Nel dialogo Teeteto, Platone presenta un altro
aspetto originale e giustamente famoso del pensiero di Socrate: il compito del
filosofo non sarebbe quello di insegnare, ma quello di applicare la maieutica,
l’arte dell’ostetrica, per aiutare colui che ascolta a “partorire” la Verità
che già possiede dentro di sé.
Platone, Teeteto, 149 a-151 d
1 [149 a] Socrate – Oh, mio
piacevole amico! e tu non hai sentito dire che io sono figliuolo d’una molto
brava e vigorosa levatrice, di Fenàrete? Teeteto – Questo sí, l’ho
sentito dire. Socrate – E che io esercito la stessa arte l’hai sentito
dire? Teeteto – No, mai! Socrate – Sappi dunque che è cosí. Tu
però non andarlo a dire agli altri. Non lo sanno, caro amico, che io possiedo
quest’arte; e, non sapendolo, non dicono di me questo, bensí ch’io sono il piú
stravagante degli uomini e che non faccio che seminar dubbi. Anche questo [b]
l’avrai sentito dire, è vero? Teeteto – Sí. Socrate – E vuoi che
te ne dica la ragione? Teeteto – Volentieri. Socrate – Vedi di
intendere bene che cosa è questo mestiere della levatrice, e capirai piú
facilmente che cosa voglio dire. Tu sai che nessuna donna, finché sia ella in
stato di concepire e di generare, fa da levatrice alle altre donne; ma quelle
soltanto che generare non possono piú. Teeteto – Sta bene. Socrate
– La causa di ciò dicono sia stata Artèmide, che ebbe in sorte di presiedere ai
parti benché vergine [c]. Ella dunque a donne sterili non concedette di
fare da levatrici, essendo la natura umana troppo debole perché possa chiunque
acquistare un’arte di cui non abbia avuto esperienza; ma assegnò codesto
ufficio a quelle donne che per l’età loro non potevano piú generare, onorando
in tal modo la somiglianza che esse avevano con lei. Teeteto – Naturale.
Socrate – E non è anche naturale e anzi necessario che siano le
levatrici a riconoscere meglio d’ogni altro se una donna è incinta oppure no? Teeteto
– Certamente. Socrate – E non sono le levatrici che, somministrando
farmaci [d] e facendo incantesimi, possono svegliare i dolori o renderli
piú miti se vogliono; e facilitare il parto a quelle che stentano; e anche far
abortire, se credon di fare abortire, quando il feto è ancora immaturo? Teeteto
– È vero. Socrate – E non hai mai osservato di costoro anche questo, che
sono abilissime a combinar matrimoni, esperte come sono a conoscere quale uomo
e quale donna si hanno da congiungere insieme per generare i figliuoli
migliori? Teeteto – Non sapevo codesto. Socrate – E allora sappi
che di questa lor [e] arte esse menano piú vanto assai che del taglio
dell’ombelico. Pensa un poco: credi tu che sia la medesima arte o siano due
arti diverse il raccogliere con ogni cura i frutti della terra, e il
riconoscere in quale terra qual pianta vada piantata e qual seme seminato? Teeteto
– La medesima arte, credo. Socrate – E quanto alla donna, credi tu che
altra sia l’arte del seminare e altra quella del raccogliere? [150 a] Teeteto
– No, non mi pare. Socrate – Non è infatti. Se non che, a cagione di
quell’accoppiare, contro legge e contro natura, uomo con donna, a cui si dà
nome di ruffianesimo, le levatrici, che badano alla loro onorabilità, si
astengono anche dal combinar matrimoni onesti, per paura, facendo codesto, di
incorrere appunto in quell’accusa; mentre soltanto alle levatrici vere e
proprie si converrebbe, io credo, combinar matrimoni come si deve. Teeteto
– Mi pare. Socrate – Questo dunque è l’ufficio delle levatrici, ed è
grande; ma pur minore di quello che fo io. Difatti alle donne non [b]
accade di partorire ora fantasmi e ora esseri reali, e che ciò sia difficile a
distinguere: ché se codesto accadesse, grandissimo e bellissimo ufficio sarebbe
per le levatrici distinguere il vero e il non vero; non ti pare? Teeteto
– Sí, mi pare.
2 Socrate – Ora, la mia arte di
ostetrico, in tutto il rimanente rassomiglia a quella delle levatrici, ma ne
differisce in questo, che opera su gli uomini e non su le donne, e provvede
alle anime partorienti e non ai corpi. E la piú grande capacità sua è ch’io
riesco, per essa, a discernere [c] sicuramente se fantasma e menzogna
partorisce l’anima del giovane, oppure se cosa vitale e reale. Poiché questo ho
di comune con le levatrici, che anch’io sono sterile ... di sapienza; e il
biasimo che già tanti mi hanno fatto, che interrogo sí gli altri, ma non
manifesto mai io stesso su nessuna questione il mio pensiero, ignorante come
sono, è verissimo biasimo. E la ragione è appunto questa, che il dio mi
costringe a fare da ostetrico, ma mi vietò di generare. Io sono dunque, in me,
tutt’altro che sapiente, né [d] da me è venuta fuori alcuna sapiente
scoperta che sia generazione del mio animo; quelli invece che amano stare con
me, se pur da principio appariscano, alcuni di loro, del tutto ignoranti, tutti
quanti poi, seguitando a frequentare la mia compagnia, ne ricavano, purché il
dio glielo permetta, straordinario profitto: come veggono essi medesimi e gli
altri. Ed è chiaro che da me non hanno imparato nulla, bensí proprio e solo da
se stessi molte cose e belle hanno trovato e generato; ma d’averli aiutati a
generare, questo sí, il merito spetta al dio e a me. Ed eccone la prova. [e]
Molti che non conoscevano ciò, e ritenevano che il merito fosse tutto loro, e
me riguardavano con certo disprezzo, un giorno, piú presto che non bisognasse,
si allontanarono da me, o di loro propria volontà o perché istigati da altri;
e, una volta allontanatisi, non solo il restante tempo non fecero che abortire,
per mali accoppiamenti in cui capitarono, ma anche tutto ciò che con l’aiuto
mio avean potuto partorire, per difetto di allevamento lo guastarono, tenendo
in maggior conto menzogne e fantasmi che la verità; e finirono con l’apparire
ignorantissimi a se stessi ed altrui. [151 a] Di costoro uno fu
Aristíde, figlio di Lisímaco; e moltissimi altri. Ce n’è poi che tornano a
impetrare la mia compagnia e fanno per riaverla cose stranissime; e se con
alcuni di loro il dèmone che in me è sempre presente mi impedisce di
congiungermi, con altri invece lo permette, e quelli ne ricavano profitto
tuttavia. Ora, quelli che si congiungono meco, anche in questo patiscono le
stesse pene delle donne partorienti: ché hanno le doglie, e giorno e notte sono
pieni di inquietudine assai piú delle donne. E la mia arte ha il potere appunto
di suscitare e al tempo [b] stesso di calmare i loro dolori. Cosí è
dunque di costoro. Ce n’è poi altri, o Teeteto, che non mi sembrano gravidi; e
allora codesti, conoscendo che di me non hanno bisogno, mi do premura di
collocarli altrove; e, diciamo pure, con l’aiuto di dio, riesco assai facilmente
a trovare con chi possano congiungersi e trovar giovamento. E cosí molti ne
maritai a Pròdico, e molti ad altri sapienti e divini uomini. Ebbene, mio
eccellente amico, tutta questa storia io l’ho tirata in lungo proprio per
questo, perché ho il sospetto che tu, e lo pensi tu stesso, sia gravido e abbia
le doglie del parto. E dunque affidati a me, che sono figliolo [c] di
levatrice e ostetrico io stesso; e a quel che ti domando vedi di rispondere nel
miglior modo che sai. Che se poi, esaminando le tue risposte, io trovi che
alcuna di esse è fantasma e non verità, e te la strappo di dosso e te la butto
via, tu non sdegnarti meco come fanno per i lor figliuoli le donne di primo
parto. Già molti, amico mio, hanno verso di me questo malanimo, tanto che sono
pronti addirittura a mordermi se io cerco strappar loro di dosso qualche
scempiaggine; e non pensano che per benevolenza io faccio codesto, lontani come
sono dal sapere [d] che nessun dio è malevolo ad uomini; né in verità
per malevolenza io faccio mai cosa simile, ma solo perché accettare il falso
non mi reputo lecito, né oscurare la verità. [...]
(Platone, Opere, vol. I,
Laterza, Bari, 1967, pagg. 276-279)