Siamo di fronte ad una delle tesi piú famose di
tutta la storia della filosofia: quella della “docta ignorantia”, che Socrate espone in un momento drammatico della
sua vita, durante il processo che si concluderà con la sua condanna a morte.
L’equilibrio fra una grande fiducia nella ragione e la profonda consapevolezza
della propria ignoranza è uno dei doni piú preziosi che il filosofo Socrate ha
lasciato in eredità ai posteri, fino ai nostri giorni.
Platone, Apologia, 20 e-23 c
1 [20
e] [...] Della mia sapienza, se davvero è sapienza e di che natura, io
chiamerò a testimone davanti a voi il dio di Delfi. Avete conosciuto certo
Cherefonte. Egli fu mio [21 a] compagno fino dalla giovinezza, e amico
al vostro partito popolare; e con voi fu esule nell’ultimo esilio, e ritornò
con voi. E anche sapete che uomo era Cherefonte, e come risoluto a qualunque
cosa egli si accingesse. Or ecco che un giorno costui andò a Delfi; e osò fare
all’oracolo questa domanda: – ancora una volta vi prego, o cittadini, non
rumoreggiate – domandò se c’era nessuno piú sapiente di me. E la Pizia rispose
che piú sapiente di me non c’era nessuno. Di tutto questo vi farà testimonianza
il fratello suo che è qui; perché Cherefonte è morto.
2 [b]
Vedete ora per che ragione vi racconto questo: voglio farvi conoscere donde è
nata la calunnia contro di me. Udita la risposta dell’oracolo, riflettei in
questo modo: “Che cosa mai vuole dire il dio? che cosa nasconde sotto l’enigma?
Perché io, per me, non ho proprio coscienza di esser sapiente, né poco né
molto. Che cosa dunque vuol dire il dio quando dice ch’io sono il piú sapiente
degli uomini? Certo non mente egli; ché non può mentire”. – E per lungo tempo
rimasi in questa incertezza, che cosa mai il dio voleva dire. Finalmente,
sebbene assai contro voglia, mi misi a farne ricerca, in questo modo. Andai da
uno di [c] quelli che hanno fama di essere sapienti; pensando che
solamente cosí avrei potuto smentire l’oracolo e rispondere al vaticinio:
“Ecco, questo qui è piú sapiente di me, e tu dicevi che ero io”. – Mentre
dunque io stavo esaminando costui, – il nome non c’è bisogno ve lo dica, o
Ateniesi; vi basti che era uno dei nostri uomini politici questo tale con cui,
esaminandolo e ragionandoci insieme, feci l’esperimento che sono per dirvi; –
ebbene, questo brav’uomo mi parve, sí, che avesse l’aria, agli occhi di molti
altri e particolarmente di se medesimo, di essere sapiente, ma in realtà non
fosse; e allora mi provai a farglielo capire, che [d] credeva essere
sapiente, ma non era. E cosí, da quel momento, non solo venni in odio a colui,
ma a molti anche di coloro che erano quivi presenti. E, andandomene via,
dovetti concludere meco stesso che veramente di cotest’uomo ero piú sapiente
io: in questo senso, che l’uno e l’altro di noi due poteva pur darsi non
sapesse niente né di buono né di bello; ma costui credeva sapere e non sapeva,
io invece, come non sapevo, neanche credevo sapere; e mi parve insomma che
almeno per una piccola cosa io fossi piú sapiente di lui, per questa che io,
quel che non so, neanche credo saperlo. E quindi me ne andai da un altro, fra
coloro che avevano fama di essere piú sapienti di quello; [e] e mi
accadde precisamente lo stesso; e anche qui mi tirai addosso l’odio di costui e
di molti altri.
3 Ciò
nonostante io seguitai, ordinatamente, nella mia ricerca; pur accorgendomi, con
dolore e anche con spavento, che venivo in odio a tutti: e, d’altra parte, non
mi pareva possibile ch’io non facessi il piú grande conto della parola del dio.
– “Se vuoi conoscere che cosa vuole dire l’oracolo, dicevo tra me, bisogna tu
vada da tutti coloro che hanno fama di essere sapienti”. – Ebbene, o cittadini
[22 a] ateniesi, – a voi devo pur dire la verità, – questo fu, ve lo
giuro, il risultato del mio esame: coloro che avevano fama di maggior sapienza,
proprio questi, seguitando io la mia ricerca secondo la parola del dio, mi
apparvero, quasi tutti, in maggior difetto; e altri, che avevano nome di gente
da poco, migliori di quelli e piú saggi. Ma voglio finire di raccontarvi le mie
peregrinazioni e le fatiche che sostenni per persuadermi che era davvero
inconfutabile la parola dell’oracolo.
4 Dopo
gli uomini politici andai dai poeti, sí da quelli che scrivono tragedie e
ditirambi come dagli [b] altri; persuaso che davanti a costoro avrei
potuto cogliere sul fatto la ignoranza mia e la loro superiorità. Prendevo in
mano le loro poesie, quelle che mi parevano le meglio fatte, e ai poeti stessi
domandavo che cosa volevano dire; perché cosí avrei imparato anch’io da loro
qualche cosa. O cittadini, io ho vergogna a dirvi la verità. E bisogna pure che
ve la dica. Insomma, tutte quante, si può dire, le altre persone che erano
presenti, ragionavano meglio esse che non i poeti su quegli argomenti che i
poeti stessi avevano poetato. E cosí anche dei poeti in breve conobbi questo, [c]
che non già per alcuna sapienza poetavano, ma per non so che naturale
disposizione e ispirazione, come gl’indovini e i vaticinatori; i quali infatti
dicono molte cose e belle, ma non sanno niente di ciò che dicono: presso a poco
lo stesso, lo vidi chiarissimamente, è quello che accade anche dei poeti. E
insieme capii anche questo, che i poeti, per ciò solo che facevano poesia,
credevano essere i piú sapienti degli uomini anche nelle altre cose in cui non
erano affatto. Allora io mi allontanai anche da loro, convinto che ero da piú
di loro per la stessa ragione per cui ero da piú degli uomini politici.
5 Alla
fine mi rivolsi agli artisti: tanto piú che dell’arte loro sapevo benissimo di non
intendermi affatto, [d] e quelli sapevo che li avrei trovati esperti di
molte e belle cose. E non m’ingannai: ché essi sapevano cose che io non sapevo,
e in questo erano piú sapienti di me. Se non che, o cittadini di Atene, anche i
bravi artefici notai che avevano lo stesso difetto dei poeti: per ciò solo che
sapevano esercitar bene la loro arte, ognuno di essi presumeva di essere
sapientissimo anche in altre cose assai piú importanti e difficili; e questo
difetto di misura oscurava la loro stessa sapienza. Sicché io, in nome
dell’oracolo, [e] domandai a me stesso se avrei accettato di restare
cosí come ero, né sapiente della loro sapienza né ignorante della loro
ignoranza, o di essere l’una cosa e l’altra, com’essi erano: e risposi a me e
all’oracolo che mi tornava meglio restar cosí come io ero.
6 Or
appunto da questa ricerca, o cittadini ateniesi, [23 a] molte inimicizie
sorsero contro di me, fierissime e gravissime; e da queste inimicizie molte
calunnie, e fra le calunnie il nome di sapiente: perché, ogni volta che
disputavo, credevano le persone presenti che io fossi sapiente di quelle cose
in cui mi avveniva di scoprire l’ignoranza altrui. Ma la verità è diversa, o
cittadini: unicamente sapiente è il dio; e questo egli volle significare nel
suo oracolo, che poco vale o nulla la sapienza dell’uomo; e, dicendo Socrate
sapiente, non volle, io credo, riferirsi propriamente a me Socrate, ma solo
usare del mio nome come di un [b] esempio; quasi avesse voluto dire
cosí: “O uomini, quegli tra voi è sapientissimo il quale, come Socrate, abbia
riconosciuto che in verità la sua sapienza non ha nessun valore”. – Ecco perché
ancor oggi io vo dattorno ricercando e investigando secondo la parola del dio
se ci sia alcuno fra i cittadini e fra gli stranieri che io possa ritenere
sapiente; e poiché sembrami non ci sia nessuno, io vengo cosí in aiuto al dio
dimostrando che sapiente non esiste nessuno. E tutto preso come sono da questa
ansia di ricerca, non m’è rimasto piú tempo di far cosa veruna considerabile né
per la città né per la mia casa; e vivo in estrema [c] miseria per
questo mio servigio del dio. [...]
(Platone, Opere,
vol. I, Laterza, Bari, 1967, pagg. 38-41)