Leopardi, Ultimo canto di Saffo

Canzone sull’infelicità umana e protesta contro la Natura che ha privato Saffo della bellezza: questa è una chiave di lettura conforme a una interpretazione di Leopardi tutta tesa a sottolineare il conflitto impari fra uomo e Natura. Anche in questi versi, però, si può cogliere un amore profondo per tutto quanto circonda il poeta, che qui si identifica con la poetessa greca Saffo giunta al termine della vita.

All’inizio è descritta la bellezza commovente dell’alba, di cui si può godere – come degli altri mirabili spettacoli della Natura – fintanto che non si prende coscienza della nostra condizione miserevole di mortali. Ma anche in preda “ai disperati affetti”, alla disperazione, l’uomo può provare piacere (“insueto gaudio”) in una sorta di comunione con la Natura, quando essa si presenta sconvolta, agitata, distruttrice. Il rapporto dell’uomo con la Natura non dipende soltanto dalla coscienza o meno del nostro essere al mondo per la morte; anche la Natura, come l’uomo, non si presenta sempre nello stesso modo e offre quindi, in ogni caso, la possibilità di un rapporto di sintonia e di armonia. Infatti, dopo la descrizione di una Natura furiosa e dopo una pausa, i vv. l9-20 ripropongono in maniera lapidaria una certezza: “Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella / sei tu, rorida terra”.

A questo punto il poeta si pone di fronte a una frattura terribile: la bellezza della natura è infinita, a me dell’infinita bellezza non è toccato nulla. È la frustrazione assoluta dell’uomo che aspira all’infinito e scopre di essere destinato al Nulla.

È vano cercare il perché di ciò: “Arcano è tutto, / fuor che il nostro dolor”. Ma progressivamente una spiegazione prende corpo (vv. 50-54): fra gli uomini regnano le “sembianze”, cioè la bellezza come aspetto esteriore; in chi ne è privo non è apprezzata nessuna virtú, né la sapienza, né la poesia. Questa è la sorte che Zeus (il Padre) ha dato agli uomini.

Dopo una nuova pausa, il v. 55 è lapidario come il l9: “Morremo”. Il corpo si dissolverà, sia esso stato “ammanto disadorno” o “amene sembianze”; ma l’amore sopravviverà nell’amato, e – se è possibile la felicità in terra (Leopardi, anche in un momento cosí drammatico, non lo esclude in maniera categorica, anzi sembra ammetterlo e comunque desiderarlo e sperarlo) – l’amato vivrà felice. La “dotta lira” e “il canto” possono avere la meglio sul Nulla.

 

G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo (l822)

 

1             Placida notte, e verecondo raggio

2             della cadente luna; e tu che spunti

3             fra la tacita selva in su la rupe,

4             nunzio del giorno; oh dilettose e care

5             mentre ignote mi fur l’erinni e il fato,

6             sembianze agli occhi miei; già non arride

7             spettacol molle ai disperati affetti.

8             Noi l’insueto allor gaudio ravviva

9             quando per l’etra liquido si volve

10           e per li campi trepidanti il flutto

11           polveroso de’ Noti, e quando il carro,

12           grave carro di Giove a noi sul capo,

13           tonando, il tenebroso aere divide.

14           Noi per le balze e le profonde valli

15           natar giova tra’ nembi, e noi la vasta

16           fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto

17           fiume alla dubbia sponda

18           il suono e la vittrice ira dell’onda.

               

19           Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella

 20          sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta

21           infinita beltà parte nessuna

22           alla misera Saffo i numi e l’empia

23           sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni

24           vile, o natura, e grave ospite addetta,

25           e dispregiata amante, alle vezzose

26           tue forme il core e le pupille invano

27           supplichevole intendo. A me non ride

28           l’aprico margo, e dall’eterea porta

29           il mattutino albor; me non il canto

30           de’ colorati augelli, e non de’ faggi

31           il murmure saluta: e dove all’ombra

32           degl’inchinati salici dispiega

33           candido rivo il puro seno, al mio

34           lubrico piè le flessuose linfe

35           disdegnando sottragge,

36           e preme in fuga l’odorate spiagge.

               

37           Qual fallo mai, qual sí nefando eccesso

38           macchiommi anzi il natale, onde sí torvo

39           il ciel mi fosse e di fortuna il volto?

40           in che peccai bambina, allor che ignara

41           di misfatto è la vita, onde poi scemo

42           di giovanezza, e disfiorato, al fuso

43           dell’indomita Parca si volvesse

44           il ferrigno mio stame? Incaute voci

45           spande il tuo labbro: i destinati eventi

46           move arcano consiglio. Arcano è tutto,

47           fuor che il nostro dolor. Negletta prole

48           nascemmo al pianto, e la ragione in grembo

49           de’ celesti si posa. Oh cure, oh speme

50           de’ piú verd’anni! Alle sembianze il Padre,

51           alle amene sembianze eterno regno

52           diè nelle genti; e per virili imprese,

53           per dotta lira o canto,

54           virtú non luce in disadorno ammanto.

               

55           Morremo. Il velo indegno a terra sparto,

56           rifuggirà l’ignudo animo a Dite,

57           e il crudo fallo emenderà del cieco

58           dispensator de’ casi. E tu cui lungo

59           amore indarno, e lunga fede, e vano

60           d’implacato desio furor mi strinse,

61           vivi felice, se felice in terra

62           visse nato mortal. Me non asperse

63           del soave licor del doglio avaro

64           Giove, poi che perír gl’inganni e il sogno

65           della mia fanciullezza. Ogni piú lieto

66           giorno di nostra età primo s’invola.

67           Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra

68           della gelida morte. Ecco di tante

69           sperate palme e dilettosi errori,

70           il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno

71           han la tenaria Diva,

72           e l’atra notte, e la silente riva.

 

(G. Leopardi, Canti, Newton Compton, Roma, l996, pagg. 67-73)