Neisser, La psicologia cognitivista

Ulric Neisser nel primo capitolo del suo libro Conoscenza e realtà (1976) – che rappresenta una svolta nel movimento cognitivista – ripercorre la storia della psicologia americana fino al rinnovamento costituito dalla nascita del cognitivismo. Dopo che, a partire dagli anni Trenta, era stata abbandonata la psicologia “introspezionista” (che studiava i processi mentali attraverso ciò che riferivano i soggetti su quel che avveniva nella propria mente cosciente), si sono affermati negli Stati Uniti la psicoanalisi e il comportamentismo per la loro possibilità di essere applicabili alla vita di tutti i giorni, e capaci di interpretare le cause del comportamento e l’esperienza reale dell’uomo. Questi due tipi di approccio hanno prevalso fino agli anni Sessanta, determinando fino ad allora il disinteresse nei confronti dell’indagine dei processi cognitivi, studiati solo dal ristretto gruppo degli psicologi della Gestalt. Dagli anni Sessanta in poi i processi cognitivi sono tornati ad essere al centro dell’interesse degli psicologi e si è sviluppato un nuovo campo di studi (la psicologia cognitivista) che ha determinato nuove ricerche sperimentali. In questo ambito sono stati riscoperti, negli Stati Uniti, anche gli studi di Jean Piaget. A determinare questa svolta è stato l’avvento del calcolatore, che ha offerto un modello per lo studio e per l’interpretazione dei processi cognitivi. Ulric Neisser – a dieci anni di distanza dalla pubblicazione del suo primo libro (Psicologia cognitivista, 1967) che rappresentò la definizione teorica del cognitivismo – giudica ora in modo critico la impostazione data dai cognitivisti alle loro ricerche sperimentali e basata sul modello del calcolatore: quelle ricerche infatti sono troppo ristrette e specialistiche, limitate a situazioni artificiali di laboratorio troppo lontane dal mondo reale e dalle situazioni in cui l’attività cognitiva si manifesta concretamente. Neisser propone qui un approccio “ecologico” all’indagine sull’attività cognitiva e suggerisce di porre attenzione alla diretta interazione fra la mente e il contesto naturale in cui essa opera.

 

U. Neisser, Conoscenza e realtà, I

 

L’attività cognitiva è l’attività del conoscere: l’acquisizione, l’organizzazione e l’uso della conoscenza. È una cosa che viene compiuta dagli organismi viventi, e in particolare è una cosa che viene compiuta dagli esseri umani. Per questa ragione lo studio dei processi cognitivi fa parte della psicologia, e le teorie cognitive sono teorie psicologiche.

Un tempo questa relazione appariva cosí ovvia che non richiedeva commenti. Allorché, un centinaio di anni fa, la psicologia emerse come disciplina indipendente, essa si dedicò in prevalenza a problemi quali la sensazione, la percezione, l’associazione, l’immaginazione e l’attenzione. Lo scopo principale della scienza psicologica era l’analisi dei “processi mentali”, che normalmente significano processi cognitivi. Purtroppo, il metodo principale impiegato per siffatta analisi consisteva di una forma speciale di introspezione, in cui osservatori altamente addestrati riferivano circa l’attività della propria mente cosciente. A lungo andare, questo metodo si è rivelato insoddisfacente. A partire dagli anni ’30, esso ha perso definitivamente credito, l'introspezione è stata abbandonata (per lo meno in America) e il lavoro psicologico ha cominciato a concentrarsi sulla motivazione l’emozione e l’azione.

I testi di storia della psicologia sono soliti attribuire l’abbandono di questo primo approccio all’inadeguatezza della sua procedura base. L’introspezione è uno strumento infido che produce risultati suscettibili di venire distorti dall’atto stesso dell’osservazione. Osservatori diversi possono offrire spiegazioni introspettive divergenti dello “stesso” processo e non c’è modo di comporre questo disaccordo. La cosa è perfettamente vera, niente da dire, tuttavia c’è un’altra ragione che merita di essere presa in considerazione. Siccome la psicologia riguarda gli esseri umani, essa non può evitare la responsabilità di trattare delle questioni fondamentali circa la natura umana. In generale, il suo pubblico già possiede particolari opinioni su tali problemi: ogni epoca ha le sue concezioni – gli uomini sono liberi o determinati, razionali o irrazionali, possono scoprire la verità oppure sono condannati all’illusione. Prima o poi, la psicologia deve affrontare tali temi o verrà meno al suo scopo. Una teoria psicologica che vada al fondo dei problemi può modificare le convinzioni di un’intera società, come ha indubbiamente fatto, ad esempio, la psicoanalisi. Questo può avvenire, però, solo se la teoria ha qualcosa da dire su ciò che la gente fa in situazioni reali e culturalmente significative. Ciò che dice non dev’essere banale, e deve fornire spiegazioni ragionevoli a coloro che partecipano a queste stesse situazioni. Se una teoria manca di tali qualità – se non possiede ciò che oggi come oggi viene definito “validità ecologica” – prima o poi verrà abbandonata.

È proprio in questo senso che appare inadeguata la concezione di natura umana espressa dagli psicologi introspezionisti classici. Restrittiva, eccessivamente razionale, applicabile solo a situazioni di laboratorio, mancava quasi completamente di chiarezza esplicativa circa il modo in cui gli esseri umani interagiscono col mondo circostante: gli uomini diventano ciò che sono crescendo in una particolare cultura e in un particolare ambiente, ma gli introspezionisti non svilupparono alcuna teoria dello sviluppo cognitivo; gli uomini sono mossi da motivazioni che non conoscono e sono formati da esperienze che non sanno ricordare, ma non v’era alcuna teoria dei processi inconsci; gli uomini agiscono in base a ciò che sanno e vengono modificati dalle conseguenze delle loro azioni, ma non v’era alcuna seria teoria del comportamento. Perfino la percezione e la memoria erano interpretate secondo criteri che avevano ben pochi contatti con l’esperienza quotidiana. In breve, la psicologia introspezionista lasciava fuori praticamente tutto ciò che la gente normale considerava importante. Non dobbiamo sorprenderci, pertanto, che sia stata abbandonata per lasciare spazio a idee piú promettenti.

Degli approcci emersi dopo, due sono ancora particolarmente attuali: la psicanalisi e il comportamentismo. Essi si sono applicati con successo proprio là dove la psicologia introspezionista aveva fallito. E questo non solo perché hanno offerto intuizioni valide sulla natura umana – per quanto né l’una né l’altro sarebbero sopravvissuti senza un pizzico di verità – ma perché essi sono, o pretendono di essere, applicabili alla vita di tutti i giorni: teoria e applicazione si arricchiscono a vicenda. Una scoperta clinica o sperimentale getta nuova luce su certe classi di eventi del mondo quotidiano, e le osservazioni fatte in tale mondo suggeriscono nuove ipotesi. Senza dubbio, fin dall’inizio questi due approcci sono caratterizzati dagli sforzi diretti verso la “rilevanza”. I fondatori delle due scuole, Freud e Watson, erano profondamente coscienti che il loro lavoro aveva implicazioni che si protendevano ben oltre lo studio medico e il laboratorio sperimentale. Entrambi si accinsero deliberatamente a cambiare la concezione della natura umana prevalente ai loro tempi. Freud si sforzò di convincere il mondo che le pressioni esercitate dalla libido costituivano la fonte suprema delle motivazioni umane e che l’attività cosciente occupava solo la parte piú piccola e debole della mente. Il suo successo fu decisamente notevole, come possono testimoniare quasi tutte le istituzioni culturali, dalle gallerie d’arte ai tribunali.

Watson e il suo successore Skinner ritenevano che gli uomini fossero pressoché infinitamente malleabili, e che le conseguenze del comportamento umano fossero d’importanza cruciale, importanza non attribuita invece all’attività mentale che accompagna il comportamento stesso. Tali ipotesi appaiono oggi ampiamente accettate, come si può giudicare dal crescente impiego, in numerosi contesti, della modificazione del comportamento e della terapia comportamentale, nonché dal crescente timore che la scienza comportamentale possa quanto prima essere usata per manipolare la gente su vasta scala.

Un purista può sostenere che la reazione del pubblico in generale sia del tutto irrilevante per la psicologia scientifica. Io ritengo che abbia torto. L’interesse del pubblico non costituisce di per sé un’indicazione della validità di una teoria, tuttavia fa capire se la teoria può dire qualcosa d’importante. Una psicologia che non sia in grado di interpretare l’esperienza ordinaria si trova ad ignorare pressoché l’intero ambito della sua materia naturale d’indagine. Essa può sperare di emergere un bel giorno dal laboratorio con un nuovo sistema di idee importantissime, ma la cosa è decisamente improbabile se non si tratta di un lavoro già impostato su principi di prevedibile applicabilità nell’ambito delle situazioni naturali.

A partire dalla prima guerra mondiale fino ai primi anni ’60, il comportamentismo e la psicoanalisi (o le discipline che ne sono derivate) hanno a tal punto dominato la psicologia in America che i processi cognitivi sono stati quasi completamente ignorati. Non erano molti gli psicologi interessati al problema di come venga acquisita la conoscenza. La percezione, che è l’atto cognitivo piú importante, venne studiata principalmente da un ristretto gruppo di scienziati seguaci della tradizione della Gestalt e da pochi altri psicologi che lavoravano sulla misurazione e la fisiologia dei processi sensoriali. Piaget e collaboratori studiarono lo sviluppo cognitivo, ma il loro contributo ricevette scarsi riconoscimenti. Non c’era alcun lavoro sull’attenzione. Le ricerche sulla memoria non vennero mai del tutto abbandonate, ma si occupavano soprattutto dell’apprendimento di “sillabe senza senso”, nell’ambito di procedimenti di laboratorio rigorosamente definiti e con scarsa possibilità di generalizzazione. Ne risultò cosí che l’immagine pubblica della psicologia era quella di una scienza che studiava principalmente il sesso, l’adattamento, e il controllo comportamentale.

In questi ultimi anni tale situazione ha subito cambiamenti radicali. I processi mentali sono tornati ad essere un vivace centro d’interesse. Ha cominciato a svilupparsi un nuovo campo di studi definito psicologia cognitivista, che tratta temi quali percezione, memoria attenzione, riconoscimento di pattern, soluzione di problemi, psicologia del linguaggio, sviluppo cognitivo, e una miriade di altri argomenti lasciati a sonnecchiare per mezzo secolo. Le riviste tecniche, che un tempo privilegiavano gli articoli sul comportamento animale, attualmente straripano di relazioni su esperimenti cognitivi, e nascono continuamente nuove riviste: “Cognitive Psychology”, “Cognition”, “Memory and Cognition”, “Perception and Psychophysics”. Si ottengono con una certa facilità finanziamenti e borse di studio nel campo delle ricerche cognitive, e si può dire che tutte le università piú importanti sono dotate di un laboratorio cognitivo. Il lavoro di Piaget è stato riscoperto e osannato.

Numerose sono state le ragioni di questa evoluzione ma la piú importante era probabilmente connessa con l’avvento del calcolatore e questo non tanto perché i calcolatori consentissero piú agevoli sperimentazioni o analisi dei dati, cosa che peraltro facevano, quanto perché le attività stesse del calcolatore sembravano in qualche maniera affini ai processi cognitivi. I calcolatori accettano le informazioni, manipolano i simboli, immagazzinano i dati nella “memoria” e li recuperano quando occorre, classificano gli input, riconoscono i pattern, e cosí via. Non era tanto importante che facessero queste operazioni proprio come fanno gli uomini, ma era importante che le facessero. L’avvento del calcolatore ha fornito la sicurezza, quanto mai necessaria, che i processi cognitivi fossero reali e che questi processi potessero essere studiati e forse compresi. Ha fornito inoltre un nuovo vocabolario e un nuovo sistema di concetti che trattano dell’attività cognitiva; termini quali informazione, input, elaborazione, codificazione e subroutine sono ben presto diventati patrimonio comune. Alcuni hanno addirittura dichiarato che tutte le teorie psicologiche andrebbero esplicitamente trascritte nella forma dei programmi per calcolatore. Altri, invece, hanno preso le distanze, e continuano tuttora a dissentire, ma nessuno può mettere in dubbio l’importanza della metafora offerta dal calcolatore nell’ambito della psicologia contemporanea.

Man mano che andava sviluppandosi il concetto di elaborazione dell’informazione, divenne scopo supremo del nuovo campo di studi il tentativo di seguire il flusso di informazioni nell’ambito del “sistema” (ad esempio, la mente). (Io stesso ho esplicitamente dichiarato questo scopo, in un libro intitolato Psicologia cognitivista) . Il rapido sviluppo di nuove e numerose tecniche sperimentali, escogitate da Broadbent, Sperling, Sternberg e altri, ha creato un entusiasmante senso di progresso. Queste tecniche erano solo l’inizio: c’è stato un vero e proprio diluvio di nuovi procedimenti, che si basano quasi tutti sulla precisa distribuzione temporale di stimoli e risposte, senza dover piú ricorrere all’introspezione. La proliferazione di questi metodi ingegnosi e scientificamente di tutto rispetto apparve in un primo tempo (e per molti studiosi è ancora cosí) come un segno che la nuova psicologia cognitivista sarebbe riuscita ad evitare le trappole in cui era caduta la vecchia psicologia.

Un siffatto ottimismo può essere considerato prematuro. Lo studio dell’elaborazione d’informazioni è certamente dotato di impulso e di prestigio, ma non si è ancora impegnato a formulare concezioni della natura umana tali da applicarsi oltre i confini del laboratorio, e all’interno del laboratorio stesso i suoi assunti base vanno poco oltre il modello per calcolatore cui deve la propria esistenza. Non viene ancora fornita alcuna spiegazione di come gli uomini agiscono o interagiscono col mondo quotidiano. In verità, gli assunti che si collocano alla base della maggior parte degli studi contemporanei sull’elaborazione di informazioni sono sorprendentemente simili a quelli della psicologia introspezionista del XIX secolo, sia pure senza l’introspezione stessa.

Se la psicologia cognitivista si dedica con troppa intensità a tale modello, si può trovare in futuro di fronte a svariati problemi. Priva di validità ecologica, indifferente alla cultura, addirittura carente a livello delle principali caratteristiche della percezione e della memoria cosí come si verificano nella vita quotidiana, una tale psicologia è destinata a diventare un campo ristretto e specializzato di scarso interesse. Già adesso ci sono indicazioni che cosí può avvenire. La proliferazione di tecniche nuove non offre piú grossi incoraggiamenti anzi, comincia a diventare opprimente. In un suo recente articolo, Allan Newell effettua tabulazioni di qualcosa come 59 paradigmi sperimentali attualmente adottati. Egli si chiede esplicitamente fino a che punto un’altra generazione di tale lavoro, e lo sviluppo di nuove tecniche, possano arricchire le nostre conoscenze. Cinquantasette dei paradigmi elencati da Newell si basano su situazioni artificiali di laboratorio: le uniche dotate di un minimo di validità ecologica riguardano il gioco degli scacchi e l’osservazione della luna.

Ritengo che questa tendenza si possa rovesciare solo se lo studio dei processi cognitivi assume una direzione piú “realistica”, nel senso piú ampio del termine. In primo luogo, gli psicologi cognitivisti devono compiere sforzi maggiori per comprendere l’attività cognitiva che si manifesta nell’ambiente ordinario e nel contesto di attività concrete. Questo non significa porre un termine agli esperimenti di laboratorio, bensí è un impegno a studiare le variabili ecologicamente importanti, anziché quelle facilmente manipolabili. In secondo luogo, sarà necessario dedicare maggiore attenzione ai particolari del mondo reale in cui vivono coloro che percepiscono e coloro che pensano, e alla delicata struttura di informazioni resa loro disponibile da quello stesso mondo. Forse abbiamo profuso troppi sforzi a elaborare modelli ipotetici della mente, e non abbastanza all’analisi dell'ambiente che la mente, per la sua formazione, è predisposta ad incontrare. In terzo luogo, la psicologia deve tener conto della sofisticazione e della complessità delle abilità cognitive che gli uomini sono realmente capaci di acquisire, e del fatto che tali abilità subiscono uno sviluppo sistematico. È difficile formulare una teoria soddisfacente dell’attività cognitiva umana, se ci si deve basare solo su esperimenti che forniscono a soggetti privi di esperienza brevi opportunità di eseguire compiti nuovi e privi di significato. Infine, gli psicologi cognitivisti devono esaminare le implicazioni del loro lavoro relativamente a problemi piú fondamentali: la natura umana è troppo importante per lasciarla ai comportamentisti e agli psicoanalisti.

Scopo di questo libro è dimostrare che una tale impresa è possibile. In verità, ci si sta già avviando in questa direzione e l’impresa in questione già si può basare su molte fiorenti linee di ricerca. Gli studi sullo sviluppo cognitivo effettuati da Piaget e da T.G.R. Bower, il lavoro in campo percettivo compiuto da James J. ed Eleanor J. Gibson, il rinnovato interesse per le mappe cognitive naturali, lo spostamento verso le teorie semantiche del linguaggio e verso l’osservazione naturalistica dell’acquisizione del linguaggio – questi e molti altri sviluppi vanno visti come contributi ad una psicologia cognitivista rilevante. Nelle argomentazioni che svilupperò nel corso della mia trattazione mi baserò fondamentalmente su tali indirizzi, mentre nei punti dove non sono ancora disponibili questi agganci di sostegno, le lacune verranno colmate con speculazioni ed ipotesi personali. Anche se talune di queste mie speculazioni risulteranno errate, potranno comunque incoraggiare altri studiosi a fornire ipotesi che siano adeguate.

 

U. Neisser, Conoscenza e realtà, Il Mulino, Bologna, 1981, pagg. 25-32