Alfred
Tarski (n. 1902), logico e matematico polacco, è noto per i suoi studi sul
concetto di verità nei linguaggi formalizzati. In questa lettura egli parte
dalla metafisica di Aristotele, che gli fornisce una prima definizione del vero
e del falso, per poi esaminare le formulazioni piú recenti.
A. Tarski, Truth and Proof, trad. it.
in E. Casari, La filosofia della matematica del ‘900, Sansoni, Firenze,
1973, pagg. 79-82
Il compito di spiegare il significato del termine “vero” sarà qui interpretato in modo restrittivo. Il concetto di verità compare in molti contesti diversi e ci sono varie categorie di oggetti alle quali può essere riferito il termine “vero”: in un contesto psicologico si può parlare sia di emozioni vere sia di credenze vere; in un contesto estetico si può analizzare la verità interiore di un oggetto d'arte. Ma in questo articolo ci interessa solo ciò che potrebbe chiamarsi il concetto logico di verità. Piú esattamente ci interessa esclusivamente il significato della parola “vero” usata in riferimento a una proposizione. Presumibilmente, questo era appunto l'uso originale del termine “vero” nel linguaggio umano. Le proposizioni vengono trattate qui come oggetti linguistici, come certe successioni finite di suoni o di segni scritti. (Naturalmente non tutte le successioni siffatte sono proposizioni). Inoltre, quando parleremo di proposizioni intenderemo sempre quelle che in grammatica sono chiamate proposizioni dichiarative, e non altri tipi di proposizioni come per esempio quelle interrogative o imperative.
Ogni volta che si precisa il significato di un termine tratto dal linguaggio quotidiano, si dovrebbe tener presente che lo scopo e lo status logico di una tale spiegazione può variare da un caso all'altro. Per esempio, la spiegazione può essere intesa come un resoconto dell'uso effettivo del termine in questione e in tal caso ha senso domandarsi se il resoconto sia corretto. In altri casi la spiegazione può essere di natura normativa, ossia può essere fornita come indicazione circa l'uso del termine in modo ben definito, senza tuttavia pretendere che il suggerimento si adegui al modo in cui il termine viene effettivamente usato nella pratica; una tale spiegazione può essere valutata, per esempio, dal punto di vista della sua utilità anziché da quello della sua correttezza. E si potrebbe continuare. La spiegazione che daremo noi partecipa, entro certi limiti, di entrambi gli aspetti. Ciò che viene proposto può essere trattato, in linea di principio, come suggerimento di usare il termine “vero” in un certo modo definito, ma, al tempo stesso, ci conforta l'opinione che la nostra proposta sia in accordo con l'uso corrente del termine nel linguaggio quotidiano.
La nostra interpretazione del concetto di verità si accorda nella sostanza con varie spiegazioni di tale concetto che si trovano nella letteratura filosofica. La piú antica spiegazione si trova forse nella Metafisica di Aristotele:
“Dire di ciò che è che non è, o di ciò che non è che è, è falso, mentre dire di ciò che è che è o di ciò che non è che non è, è vero”.
Qui e in quanto segue la parola “falso” ha lo stesso significato dell'espressione “non vero” e può essere da questa sostituita.
Il contenuto intuitivo della formulazione aristotelica risulta piuttosto chiaro. Tuttavia la formulazione lascia alquanto a desiderare dal punto di vista della precisione e della correttezza formale. Anzitutto non è sufficientemente generale; essa si riferisce solo a proposizioni che “dicono”, di qualche cosa, “che è” o “che non è”; nella maggior parte dei casi sarebbe ben difficile fare rientrare una proposizione in questo schema senza distorcere il senso e forzare lo spirito del linguaggio. Questa è forse una delle ragioni per cui nella filosofia moderna sono state proposte varie alternative a quella di Aristotele. Come esempi citiamo i seguenti:
“Una proposizione è vera se denota lo stato di cose esistente”;
“La verità di una proposizione consiste nella sua corrispondenza con la realtà”.
Grazie all’uso di termini filosofici tecnici, queste formulazioni hanno indubbiamente un tono molto “dotto”. È tuttavia mia impressione che una volta analizzate piú da vicino, le nuove formulazioni risultino meno chiare e piú ambigue di quella avanzata da Aristotele.
La concezione della verità che trova la sua espressione nella formulazione aristotelica (e in altre piú recenti formulazioni a essa collegate) viene di solito chiamata classica o concezione semantica della verità. Per semantica si intende quella parte della logica che, grosso modo, tratta le relazioni fra gli oggetti linguistici (quali le proposizioni) e ciò che tali oggetti esprimono. Il carattere semantico del termine “vero” viene chiaramente rilevato dalla spiegazione proposta da Aristotele e da alcune formulazioni che daremo piú avanti. A volte si parla della teoria basata sulla concezione classica come della teoria corrispondentistica della verità.
(Nella moderna letteratura filosofica sono state trattate anche altre concezioni e teorie della verità, come la concezione pragmatica e la teoria della coerenza. Queste concezioni sembrano avere carattere esclusivamente normativo e hanno scarsa connessione con l'uso effettivo del termine “vero”; nessuna di esse è stata finora formulata con un minimo di chiarezza e precisione. Nel presente articolo esse non verranno esaminate).
Cercheremo qui di ottenere una piú precisa spiegazione del concetto classico di verità, una che possa superare la formulazione aristotelica pur conservandone gli intenti di fondo. A questo scopo, dovremo ricorrere ad alcune tecniche della logica contemporanea e dovremo specificare il linguaggio nel quale sono formulate le proposizioni che ci interessano. Ciò è necessario, non fosse altro per la ragione che una successione di suoni o di segni che in un linguaggio sia una proposizione vera o falsa, ma comunque sensata, può risultare priva di significato in un altro linguaggio. Per il momento supponiamo che il linguaggio che ci interessa sia l’italiano.
Cominciamo con un problema semplice. Consideriamo una proposizione italiana il cui significato non dia adito a dubbi, per esempio “la neve è bianca”. Per brevità denotiamo questa proposizione con “S”, cosicché “S” diventa il nome di una proposizione. Ci domandiamo: cosa intendiamo dicendo che “S” è vera o che è falsa? La risposta è semplice: in conformità con la spiegazione aristotelica, dicendo che “S” è vera intendiamo semplicemente che la neve è bianca. Eliminando il simbolo “S” arriviamo alla seguente formulazione:
(1) “La neve è bianca” è vera se e solo se la neve è bianca.
(11) “La neve è bianca” è falsa se e solo se la neve non è bianca.
Cosí la (1) e la (11) forniscono spiegazioni soddisfacenti del significato dei termini “vero” e “falso” quando questi termini sono riferiti alla proposizione “la neve è bianca”. Possiamo considerare la (1) e la (11) come definizioni parziali dei termini “vero” e “falso”, anzi come definizioni di questi termini in relazione a una particolare proposizione. Si noti che la (1), cosí come la (11), ha la forma richiesta dalle regole della logica per una definizione, precisamente la forma di una equivalenza logica: essa consta di due parti, il primo e il secondo membro dell'equivalenza, collegati dal connettivo “se e solo se”. Il primo membro è il definiendum, la frase il cui significato viene spiegato dalla definizione; il secondo membro è il definiens, la frase che fornisce la spiegazione. Nel nostro caso il definiendum è la seguente espressione:
“La neve è bianca” è vera;
il definiens ha la forma:
“la neve è bianca”.
Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991,
vol. II, pagg. 839-841