contrasti. La conseguenza più importante di tali vicende politiche fu il fatto che il Congresso degli USA si rifiutò di ratificare i trattati di pace, benché essi fossero stati scritti in gran parte dal presidente degli Stati Uniti o avessero ricevuto il suo consenso; perciò gli USA si astennero dal garantire l'applicazione delle clausole dei trattati e questa loro decisione ebbe effetti di notevole portata.

 

Infine le potenze vincitrici cercarono disperatamente di stabilire con la pace un assetto internazionale che avrebbe reso impossibile un'altra guerra, simile a quella che aveva devastato il mondo, i cui effetti catastrofici erano visibili da ogni parte. Il loro fallimento fu spettacolare. Vent'anni dopo il mondo era di nuovo precipitato nella guerra.

 

Proteggere il mondo dal bolscevismo e ridisegnare la cartina dell'Europa erano due compiti che si sovrapponevano, dal momento che il modo più diretto per affrontare la Russia rivoluzionaria, nel caso fosse sopravvissuta - ciò che non era affatto certo nel 1919 -, era di isolarla dietro un "cordone sanitario" di stati anticomunisti, come si disse nel linguaggio diplomatico del tempo. L'ostilità a Mosca di questi stati era assicurata dal fatto che i loro confini erano stati ritagliati interamente o per larga parte su territori appartenuti alla Russia zarista. Da nord verso sud questi stati erano nell'ordine: la Finlandia, una regione autonoma alla quale Lenin aveva consentito la secessione; tre nuove piccole repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania) per le quali non esisteva alcun precedente storico; la Polonia, di cui veniva ripristinata l'indipendenza dopo 120 anni; una Romania assai ingrandita, le cui dimensioni erano raddoppiate in seguito all'annessione di territori che erano appartenuti all'Impero austro-ungarico e della Bessarabia, prima assoggettata al dominio russo. La maggior parte dei territori di questi stati era stata sottratta alla Russia dalla Germania, durante il conflitto, e se non fosse avvenuta la rivoluzione bolscevica sarebbe stata certo restituita alla Russia. Il tentativo di prolungare il cordone di sicurezza nel Caucaso fallì, essenzialmente perché la Russia rivoluzionaria si accordò con la Turchia, un paese anch'esso rivoluzionario benché non in senso comunista, che non portava alcuna simpatia per la politica imperialista della Francia e dell'Inghilterra. Di conseguenza gli stati dell'Armenia e della Georgia, instaurati dopo il trattato di Brest-Litovsk, e il tentativo britannico di separare dalla Russia l'Azerbaigian, ricco di risorse petrolifere, non sopravvissero alla vittoria dei bolscevichi nella guerra civile del 1918-20 né al trattato turco-sovietico del 1921. In breve, gli alleati accettarono a est le frontiere imposte alla Russia rivoluzionaria dalla Germania, eccezion fatta per quei casi dove non poterono tenere sotto controllo la situazione.

 

Restava tuttavia da ridefinire la geografia politica di grandi aree, per lo più appartenute all'ex Impero austro-ungarico. L'Austria e l'Ungheria furono ridotte a due staterelli, l'uno tedesco e l'altro magiaro, la Serbia si allargò nella nuova Jugoslavia grazie alla incorporazione ,della Slovenia (una regione ex austriaca) e della Croazia (ex ungherese) come pure del piccolo regno tribale del Montenegro, un tempo indipendente. Era questa una terra brulla e montuosa, popolata da pastori e da predoni, i cui abitanti reagirono alla perdita mai prima sperimentata dell'indipendenza convertendosi in massa al comunismo, che sentivano come un'ideologia che apprezzava le virtù eroiche. Inoltre il comunismo era associato alla Russia ortodossa, la cui fede gli uomini invitti della Montagna Nera avevano difeso per tanti secoli contro il turco infedele. Venne anche costituito il nuovo stato della Cecoslovacchia, unificando quello che era stato il cuore industriale dell'Impero absburgico, cioè le terre ceche, con la Slovacchia e la Rutenia, che un tempo appartenevano all'Ungheria. La Romania, ampliata, divenne un conglomerato multinazionale, e anche la Polonia e l'Italia beneficiarono della spartizione delle terre dell'Impero austro-ungarico. Le combinazioni di terre che diedero origine alla Jugoslavia e alla Cecoslovacchia erano prive di logica e di precedenti storici: entrambi gli stati erano il portato di un'ideologia nazionalista che credeva sia nella forza coesiva di una base etnica comune sia nella opportunità di evitare la costituzione di stati nazionali troppo piccoli. Tutte le popolazioni slave del sud (Jugoslavi) dovevano appartenere a un unico stato e così pure le popolazioni slave nordoccidentali delle terre ceche e slovacche. Com'era facile aspettarsi, questi matrimoni politici combinati sotto la minaccia delle armi non si rivelarono stabili. Tra l'altro, a eccezione di ciò che era rimasto dell'Austria e dell'Ungheria - private della maggior parte, anche se non di tutte le loro ex minoranze -, i nuovi stati costituiti sulle terre dell'Impero absburgico o della Russia erano multinazionali quanto gli imperi che li avevano preceduti. Alla Germania fu imposta una pace punitiva, giustificata con l'argomento che lo stato tedesco era l'unico responsabile della guerra e di tutte le sue conseguenze (clausola della "colpa di guerra"), che aveva lo scopo di indebolirlo permanentemente. Questo obiettivo fu raggiunto non tanto attraverso le perdite territoriali inferte alla Germania, anche se l'Alsazia-Lorena fu restituita alla Francia, una buona fetta del territorio orientale fu incorporata nella ricostituita Polonia (il cosiddetto "corridoio polacco" che separava la Prussia orientale dal resto della Germania) e altri aggiustamenti minori modificarono le frontiere tedesche. Piuttosto, l'obiettivo fu assicurato col privare la Germania di una marina militare efficace e di ogni forza aerea, con il limitare gli effettivi del suo esercito a non più di 100.000 uomini, con l'imposizione di "riparazioni" (pagamenti per i danni di guerra, subiti dai vincitori) di entità teoricamente indefinita, con l'occupazione militare di una parte della Germania occidentale e, non da ultimo, con la sottrazione alla Germania di tutte le sue colonie. (Queste furono ridistribuite tra gli inglesi e i loro dominion, i francesi e, in misura minore, i giapponesi; ma, in omaggio alla crescente impopolarità dell'imperialismo, non furono più chiamate "colonie", bensì "mandati" assegnati alle potenze imperiali, le quali con senso di umanità avrebbero dovuto assicurare il progresso delle popolazioni arretrate, senza sognarsi di sfruttarle per qualche altro fine.) A eccezione delle clausole territoriali, a metà degli anni '30 nulla restava in vigore di ciò che il Trattato di Versailles aveva stabilito.

 

Quanto al meccanismo che avrebbe dovuto prevenire lo scoppio di un altro conflitto mondiale, era evidente che il consorzio delle "grandi potenze" europee, che avrebbe dovuto assicurare la pace prima del 1914, si era completamente dissolto. L'alternativa, proposta agli incalliti politici europei dal presidente americano Wilson, con tutto il fervore liberale di uno scienziato della politica educato a Princeton, fu di istituire una Società delle Nazioni, che includesse tutti i paesi indipendenti, la quale avrebbe dovuto dirimere le controversie internazionali con metodi pacifici e democratici, prima che esse sfuggissero al controllo diplomatico. I negoziati sarebbero dovuti essere pubblici ("accordi palesi, ottenuti alla luce del sole"), perché la guerra aveva accresciuto i sospetti verso la "diplomazia segreta", attraverso la quale erano stati abitualmente condotti i negoziati internazionali. Questo atteggiamento nasceva per reazione agli accordi segreti che erano stati presi fra le potenze dell'Intesa durante la guerra, nei quali veniva prefigurato il futuro dell'Europa e del Medio Oriente con una stupefacente mancanza di riguardo per i desideri o addirittura per gli interessi delle popolazioni delle varie regioni. I bolscevichi, dopo avere scoperto questi delicati documenti negli archivi zaristi, li avevano prontamente pubblicati perché tutto il mondo li conoscesse; pertanto tra le potenze europee s'imponeva la necessità di limitare i danni al proprio prestigio dovuti a tali rivelazioni. La Società delle Nazioni fu istituita nell'ambito dei trattati di pace e si dimostrò un fallimento pressoché totale, eccezion fatta per i risultati conseguiti nella raccolta di dati statistici. Nei suoi primi anni di vita riuscì anche a risolvere qualche contenzioso internazionale di minore rilevanza, che non avrebbe certo messo a repentaglio la pace mondiale, come quello tra la Finlandia e la Svezia sul possesso delle isole Aland. Il rifiuto degli USA di aderire alla Società delle Nazioni privò questa organizzazione di ogni reale significato.

 

Non è necessario addentrarsi nei dettagli della storia europea tra le due guerre per comprendere che il Trattato di Versailles non poteva costituire la base di una pace stabile. L'equilibrio internazionale era pregiudicato in partenza e perciò un'altra guerra era praticamente certa.

 

Come si è già detto, gli USA quasi subito si svincolarono dagli impegni contratti e in un mondo non più eurocentrico né euro-determinato nessun trattato che non fosse stato sottoscritto da quella che era diventata una potenza mondiale di prima grandezza poteva rivelarsi efficaCe. Come vedremo questa considerazione valeva per l'economia mondiale non meno che per la politica. Due grandi potenze europee e mon-diali (la Germania e la Russia sovietica) erano temporaneamente eliminate dal gioco internazionale e a esse non si riconosceva neppure il diritto di parteciparvi. Non appena una o entrambe queste nazioni fossero rientrate sulla scena, un trattato di pace appoggiato solo dalla Gran Bretagna e dalla Francia - poiché anche l'Italia si era dichiarata insoddisfatta - non poteva durare. E prima o poi la Germania, o la Russia, o entrambe sarebbero inevitabilmente rientrate nel gioco con un ruolo di primaria importanza.

 

Le scarse possibilità di mantenimento della pace furono annullate dal rifiuto delle potenze vittoriose di reinserire gli sconfitti nel concerto delle nazioni. E vero che la repressione totale della Germania e la messa al bando altrettanto totale della Russia sovietica si rivelarono ben presto impossibili, ma le nazioni occidentali si adeguarono a questa realtà lentamente e con riluttanza. In particolare i francesi abbandonarono controvoglia la speranza di mantenere la Germania in uno stato di debolezza e di impotenza. (Gli inglesi non erano ossessionati come i francesi dal ricordo della sconfitta e dell'invasione.) Quanto all'URSS, gli stati vincitori avrebbero preferito che il regime sovietico non fosse esistito, e, dopo aver appoggiato le armate controrivoluzionarie nella guerra civile russa e aver inviato in loro sostegno forze militari, non dimostrarono alcun entusiasmo nel riconoscerlo una volta sopravvissuto. I loro uomini d'affari rifiutarono persino le offerte vantaggiosissime che Lenin fece agli investitori stranieri nel disperato tentativo di riavviare in ogni modo un'economia quasi distrutta dalla guerra, dalla rivoluzione e dalla guerra civile. La Russia sovietica fu costretta a svilupparsi nell'isolamento, anche se per scopi politici comuni i due stati fuorilegge dell'Europa, la Russia e la Germania, si appoggiarono a vicenda nei primi anni '20.

 

Forse la seconda guerra mondiale poteva essere evitata o almeno differita, se l'economia prebellica fosse stata restaurata come un sistema globale di crescita e di espansione. Invece, dopo che a metà degli anni '20 sembrò che l'economia mondiale si fosse lasciata alle spalle le distruzioni della guerra e del dopoguerra, essa sprofondò nella più grande e drammatica crisi mai conosciuta dall'avvento della rivoluzione industriale (vedi capitolo 3). E questo fatto condusse al potere si in Germania sia in Giappone le forze politiche del militarismo e dell'e strema destra, impegnate a infrangere deliberatamente lo status quo attraverso lo scontro, se necessario di carattere militare, piuttosto che trasformarlo gradualmente con la negoziazione pacifica. Da quel momento in poi una nuova guerra mondiale non solo era prevedibile, ma veniva prevista ripetutamente. Le generazioni che divennero adulte negli anni '30 se l'aspettavano. L'immagine di stormi di apparecchi che sganciano bombe sulle città e quella di figure umane da incubo col viso coperto dalle maschere antigas, che avanzano come ciechi tra la nebbia dei gas velenosi, hanno ossessionato la mia generazione: profeticamente nel primo caso, erroneamente nel secondo.

 

 

Naturalmente le risposte alle questioni di carattere storico non sono così semplici. Come si è visto, la situazione mondiale creata dalla prima guerra mondiale era intrinsecamente instabile, soprattutto in Europa, ma anche nell'Estremo Oriente, e perciò non ci si aspettava che la pace potesse durare. L'insoddisfazione per lo status quo non era nutrita solo dagli stati sconfitti, sebbene questi, e in particolare la Germania, ritenessero, non a torto, di avere moltissime ragioni di risentimento. In Germania ogni partito, dall'estrema sinistra comunista all'estrema destra nazionalsocialista di Hitler, concordava nella condanna del Trattato di Versailles ritenuto ingiusto e inaccettabile. Paradossalmente, se vi fosse stata in Germania un'autentica rivoluzione, ciò avrebbe prodotto sul piano internazionale una Germania meno aggressiva. I due paesi sconfitti che avevano effettivamente subito trasformazioni rivoluzionarie, cioè la Russia e la Turchia, erano troppo presi dai propri affari interni e dalla difesa delle frontiere per poter destabilizzare la situazione internazionale. Negli anni '30 questi due paesi rappresentavano forze di stabilità e la Turchia rimase neutrale nella seconda guerra mondiale. D'altro canto, sia il Giappone sia l'Italia, sebbene appartenessero alle potenze vincitrici della prima guerra mondiale, si sentivano insoddisfatti: i giapponesi mostravano un realismo superiore a quello degli italiani, i cui appetiti imperiali eccedevano di gran lunga la capacità di soddisfarli della loro nazione. In ogni caso, l'Italia era uscita dalla guerra con consistenti acquisti territoriali sulle Alpi, sulle coste dell'Adriatico e perfino nell'Egeo, anche se non aveva ottenuto per intero il bottino che le era stato promesso dalle potenze dell'Intesa come compenso perché scendesse in guerra al loro fianco nel 1915. Comunque il trionfo del fascismo, un movimento controrivoluzionario e perciò ultranazionalista e imperialista, sottolineava l'insoddisfazione italiana (vedi capitolo 5). Quanto al Giappone, la sua notevole forza militare e navale faceva sì che esso fosse la più formidabile potenza nell'Estremo Oriente, soprattutto dopo che la Russia era uscita di scena. Il ruolo del Giappone era stato in qualche misura sancito a livello internazionale dall'Accordo navale di Washington del 1922, che finalmente aveva posto fine alla supremazia navale britannica, fissando la formula del "5, 5, 3" per codificare, rispettivamente, la forza navale statunitense, quella britannica e quella giapponese. Tuttavia il Giappone, la cui industrializzazione avanzava a velocità sostenuta, quantunque la sua economia in termini assoluti fosse ancora piuttosto modesta (il 2,5 % della produzione industriale mondiale alla fine degli anni '20), riteneva senz'ombra di dubbio di meritare in Estremo Oriente una fetta della torta assai più grossa di quella che gli veniva riconosciuta dalle potenze imperiali occidentali. Inoltre, nei giapponesi era viva la consapevolezza della vulnerabilità del proprio paese, che mancava di quasi tutte le risorse necessarie a una moderna economia industriale, le cui importazioni erano alla mercé del naviglio straniero e le cui esportazioni erano alla mercé del mercato americano. Si sosteneva che la creazione, con la forza militare, di un vicino impero terrestre in Cina avrebbe accorciato le linee di comunicazione del Giappone e così avrebbe diminuito la loro vulnerabilità. Nondimeno, a prescindere dall'instabilità della pace sancita nel 1918 e dalle probabilità di una nuova guerra, è innegabile che ciò che causò concretamente il secondo conflitto mondiale fu l'aggressione condotta dalle tre potenze insoddisfatte, unite tra loro da vari trattati siglati già alla metà degli anni '30. Le pietre miliari sulla strada della guerra furono l'invasione giapponese della Manciuria nel 1931; l'invasione italiana dell'Etiopia nel 1935; l'intervento tedesco e italiano nella guerra civile spagnola del 1936-39; l'invasione tedesca dell'Austria all'inizio del 1938; la mutilazione tedesca della Cecoslovacchia avvenuta più tardi nello stesso anno; l'occupazione tedesca di ciò che rimaneva della Cecoslovacchia nel marzo 1939 (seguita dall'occupazione italiana dell'Albania); e infine le pretese tedesche sulla Polonia che effettivamente portarono allo scoppio della guerra. In senso inverso, da un punto di vista negativo possiamo annoverare queste pietre miliari: il fallimento della Società delle Nazioni nel bloccare l'iniziativa bellica giapponese in Manciuria e nel prendere misure efficaci contro l'Italia nel 1935; la mancata risposta di Francia e Gran Bretagna alla denuncia unilaterale tedesca del Trattato di Versailles, e particolarmente alla rimilitarizzazione della Renania nel 1936; il rifiuto di Francia e Gran Bretagna di intervenire nella guerra civile spagnola; la loro mancata reazione all'annessione tedesca dell'Austria; la loro ritirata dinanzi al ricatto hitleriano sulla Cecoslovacchia (Patto di Monaco del 1938); il rifiuto russo di continuare a contrastare la politica di espansione hitleriana nel 1939 (Patto di non aggressione fra Hitler e Stalin dell'agosto 1939).

 

E tuttavia se una parte chiaramente non voleva la guerra e fece tutto il possibile per evitarla, mentre l'altra la glorificava e, nel caso di Hitler, la desiderava attivamente, nessuno degli aggressori voleva una guerra nei modi e nei tempi in cui si trovò costretto a combatterla e neppure contro alcuni degli stati che poi dovette combattere. Il Giappone, a dispetto dell'influenza dei militari sulla sua politica, avrebbe certamente preferito l'acquisizione dei suoi obiettivi - che, essenzialmente, consistevano nella creazione di un impero nell'Asia orientale - senza una guerra generale, nella quale il Giappone fu coinvolto solo perché gli USA vi erano coinvolti. Che tipo di guerra volesse la Germania, quando e contro chi, è ancora materia di discussione, dal momento che Hitler non era uomo da documentare le proprie decisioni. Ma due cose sono chiare: una guerra contro la Polonia (appoggiata dalla Francia e dalla Gran Bretagna) nel 1939 non rientrava nei suoi piani strategici e la guerra che dovette alla fine condurre sia contro l'URSS sia contro gli USA era l'incubo di ogni generale e diplomatico tedesco.

 

La Germania e più tardi il Giappone avevano bisogno di condurre un'offensiva militare rapida. Nel caso dei tedeschi questa si rendeva necessaria.per le stesse ragioni che si erano già presentate nel 1914. Le risorse dei potenziali nemici di Germania e Giappone, una volta unificate e coordinate, erano assai più imponenti delle loro. Nessuno dei due paesi si era preparato efficacemente per una lunga guerra o aveva fatto affidamento su sistemi d'arma che richiedessero un lungo periodo di gestazione prima di divenire operativi. (Per contro gli inglesi, che accettavano l'inferiorità sul piano delle forze terrestri, investirono sin dall'inizio nei sistemi d'arma più costosi e tecnologicamente sofisticati e programmarono le proprie risorse per una guerra di lungo periodo, nella quale essi e i loro alleati avrebbero avuto la superiorità sugli avversari.) I giapponesi ebbero più successo dei tedeschi nell'evitare che i propri avversari si coalizzassero contro di loro, dal momento che si tennero fuori sia dalla guerra condotta dalla Germania contro la Gran Bretagna e la Francia nel 1939-40 sia da quella intrapresa dai tedeschi contro l'URSS dopo il 1941. Diversamente da tutte le altre potenze, i giapponesi si erano scontrati con l'Armata rossa in una guerra vera e propria, quantunque non dichiarata, lungo la frontiera cinese-siberiana nel 1939 e ne erano usciti malconci. Il Giappone, nel dicembre 1941, entrò in guerra solo contro la Gran Bretagna e gli USA, ma non contro l'URSS. Sfortunatamente per il Giappone, la sola potenza contro cui essi dovevano combattere, gli USA, aveva risorse così superiori alle sue che era virtualmente destinata a vincere.

 

La Germania per qualche tempo sembrò più fortunata. Negli anni '30, mentre la guerra si avvicinava, la Gran Bretagna e la Francia non vollero allearsi con l'Unione Sovietica che, alla fine, preferì. venire a patti con Hitler, mentre la politica isolazionistica impediva al presidente Roosevelt di fornire un appoggio non soltanto formale a quelle democrazie che egli sosteneva appassionatamente. Perciò la guerra iniziò nel 1939 come un conflitto puramente europeo. Dopo l'invasione tedesca della Polonia, sconfitta in tre settimane e spartita con FURSS allora neutrale, il conflitto interessò soltanto l'Europa occidentale e venne condotto dalla Germania contro la Gran Bretagna e la Francia. Nella primavera del 1940, la Germania invase la Norvegia, la Danimarca, l'Olanda, il Belgio e la Francia con facilità ridicola. Tutti questi paesi furono occupati dai tedeschi, a eccezione della Francia che fu divisa in una zona occupata direttamente e amministrata dai tedeschi vittoriosi e in uno stato satellite francese (i cui governanti, tratti dai diversi settori reazionari della politica francese, non volevano più definirlo una repubblica) con la capitale nella località termale di Vichy. A sostenere il conflitto contro la Germania! rimase solo l'Inghilterra, sotto la guida di Winston Churchill, capo di una coalizione di forze nazionali basata sul totale rifiuto di ogni patteggiamento con Hitler. Fu in quel momento che l'Italia fascista commise l'errore di scendere in campo a fianco della Germania, uscendo dalla neutralità nella quale si era prudentemente mantenuta per osservare il corso degli eventi.

 

Da un punto di vista pratico la guerra in Europa era finita. Anche se la Germania non era in grado di invadere la Gran Bretagna a causa del doppio ostacolo rappresentato dal mare e dall'aviazione britannica (la Royal Air Force, RAF), non era prevedibile che gli inglesi avrebbero potuto sbarcare sul Continente e ancor meno che avrebbero potuto sconfiggere i tedeschi. I mesi del 1940-41, quando la Gran Bretagna restò sola, sono un momento meraviglioso nella storia del popolo britannico, almeno nella vita di coloro che ebbero la fortuna di sopravvivere, ma le possibilità di resistere della nazione erano davvero esigue. Il programma di riarmo per la difesa dell'emisfero occidentale, varato dagli USA nel giugno 1940, partiva dall'implicito presupposto che ulteriori forniture di armi alla Gran Bretagna sarebbero state inutili; anche dopo che gli americani si convinsero della sopravvivenza della Gran Bretagna, il Regno Unito venne considerato principalmente come un avamposto difensivo esterno per l'America. Nel frattempo la carta geografica dell'Europa veniva ridisegnata. L'URSS, in base all'accordo russo-tedesco, occupava le regioni europee dell'impero zarista che aveva perduto nel 1918 (a eccezione delle parti della Polonia che passavano sotto il controllo tedesco) nonché parte della Finlandia, contro la quale Stalin aveva combattuto una difficile guerra nell'inverno del 1939-40, che aveva allargato le frontiere russe spostandole un po' più lontano da Leningrado. Hitler procedette a una revisione del Trattato di Versailles per quanto riguardava i territori dell'ex Impero absburgico. Ma il nuovo assetto in quell'area ebbe breve durata. Infatti i tentativi britannici di estendere la guerra ai Balcani condussero alla prevedibile conquista dell'intera penisola da parte della Germania, comprese le isole greche.

 

I tedeschi attraversarono il Mediterraneo e sbarcarono in Africa, allorché l'alleato italiano, militarmente ancor più deludente per i tedeschi di quanto lo fosse stata l'Austria-Ungheria nella prima guerra mondiale, sembrò sul punto di perdere interamente il proprio impero africano a opera degli inglesi, che conducevano le operazioni militari muovendo dalla loro base principale in Egitto. L'Afrika Korps, guidato da Erwin Rommel, uno dei più intelligenti generali tedeschi, minacciò le posizioni britanniche in Africa settentrionale e nel Medio Oriente.

 

La guerra fu riaccesa dall'invasione hitleriana dell'URSS il 22 giugno 1941, la data decisiva della seconda guerra mondiale; un'invasione così insensata - perché impegnava la Germania in una guerra su due fronti - che Stalin semplicemente non voleva credere che Hitler avesse potuto idearla. Ma nella logica di Hitler la conquista di un vasto impero terrestre a Oriente, ricco di risorse e di manodopera servile, era il passo successivo e, come tutti gli altri esperti militari a eccezione dei giapponesi, egli sottovalutava grandemente la capacità di resistenza sovietica. Non senza qualche plausibile ragione, vista la disorganizzazione dell'Armata rossa a seguito delle purghe degli anni '30 (vedi capitolo 13), la situazione difficile del paese, gli effetti generali del terrore e le sciocche e dannose intromissioni di Stalin nella strategia militare. In effetti l'avanzata iniziale delle armate tedesche fu altrettanto veloce e, in apparenza, altrettanto decisiva di quella che si era verificata nella campagna occidentale. Ai primi di ottobre i tedeschi erano nei pressi di Mosca e vi sono prove che lo stesso Stalin, per alcuni giorni, fosse in preda allo sconforto e meditasse di trattare la pace. Ma il momento difficile passò e le enormi riserve di spazio, di manodopera, di resistenza fisica della popolazione e di patriottismo, insieme con uno spietato sforzo bellico, fermarono i tedeschi e diedero all'URSS il tempo di riorganizzarsi efficacemente. A ciò contribuì anche il fatto che le operazioni militari vennero affidate ai generali più valorosi e intelligenti, alcuni dei quali furono liberati dai gulag dove Stalin li aveva fatti imprigionare. Gli anni tra il 1942 e il 1945 furono gli unici nei quali Stalin sospese la sua politica di terrore. Una volta che la guerra sul fronte russo non si risolse in tre mesi, come Hitler si aspettava, la Germania era destinata a perdere. poiché non era attrezzata per sostenere una guerra di lungo periodo. Nonostante i trionfi militari la Germania possedeva e produceva molti aerei e carri armati in meno rispetto a quelli di cui disponevano la Gran Bretagna e la Russia, senza contare gli USA. Una nuova offensiva tedesca nel 1942, dopo un inverno estenuante, sembrò segnare un brillante successo, come di consueto, e portò le forze germaniche in profondità dentro il Caucaso e la regione del basso corso del Volga; ma non bastò a decidere le sorti del conflitto. Le armate tedesche incontrarono una forte resistenza, vennero bloccate e infine circondate e costrette alla resa a Stalingrado (estate 1942-marzo 1943). Dopo di che, i russi, a loro volta, cominciarono un'avanzata che doveva portarli fino a Berlino, Praga e Vienna alla fine della guerra. Da Stalingrado in poi tutti sapevano che la disfatta tedesca era solo una questione di tempo.

 

Nel frattempo la guerra, che era stata fondamentalmente europea, era davvero diventata una guerra mondiale. Questo mutamento si dovette in parte alle agitazioni anti-imperialistiche dei popoli soggetti al dominio britannico, che restava il più grande degli imperi mondiali, quantunque esse venissero soffocate: senza difficoltà. I boeri del Sudafrica che simpatizzavano per Hitler vennero internati - riemersero dopo la guerra e furono gli artefici del regime dell'apartheid nel 1948 -e Rashid Ali, che aveva preso il potere in Iraq nella primavera del 1941, venne rapidamente deposto. Molto più significativo il fatto che il trionfo hitleriano in Europa produsse un vuoto di potere nei domini imperiali francesi nel Sudest asiatico, di cui approfittò il Giappone che proclamò il proprio protettorato sui resti indifesi dell'impero francese in Indocina. Gli USA considerarono intollerabile questa estensione del potere nipponico nel Sudest asiatico e imposero severe restrizioni economiche al Giappone, i cui commerci e i cui approvvigionamenti dipendevano interamente dalle comunicazioni marittime. Fu questo contrasto che portò alla guerra tra i due paesi. L'attacco giapponese a Pearl Harbor il 7 dicembre 1941 estese la guerra su scala mondiale. In pochi mesi i giapponesi invasero tutto il Sudest asiatico, continentale e insulare, minacciando a ovest di invadere l'India partendo dalla Birmania, e a .sud di invadere la regione settentrionale desertica dell'Australia partendo dalla Nuova Guinea.

 

Probabilmente il Giappone non avrebbe potuto evitare la guerra con gli USA se non rinunciando all'obiettivo di stabilire un potente impero economico (eufemisticamente definito come "la Grande Sfera di prosperità comune dell'Asia orientale"), che costituiva l'essenza della sua politica. Comunque, viste le conseguenze della mancata resistenza, delle potenze europee alle mire espansionistiche di Hitler e Mussolini, non ci si poteva attendere che gli Stati Uniti di Franklin Delano Roosevelt avrebbero reagito all'espansione giapponese nello stesso mod6 in cui la Gran Bretagna e la Francia avevano reagito all'espansione tedesca. In ogni caso, l'opinione pubblica statunitense considerava il Pacifico (diversamente dall'Europa) come un'area che rientrava nella sfera d'azione e d'interessi degli USA, alla stessa stregua dell'America latina. L'"isolazionismo" americano si applicava soltanto alle faccende europee, da cui gli USA volevano tenersi fuori. Di fatto furono l'embargo occidentale (cioè americano) alle merci giapponesi e il congelamento dei beni giapponesi all'estero che spinsero i nipponici a entrare in azione; era una mossa necessaria, se l'economia di quel paese, intera- i, mente dipendente dalle importazioni via mare, non voleva essere strangolata entro breve tempo. Il Giappone correva un grosso rischio, che si sarebbe dimostrato un rischio suicida. Il Giappone voleva forse cogliere l'unica opportunità per stabilire rapidamente il suo impero nell'Asia meridionale; ma, poiché questo intento richiedeva la messa fuori gioco della marina americana, la sola forza che poteva intervenire per contrastare il disegno nipponico, questo significava anche che gli USA, con la schiacciante superiorità delle loro forze e delle loro risorse, sarebbero stati immediatamente trascinati nel conflitto. Il Giappone non aveva alcuna possibilità di vincere una guerra simile.

 

Resta misterioso perché Hitler, già impegnato allo spasimo sul fronte russo, dichiarò guerra agli USA gratuitamente, dando così al governo di Roosevelt la possibilità di entrare nella guerra europea a fianco della Gran Bretagna senza incontrare un'opposizione politica interna insormontabile. A Washington infatti si nutrivano ben pochi dubbi sul fatto che la Germania nazista costituiva per gli USA e per il mondo un pericolo molto più serio e, in ogni caso, molto più globale di quello del Giappone. Perciò gli USA scelsero deliberatamente di concentrare i propri sforzi nello sconfiggere la Germania prima del Giappone e destinarono in tal senso le proprie risorse. Il calcolo si rivelò giusto. Ci vollero tre anni e mezzo per battere la Germania, dopo di che il Giappone fu messo in ginocchio nel giro di tre mesi. Non c'è spiegazione adeguata per il gesto folle di Hitler, anche se noi sappiamo che egli si ostinò a sottovalutare la capacità di reagire, per non dire il potenziale economico e tecnologico, degli USA: Hitler riteneva che le democrazie fossero incapaci di agire con fermezza. La sola democrazia che prendeva sul serio era la Gran Bretagna, che a ragione considerava un paese non pienamente democratico.

 

Le decisioni di invadere la Russia e di dichiarare guerra agli USA determinarono il risultato della seconda guerra mondiale. Questo non apparve subito ovvio, dal momento che le potenze dell'Asse toccarono l'apice dei loro successi a metà del 1942 e non persero interamente l'iniziativa militare fino al 1943. Inoltre gli alleati occidentali non posero piede sul continente europeo fino al 1944 e una volta sbarcati in Italia, dopo aver ricacciato le forze dell'Asse dal Nordafrica, vennero tenuti in scacco dall'esercito tedesco. Nel frattempo l'arma più importante di cui disponevano gli alleati occidentali contro la Germania era quella aerea, la quale, come le ricerche successive hanno mostrato, si rivelò assai inefficace, salvo che nel far strage di civili e nel distruggere le città. Solo le armate sovietiche continuarono ad avanzare e soltanto nei Balcani - principalmente in Jugoslavia, in Albania e in Grecia - un movimento di resistenza armata di ispirazione prevalentemente comunista procurò alla Germania, e ancor più all'Italia, seri problemi militari. Tuttavia Winston Churchill aveva ragione quando proclamava fiduciosamente dopo Pearl Harbor che la vittoria era assicurata "grazie all'impiego appropriato di una forza preponderante" (Kennedy, p. 437). Dalla fine del 1942 in poi nessuno dubitò che gli alleati avrebbero sconfitto l'Asse. Gli alleati cominciarono perciò a pensare a come utilizzare la loro prevedibile vittoria.

 

Non c'è bisogno di seguire ulteriormente il corso degli eventi militari. Resta solo da notare che a ovest la resistenza tedesca si dimostrò assai difficile da superare, anche dopo che gli alleati sbarcarono in forze sul Continente nel giugno 1944, e che in Germania non ci fu alcun segno di una rivoluzione contro Hitler. Solo i generali tedeschi, cuore della tradizionale potenza militare prussiana, tramarono nel luglio 1944 per abbattere Hitler; essi erano infatti patrioti ragionevoli e non fanatici entusiasti di un wagneriano "crepuscolo degli dèi" nel quale la Germania sarebbe stata totalmente distrutta. Ma, non godendo di un apPoggio popolare, la loro congiura fallì ed essi vennero uccisi in blocco dalle milizie fedeli a Hitler. Anche a est non c'era alcun segno di incrinatura nella determinazione del Giappone di combattere fino alla fine e per questo, cioè per assicurare una rapida resa dei giapponesi, furono sganciate le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Nel 1945 la vittoria avvenne per resa totale e incondizionata degli sconfitti, il cui territorio fu occupato interamente dai vincitori. Formalmente non fu siglato alcun accordo di pace, dal momento che le forze occupanti, almeno in Germania e in Giappone, non riconobbero alcuna autorità locale indipendente. Gli unici negoziati di pace avvennero tra le potenze vincitrici nel corso di una serie di conferenze, tenutesi tra il 1943 e il 1945, nelle quali le potenze alleate (gli USA, l'URSS e la Gran Bretagna) decisero di dividersi le spoglie degli sconfitti e cercarono senza troppo successo di fissare le loro relazioni reciproche a guerra conclusa. Tali conferenze si tennero a Teheran nel 1943; a Mosca nell'autunno del 1944; a Yalta, in Crimea, all'inizio del 1945 e a Potsdam, nella Germania occupata, nell'agosto del 1945. Più fruttuosi furono i negoziati interalleati che, sempre nello stesso periodo, portarono a definire una, cornice generale che inquadrasse le relazioni politiche ed economiche fra gli stati del mondo, compresa la costituzione dell'organismo delle Nazioni Unite. Questo argomento verrà trattato altrove (vedi capitolo 9).

 

Ancor più della Grande Guerra, la seconda guerra mondiale fu combattuta fino alla resa finale, senza che si pensasse seriamente a soluzioni di compromesso da nessuna delle due parti, eccezion fatta per l'Italia, che mutò schieramento e regime politico nel 1943 e che non fu trattata interamente come un territorio occupato, bensì come una nazione sconfitta con un governo legittimo ufficialmente riconosciuto. (Contribuì a questa situazione il fatto che per quasi due anni l'Italia restò divisa in due: a sud vi era il governo regio, schierato a fianco degli alleati, mentre nel nord, occupato dai tedeschi, Mussolini aveva costituito la Repubblica Sociale Italiana.) Diversamente che per la prima guerra mondiale, questa intransigenza dimostrata da ambo le parti non richiede una spiegazione particolare. Si trattava infatti per entrambi gli schieramenti di una guerra di religione o, per usare una terminologia moderna, di una guerra di ideologie. Per molti paesi coinvolti era anche, palesemente, una guerra per la vita. Il prezzo che gli sconfitti dovevano pagare al regime nazionalsocialista era la schiavitù e la morte, come si dimostrò in Polonia e nelle parti dell'URSS occupate dai tedeschi e come confermò il destino degli ebrei, il cui sterminio sistematico venne lentamente alla luce dinanzi agli occhi increduli del mondo. Perciò;: la guerra venne condotta senza limiti. La seconda guerra mondiale rap presenta l'allargamento della guerra di massa in guerra totale.

 

Le sue perdite sono letteralmente incalcolabili e anche stime approssimate sono impossibili, poiché (diversamente dalla prima guerra mondiale) la seconda guerra mondiale uccise i civili non meno dei militari e le pèggiori stragi si ebbero in tempi e in luoghi nei quali nessuno poteva registrarle né si prendeva cura di farlo. Si è stimato che le morti direttamente causate dal conflitto ammontino a una cifra dalle tre alle cinque volte più alta di quella stimata per la prima guerra mondiale (Milward, 270; Petersen, 1986); in altre parole, essa comprende dal 10% al 20% della popolazione complessiva dell'URSS, della Polonia e della Jugoslavia; dal 4% al 6% della popolazione della Germania, dell'Italia, dell'Austria, dell'Ungheria, del Giappone e della Cina. Le vittime in Gran Bretagna e in Francia furono molto più basse che nella prima guerra mondiale, circa l'l%, ma furono più alte negli USA. Tuttavia queste sono supposizioni. Le vittime sovietiche sono state stimate variamente, anche da organismi ufficiali, nell'ordine di sette milioni, undici milioni o venti e perfino trenta milioni. In ogni caso che cosa significa l'esattezza statistica quando gli ordini di grandezza sono così elevati? Forse che l'orrore dell'olocausto si attenuerebbe se gli storici concludessero che furono sterminate non sei milioni di persone (questa è la rozza stima originaria, quasi certamente esagerata), ma solo cinque o quattro? E che cosa cambia se i novecento giorni dell'assedio tedesco a Leningrado (1941-44) causarono la morte per fame e per sfinimento di un milione di uomini o solo di settecentomila o di mezzo milione? Possiamo davvero comprendere cifre che oltrepassano la nostra capacità di intuire una realtà fisica? Che cosa significa per il lettore medio di questa pagina che dei 5,7 milioni di russi prigionieri di guerra in Germania ne morirono 3,3 milioni? (Hirschfeld, 1986). Il solo fatto certo riguardo alle vittime della guerra è che essa uccise più uomini che donne. Nel 1959 c'erano ancora in URSS, tra le generazioni di età tra i 35 e i cinquant'anni, sette donne per ogni quattro uomini (Milward, 1979, p. 212). Dopo la guerra fu più facile ricostruire gli edifici distrutti che le vite dei sopravvissuti.

 

 

 

Il mostro novecentesco della guerra totale non nacque d'improvviso. Tuttavia, dal 1914 in poi, le guerre furono indubbiamente guerre di massa. Già nella prima guerra mondiale la Gran Bretagna mobilitò il 12,5 % della popolazione maschile, la Germania il 15,4 %, la Francia quasi il 17%. Nella seconda guerra mondiale la percentuale sul totale della forza lavoro attiva che venne arruolata nelle forze armate si aggirò generalmente sul 20% (Milward, 1979, p. 216). Possiamo notare,tra l'altro, che un livello simile di mobilitazione di massa, perdurante per un certo numero di anni, non può essere mantenuto senza una moderna economia industrializzata ad alta produttività e/o senza un'economia nella quale vengono largamente impiegate le fasce non combattenti della popolazione. Le tradizionali economie agricole non possono mobilitare una porzione così grande della propria forza lavoro eccetto che in certi periodi dell'anno, almeno nella zona temperata, perché nel calendario agricolo ci sono momenti in cui si richiede l'impiego di tutte le braccia (per esempio per il raccolto). Perfino nelle società industriali una mobilitazione così massiccia del potenziale umano costringe la forza lavoro a sforzi enormi; ed è questa la ragione per cui le moderne guerre di massa rafforzarono l'organizzazione del lavoro e produssero una rivoluzione nell'impiego di personale femminile al di fuori delle faccende domestiche: fenomeni, questi, che furono temporanei nel corso della prima guerra mondiale e che restarono permanenti dopo la seconda.

 

Inoltre le guerre del ventesimo secolo furono guerre. di massa nel senso che impiegarono e distrussero nel corso dei combattimenti una quantità fino ad allora inimmaginabile di materiali e di prodotti. Di qui l'espressione tedesca MaterialschIacht ("battaglia di materiali" per descrivere le battaglie sul fronte occidentale nella guerra del 1914-18.

 

Napoleone, per buona sorte della capacità industriale della Francia che ai suoi tempi era estremamente ridotta, poté vincere la battaglia di Jena nel 1806, e distruggere così la potenza prussiana, con non più di 1.500 salve di artiglieria. E tuttavia, proprio prima della guerra del 1914-18 la Francia aveva pianificato una produzione giornaliera di 1-12. 000 granate e alla fine del conflitto l'industria francese arrivò a produrne 200.000 al giorno. Perfino la Russia zarista riuscì a produrre 150.000 granate al giorno e toccò la quota mensile di 4 milioni e mezzo di granate. Non c'è da stupirsi che i processi produttivi nelle industrie meccaniche fossero rivoluzionati. Quanto alla produzione di altri materiali di guerra non distruttivi, possiamo rammentare che durante il secondo conflitto mondiale l'esercito americano ordinò più di 519 milioni di paia di calze e più di 219 milioni di paia di pantaloni, mentre le forze tedesche, fedeli alla loro tradizione burocratica, ordinarono in un solo anno (1943) 4,4 milioni di forbici e 6,2 milioni di tamponi per i timbri degli uffici militari (Milward, 1979, p. 68). La guerra di massa richiedeva una produzione di massa. Ma la produzione esigeva anche organizzazione e direzione manageriale, proprio perché l'obiettivo era quello di distruggere sistematicamente la vita umana con la massima efficienza, come accadde nei campi di sterminio tedeschi. Parlando in termini generali, la guerra totale fu la più grande impresa economica, coscientemente organizzata e diretta, che l'uomo avesse mai conosciuto.

 

Sorgevano anche nuovi problemi. A partire dal Seicento, da quando cioè gli stati avevano assunto in proprio la gestione di un esercito permanente (stanziale), rinunciando ad appaltare la conduzione della guerra a milizie mercenarie, le questioni militari erano,sempre state curate dai governi con particolare attenzione. In effetti, gli eserciti e la guerra erano ben presto diventate "industrie" o attività economiche assai più vaste di qualunque iniziativa economica privata. Per questa ragione nell'Ottocento il settore militare forni spesso le conoscenze tecniche e le capacità manageriali per imprese private di vasta portata, come la costruzione di ferrovie o di installazioni portuali. Inoltre, quasi tutti gli stati erano soci o proprietari di industrie per la produzione di armamenti e di materiale bellico, benché alla fine del diciannovesimo secolo si sviluppasse una sorta di simbiosi fra gli apparati statali e gli imprenditori privati specializzati nella produzione di armi, soprattutto in settori ad alta tecnologia come l'artiglieria e la marina, che anticipò la formazione di ciò che oggi è conosciuto come "complesso militare-industriale" (vedi L'Età degli Imperi, capitolo 13). Tuttavia, nell'epoca che va dalla Rivoluzione francese alla prima guerra mondiale, presupposto basilare fu che l'economia, per quanto possibile, doveva continuare a operare in tempo di guerra così come aveva fatto in tempo di pace (secondo il principio "Gli affari come al solito"), anche se, naturalmente, certe industrie avrebbero chiaramente risentito l'impatto dello stato di guerra, come ad esempio l'industria dell'abbigliamento, alla quale sarebbe stato richiesto di produrre vestiario militare in misura assai superiore alle sue capacità produttive in tempo di pace.

 

Il problema principale dei governi era quello fiscale: come pagare le spese della guerra? Attraverso i prestiti nazionali o attraverso la tassazione diretta? E in entrambi i casi, con quali specifiche modalità? Di conseguenza le Tesorerie generali o i ministeri delle Finanze erano le autorità preposte alla direzione dell'economia di guerra. La prima guerra mondiale, che durò molto più a lungo di quanto i governi avessero previsto, e che logorò tanti uomini e materiali, vanificò il principio "Gli affari come al solito" e rese altresì impossibile il pieno controllo delle spese da parte dei ministeri delle Finanze, anche se funzionari del Tesoro (come il giovane Maynard Keynes in Gran Bretagna) continuavano a scuotere il capo dinanzi alla disinvoltura dei politici, che perseguivano la vittoria senza considerare i costi finanziari. Personaggi come Keynes avevano ragione. La Gran Bretagna condusse due guerre mondiali al di sopra dei propri mezzi con durevoli conseguenze negative per la sua economia. Se si doveva condurre la guerra su scala moderna, bisognava calcolarne non solo i costi, ma anche le necessità produttive: perciò l'intera economia andava pianificata e diretta.

 

Nel corso della prima guerra mondiale i governi lo appresero soltanto per esperienza diretta. Nella seconda guerra mondiale lo sapevano già dall'inizio, grazie soprattutto all'esperienza maturata nella Grande Guerra, la cui lezione era stata studiata a fondo dai loro funzionari. Tuttavia solo per gradi si comprese che gli stati dovevano assumere l'intero controllo dell'economia e che la programmazione e la distribuzione delle risorse (in forma assai diversa dai consueti meccanismi economici) erano diventate essenziali. All'inizio della seconda guerra mondiale solo due stati, l'URSS e, in misura minore, la Germania nazista, disponevano di un meccanismo per il controllo materiale dell'economia: ciò non sorprende, dal momento che l'idea sovietica della pianificazione economica si era ispirata in origine, e si era basata in parte, su ciò che i bolscevichi conoscevano dell'economia di guerra pianificata dai tedeschi dal 1914 al 1917 (vedi capitolo 13). Alcuni stati, segnatamente la Gran Bretagna e gli USA, non conoscevano neppure i rudimenti di tali meccanismi di controllo.

 

A perciò paradossale che fra tutte le economie di guerra pianificate e dirette dagli stati in entrambe le guerre mondiali, e in tutte le guerre nelle quali vi sono state economie di guerra, le economie degli stati occidentali (Gran Bretagna e Francia nella prima guerra; Gran Bretagna e USA nella seconda) si siano dimostrate di gran lunga superiori a quella della Germania, nonostante le sue tradizioni e le sue dottrine di amministrazione razionalmente burocratizzata. (Per la pianificazione sovietica, si veda il capitolo 11) Possiamo formulare congetture per spiegare il perché, ma sui fatti non c'è dubbio alcuno. L'economia di guerra tedesca si rivelò meno ordinata ed efficace nel mobilitare tutte le risorse belliche - naturalmente i tedeschi si trovarono nella necessità di farlo solo dopo che la strategia della guerra-lampo fallì - e sicuramente la condizione della popolazione civile in Germania fu assai peggiore che nei paesi occidentali. Gli abitanti di Francia e Gran Bretagna sopravvissuti al primo conflitto mondiale erano in condizioni fisiche un poco migliori di prima della guerra, anche se si erano impoveriti, e il reddito reale delle classi lavoratrici era cresciuto. I tedeschi invece erano più affamati e i salari reali dei loro operai erano crollati. Tali paragoni a proposito della seconda guerra mondiale sono più difficili, se non altro perché la Francia fu subito estromessa dal conflitto, gli USA erano un paese più ricco degli altri e subirono meno di altri la pressione degli eventi bellici, mentre FURSS era più povera e dovette sopportare molto di più il peso della guerra. La Germania poteva sfruttare per la propria economia di guerra quasi tutta l'Europa, ma al termine del conflitto aveva subito distruzioni assai più ingenti di quelle toccate ai paesi belligeranti occidentali. Quanto alla Gran Bretagna, benché il paese si fosse impoverito e i consumi civili fossero calati del 20 % nel 1943, la popolazione alla fine della guerra era leggermente più sana e più nutrita, grazie a un'economia di guerra pianificata sistematicamente in direzione dell'eguaglianza e parità dei sacrifici e della giustizia sociale. Il sistema tedesco, invece, era fondato per principio sulla disuguaglianza. La Germania sfruttò sia le risorse sia la manodopera dei paesi europei occupati e trattò le popolazioni non tedesche come razze inferiori, e, in casi estremi - nel caso dei polacchi, ma specialmente dei russi e degli ebrei - come forza lavoro schiavistica che non doveva neppure essere mantenuta in vita. La forza lavoro straniera,giunse a rappresentare un quinto della forza lavoro complessiva impiegata in Germania nel 1944: il 30% nelle industrie di armamenti. Nonostante questo, il meglio che si possa dire riguardo agli operai tedeschi è che i loro guadagni reali erano gli stessi del 1938. La mortalità infantile il tasso di malattia in Gran Bretagna durante la guerra calarono progressivamente. Invece nella Francia, occupata e dominata dai tedeschi, che era rimasta fuori dalla guerra a partire dal 1940 e che era un paese con una notoria abbondanza di cibo, il peso medio e lo stato di benessere della popolazione di ogni età diminuirono.

 

La guerra totale rivoluzionò indubbiamente la gestione dell'economia. In che misura rivoluzionò anche la tecnologia e la produzione? O, per dirla altrimenti, la guerra accelerò o ritardò lo sviluppo economico? Sicuramente fece progredire la tecnologia, dal momento che il conflitto fra nazioni progredite non si disputava solo con le armi esistenti, ma era anche una competizione tecnologica, necessaria all'apprestamento di sistemi d'arma efficaci e di altri servizi essenziali. Se non fosse stato per la seconda guerra mondiale e per il timore che la Germania nazista potesse sfruttare le scoperte della fisica nucleare, certamente la bomba atomica non sarebbe stata costruita e nel nostro secolo non si sarebbero affrontate le spese enormi necessarie a produrre ogni fonte di energia nucleare. Altri progressi tecnologici, raggiunti in primo luogo per fini bellici, si sono dimostrati assai più facilmente applicabili in tempo di pace - si pensi all'aeronautica e ai computer -, e questo conferma che la guerra e la preparazione alla guerra hanno rappresentato un grande volano di accelerazione del progresso tecnico, perché hanno reso sopportabili i costi necessari a finanziare innovazioni tecnologiche che non sarebbero mai state perseguite in tempo di pace secondo un normale criterio di calcolo dei costi e dei benefici, o che comunque sarebbero state introdotte in maniera assai più lenta ed esitante (vedi capitolo 9).

 

L'importanza della tecnologia nella guerra non era certo un fatto nuovo. Inoltre, la moderna economia industriale si fondava su un costante sviluppo tecnologico, che si sarebbe attuato con ritmo crescente anche senza le guerre (se ci è lecito fare questa considerazione ipotetica per completezza di discorso). Le guerre, specialmente la seconda guerra mondiale, contribuirono grandemente a diffondere le competenze tecniche ed ebbero un impatto assai rilevante sull'organizzazione industriale e sui metodi di produzione di massa, ma il loro effetto principale, nel complesso, fu quello di accelerare i mutamenti e non di determinarli. La guerra produsse crescita economica? In un certo senso, evidentemente, la risposta dev'essere negativa. Le perdite di risorse produttive furono ingenti, a prescindere dal calo della popolazione attiva. Durante la seconda guerra mondiale furono distrutti in URSS il 25 % delle proprietà esistenti prima della guerra, in Germania il 13,70, l'8% in Italia, il 7 % in Francia, solo il 3 % in Gran Bretagna; ma queste cifre devono essere controbilanciate dalle nuove costruzioni realizzate in tempo di guerra. Nel caso più estremo, quello dell'URSS, l'effetto economico netto della guerra fu totalmente negativo. Nel 1945 l'agricoltura del paese era in rovina, così come l'industrializzazione prodotta dai piani quinquennali dell'anteguerra. Tutto ciò che restava era una grande industria bellica assai poco riconvertibile, una popolazione affamata e decimata e distruzioni materiali massicce.

 

D'altro canto le guerre ebbero senz'altro effetti positivi sull'economia statunitense. Il suo tasso di crescita in entrambe le guerre mondiali fu straordinario. In particolare nella seconda guerra mondiale l'economia americana si sviluppò al tasso annuo di circa il 10%, più velocemente di quanto si sia mai verificato prima o dopo la guerra. In entrambe le guerre, gli USA trassero beneficio dall'essere lontano dall'area dei combattimenti e dal fatto che costituivano il principale arsenale dei propri alleati, nonché della capacità della propria economia di organizzare l'espansione della produzione più efficacemente di ogni altra. Forse l'effetto economico più duraturo di entrambe le guerre mondiali fu di conferire all'economia americana un ruolo preponderante a livello mondiale durante tutto il Secolo breve; un predominio che si è andato lentamente attenuando solo verso la fine del secolo (vedi capitolo 9). Nel 1914 quella americana era già la più grande economia industriale, ma non era ancora l'economia dominante. Le guerre cambiarono la situazione perché rafforzarono gli USA e indebolirono le nazioni concorrenti. Se gli USA (in entrambe le guerre) e la Russia (soprattutto nella seconda guerra mondiale) rappresentano i due estremi degli effetti economici della guerra, il resto del mondo si colloca in qualche modo tra questi due estremi; ma, nel complesso, in posizioni più vicine alla condizione della Russia che a quella dell'America.

 

Rimangono da valutare l'impatto e i costi umani delle guerre. Il gran numero di vittime, a cui si è già accennato, ne rappresenta solo una parte. E piuttosto curioso che, eccettuata per ragioni comprensibili FURSS, il numero di vittime della prima guerra mondiale, che fu assai più ridotto, abbia suscitato un impatto psicologico più elevato delle grandi quantità di vittime della seconda, come testimonia il maggior numero di monumenti e di celebrazioni in ricordo dei caduti della Grande Guerra. La seconda guerra mondiale non ha dato luogo a un numero equivalente di monumenti al "milite ignoto", e dopo di essa la celebrazione dell'armistizio (l'anniversario del 4 novembre 1918 in Italia e dell'11 novembre 1918 in Gran Bretagna e Francia) perse lentamente la solennità che circondava questa commemorazione negli anni tra le due guerre. Forse 10 milioni di morti impressionarono coloro che non si aspettavano una simile ecatombe più brutalmente di quanto milioni di vittime abbiano colpito gli animi di chi aveva già sperimentato una volta il massacro della guerra.

 

Certamente sia il grande sforzo bellico sia la determinazione da ambo le parti di spingere la guerra fino in fondo e di vincerla a qualunque costo lasciarono il segno. Senza di ciò, non si comprende la crescente brutalità e disumanità del nostro secolo. Purtroppo non si possono nutrire seri dubbi circa la crescita della barbarie dopo il 1914. All'inizio del Novecento la pratica della tortura era ufficialmente cessata nell'Europa occidentale. Dal 1945 ci siamo di nuovo abituati, senza troppa ,ripugnanza, al suo impiego in almeno un terzo degli stati membri delle Nazioni Unite, compresi alcuni dei più antichi e civilizzati (Peters, 1985). L'accrescersi delle brutalità non si dovette tanto allo scatenamento del potenziale di crudeltà e di violenza latente nell'essere umano, che la guerra naturalmente legittima,'sebbene questa componente affiorasse dopo la prima guerra mondiale tra un certo genere di veterani ex combattenti che militarono nelle squadre di picchiatori e di assassini e nei corpi paramilitari dell'ultradestra nazionalista: perché mai uomini che avevano ucciso e avevano visto i loro amici uccisi e mutilati avrebbero dovuto esitare a uccidere e a brutalizzare i nemici della giusta causa?

 

Una ragione rilevante della crescita della barbarie fu piuttosto l'inedita democratizzazione della guerra. 1 conflitti generali si trasformarono in "guerre di popolo" sia perché i civili e la vita civile diventarono gli obiettivi diretti e talvolta principali della strategia militare, sia perché nelle guerre democratiche, così come nella politica democratica, gli avversari sono naturalmente,demonizzati allo scopo di renderli odiosi o almeno disprezzabili. Le guerre condotte in entrambi gli schieramenti da professionisti o da specialisti, soprattutto se costoro appartengono la strati sociali affini, non escludono il reciproco rispetto e l'accettazione di regole perfino cavalleresche. La violenza ha le sue regole. Questa condotta era ancora evidente tra i piloti da combattimento in entrambe le guerre mondiali, come attesta il film pacifista di Jean Renoir sulla prima guerra mondiale, La grande illusione. I professionisti della politica e della diplomazia, quando non vengono intralciati dalle esigenze della stampa e dalle necessità elettorali, possono dichiarare la guerra o negoziare la pace senza malanimo verso la controparte, con l'attitudine di pugili che si stringono la mano prima di scendere sul ring e che vanno a bere insieme dopo il combattimento. Ma le guerre totali del nostro secolo furono molto lontane dagli schemi della politica bismarckiana o di quella settecentesca. Nessuna guerra in cui si fa appello A sentimenti nazionali di massa può avere carattere limitato come lo avevano le guerre aristocratiche. Bisogna poi dire che nella seconda guerra mondiale la natura del regime hitleriano e il comportamento dei tedeschi (compreso l'esercito che non era nazista) nell'Europa orientale furono tali da giustificare in buona parte la loro demonizzazione.

 

Un'altra ragione fu la nuova conduzione impersonale della guerra, in base alla quale uccidere e ferire diventavano conseguenze remote del premere un pulsante o del muovere una leva. La tecnologia rendeva invisibili le sue vittime, mentre ciò non accadeva quando si sventravano i nemici con la baionetta o li si inquadrava nel mirino del fucile. Di fronte ai cannoni in postazione sul fronte occidentale non c'erano uomini, ma cifre statistiche, cifre puramente ipotetiche, come dimostrò il conteggio delle vittime nemiche durante la guerra del Vietnam. Laggiù, al suolo sotto i bombardieri, non c'erano persone che stavano per essere bruciate o maciullate, ma obiettivi. Giovanotti gentili, ai quali non sarebbe certamente piaciuto affondare la baionetta nel ventre di una giovane donna incinta di qualche villaggio, potevano assai più facilmente sganciare tonnellate di esplosivo su Londra o su Berlino, o bombe atomiche su Nagasaki e Hiroshima. Coscienziosi burocrati tedeschi che avrebbero certo trovato ripugnante condurre in prima persona al mattatoio gli ebrei affamati, potevano studiare con un senso assai tenue del proprio coinvolgimento personale gli orari ferroviari che regolavano l'afflusso costante dei treni della morte ai campi di sterminio polacchi. Le più grandi crudeltà del nostro secolo sono state le crudeltà impersonali delle decisioni prese da lontano, nella routine del sistema operativo, soprattutto quando potevano essere giustificate come necessità operative sia pure incresciose.

 

È cosi che il mondo si abituò all'espulsione di interi popoli dai loro territori e all'uccisione su vasta scala, fenomeni così poco consueti in passato che dovettero essere coniate nuove parole per significarli: "apolide" o "genocidio". La prima guerra mondiale portò all'uccisione di un numero imprecisato di armeni da parte dei turchi - la cifra più ricorrente è di un milione e mezzo -, un fatto che può essere considerato ,il primo tentativo moderno di eliminare un'intera popolazione. A questo episodio succedette molti anni dopo l'assai più nota strage nazista di circa cinque milioni di ebrei (il numero è controverso) (Hilberg, 1985) La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa costrinsero milioni di persone a spostarsi come profughi e lo stesso effetto si ebbe a seguito degli "scambi di popolazione" tra gli stati. Un totale di 1,3 - milioni di greci vennero rimpatriati in Grecia per lo più dalla Turchia; 450.609 turchi furono spostati nel loro stato che li reclamava; 200.000 bulgari sì spostarono nel territorio ridotto della nazione che portava il loro nome; un milione e mezzo o forse due milioni di russi, fuggiti a seguito della rivoluzione o della guerra civile dopo la sconfitta dei bianchi, si trovarono senza casa. Fu soprattutto per costoro, più che per i 320.000 armeni che cercarono di sfuggire al genocidio, che venne inventato un nuovo documento il quale, in un mondo sempre più burocratizzato, doveva servire per coloro che non avevano esistenza legale in alcun paese: il cosiddetto passaporto Nansen della Società delle Nazioni, così chiamato dal nome del grande esploratore artico norvegese che si costruì una seconda carriera come amico dei senza amici. A una stima approssimativa negli anni tra il 1914 e il 1922 si ebbero dai quattro ai cinque milioni di profughi.

 

Questa prima ondata di relitti umani fu di assai poco conto rispetto a quella che seguì la seconda guerra mondiale, dove i profughi vennero trattati spietatamente. t stato calcolato che nel maggio 1945 c'erano forse in Europa 40,5 milioni di persone sradicate dalla propria terra natale, esclusi i lavoratori non tedeschi impiegati in Germania e i tedeschi che fuggivano dinanzi all'avanzare dell'Armata rossa (Kulischer, 1948, pp. 253-273). Circa tredici milioni di tedeschi furono espulsi dalle regioni della Germania annesse dalla Polonia e dall'URSS, dalla Cecoslovacchia e dalle zone dell'Europa sudorientale dove essi si erano sistemati da tempo (Holborn, p. 363). Essi furono accolti dalla nuova Repubblica Federale di Germania, che offri una patria e una cittadinanza a tutti i tedeschi che vi rientravano, così come il nuovo stato di Israele offrì un "diritto di ritorno" a ogni ebreo. Solo in un'epoca come la nostra, in cui sono possibili i voli di massa, offerte simili da parte degli stati potevano venire seriamente formulate. Degli 11.322.700 "deportati" di varie nazionalità trovati in Germania nel 1945 dagli eserciti vittoriosi, dieci milioni tornarono subito in patria, ma una metà di questi vi fu costretta contro la propria volontà (Jacob Meyer, 1986).

 

Questi furono soltanto i profughi dell'Europa. La decolonizzazione dell'India nel 1947 ne creò quindici milioni, costretti ad attraversare le nuove frontiere fra l'India e il Pakistan (in entrambe le direzioni), senza contare i due milioni uccisi nella guerra civile che seguì. La guerra di Corea, un altro derivato della seconda guerra mondiale, produsse forse cinque milioni di profughi coreani. Dopo la costituzione dello stato di Israele, altra conseguenza della guerra, circa 1,3 milioni di palestinesi furono presi in carico dall'UNWRA (United Nations Relief and Work Agency), l'agenzia delle Nazioni Unite per gli aiuti e l'occupazione; di contro, all'inizio degli anni '60 gli ebrei emigrati in Israele, per lo più come profughi da altri paesi, ammontavano a un milione e duecentomila. In breve, la catastrofe umana complessiva scatenata dalla seconda guerra mondiale è quasi certamente la più grande mai avvenuta nella storia. Uno dei suoi aspetti più tragici è che l'umanità ha imparato a vivere in un mondo in cui lo sterminio, la tortura e l'esilio di massa sono diventati esperienze quotidiane di cui non ci accorgiamo più.

 

Guardando indietro ai trentun anni che vanno dall'assassinio dell'arciduca d'Austria a Sarajevo fino alla resa incondizionata del Giappone, si deve considerarli come un'epoca di strage rovinosa, paragonabile alla Guerra dei Trent'anni nella storia tedesca del Seicento. E Sarajevo - la prima Sarajevo - segnò indubbiamente l'inizio di un'epoca di catastrofe e di crisi nella situazione internazionale che è oggetto di questo e dei prossimi quattro capitoli. Nondimeno, nella memoria delle generazioni vissute dopo il 1945, la "Guerra dei Trentuno anni" non ha lasciato dietro di sé lo stesso tipo di ricordo funesto prodotto dal precedente seicentesco, che fu assai più localizzato.

 

Questo si deve in parte al fatto che quegli anni costituiscono un'epoca di guerra solo nella prospettiva dello storico. Coloro che vissero in quel tempo lo percepirono come una sequenza di due guerre distinte ma connesse, intervallate da un periodo privo di aperte ostilità, esteso dai tredici anni per il Giappone (la cui seconda guerra cominciò in Manciuria nel 1931) fino ai ventitré anni per gli USA (che non entrarono nella seconda guerra mondiale fino al dicembre 1941). Comunque, questa percezione di due guerre distinte non è solo dovuta all'intervallo trascorso tra di esse, quanto anche al fatto che ciascuna ebbe un carattere e un profilo storico suoi propri. Entrambe furono carneficine senza eguali e si lasciarono dietro le immagini degli incubi tecnologici che ossessionarono i giorni e le notti delle generazioni successive: i gas venefici e i bombardamenti aerei dopo il 1918, il fungo atomico dopo il 1945. Entrambe si conclusero con il crollo della civiltà e - come vedremo nel prossimo capitolo - con la rivoluzione sociale in larghe regioni dell'Europa e dell'Asia. Entrambe lasciarono le nazioni belligeranti prostrate e indebolite, a eccezione degli USA, che uscirono dalle due guerre senza aver subito danni, con una maggiore ricchezza e con il ruolo di signori economici del mondo. E tuttavia quali impressionanti differenze tra i due conflitti! La prima guerra mondiale non risolse nulla. Le speranze che essa generò - di un mondo pacifico e democratico di stati nazionali sotto l'egida della Società delle Nazioni; di un ritorno all'economia mondiale del 1913; perfino, fra coloro che salutarono la Rivoluzione russa, del rovesciamento mondiale del capitalismo entro pochi anni o pochi mesi grazie alla sollevazione degli oppressi - furono subito deluse. Il passato era irrevocabile, il futuro era rimandato, il presente era amaro, se si eccettuano alcuni momenti fuggevoli a metà degli anni '20. La seconda guerra mondiale produsse effettivamente delle soluzioni, almeno per alcuni decenni. I drammatici problemi sociali ed economici che avevano afflitto il capitalismo nell'Età della catastrofe parvero scomparire. L'economia del mondo occidentale entrò nell'Età dell'oro; le democrazie politiche occidentali, sostenute da uno straordinario miglioramento delle condizioni materiali di vita, rimasero stabili; la guerra venne confinata alle aree del Terzo ,mondo. D'altro canto perfino la rivoluzione sembrò aver trovato una via per avanzare. I vecchi imperi coloniali svanirono o furono destinati a dissolversi entro breve tempo. Un blocco di stati comunisti, riuniti attorno all'Unione Sovietica, trasformatasi in una superpotenza, sembrò pronto a entrare in competizione con l'Occidente nella corsa al benessere economico. Quest'impressione si dimostrò illusoria, ma cominciò a svanire solo negli anni '60. Come ora possiamo comprendere, anche lo scenario internazionale godette di una notevole stabilità, che all'epoca non appariva evidente. Diversamente da quanto accadde dopo .ja Grande Guerra, gli ex nemici (Germania e Giappone) furono reinseriti nell'economia mondiale occidentale e i nuovi nemici (gli USA e l'URSS) non giunsero mai allo scontro diretto. Perfino le rivoluzioni che avvennero alla fine di entrambe le guerre furono diverse. Quelle seguite alla prima guerra mondiale erano, come vedremo, radicate in un sentimento di ripulsa contro l'esperienza della guerra, percepita dalla maggioranza della popolazione come una inutile strage. Erano dunque rivoluzioni contro la guerra. Le rivoluzioni succedute alla seconda guerra mondiale derivarono dalla partecipazione dei popoli alla battaglia mondiale contro i nemici - contro la Germania e il Giappone, e, più in generale, contro l'imperialismo -, una battaglia che, sebbene ' terribile, era sentita come giusta da quanti vi avevano partecipato. E tuttavia, come le due guerre mondiali, le due diverse rivoluzioni postbelliche possono essere viste nella prospettiva dello storico come un singolo processo. A questo argomento ci volgeremo adesso.

 

(Eric Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995)