LEON BATTISTA ALBERTI

I LIBRI DELLA FAMIGLIA

 


PROLOGO

Repetendo a memoria quanto per le antique istorie e per ricordanza de' nostri vecchi insieme, e quanto potemmo a' nostri giorni come altrove cosí in Italia vedere non poche famiglie solere felicissime essere e gloriosissime, le quali ora sono mancate e spente, solea spesso fra me maravigliarmi e dolermi se tanto valesse contro agli uomini la fortuna essere iniqua e maligna, e se cosí a lei fosse con volubilità e temerità sua licito famiglie ben copiose d'uomini virtuosissimi, abundante delle preziose e care cose e desiderate da' mortali, ornate di molta dignità, fama, laude, autoritate e grazia, dismetterle d'ogni felicità, porle in povertà, solitudine e miseria, e da molto numero de' padri ridurle a pochissimi nepoti, e da ismisurate ricchezze in summa necessità, e da chiarissimo splendore di gloria somergerle in tanta calamità, averle abiette, gittate in tenebre e tempestose avversità. Ah! quante si veggono oggi famiglie cadute e ruinate! Né sarebbe da annumerare o racontare quali e quante siano simili a' Fabii, Decii, Drusii, Gracchi e Marcelli, e agli altri nobilissimi apo gli antichi, cosí nella nostra terra assai state per lo ben publico a mantener la libertà, a conservare l'autorità e dignità della patria in pace e in guerra, modestissime, prudentissime, fortissime famiglie, e tali che dagl'inimici erano temute, e dagli amici sentiano sé essere amate e reverite. Delle quali tutte famiglie non solo la magnificenza e amplitudine, ma gli uomini, né solo gli uomini sono scemati e disminuiti, ma piú el nome stesso, la memoria di loro, ogni ricordo quasi in tutto si truova casso e anullato.

Onde non sanza cagione a me sempre parse da voler conoscere se mai tanto nelle cose umane possa la fortuna, e se a lei sia questa superchia licenza concessa, con sua instabilità e inconstanza porre in ruina le grandissime e prestantissime famiglie. Alla qual cosa ove io sanza pendere in alcuna altra affezione, sciolto e libero d'ogni passion d'animo penso, e ove fra me stessi, o giovani Alberti, rimiro la nostra famiglia Alberta a quante avversità già tanto tempo con fortissimo animo abbia ostato, e con quanta interissima ragione e consiglio abbino e' nostri Alberti saputo discacciare e con ferma constanza sostenere i nostri acerbi casi e' furiosi impeti de' nostri iniqui fati, da molti veggo la fortuna piú volte essere sanza vera cagione inculpata, e scorgo molti per loro stultizia scorsi ne' casi sinistri, biasimarsi della fortuna e dolersi d'essere agitati da quelle fluttuosissime sue unde, nelle quali stolti sé stessi precipitorono. E cosí molti inetti de' suoi errati dicono altrui forza furne cagione.

Ma se alcuno con diligenza qui vorrà investigare qual cosa molto estolla e accresca le famiglie, qual anche le mantenga in sublime grado d'onore e di felicità, costui apertamente vederà gli uomini le piú volte aversi d'ogni suo bene cagione e d'ogni suo male, né certo ad alcuna cosa tanto attribuirà imperio, che mai giudichi ad acquistare laude, amplitudine e fama non piú valere la virtú che la fortuna. Vero, e cerchisi le republice, ponghisi mente a tutti e' passati principati: troverassi che ad acquistare e multiplicare, mantenere e conservare la maiestate e gloria già conseguita, in alcuna mai piú valse la fortuna che le buone e sante discipline del vivere. E chi dubita? Le giuste leggi, e' virtuosi princípi, e' prudenti consigli, e' forti e constanti fatti, l'amore verso la patria, la fede, la diligenza, le gastigatissime e lodatissime osservanze de' cittadini sempre poterono o senza fortuna guadagnare e apprendere fama, o colla fortuna molto estendersi e propagarsi a gloria, e sé stessi molto commendarsi alla posterità e alla immortalità. Co' Macedoni fu seconda la fortuna e prospera quanto tempo in loro stette l'uso dell'armi coniunto con amor di virtú e studio di laude. Vero, doppo la morte d'Allessandro Grande, subito ch'e' príncipi macedoni cominciarono ciascuno a procurare e' suoi propri beni, e aversi solliciti non al publico imperio, ma curiosi a' privati regni, fra loro subito nacquero discordie, e fra essi cuocentissime fiamme d'odio s'incesoro, e arsero e' loro animi di face di cupiditate e furore, ora d'ingiuriare, mo di vendicarsi: e quelle medesime armi e mani trionfali, le quali aveano occupato e suggette la libertà e forze d'innumerabili populi, le quali aveano compreso tanto imperio, colle quali già era il nome e fama de' Macedoni per tutto el mondo celebratissima, queste armi medesime invittissime, sottoposte a' privati appetiti di pochi rimasi ereditarii tiranni, furono quelle le quali discissero e disperderono ogni loro legge, ogni loro equità e bontà, e persegorono ogni nervo delle sue prima temute forze. Cosí adunque finirono non la fortuna, ma loro stultizia e' Macedoni la conseguita sua felicità, e trovoronsi in poco tempo senza imperio e senza gloria. Ebbe ancora seco la Grecia vittoria, gloria e imperio, mentre ch'ella fu affezionata e officiosa non meno a reggere, regolare e contenere gli animi de' suoi cittadini, che in adornar sé con delizie e sopra dell'altre con pompa nobilitarsi.

E della nostra Italia non è egli manifesto el simile? Mentre che da noi furono le ottime e santissime nostre vetustissime discipline osservate, mentre che noi fummo studiosi porgere noi simili a' nostri maggiori e con virtú demmo opera di vincere le lode de' passati, e mentre ch'e' nostri essistimorono ogni loro opera, industria e arte, e al tutto ogni sua cosa essere debita e obligata alla patria, al ben publico, allo emolumento e utilità di tutti e' cittadini, mentre che si esponeva l'avere, il sangue, la vita, per mantenere l'autorità, maiestate e gloria del nome latino, trovoss'egli alcun popolo, fu egli nazione alcuna barbara ferocissima, la quale non temesse e ubidisse nostri editti e legge? Quello imperio maraviglioso sanza termini, quel dominio di tutte le genti con nostre latine forze acquistato, con nostra industria ottenuto, con nostre armi latine amplificato, dirass'egli ci fusse largito dalla fortuna? Quel che a noi vendicò la nostra virtú, confesseremo noi esserne alla fortuna obligati? La prudenza e moderanza di Fabio, quello uno uomo, el quale indugiando e supersedendo restituí la quasi caduta latina libertà, la giustizia di Torquato qual per osservare la militare disciplina non perdonò al suo figliuolo, la continenza di quello, el quale contento nella agricultura, piú stimò la onestà che ogni copia d'auro, la severità di Fabrizio, la parsimonia di Catone, la fermezza di Orazio Cocles, la sofferenza di Muzio, la fede e religione di Regolo, la affezione inverso la patria di Curzio, e l'altre essimie, prestantissime e incredibili virtú, le quali tutte furono celebratissime e illustrissime apo gli antichi, e colle quali virtú non meno che col ferro e colla forza delle battaglie, e' nostri ottimi passati Itali debellorono e sottoaverono tutte le genti in qualunque regione barbare, superbe, contumace e nimiche alla libertà, fama e nome latino, quelle tutte divine virtú ascriverelle noi alla fortuna? La giudicaremo noi tutrice de' costumi, moderatrice delle osservanze e santissime patrie nostre consuetudini? Statuiremo noi in la temerità della fortuna l'imperio, quale e' maggiori nostri piú con virtú che con ventura edificorono? Stimeremo noi suggetto alla volubilità e alla volontà della fortuna quel che gli uomini con maturissimo consiglio, con fortissime e strenuissime opere a sé prescrivono? E come diremo noi la fortuna con sue ambiguità e inconstanze potere disperdere e dissipare quel che noi vorremo sia piú sotto nostra cura e ragione che sotto altrui temerità? Come confesseremo noi non essere piú nostro che della fortuna quel che noi con sollicitudine e diligenza delibereremo mantenere e conservare? Non è potere della fortuna, non è, come alcuni sciocchi credono, cosí facile vincere chi non voglia essere vinto. Tiene gioco la fortuna solo a chi se gli sottomette.

E in quanti modi si vide con ogni sua possa e malizia a Canne, a Trebia, a Trasimene, fra le Gallie, nelle Ispanie e in altri luoghi, non con minor odio e ira ch'e' crudelissimi e immanissimi inimici, la fortuna contro gli esserciti latini travagliarsi e combattere e in molti modi affaticarsi per opprimere e abbattere l'imperio e la gloria nostra e tutta Italia, la qual con assidui e innumerabili triunfi di dí in dí maravigliosa cresceva! E chi mai racontasse come spesso e in che modi contro a noi, a que' tempi e poi, la fortuna istessa ci fusse iniqua e infesta, sollevando ad invidia populi, príncipi, nazioni, e a tutto il mondo perseminando avverso di noi odio e malivolenza? Né lei pur valse mai con alcuna sua furia o bestiale alcuno impeto frangere gli animi di que' buoni patrizii senatori latini, e' quali, vincendo e soperchiando ogni avversità, domorono e oppressorono tutte le genti superbe, e tutto in provincie el mondo ridussero, e persino fuori delli ambiti e circuiti della terra affissero e' termini dello incredibile nostro latino imperio. Poterono adunque gli avoli nostri latini ivi opporsi e sostenere ogni inimico impeto, ove per niuna sinistra fortuna quelli animi virilissimi, quelle menti divine, restorono di volere, come volendo poterono e potendo saperono, grandirsi e augumentarsi trionfando. Si fu la loro immensa gloria spesso dalla invidiosa fortuna interrutta, non però fu denegata alla virtú; né mentre che giudicorono l'opere virtuose insieme colle buone patrie discipline essere ornamento ed eterna fortezza dello imperio, all'ultimo mai con loro sequí la fortuna se non facile e seconda. E quanto tempo in loro quegli animi elevati e divini, que' consigli gravi e maturissimi, quella fede interissima e fermissima verso la patria fioriva, e quanto tempo ancora in loro piú valse l'amore delle publice cose che delle private, piú la volontà della patria che le proprie cupiditati, tanto sempre con loro fu imperio, gloria e anche fortuna.

Ma subito che la libidine del tiranneggiare e i singulari commodi, le ingiuste voglie in Italia piú poterono che le buone legge e santissime consuete discipline, subito cominciò lo imperio latino a debilitarsi e inanire, a perdere la grazia, decore e tutte le sue pristine forze, e videsi offuscata e occecata la divina gloria latina, quale persino fuori dello Occeano prima risplendea per tutto e collustrava. E tu, Italia nobilissima, capo e arce di tutto l'universo mondo, mentre che tu fusti unita, unanime e concorde a mantenere virtú, a conseguir laude, ad ampliarti gloria, mentre che tuo studio e arte fu debellar e' superbi ed essere umanissima e iustissima co' tuoi sudditi, e mentre che tu sapesti con animo rilevato e dritto sostenere qualunque impetuosa avversità, e riputasti non minor lode in ogni ardua e laboriosa cosa vincere sofferendo che evitarla schifando, e quanto tempo gl'inimici virtú, gli amici fede, e' vinti misericordia in te essere conobbero, tanto tempo allora potesti contro alla fortuna e sopra di tutti e' mortali, e potesti in tutte l'universe nazioni immettere tue santissime leggi e magistrati, e persino al termine degli Indii a te fu permesso constituire fulgentissimi insigni della tua inestimabile e divina meritata gloria, e per le tue prestantissime virtú, pe' tuoi magnificentissimi, validissimi e fortissimi animi fusti pari agli dii riverita, amata e temuta. Ora poi con tue discordie e civili dissensioni subito incominciasti a cadere di tua antica maiestà subito le are, e' templi e teatri tuoi latini, quali soleano di giuochi, feste e letizia vedersi pieni, e coperte e carche di ostili essuvie e vittoriosi voti e lauree trionfali, subito queste cominciorono essere piene di calamità e miseria, asperse di lacrime, celebrati con merore e lamenti. E le barbare nazioni, le serve remotissime genti, quali soleano al tuo venerando nome, Italia, rimettere ogni superbia, ogni ira, e tremare, subito queste tutte presero audacia di irrumpere in mezzo el tuo seno santissimo, Italia, sino ad incendere el nido e la propria antica sedia dello imperio de tutti li imperii.

E ora, poiché o l'altre nazioni se l'hanno per nostra negligenza e desidia usurpato, o poiché noi Latini abbiamo tanta a noi devuta gloria abandonata e derelitta, chi è che speri piú mai recuperare el perduto nostro imperial scettro, o che giudichi piú mai riavere o rivedere la purpura e diadema nel suo qui in Italia primevo sacratissimo e felicissimo domicilio e sedia, la qual già tanto tempo, nostro difetto, n'è rimasa spogliata e nuda? E chi adunque stimasse tanta incomparabile e maravigliosa nostra amplitudine e gloria latina per altri che per noi medesimi essere dal suo vero recettaculo e nido esterminata e perduta? Qual multitudine di genti mai arebbe potuto contro a chi tutto el mondo ubidiva? E chi avessi potuto, non volendo né lo permettendo noi, non obbedirci? Cosí adunque si può statuire la fortuna essere invalida e debolissima a rapirci qualunque nostra minima virtú, e dobbiamo giudicare la virtú sufficiente a conscendere e occupare ogni sublime ed eccelsa cosa, amplissimi principati, suppreme laude, eterna fama e immortal gloria. E conviensi non dubitare che cosa qual si sia, ove tu la cerchi e ami, non t'è piú facile ad averla e ottenerla che la virtú. Solo è sanza virtú chi nolla vuole. E se cosí si conosce la virtú, costumi e opere virili, le quali tanto sono de' mortali quanto e' le vogliono, i consigli ottimi, la prudenza, i forti, constanti e perseveranti animi, la ragione, ordine e modo, le buone arti e discipline, l'equità, la iustizia, la diligenza e cura delle cose adempieno e abracciano tanto imperio, e contro l'insidiosa fortuna salgono in ultimo suppremo grado e fastigio di gloria; o giovani Alberti, chi di voi, per questa quale spesso si vede volubilità e inconstanza delle cose caduce e fragili, mai stimasse facile persuadermi che quello, el quale non può a' mortali essere vetato in modo che a loro arbitrio e volontà essi nollo apprendino e rendanselo suo, questo già in possessione degli uomini ridutto, possa non sanza grandissima difficultà a' diligenti e vigilanti possessori essere suttratto, o a' virili e forti defensori rapito? Saremo adunque sempre di questa opinione, nella quale credo siate ancora voi, e' quali tutti siete prudenti e savi, che nelle cose civili e nel vivere degli uomini piú di certo stimeremo vaglia la ragion che la fortuna, piú la prudenza che alcuno caso. Né chi locasse nella virtú speranza manco che nelle cose fortuite, mai parrebbe a me iudicarlo savio né prudente. E chi conoscerà l'industria, le buone arti, le constanti opere, e' maturi consigli, le oneste essercitazioni, le iuste volontà, le ragionevoli espettazioni prostendere e agrandire, ornare, mantenere e difendere le republice e príncipi, e con questo ogni imperio surgere glorioso, e senza queste rimanere privato di tutta sua maiestate e onore; e chi noterà la desidia, inerzia, lascivia, perfidia, cupidità, iniquità, libidine e crudezze d'animi e isfrenate affezioni degli uomini contaminare, dirupare e profondare quantunque ben alta, ben ferma e stabilita cosa, costui credo stimerà questo medesimo come a' principati, cosí alle famiglie convenirsi, e confesserà le famiglie rarissime cadere in infelicità per altro che per solo sua poca prudenza e diligenza.

Onde, perché conosco questo cosí essere, o per non sapere nelle cose prospere frenarsi e contenersi, o per ancora non essere prudente e forte nelle avverse tempestati a sostenersi e reggersi, la fortuna con suoi immanissimi flutti, ove sé stessi abandonano, infrange e somerge le famiglie; e perché non dubito el buon governo, e' solleciti e diligenti padri delle famiglie, le buone osservanze, gli onestissimi costumi, l'umanità, facilità, civilità rendono le famiglie amplissime e felicissime, però mi parse da investigare con ogni studio e diligenza quali ammonimenti siano al ben ordinare e amaestrare e' padri e tutta la famiglia utili per divenire all'ultima e supprema felicità, e non avere per tempo alcuno a succumbere alla fortuna iniqua e strana. E quanto m'è stato licito dall'altre mie faccende usurpare ocio, tutto mi diletta averlo conferito a ricercare apresso gli antichi scrittori quali precetti essi abbino lasciati atti e commodi al bene, onore e amplitudine delle famiglie; quali trovandogli essere molti e perfettissimi erudimenti, arbitra' lo nostro officio volerveli radunare e tutti insieme congregarvegli, acciò che avendogli noi qui in uno luogo racolti, voi con manco fatica abbiate da conoscerli, e conoscendogli seguitarli. E credo io, poiché voi arete meco riveduto e' ditti e le autorità di que' buoni antiqui, e notati gli ottimi costumi de' nostri passati Alberti, sarete in questa medesima sentenza, e giudicarete in voi stessi come la virtú cosí stare ogni vostra fortuna. Né manco vi piacerà leggendomi vedere l'antiche maniere buone del vivere e costumi di casa nostra Alberta, che riconoscendo consigli e ricordi degli avoli nostri Alberti tutti essere necessarii e perfettissimi, crederli e satisfarli. Voi vederete da loro in che modo si multiplichi la famiglia, con che arti diventi fortunata e beata, con che ragioni s'acquisti grazia, benivolenza e amistà, con che discipline alla famiglia s'accresca e diffunda onore, fama e gloria, e in che modi si commendi el nome delle famiglie a sempiterna laude e immortalità.

Né però sia chi reputi me sí arrogante ch'io vi proferisca tante singularissime cose, come se voi per vostro intelletto e prudenza da voi nolle ben conoscessi; ché a me sempre fu chiaro e notissimo, e per ingegno e per erudizione e per molto conoscimento d'infinite e lodatissime cose, di voi ciascuno m'è molto superiore. Ma non forse però questa mia volontà sarà indarno, colla quale già piú e piú giorni mi sono affaticato in questo modo essere utile piú a que' piú giovani che verranno che a voi, a' quali potrei poco insegnare e meno ricordare cosa la quale non vi sappiate e meglio di me tutto conosciate. Ma pure stimo l'avermi affaticato apresso di voi non poco mi gioverà, imperoché dove, secondo ch'io cerco, alla nostra Alberta famiglia questa nostra opera non fusse come sarà utile, pure a me fia gran premio una e un'altra volta essere da voi letto; anzi me lo riputerò a grandissima remunerazione, massime ove voi piglierete da me quello ch'io sopratutto desidero, tutte le mia volontà, ogni mia espettazione non altro cercare se non di rendermivi oveunque io possa, piú grato molto piú e accetto.

E cosí m'ho indutto a me stessi nell'animo non potervi Battista se non piacere, poiché in quel poco a me sia possibile, in questo tutto m'ingegno e sforzo darmivi di dí in dí migliore, a voi piú utile e viepiú caro. E sarammi veementissima cagione ad incitarmi con assai piú ardentissimo studio, con molte piú lunghe vigilie, con viepiú assidua cura in qualche altra piú culta e piú elimata opera satisfare a' giudicii ed espettazioni vostre. E questo, vero, se io vedrò che voi pregiate, come stimo assai quanto dovete pregiarete, gli amonimenti de' nostri passati Alberti, e' quali vederete essere ottimi e degni di memoria, e se me qui stimarete qual sono cupidissimo della vera laude e ferma essaltazione della nostra famiglia Alberta, la quale sempre meritò essere pregiata e onorata, e per cui ogni mio studio, ogni mia industria, ogni pensiero, animo e volontà ebbi sempre e arò a suo nome dedicato. Né mai quanto sia arte in me e forza, mai, né a fatica, né a sudore, né a me stessi perdonerò per fare qualunque cosa resulti in bene e utile della famiglia Alberta, e tanto con maggior volontà, con piú lieto animo, con piú assidua diligenza, quando vederò l'opere mie sieno a voi grate. E cosí prego anche voi giovani Alberti meco, come fate, facciate; proccurate el bene, accrescete lo onore, amplificate la fama di casa nostra, e ascoltate a quello e' passati nostri Alberti, uomini studiosissimi, litteratissimi, civilissimi, giudicavano verso la famiglia doversi, e ramentavano si facesse. Leggetemi e amatemi.

 

LIBRO PRIMO

LIBER PRIMUS FAMILIE: DE OFFICIO SENUM ERGA IUVENES ET MINORUM ERGA MAIORES ET DE EDUCANDIS LIBERIS

Mentre che Lorenzo Alberto nostro padre giaceva in Padua grave di quella ultima infermità che ce lo tolse di vita, piú dí aveva grandemente desiderato vedere Ricciardo Alberto suo fratello, del quale sentendo che subito sarebbe a visitarlo, ne prese grandissimo conforto e oltre all'usato si levò cosí in sul letto a sedere monstrando in molti modi esserne assai lieto. Noi ch'eravamo al continuo pressogli, insieme pigliammo conforto del piacere suo, ed eraci allegrezza cosí avere donde ricevere buona speranza qual parea ci fusse porta, vedendo Lorenzo piú che l'usato rilevato. Ivi era Adovardo e Lionardo Alberti, uomini umanissimi e molto discreti, a' quali Lorenzo quasi in simili parole disse:

- Non vi potrei con parole monstrare quanto io desideri vedere Ricciardo Alberto nostro fratello, sí per compor seco alcune utilitati alla famiglia nostra, sí ancora per raccomandargli questi due miei figliuoli costí Battista e Carlo, e' quali pur mi sono all'animo non piccolissimo incarco, non perch'io dubiti però in niuno loro bene, quanto gli fia possibile, Ricciardo non vi sia desto e diligente, ma pure e' mi pesava non assettar prima questa a noi padri adiudicata soma, e spiacevami lasciare adrieto simile alcuna giusta e piatosa mia faccenda. Uscirò di vita sanza quello incarco poich'io arò ciascuno di voi molto e Ricciardo imprima pregato guidi costoro a diventar buoni uomini, e di loro facci, per averli virtuosi, quanto vorrebbe al bisogno si facesse de' suoi.

Allora rispuose Adovardo, el quale era di piú età che Lionardo: - E questo tuo dire, Lorenzo, quanto m'ha egli commosso! Io scorgo in te quello amore e pietà inverso de' figliuoli quale spesso in molti modi stimola ancora me. E ben veggio vorresti che gli altri tutti avessero simile carità a ciascuno di casa, e tanta diligenza e cura a tutto el bene e onore della famiglia nostra quale sempre avesti tu. Poi mi pare giudichi come si debba della fede e integrità di Ricciardo, el quale di sangue e veramente in ogni pietà, umanità e costume t'è fratello. Niuno piú di lui è mansueto, niuno piú riposato, nessuno è quanto lui continente. Ma non dubitare che noi altri, quanto ci fusse possibile, ciascuno sta di questo animo: in quello apartenesse all'utile e onore del minimo di casa, nonché a' tuoi figliuoli, e' quali ci sono non fra gli ultimi carissimi, voremmo che ogni uomo ci conoscesse esserti buoni e fedelissimi parenti. E s'egli ha piú forza l'amistà che 'l parentado, il simile faremmo come e' veri e dritti amici. Le cose care a te, le cose di Lorenzo, quale ciascuno di noi quanto sé stesso ama, sarebbono a noi care e racommandate quanto tu vorresti, e quanto a noi piú fusse possibile. E per qualunque di noi bisognando si farebbe per ogni rispetto volentieri, e per questo con molta piú pronta opera perché ci sarebbe leggiera e dilettosa cosa addurre in lode e onore questi giovani e' quali da te hanno già ottimo principio ed essemplo ad acquistare fama e virtú. E vediamoli d'intelletto e natura non inetti a farsi valere, donde a chi n'averà avuta cura ne risulterà anche parte di grado e contentamento. Ma Dio ti ci renda sano e lieto, Lorenzo. Non volere indurti cosí ad animo che tu istimi non esserti questo e ogni altra simile ottima cosa quanto sino a ora licita. E' mi pare vederti ralleggerito, e spero tu stessi potrai avere de' tuoi cura e degli altri non minore ti sia sempre usato d'avere.

LORENZO Come? Anzi sarei da inculpare s'i' non facessi, Adovardo, di te stima, e di te, Lionardo, come debbo di cari parenti e veri amici. A chi m'è coniunto di sangue e chi sempre in vita mi sono sforzato a giugnermelo di benivolenza e amore, in che modo potre' io onestamente credere le mie cose gli fussero poco racomandate? Bene mi sarebbe piú grato non avere a lasciarvi ne' miei questa fatica. Benché il morire non mi turbi troppo, pure questa dolcezza del vivere, questo piacere d'avermi e ragionarmi con voi e con gli amici, questo diletto di vedermi le cose mie, pur mi duole lasciarlo. Non vorrei inanzi tempo esserne privato. Forse meno mi sarebbono grave e poco acerbe perderle, se io potessi di me come solea Iulio Cesare di sé dire, sé alla età, alla felicità essere assai vivuto. Ma né io sono in età che la morte non sia ancora in me pure acerba, né sono in tanta felicità che vivendo non desideri potere vedermi in piú lieta fortuna. E quanto mi sarebbe desideratissima letizia, quanto mi riputerei ad estrema felicità in casa del padre mio, nella patria mia potere, se non con qualche pregio vivere, almanco morirvi, e poi giacere tra' miei passati! Se la fortuna non me lo permette, o se la natura qui usa el corso suo, o se pure io sono nato a patire queste miserie, stimo non sarebbe saviezza fare senza pazienza quel che pure mi fusse forza fare. Ben sarei piú contento, figliuoli miei, in questa età non vi abandonare, e manco mi dorrebbe morire non giovane, solo per afaticarmi come soglio in utile e onore di casa nostra. Ma se altro destino richiede questo mio spirito, né debbo, né voglio averlo per male, né piglio contro a mio animo quello che nulla mi gioverebbe non lo volere. Sia di me quanto piace a Dio.

ADOVARDO Cosí credo, a soperchiare ogni paura della morte, questo medesimo sia grande aiuto, pensare che a' mortali el finire sua vita sempre fu necessario. Ma ben si vole ancora nella infermità e debolezza non vi si adiudicare, ché benché e' giovi al superare la paura e ombre della morte, pur credo questo nuoce alla quiete e tranquillità dell'animo starsi colla mente in quella sollecitudine dalla quale forse e io non saperei distormi sendo in quella tale affezione, pensando e chi lascio, e come ordino, e a chi racomando le care mie e amate cose; alle quali tutte cocentissime cure non so chi allora potesse non pendervi coll'animo, e credo forse non gioverebbe a sostenere el carco della infermità. Però sarai da lodarti, Lorenzo, se starai di miglior voglia. E cosí fa. Confòrtati, spera bene e della fortuna e di te stesso in prima, e stima con noi insieme, se noi non siamo troppo grandemente ingannati, questi tuoi figliuoli saranno di certo tali che assai poteranno contentarti.

LORENZO Figliuoli miei, alla virtú sempre fu questo premio non piccolo: ella per forza fa lodarsi. Vedetelo come costoro vi pregiano e quanti e' vi promettono. Saravvi onore, quanto piú in voi sia, con ogni opera e arte sforzarvi d'essere come essi vi sperano. E suole ogni lodata virtú ne' buoni ingegni crescere. Forse dirò quello che in verità, Adovardo, e tu Lionardo, non è; ma sia licito a' padri parergli le virtú de' figliuoli maggiori che le non sono, né sia in me ascritto ad imprudenza se per incender costoro ad amar la virtú, in presenza gli dimostro quanto m'agradi, e quanto mi piacerebbe vederli molto virtuosi, poiché ogni loro picciola lode a me parerà grande. Vero è che io sempre con ogni industria e arte mi sono molto ingegnato d'essere da tutti amato piú che temuto, né mai a me piacque apresso di chi mi riputasse padre volere ivi parere signore. E cosí costoro sono stati da sé sempre ubidienti, riverenti, e hannomi ascoltato molto e seguito i comandamenti miei, né in loro mai vidi alcuna durezza o rilevato alcuno vizio. Hommi d'ogni loro buono costume preso piacere, ed èmmi paruto potere meco meglio di dí in dí sperare e aspettare. Ma chi non sa quanto sia dubbiosa la via della gioventú, nella quale se alcuno vizio era, quello già o per paura o per vergogna de' padri o de' maggiori stava coperto e ascoso, di poi in tempo si scopre e manifesta? E quanto el timore e reverenza de' giovani manca, tanto in loro nascono di dí in dí e crescono vari vizii, ora per proprio ingegno da sé a sé depravato e corrotto, ora per brutte conversazioni e consuetudini viziato e guasto; e per mille ancora altri modi sufficienti a fare scelerato qualunque buono, come abbiamo altrove e nella nostra terra veduti figliuoli di valentissimi cittadini da piccioli porgere di sé ottima indole, avere in sé aere e aspetto molto ornatissimo, pieno di mansuetudine e costume, poi riusciti infami, credo per negligenza di chi no' gli resse bene. Però qui mi ramenta di nostro padre messer Benedetto Alberto, uomo di prudenza, autoritate e fama non vulgare, e come nelle altre cose diligente, cosí al bene e onore della famiglia nostra affezionatissimo e officiosissimo, el quale spesso con gli altri antichi Alberti confortandogli a essere quanto egli certo erano in le cose desti e diligenti, solea dire queste parole:

"Non è solo officio del padre della famiglia, come si dice, riempiere el granaio in casa e la culla, ma molto piú debbono e' capi d'una famiglia vegghiare e riguardare per tutto, rivedere e riconoscere ogni compagnia, ed essaminare tutte le usanze e per casa e fuori, e ciascuno costume non buono di qualunque sia della famiglia correggere e ramendare con parole piú tosto ragionevoli che sdegnose, usare autorità piú tosto che imperio, monstrare di consigliare dove giovi piú che comandare, essere ancora severo, rigido e aspero dove molto bisogni, e sempre in ogni suo pensiero avere inanti il bene, la quiete e tranquillità della tutta universa famiglia sua, come quasi uno segno dove egli adrizzi ogni suo ingegno e consiglio per ben guidare la famiglia tutta con virtú e laude; sapere con l'aura, con favore e con quella onda populare e grazia de' suoi cittadini condursi in porto di onore, pregio e autorità, e ivi sapere soprastarsi, ritrarre e ritendere le vele a' tempi, e nelle tempestati, - in simili fortune e naufragii miserandi, quali iniustamente patisce la casa nostra anni già ventidue -, darsi a reggere gli animi de' giovani, né lasciargli agl'impeti della fortuna abandonarsi, né patilli giacere caduti, né mai permettergli attentare cosa alcuna temeraria e pazzamente, o per vendicarsi, o per adempiere giovinile alcuna e leggiere oppinione; e nella tranquillità e bonaccia della fortuna, e molto piú ne' tempestosi tempi, mai partirsi dal timone della ragione e regola del vivere, stare desto, provedere da lungi ogni nebbia d'invidia, ogni nugolo d'odio, ogni fulgore di nimistà in le fronti de' cittadini, e ogni traverso vento, ogni scoglio e pericolo in che la famiglia in parte alcuna possa percuotere, essere ivi come pratico ed essercitatissimo navichiero, avere a mente con che venti gli altri abbino navigato, e con che vele, e in che modo abbiano scorto e schifato ciascuno pericolo, e non dimenticarsi che mai nella terra nostra alcuno mai spiegò tutte le vele, benché non superchie fussero grandi, il quale mai le ritraesse intere e non in gran parte isdrucite e stracciate. E cosí conoscerà essere piú danno male navigare una volta, che utile mille giugnere a salvamento. Le invidie si dileguano dove risplende non pompa ma modestia; l'odio s'atuta dove non alterezza cresce ma facilità; l'inimicizia si rimette e spegne dove tu te armi e fortifichi non di sdegno e stizza, ma di umanitate e grazia. A tutte queste cose debbono e' maggiori delle famiglie aprire gli occhi e la mente, tendere el pensiero e l'animo, stare da ogni parte apparecchiati e pronti a prevedere e conoscere el tutto, durarvi fatica e sollecitudine, avervi grandissima cura e diligenza in far di dí in dí la gioventú piú onesta, piú virtuosa e piú a' nostri cittadini grata.

"E sappino e' padri ch'e' figliuoli virtuosi porgono al padre in ogni età molta letizia e molto sussidio, e nella sollecitudine del padre sta la virtú del figliuolo. La inerzia e desidia inrustichisce e disonesta la famiglia, i solleciti e officiosi padri la ringentiliscono. Gli uomini cupidi, lascivi, iniqui, superbi caricano le famiglie d'infamia, d'infortunii e di miserie. I buoni, per mansueti, moderati e umani che siano, se non saranno molto nella famiglia solliciti, diligenti, preveduti e faccenti in emendare e reggere la gioventú, sappino che cadendo alcuna parte della famiglia, sarà forza a loro insieme ruinare, e quanto e' saranno in la famiglia con piú amplitudine, fortuna e grado, tanto sentiranno in sé maggior fracasso. Le priete piú che l'altre in alto murate son quelle che cadendo piú s'infrangono. Però siano e' maggiori al bene e onore di tutta la famiglia sempre desti e operosi, consigliando, emendando e quasi sostenendo la briglia di tutta la famiglia. Né però è se non lodata, pia e grata opera con parole e facilità frenare gli apetiti de' giovani, destare gli animi pigri, scaldare le volontà fredde a onorare sé stessi insieme e magnificare la patria e la casa sua. Né anche a me pare opera se non molto dignissima e facilissima nei padri delle famiglie a contenere con gravità e modo, e ristrignere la troppa licenza della gioventú; anzi da qualunque di sé stessi vorrà da' minori molto meritare serà cosa molto condecentissima mantenersi il pregio in sé della vecchiezza, el qual credo sia non altro che autoritate e reverenza. Né possono bellamente e' vecchi in altro miglior modo acquistare, accrescere e conservare in sé maggiore autorità e dignità, che avendo cura della gioventú, traendola in virtú, e renderla qualunque dí piú dotta e piú ornata, piú amata e pregiata, e cosí traendola in desiderio di cose amplissime e supreme, tenendola in studii di cose ottime e lodatissime, incendendo nelle tenere menti amore di laude e onore, sedando loro ogni dissoluta volontà e ogni minima dislodata turbazione d'animo, e cosí estirpandogli ogni radice di vizio e cagione di nimistà, ed empiendogli di buoni ammaestramenti ed essempli, e non fare come usano forse molti vecchi dati alla avarizia, e' quali ove e' cercano e' figliuoli farli massai, ivi gli fanno miseri e servili, dove eglino stimano piú le ricchezze che lo onore, insegnano a' figliuoli arti brutte e vili essercizii. Non lodo quella liberalità quale sia dannosa senza premio di fama o d'amistà, ma biasimo troppo ogni scarsità, e sempre mi spiacque ogni superchia pompa. Stiano e' vecchi adunque come communi padri di tutti e' giovani, anzi come mente e anima di tutto il corpo della famiglia. E come avere il piè negletto e nudo sarebbe disonore al viso a tutto l'uomo e vergogna, cosí e' vecchi e ciascuno maggiore in qualunque infimo di casa negligente sappia sé meritare gran biasimo, se in parte alcuna lascia la famiglia essere dissorevole o disonesta. Stia loro in mente essere de' vecchi prima faccenda intraprendere per ciascuno di casa, come que' buoni passati Lacedemoniesi che si riputavano padri e tutori d'ogni minore, e correggevano ciascuno tutti i disviamenti in qualunque loro giovane cittadino si fusse, e aveano i suoi piú stretti e piú congiunti carissimo e accettissimo fossero da qualunque altri stati fatti migliori. Ed era lode a' padri render grazia e merzè a chiunque si fusse, per far la gioventú piú moderata e piú civile, el quale n'avesse intrapreso alcuna opera. E con questa buona e utilissima disciplina de' costumi renderono la terra loro gloriosa, e ornoronla di fama immortale e meritata. Però che ivi non era inimistà fra loro, ove gli sdegni e le inimicizie subito erano nascendo svelte e regittate; ivi una sola volontà fra tutti commune e operosa d'avere la terra ben virtudiosa e costumata. Alle quali cose tutti s'afaticavano quanto in loro era studio, forza e ingegno, e' vecchi con ammunire e ricordare e di sé stessi porgere lodatissimo essemplo, e' giovani ubidendo e imitando".

Se queste e molte piú cose, quali soleva messer Benedetto recitare, tutte sono a' padri delle famiglie necessarie; se la cura del reggere la gioventú non solo ne' padri, ma negli altri ancora si conosce essere lodatissima, non sia adunque chi stimi non essere debito come degli altri padri cosí mio procurare con ogni argumento, ingegno e arte ch'e' miei a me figliuoli e carissimi rimangano quanto piú si può alla fede e pietà de' parenti e di ciascuno racomandatissimi e gratissimi. E cosí, o figliuoli miei, veggo essere officio de' giovani amare e ubidire e' vecchi, riverire l'età e avere e' maggiori tutti in luogo di padre, e rendergli come è dovuto grandissima osservanza e onore. Nella molta età si truova lunga pruova delle cose, ed èvvi el conoscere molti costumi, molte maniere e animi degli uomini, e stavvi l'aver veduto, udito, pensato infinite utilitati, e ad ogni fortuna ottimi e grandissimi rimedii. Nostro padre messer Benedetto, del quale uomo, come fo in ogni cosa, però m'è debito ricordarmi, perché in ogni cosa lui sempre cercò da noi essere conosciuto prudentissimo e civilissimo, trovandosi con alcuni suoi amici in l'isola di Rodi, introrono in ragionamenti delle inique e acerbe calamità della famiglia nostra, e iudicavano avesse la nostra famiglia Alberta dalla fortuna ricevuta iniuria troppo grande; e vedendo forse in qualcuno de' nostri cittadini qualche fiamma d'invidia e d'ingiusto odio essere incesa, accadde a ragionamento che messer Benedetto allora predisse alla terra nostra molte cose delle quali medesime già n'abbiàno non poca parte vedute. Ivi parendo a chi l'udiva cosa molto maravigliosa cosí apertamente predire quel che agli altri era udendo difficile compreendere, pregorono gli piacesse manifestarli donde egli avesse quel che cosí da lungi prediceva. Messer Benedetto, uomo umanissimo e facilissimo, sorridendo si discoperse alto la fronte e monstròngli que' canuti, e disse: "Questi capelli di tutto mi fanno prudente e conoscente".

E chi ne dubitasse nella età lunga essere gran memoria del passato, molto uso delle cose, assai essercitato intelletto a pregiudicare e conoscere le cagioni, il fine e riuscimento delle cose, e sapere coniungere da ora le cose presenti con quelle che furono ieri, e indi presentire quanto domani possa riuscirne, onde prevedendo apparisca e conséguiti certo e accomodatissimo consiglio, e consigliando renda ottimo rimedio a sostenere la famiglia in stato riposato e rilevato, in qual sempre con fede e diligenza possa difenderla da qualunque subita ruina, e con forza e virilità d'animo adirizzarla e ristituirla se già fusse dagli urti della fortuna in parte alcuna commossa o piegata? L'intelletto, la prudenza e conoscimento de' vecchi insieme colla diligenza sono quelle che mantengono in fiorita e lieta fortuna e adornano di splendore e laude la famiglia. A chi adunque può questo ne' suoi, mantenerli in felicità, reggerli contro all'infelicità, sostenerli non senza ornamento a ogni fortuna, qual possano e' vecchi, debbase loro non aver grandissima riverenza?

Debbano adunque e' giovani riverire e' vecchi, ma molto piú i propri padri, e' quali e per età e per ogni rispetto troppo da' figliuoli meritano. Tu dal padre avesti l'essere e molti principii ad acquistare virtú. El padre con suo sudore, sollecitudine e industria t'ha condutto ad essere uomo in quella età, quella fortuna, e a quello stato ove ti truovi. Se tu se' obligato a chi nella necessità e miseria tua t'aiuta, certo a chi quanto poté mai te lasciò patire alcuno minimo bisogno, a quello sarai obligatissimo. Se e' si debba ogni pensiero, ogni tua cosa, ogni fortuna coll'amico communicare, sofferire sconcio, fatica e sudore per chi ti porta amore, molto piú pel padre tuo a chi tu se' piú che alcuno altro carissimo, e quasi piú che a te stesso obligatissimo. Se dell'avere, del bene, delle ricchezze tue, gli amici e conoscenti tuoi debbono in buona parte goderne, molto piú il padre, dal quale tu hai avuto se non la roba la vita, non la vita solo ma il nutrimento tanto tempo, se none il nutrimento l'essere e il nome. Adunque sia debito a' giovani referire co' padri e co' suoi vecchi ogni volontà, pensiero e ragionamento suo, e di tutto con molti consigliarsi, e con quegli in prima a' quali conoscono sé essere piú che agli altri cari e amati, udirgli volentieri come prudentissimi ed espertissimi, seguire lieti gli amaestramenti di chi abbia piú senno e piú età. Né siano e' giovani pigri ad aiutare ogni maggiore nella vecchiezza e debolezze loro; sperino in sé da' suoi minori quella umanità e officio quale essi a' suoi maggiori aranno conferita. Però siano pronti e diligentissimi cercando di dargli in quella stracchezza della lunga età conforto, piacere e riposo. Né stimino a' vecchi essere alcuno piacere o letizia maggiore quanto è in loro di vedere la gioventú sua ben costumata e tale che meriti d'essere amata. E di certo niuno sarà maggior conforto a' vecchi quanto di vedere quelli in chi lungo tempo hanno tenuto ogni loro speranza ed espettazione, quelli per chi hanno avuti sempre i suoi desiderii curiosi e solleciti, questi vederli per loro costumi e virtú esser pregiati, amati e onorati. Molto sarà contenta quella vecchiezza quale vedrà ciascuno de' suoi adritto e avviato in pacifica e onorevole vita. Sempre sarà pacifica vita quella de' molto costumati; sempre sarà onorevole vita quella de' virtuosi. Da cosa niuna tanto segue alla vita de' mortali gran perturbazione quanto da' vizii.

Però sia vostro officio, o giovani, con virtú e costumi cercare di contentare e' padri e ogni vostro maggiore come nell'altre cose cosí in queste, le quali sono in voi lodo e fama, e a' vostri rendono allegrezza, voluttà e letizia. E cosí, figliuoli miei, seguite la virtú, fuggite e' vizii, riverite e' maggiori, date opera d'essere ben voluti, fate di vivere liberi, lieti, onorati e amati. El primo grado a essere onorato si è farsi voler bene e amare; el primo grado ad acquistar benivolenza e amore si è porgersi virtuoso e onesto; el primo grado per adornarsi di virtú si è avere in odio e' vizii, fuggire i viziosi. Volsi adunque sempre aversi apresso de' buoni lodati e pregiati, né partirsi mai da quelli onde abbiate essemplo e dottrina ad acquistare e appreendere virtú e costume. E doveteli amare, riverire, e dilettarvi d'essere da tutti conosciuti senza alcuno biasimo. Non siate difficili, non duri, non ostinati, non leggeri, non vani, ma facilissimi, trattabili, versatili, e quanto s'appartenga nella età pesati e gravi, e quanto in voi sia cercate con tutti essere gratissimi, e inverso e' maggiori quanto molto si può reverenti e ubidenti. Suole la umanità, mansuetudine, continenza e modestia ne' giovani non poco essere lodata; ma verso e' maggiori la riverenza ne' giovani sempre fu grata e molto richiesta.

Non dirò per millantarmi, ma ben per darvi domestici essempli, e' quali vi siano piú ad animo udirgli e piú a mente a ricordarvene che gli strani. Non mi ramenta in luogo alcuno, dove Ricciardo nostro fratello, o de' nostri altri di piú età di me fossero, ch'io mai volessi ivi essere veduto o sedere o starmi senza rendergli grandissima riverenza. Mai fra piú gente né in alcuno luogo publico fu chi appresso de' miei maggiori mi vedesse se non ritto e aparecchiato se cosa mi volessino comandare. Dovunque io gli avessi veduti, sempre levavo me verso loro e discoprivami ad onorarli, e dovunque io gli trovassi, era mio costume lasciare adrieto ogni mio sollazzo e compagnia per essere co' maggiori, rendergli onore e acompagnarli. Né sarei mai ritrattomi da loro, né reduttomi tra' giovani amici, se prima come da padre non avea impetrata licenza. Ed era di questa mia osservanza e subiezione non da' vecchi tanto, ma da' giovani ancora non biasimato, e a me parea averne fatto el debito mio, ché fare il contrario, non aggradire, non pregiare, non sottoaversi a' maggiori arei riputatomi a vergogna e biasimo. E piú in ogni cosa a me sempre parse dovere con Ricciardo come sempre feci, apertomi con lui, consigliatomi, riputatolo come padre, tanto mi stava in animo essere debito degnare e onorare l'età.

Sarete adunque quanto vi conforto verso e' maggiori molto riverenti, e quanto in voi stessi potrete virtuosi. Né guardate, figliuoli miei, che la virtú in vista sia forse duretta e aspretta, gli altri disviamenti in primo aspetto sieno proclivi e dilettosi, imperoché adentro vi si truova questa tra loro grandissima differenza: nel vizio abita piú pentimento che contentamento, piú vi surge dolore che piacere, piú vi truovi perdimento da ogni parte che utile. Nella virtú tutto contra, lieta, graziosa e amena, sempre ti contenta, mai ti duole, mai ti sazia, ogni dí piú e piú t'è grata e utile. E quanto in te saranno buoni costumi e intere ragioni, tanto sarai pregiato e lodato, e da' buoni ben voluto, e godera'ne fra te stesso. E se conoscerai te non essere non uomo, e non vorrai umanitate alcuna essere da te lontana, certo arai non pochissima parte di vera felicità in te stessi. Questo può la virtú per sé sola, rendere beato e felice chi con tutto l'animo e tutte l'opere dedica sé a seguire e osservare ogni erudimento e precetto col quale alontani sé da' vizii e fugga ogni rio costume e cosa non lodata.

Io sono di quelli che vorrei piú tosto, figliuo' miei lasciarvi per eredità virtú che tutte le ricchezze, ma questo non sta in me. Quello che in me stimai licito, sempre mi sono operato darvi ogni principio, aiuto e modo con che voi conseguiate molta lode, assai grazia e grande onore. A voi sta usare l'ingegno avete da natura, credo non piccolo, né debole, e farlo migliore con studio ed essercizio di buone cose, e con molta copia di buone arti e lettere. E la fortuna, la quale io vi lascio, dovete adoperarla e distribuirla in que' modi tutti siano utili a farvi grati come a' vostri, ancora simile a ogni strano. E' mi par ben potere però dubitare che desiderarete qualche volta avermi in vita, figliuoli miei; forse patirete degli affanni e necessità, quale essendoci io, manco vi nocerebbono, ché a me non è nuovo quello possa la fortuna ne' deboli anni negli animi inesperti de' giovani, a' quali manca e consiglio e aiuto. Ed èmmi essemplo la casa nostra, la quale abonda di prudenza, ragione ed esperienza, fermezza, virilità e constanza d'animo; pure conosce in queste nostre avversità quanto con sua furia e iniquità la fortuna in qualunque saldo consiglio, e in qualunque ferma e ben constituta ragione vaglia. Ma siate di forte e intero animo. Le avversità sono materia della virtú. E chi è colui el quale di sua fermezza d'animo, di sua constanza di mente, di sua forza d'ingegno, di sua industria e arte vaglia di sé nelle seconde e quiete cose, nell'ozio e tranquillità della fortuna, tanto meritare e acquistare laude e nome quanto nella avversa e difficile? Però vincete la fortuna colla pazienza, vincete la iniquità degli uomini collo studio delle virtú, adattatevi alle necessitati e a' tempi con ragione e prudenza, agiugnetevi all'uso e costume degli uomini con modestia, umanità e discrezione, e sopratutto con ogni vostro ingegno, arte, studio e opera, cercate molto in prima essere, e apresso parere virtuosi. Né a voi sia piú caro, né prima desiderata alcuna cosa che la virtú, e in voi stessi arete statuito sempre alla scienza e sapienza posporre ogni altra cosa, e indi ogni utile della fortuna apresso di voi riputerete da non molto essere pregiato. E ne' vostri desiderii lo onore solo e la fama si vendicaranno e' primi luoghi, né mai posporrete le lode alle ricchezze e per asseguire onore e pregio niuna cosa benché ardua e laboriosa mai vi parrà da nolla intraprendere e proseguire, e delle fatiche vostre basteravvi aspettare non altro che grazia e nome. Né dubitate che chi è virtuoso, quando che sia troverrà frutto dell'opere sue, né vi sfidate con perseveranza e assiduità durare in studii di buone arti, in pervestigazioni di cose rarissime e lodatissime, e in apprendere e tenere buone dottrine e discipline, ché un tardo renditore spess'ora ne suole venire con molta usura.

Né a me spiace in voi che 'nsino da questa puerile e tenera età abbiate apparecchiata non mezzana materia ad essercitarvi e ad imparare opporsi e sostenere gl'impeti degli avversi casi umani. Lasciovi in essilio e senza padre, fuori della patria e della casa vostra. Fievi lodo, figliuoli miei, ne' teneri e deboli anni, se none in tutto, in parte almanco traiettarvi a superare la durezza e asprezza delle necessitati, e nella ferma età a voi sarà quasi meritato in voi stessi triunfo, se arete in ogni vita saputo poco temere la malignità e vincere l'ingiuria della fortuna. E da ora stimate quanto in voi non mancherà diligenza, sollecitudine e amore alle cose pregiate e oneste, tanto rarissimo v'acaderà desiderare la presenza mia e molto meno l'aiuto degli altri mortali. Chi in sé arà virtú, a costui pochissime altre cose di fuori saranno necessarie. Troppo ampla ricchezza, troppo grande possanza, troppo singulare felicità risiede in colui el quale saprà essere contento solo della virtú. Beatissimo colui el quale si porge ornato di costumi, forte d'amicizie, copioso di favori e grazia fra' suoi cittadini. Niuno sarà piú in alta e piú ferma e salda gloria, che costui el quale arà sé stessi dedicato ad aumentare con fama e memoria la patria sua, e' cittadini e la famiglia sua. Costui solo meriterà avere il nome suo apresso de' nipoti suoi pien di lode e famoso e immortale, el qual d'ogn'altra cosa fragile e caduca ne giudicherà quanto si debba, da nolla curare e da spregiarla, solo amerà la virtú, solo seguirà la sapienza, solo desiderrà intera e corretta gloria. Qui, figliuoli miei, nella virtú, nelle buone arti, nelle lodate discipline sarà vostro officio essercitarvi, e dare opera che per voi non manchi di venire tali quali costoro aspettano voi siate e desiderano. Cosí fate, cercate in qualunque onesto modo, con tutte le fatiche, con molto sudore, con ogni forza e industria meritare apresso di costoro lodo e grazia, e insieme apresso degli altri benivolenza, dignità e autorità, e apresso de' nipoti e di chi de' nipoti verrà memoria di voi, di vostri singulari detti e fatti e opere.

E siate di migliore animo. Qui è Adovardo, e Lionardo, e saracci Ricciardo, a' quali spero sarete racomandati. Io conosco la natura di ciascuno di casa nostra Alberta molto amorevole, e stimo non vorranno essere riputati sí duri, né sí spiatati che non aiutassero e' suoi vedendo essercitarvi in virtú. Cosí vi priego, Adovardo e tu Lionardo; voi vedete l'età di questi garzoni, conoscete el pericolo della gioventú, gustate el bene e onore di casa; siate adunque solliciti, pigliatene ciascuno di voi tutta la somma fatica. Egli è debito a tutti studiare che nella casa crescano ingegni con virtú e fama. Perché piace egli onorare chi già sia caduto di vita con sepulcri, ornarli con quelle superchie e a' passati inutile pompe de' mortorii, se non perché la piatà e officio de' vivi sia lodata e approvata? Se cosí credete, non serà egli necessario molto piú ornare e onorare e' vivi, contribuirvi, concorrere ove bisogna a pignerli inanti e statuirli in luogo prestante e famoso a tutta la famiglia. Non però voglio s'intenda questo esser ditto perché io stimi tanta cosa in alcuno di costoro due miei, ma pure sarà vostra faccenda monstrare che questo mio racomandarvegli, qual fo in presenza, doppo me gli sia giovato.

Cosí aveva detto Lorenzo. Adovardo e Lionardo stavano muti, intenti, ascoltando. In questi ragionamenti e' medici sopragiunsero e consigliorono Lorenzo alquanto si riposasse. Cosí fece. Asettossi, e noi usciti fuori in sala: - Chi potrebbe stimare, - disse Adovardo, - se none chi in sé stessi lo pruova, quanto sia l'amore de' padri inverso a' figliuoli grande e veemente? Ciascuno amore a me pare non piccolo. Sonsi veduti molti e' quali hanno esposto la roba, el tempo e ogni suo fortuna, e sofferte ultime fatiche, pericoli e danni, solo per dimonstrare quanto in sé sia fede e merito inverso dello amico. E dicesi essere stato chi per desiderio delle cose amate, stimando sé già esserne privato, non ha sofferto piú restare in vita. E cosí sono le storie e la memoria degli uomini piene di queste forze, le quali simili affezioni d'animo in molti hanno provate. Ma per certo non credo amore alcuno sia piú fermo, di piú constanza, piú intero, né maggiore che quello amore del padre verso de' figliuoli.

Ben confesserei a Platone que' suoi quattro furori essere nell'animo e mente de' mortali molto possenti e veementissimi, quali e' ponea de' vaticinii, de' ministerii, de' poeti e dell'amore. E cosí la passione venerea molto piú in sé mi par feroce e furiosissima. Ma vedesi quello non rade volte per disdegno, per disuso, per nuova volontà, o per che altro si sia, scema, perisce e quasi sempre di sé lascia inimistà. Né anche ti negherei la vera amicizia star legata d'uno amore bene intero e ben forte. Ma non credo però ivi sia maggiore, né piú officiosa e ardente affezione d'animo che quella la quale da essa vera natura nelle menti de' padri tiene sua radice e nascimento, se già a te altro non paresse.

LIONARDO A me non acade giudicare quanto ne' padri verso de' suoi nati sia l'animo affezionatissimo, perché io non so questo avere figliuoli, Adovardo, che piacere o che dolcezza e' si sia. Ma quanto da lungi compreenda per coniettura, ben mi pare giustamente potere essere di questa tua sentenza, e dire che l'amore del padre per piú rispetti sia troppo grandissimo; come d'altronde, cosí vedendo da ora con quanta opera e con quanta tenerezza Lorenzo testé ci racomandava questi suoi, non perché essistimasse necessario rendere a noi piú grati costoro, e' quali conosce ci sono gratissimi, ma credo quel fervore del paterno amore lo traportava, e non gli parea che uomo alcuno, per sollecitissimo, curiosissimo, prudentissimo che sia, possa abastanza negli altrui figliuoli avere quanto riguardo e consiglio l'amore de' padri vi desidera. E dicoti el vero, quelle parole di Lorenzo testé movevano me non piú là se non quanto mi pareva giusto e ragionevole avere pensiero e buona diligenza de' pupilli e della gioventú di casa. Pure io non poteva alle volte ritenere le lacrime. Te vedevo io stare tutto astratto; parevami pensassi fra te stesso molto piú oltre che io in me forse non faceva.

ADOVARDO Or cosí era. Ogni parola di Lorenzo premeva me parte a pietà, parte a compassione. Conoscermi ancora me essere padre, a' figliuoli d'un amico, parente buono amorevole, a quelli che per sangue mi debbono essere cari, e tanto piú poiché e' sono a noi stati racomandati, non far quel medesimo loro che a' miei, non essere inverso di loro animato come a' propri miei figliuoli, veramente, Lionardo, sarei non buono parente né vero amico, anzi mi giudicaresti spiatato, fraudulento e bene di cattivissima condizione, sare'ne biasimato, infame. E chi non dovesse de' pupilli avere piatà? E chi non dovesse avere sempre inanzi agli occhi quel padre di questi orfani, quel medesimo tuo amico, e quelle ultime parole inscritte nel cuore, quali coll'ultimo spirito quel tuo, quel parente e amico ti racomanda la piú carissima cosa sua, e' figliuoli, fidasi di te, lasciali nel grembo, nelle braccia tue? Quanto io, Lionardo mio, sono di questo animo, che inanzi che io lasci costoro qui avere minimo disagio alcuno, prima patirò che a' miei proprii ogni cosa manchi. Delle necessità de' miei io solo n'ho a conoscere, ma de' mancamenti in chi m'è racomandato n'arà ogni buono, ogni piatoso, ogni discreto a giudicare. E cosí a noi è debito satisfarne alla fama, allo onore, al ben vivere e a' costumi. E stimo cosí: chi o per avarizia, o per negligenza lascia uno ingegno atto e nato a conseguire pregio e onore perire, costui merita non solo riprensione, ma ben grandissima punizione. S'egli è poco lodo non custodire, non tenere pulito e in punto el bue, la giumenta; e s'egli è biasimo, per inutile ch'ella sia, lasciare la bestia per tua negligenza perire, chi uno umano ingegno terrà sommerso fra le necessitati e malinconie, disonorato, arallo a vile, patirà per sua inerzia e strettezza che manchi e perisca, non sarà costui degno di grandissima riprensione? Sarà egli da nollo stimare ingiusto e inumanissimo? Ah! guardisi di tanta crudeltà, tema la vendetta d'Iddio, oda quel publico espertissimo e verissimo proverbio quale si dice: "chi l'altrui famiglia non guarda, la sua non mette barba".

LIONARDO Ben veggio in parte quanto sia sollecita cosa l'essere padre. Le parole di Lorenzo mi pare abbino te piú a lungi tutto commosso che io non istimava. Questo tuo ragionamento mi tira là, credo, dove sta l'animo a te sopra a' fanciulli tuoi. E mentre che tu ragionavi, testé mi parse dubitare fra me stessi qual fusse piú o la cura e sollecitudine de' padri verso e' figliuoli, o il piacere e contentamento in allevare e' nati. Della fatica non dubito io, ma credo però essa sia non ultima cagione a voi padri farvi e' figliuoli piú carissimi. Veggo da natura quasi ciascuno ama l'opere sue, el pittore e il scrittore, e il poeta; el padre molto piú, stimo, perché piú vi dura richiesta e piú lunga fatica. Tutti cercano l'opere sue piaccino a molti, sieno lodate, stiano quanto sia possibile eterne.

ADOVARDO Sí bene, quello in che tu se' affaticatoti piú t'è caro. Ma pure egli è da natura ne' padri non so come una maggior necessità, uno tale appetito d'avere e allevare figliuoli, e apresso prenderne diletto di vedere in quelli espressa la imagine e similitudine sua, dov'elli aduni tutte le sue speranze, e indi aspetti nella sua vecchiezza averne quasi uno presidio fermo, e buono riposo alla già stracca e debole sua età. Ma chi vorrà tutto ripensare seco e considerare, troverrà che in allevare e' figliuoli sono sparse molte e varie malinconie, e vederà come stanno e' padri sempre sospesi coll'animo, qual faceva apo Terrenzio quel buono Mizio perché il figliuolo suo non era tornato ancora. Che pensieri erano e' suoi? Che sospetti gli scorrevono per l'animo? Quante paure lo premevano? Temea che il figliuolo non si trovassi caduto ove che sia, o rotto o fiaccatosi qualche cosa. Va! ha! che alcuno uomo si metta in animo a sé cosa cara piú che sé stesso, e cosí c'interviene. Stiamo sempre coll'animo al presente sollicito e timoroso, o col pensiero innanzi molto a lungi desto e pauroso a scoprire ogni via per la quale noi pensiamo guidare e' nostri a buona fortuna. E se la natura non richiedesse da' padri questa sollicitudine e cura, credo sieno pochi e' quali non si pentissino avere figliuoli. Vedi l'uccello e gli altri animali che fanno solo quanto in loro comanda la natura, durano fatica in finire il nido, le cove, il parto, e stanno obligati e faccendosi a guardare, difendere e conservare quello che è nato, aggirano solleciti per pascere e nutrire que' deboli suoi picchini, e cosí tutti questi e molti piú altri affanni in sé grandi e gravi el debito della natura ce gli alleggerisce. E quello che a te sarebbe spiacere e sconcio incarco, pare che a noi padri sia grata, condecente e lieta soma, essendoci quasi naturale necessità. E che però piú de' figliuoli che d'ogni altra cosa? Io nella vita de' mortali non so in che non sia tanto di male quanto di bene. Le ricchezze sono riputate utili e da volerle, pur si pruova quanto sieno piene di pensieri e malinconie. E sono le signorie riverite e temute, e pur si vede manifesto quanto sieno cariche di sospetti e paure. E pare che ad ogni cosa corrisponda il suo contrario; alla vita la morte, alla luce le tenebre; né puossi avere l'uno senza l'altro. Cosí acade de' figliuoli, ne' quali sta niuna speranza non accompagnata di molto desperare, né ivi truovi dolcezza alcuna o letizia senza qualche tristezza e amaritudine. Quanto e' ti piú crescono in età, non nego, tanto e' ti portano allegrezza e' figliuoli, ma insieme altretante maninconie ti s'aumentano. E negli animi umani si sentono piú le miserie che la felicità, meno le voluttà e letizie che e' dolori e acerbità, però che queste piú veementi pungono e premono, quelle piú soavi ti solleticano. E convienti avere de' figliuoli in ogni età pensiere e persino dalle fasce; ancora e vie maggior sollecitudine quando e' ti crescono, e molta, infinita piú diligenza quando e' vengono piú grandicelli, e molto piú ancora e piú cura e opera quando e' vengono di piú età. Però non dubitare, Lionardo, che l'essere padre non sia cosa non solo sollicita, ma pienissima di maninconia.

LIONARDO Io posso in voi padri credere cosí sia come altrove. Sempre veggo la natura da ogni parte sollecita a provedere che ogni cosa procreata sé stessi conservi, ricevendo da chi la produsse nutrimento e aiuto a perseverare in vita e a porgere le sue utilitati in luce. Veggo nelle piante e arbuscelli quanto le radici attraggono e distribuiscono alimento al tronco, el tronco a' rami, e' rami alle frondi e a' frutti. Cosí forse sarà da stimare naturale a' padri che nulla lascino adrieto per nutrire e mantenere quelli che sono di sé usciti e per sé nati. E confesso a voi padri essere non se non debito avere cura e sollecitudine per bene allevare i vostri nati. Né ora ti domando se quella cosí fatta sollecitudine a' padri sia naturale necessità, o pure quasi come nato e cresciuto amore da que' piaceri e da quelle speranze, quali si pigliano e' padri dagli atti e presenza de' figliuoli; già che non rarissimo si vede uno amerà questo piú che quello suo figliuolo, e di cui forse gli parerà possa piú sperarne, in questo tale sarà piú curioso a ornarlo, piú liberale e facile a compiacergli. E ancora si vede tutto il dí chi poco cura il suo figliuolo vada in lontani e strani paesi stracciato fra le stalle, fra' disagii, in mezzo a' pericoli, e dove, qual piú gli debba dispiacere, forse diventi vizioso e incorrigibile. Ma non sia per ora nostra contenzione investigare che principii, crescimenti o fini in sé abbia ciascuno amore. Né anche cerchiamo onde ne' padri verso i suoi nasca alcuna disparità d'amore, ché mi potresti rispondere l'essere vizioso viene da corrotta natura e depravato ingegno. Però la natura medesima, la quale in tutte le cose cerca convenienza e perfezione, disiunge e priva e' viziosi figliuoli dal vero amore e dalla intera carità de' padri. E anche forse hanno e' padri una o un'altra lode piú cara ne' figliuoli che tenersegli in mezzo a' domestichi ozii e vezzi, o quello ti paresse rispondermi credo sarebbe lungo ragionamento.

E qui, non per contradirti, ma solo per certificarmi ove tu dicevi che sino dalla fascia e' padri truovano ne' figliuoli sí gravissime maninconie, non mi persuade che uno savio padre debba pigliarsi ad animo nonché tristezza, ma né incarco alcuno di molte altre cose, e di questo in prima quale s'appartiene alle femmine, alla nutrice, alla madre piú troppo che al padre. Stimo tutta quella età tenerina piú tosto devuta al riposo delle donne, che allo essercizio degli uomini. E quanto io, sono di quelli che vorrei mai né trassinare e' picchini, né vederli troppo da' padri, come talora li veggo, palleggiare. Stolti, che poco stimano con quanti infiniti pericoli e' puerelli stiano nelle dure braccia de' padri, a' quali piccola cosellina sconcia e distorce quelle ossicine tenerucce, e raro si può stringerli o maneggiarli senza grandissimo modo che non si gli travolga e disvolghi qualche membro, come per questo talora si ritruovano bistorti e bilenchi. Adunque sia questa prima età in tutto fuori delle braccia de' padri, riposisi, dorma nel grembo della mamma.

Quella età poi che a questa segue, ne viene con molto diletto, col riso di tutti, e già cominciano a proferire e con parole in parte dimonstrare le voglie sue. Tutta la casa ascolta, tutta la vicinanza riferisce, non manca ragionarne con festa e giuoco, interpetrando e lodando quel fece e disse. E già si vede gemmare e apparire in quella come primavera di quella età, nel viso, nell'aria, nelle parole e ne' loro modi infinite buone speranze, grandissimi segni di sottilissimo intelletto e di profondissima memoria, e cosí per tutti se ne dice ch'e' putti sono conforto e giuoco a' padri e a' suoi vecchi. Né credo si truovi sí obligato di faccende, né sí carco di pensieri padre alcuno a chi non sia la presenza de' fanciulli suoi molto sollazzosa. Catone, quel buono antico, qual fu per sopranome savio chiamato, e riputato quanto era in tutte le cose constantissimo e severissimo, si dice spesso interlassava l'altre grandissime e publice e private sue faccende el dí, tornando molte volte a rivedere que' suoi piccinini, tanto gli parea non acerbo e doglioso avere figliuoli, ma dolce e dilettoso vedere el riso, udire le parole, godere di tutti que' vezzi pieni di molta simplicità e suavità, quali sono sparti nella fronte di quella pura e dolce prima età. Se adunque cosí è, Adovardo, se le sollecitudine de' padri sono e piccolissime e con molto diletto, tutte piene d'amore e di buona speranza, di riso, di festa e giuoco, queste vostre maninconie in che sono elle? Gioverammi saperne ragionare.

ADOVARDO A me sarebbe molto caro tu, come in parte so io, per pruova sapessi ragionarne. Ben mi duole di voi non pochi giovani Alberti, e' quali vi trovate senza eredi, senza avere quanto potresti accresciuta la famiglia e fattola molto populosa. Che è questo a dire? - che io annoverava pochi dí fa non meno che venti e due giovani Alberti vivere soli senza compagna, non aver moglie, niuno manco che sedici, niuno piú che anni trenta e sei. Duolmene certo e veggo quanto sia danno grandissimo alla famiglia nostra se tanto numero di figliuoli, quanto da voi giovani si richiede, mancherà; ché giudico da volere prima sostenere ogni sconcio e ogni dispiacere che patire qui la famiglia rimanga sola, senza vedere chi succeda nel luogo e nome de' padri. E perché io vorrei che tu in prima fra gli altri fussi uno di quelli el quale, come fai di fama e nome, cosí di figliuoli simili a te riempiessi e aggrandissi la famiglia Alberta, però mi ritemo persuaderti cosa alcuna onde tu avessi da dubitare e ritrarti. Ché credo assai da presso ti monstrerrei le maninconie de' padri per ogni età essere non poche, né poco acerbe e dure, e vederesti negli affezionatissimi padri da quella prima età nascere non sempre giuoco e riso, ma spesso tristezza e lacrime. E anche non negheresti a' padri stare grande affezioni, grande sollecitudini, molto prima ch'e' figliuoli ci portino riso o sollazzo alcuno. Convienci pensare molto innanzi a ritrovare buona balia, cercarne con molta opera per averla a tempo, investigare ch'ella non sia inferma né scostumata, e porvi mente e diligenza ch'ella sia vacua, libera e netta di que' vizii e di quelle macule quali infettano e corrompono il latte e il sangue; e piú abbiamo da procurarla tale che in casa seco porti né scandolo né vergogna. Sarebbe lungo racontare quanto riguardo qui sia a noi padri necessario, quanta fatica per ciascuno in tempo vi si duri prima che truovi quanto si conviene onesta, buona e faccente balia. Né forse crederresti quanto sia maninconia, ripetio e rimordimento d'animo nolla trovare a tempo, o nolla avere poi sufficiente, le quali cose pare che ne' maggiori bisogni piú sempre manchino. E sai quanto sia nella inferma e scostumata balia pericolo come di lebra, epilenzia, e cosí di tutte quelle gravissime infermitati, quali si dice possono venire dalla poppa; e anche sai quanto siano rare le buone nutrice e da molti richieste.

Ma che vado io pure racontando ogni minima cosa? Poiché m'è piú caro stimi e' figliuoli siano, come a dire il vero sono, a' padri grandissimo sollazzo, que' piccini vederli lieti atornoti, maravigliarti d'ogni loro atto e parola, riputarla da grande sentimento, prometterti fra te stesso assai buona speranza. Una cosa forse può far piccole queste dolcezze e renderti molto maggiori e piú cocente cure all'animo. Stima tu a chi duole vederli piangere se forse cadendo un poco si li percuotono le mani, quanto gli sarà molesto pensare che piú fanciulli di quella età che d'ogni altra periscono. Pensa quanto gli sia acerbità aspettare d'ora in ora essere privato di tanta voluttà. Anzi mi pare questa età prima esser quella che da ogni parte sparge le molte e grandissime maninconie, e quasi solo questa si vede piena di vaiuoli, fersa e rosolia, né mai sta senza crudezze di stomaco, al continuo giace deboluzza, e sempre langue carca di molte altre infermità, quali né tu conosci, né quelli picchini ti sanno dirle, onde in te stimi ogni loro piccolo male essere grandissimo e tanto maggiore quanto ti sfidi come a non conosciuta malattia vi si possa dare vero e utile rimedio. Però ogni minima dogliuzza de' figliuoli nell'animo de' padri tiene grandissimo tormento.

LIONARDO Troppo aresti tu caro, Adovardo, ch'io non potessi piú come colui dire quello che si riputa felicissima cosa: "mai ebbi moglie". Ben sai tu se io vi sono di buono e ardente animo, e credo non fastidia te che a me siano da molti, quanto troppo spesso sono, l'orecchie riscaldate. E veggo non t'è a odio che chi non ha che dirmi, chi altrimenti si truova povero di parole, mancandogli ogni altra trama a ragionare, entri a cinguettare a darmi moglie, e qui effunda grandissimi fiumi d'eloquenza in demonstrarmi e lodarmi el coniugio, la società constituta da essa primeva natura, la procreazione de' successori eredi, l'accrescimento e amplificazione della famiglia, comandandomi "to' questa o quella nella quale non hai da disiderarvi o piú dota, o maggior bellezze, o migliore parentado". E cosí spesso con troppa loro presunzione, ove cercano incendermi volontà di non starmi libero come mi sto, incendono in me qualche iusta indegnazione. E pur vorrei anch'io testé non trovarmi senza moglie, e arei caro aver figliuoli, acciò che in te non fusse tanto avantaggio piú che a me che io non potessi refutare l'autorità tua per pruova quanto con argomenti. E sallo Dio e anche tu quanto io vi sia d'animo fervente, e come spesso e teco e con altri abbiamo ricercato trovare cosa ci s'affaccia. Ma che disaventura sia la nostra certo mi pesa. Quelle vergine quale gusterebbono a te dispiaceno a me. Quelle che a me forse non sarebbono moleste, a voi altri mai pare si condicano, e cosí mi si rimane l'animo ardentissimo, non tanto d'avere nella famiglia el luogo e il nome mio doppo me non ispento e anullato, ma anche molto piú mi sta el volere omai uscire di tanta seccaggine di tutti gli amici e conoscenti a chi, non so per che invidia, la libertà mia del starmi senza femmina dispiace. Ma io temo a me non intervenga come si scrive apo gli antichi di quel fonte sacro in Epiro, nel quale un legno infiammato si spegne, e uno spento e freddo vi si raccende. Però forse sarà il meglio voi lasciate me da me stesso infiammato satisfarvi, o se pure credete il vostro dire in me faccia utile opera alcuna, consigliovi aspettiate questo mio ardente desiderio del tôr donna si rafreddi.

Ma noi abbiamo riso assai. Quanto se io avessi fanciugli, io non mi piglierei quella fatica di cercare altra nutrice che la loro medesima madre. E' mi ramenta Favorino, quel filosofo d'Aulo Gelio, e tutti gli altri antichi quanto e' lodan piú el latte della madre che alcuno altro. Forse questi medici appongano che dare el latte le indebolisce e falle talora sterile. Ma pure io posso credere dalla natura sia bene a tutto proveduto, e debbasi stimare non sanza cagione, ma bene con gran ragione quanto si vede insieme colla grossezza ivi nascere in copia e multiplicarsi el latte, quasi come la natura stessa ci apparecchi al bisogno e dicaci quanto a' figliuoli dalle madri aspetti. Piglierei questa licenza se la donna per sinistro alcuno fusse diventata debole: io provederei, come tu di', d'avere balia buona, esperta e costumata, non per lasciar piú ozio alla donna, non per torgli quella verso de' figliuoli devuta faccenda, ma per dare meno tristo nutrimento al fanciullo. E credo il vero che, oltre a quelle infermità, quali tu dicevi potevano dal corrotto latte venire, ancora piú la nutrice non onesta, non costumata, sarà sufficiente ne' costumi del fanciullo nuocere e inclinallo a' vizii ed empierli l'animo di furiosi e bestiali passioni come d'iracundia, timidità, spaventi e simili mali. E credo se la balia o da sé fia, o per uso di vini troppo fumosi e pretti, o per altri riscaldamenti d'animo focosa, e arà il sangue suo infiammato e riarso, forse sarà facile in colui, el quale arà da costei preso nutrimento cosí acceso e adusto, conseguirli l'animo proclive e incitato ad ira, immanità e bestialità. E cosí ancora può la lattatrice male contenta, piena di rancore e gravezza d'animo, rendere quel fanciullo pigro ed enervato e timido, e cosí tali simili cagioni possono assai ne' primi tempi. Vedesi uno arborcello non avendo donde e' pigli nutrimento appropriato a sé e ne' primi bisogni quanto si doveva copia d'aere e umidità, lo fa di poi stare sempre languido e seccuccio. E pruovasi che piccola piagolina a uno tenero rampollo piú nuoce che due grandi squarciature a uno annoso tronco. Pertanto si vuole molto provedere che a quella tenerina età sia nutrimento quanto si può ottimo. Però si proccuri al bisogno avere la balia lieta, netta, senza alcuno riscaldamento o turbazione di sangue o d'animo; faccia vita modesta, né sia immoderata in cosa alcuna, né scostumata; le quali cose sí, come tu dicevi, raro si truovano nelle nutrice, però ti resta da consentirmi che certo le proprie madri sono come piú che l'altre baliacce modestissime e costumatissime, cosí piú atte e molto piú utili a nutrire e' suoi proprii figliuoli. Né starò raccontando qui quale con piú amore, con piú fede, diligenza e assiduità governerà el fanciullo, o quella condutta per pregio, o la propria madre. Né ancora mi stenderò a provarti quanto l'amore verso del figliuolo si conservi e confermi alla madre quando el figliuolo sarà nel suo seno cresciuto e nutrito. E quando pure bisognasse, che raro non mancando la madre accade, cercare la balia e avere in queste tali dette cose sollecitudine, non pare a me faccenda troppo grave. E forse veggo molti uomini con diletto affaticarsi in utilitati minori che non è per salute de' figliuoli, cosa lodevole e molto devuta.

Ma ben sai, stare in paura come tu mi parevi e dubitare di quella prima età periscano molti, a me questo non pare da lodare. E' si vuole, mentre che ne' fanciulli si sente spirare qualche anima, piú tosto sperarne meglio che dubitarne. Né sono talora sí grande le dogliuzze de' fantini quanto elle paiono. Vedevilo ieri giacere languido e tutto quasi fuori di vita: oggi tutto vivo, tutto forte ti s'apresenta, per tutto transcorre. E quando a Dio fusse in qualche età piaciuto che a' figliuoli tuoi el corso de' giorni suoi fusse finito, stimo sia officio de' padri piú tosto ramentarsi e rendere grazia de' molti piaceri e sollazzi, quali e' figliuoli hanno loro dati, che dolersi se chi te gli prestò se gli ha in tempo rivoluti. Lodasi quella antiqua risposta d'Anassagora, el quale come prudente e savio padre udendo la morte del figliuolo, quanto dovea con paziente e ragionevole animo disse, sapea sé avere generato un uomo mortale, e non gli parea intollerabile se chi era nato per morire già fusse morto. Ma qual si truova rustico sí imperito e sciocco, el quale in sé non sia certissimo come nulla cosa può dirsi morta qual prima fusse stata non viva, cosí nulla essere in vita che non aspetti quanto era dovuta a morte?

E forse ti dirò tanto, Adovardo, ch'e' padri lo dovrebbono avere, non voglio dire caro, ma certo molto meno a molestia s'e' figliuoli muoiono senza maggior vizii e senza sentire quanti molti affanni siano in questa vita de' mortali. Niuna cosa si truova piú faticosa che 'l vivere; e beati coloro che uscirono di tanti stenti e finirono i dí suoi giovinetti in casa de' padri nella patria nostra! Felici loro che non sentirono le miserie nostre, non sono iti errando per le terre altrui senza dignità, senza autorità, dispersi, lontani da' parenti, dagli amici e da' cari suoi, sdegnati, spregiati, scacciati, odiati da chi riceveva onore e cortesia da noi! O infelicità nostra per tutte le terre altrui trovare nelle avversità nostre aiuto e qualche riposo, in tutte le genti strane la nostra calamità trovare pietate e compassione, solo da' nostri proprii cittadini già tanto tempo non potere impetrare misericordia alcuna! Senza cagione proscritti, senza ragione perseguiti, senza umanità negletti e odiati!

Ma che volevo io dire? A ogni età non mancano spesse infermità grandi e gravi non meno che nella prima infanzia, se già e' grandi e atempati ti paressino colle sue gotti, scese, fianchi e sciatiche piú che gli altri leggieri e liberi, o vero giudicassi che le febbri, dolori e morbi non potessero a' robusti e fermi giovani nuocere quanto a' fanciulli. E quando ben qualche età fusse piú percossa dall'ultime infermità, sarae però da non biasimare quel padre, el quale non tenga sé quanto si richiede moderato e prudente? E part'egli poca stultizia pure averti coll'animo pauroso e sollicito dove a te non sia licito prendervi altro alcuno rimedio?

ADOVARDO Io non voglio però contender teco, né disputare le cose sí a sottile. Sono contento giudichi poco savio chiunque teme quello a che non si può rimediare. Con questo o tu non riputare me pazzo, benché io in molte cose non sia e inverso de' fanciulli miei sanza paura, o tu ditermina che tutti i padri sieno stoltissimi, poiché niuno si truova el quale non molto procuri e tema di non perdere que' che gli sono carissimi. La qual cosa se alcuno biasima, insieme vitupera l'essere padre. E qui me conduco, Lionardo. Sieno, s'egli è possibile, e' padri certi ch'e' figliuoli persino all'ultima vecchiezza rimarranno in sanità e prosperità; aspettino e' padri veder e' nipoti de' suoi nipoti, qual si scrive vidde a sé nati divo Augusto Cesare; non temano in loro alcune gravissime malattie, le quali talora sono non meno che la morte acerbe e intollerabili, e speri ciascun padre sé essere simile a Dionisio tiranno siracusano, quale in età d'anni sessanta né de' figliuoli di tre sue mogli, né de' molti suoi nipoti, mai acadde farne essequie alcuna; e stia in arbitrio de' padri la vita e la morte de' figliuoli, la lunga età e la breve vita, come stette ad Altea, alla quale concessero gli dii che tanto il suo figliuolo Meleagro vivesse, quanto durava salvo e intero quel tizzone quale essa gittò crucciata in mezzo il fuoco, onde consumato il legno fu la vita a Meleagro finita: dico ch'e' figliuoli non sarebbono però a' padri se non pieni di maninconia.

LIONARDO A me cotesto pare piú da confessarlo a te, el quale non vuoi contendere, che da crederlo a uno altro da cui mi paresse a quel che dice domandarne ragione. Ma forse io scorgo dove tu potresti riuscire, come interviene a molti pochi savi padri che si straccano e scalpestano la sua vita tutta in arti faticosissime, in viaggi e travagli grandissimi, e vivono in disagii e servitú per lassare gli eredi suoi abondanti d'ozio, delizie e di pompa.

ADOVARDO Tu so non riputi me di quelli cosí fatti che io stia molto tempo pe' miei figliuoli occupato a congregare quello che in uno minimo momento può la fortuna, nonché a chi e' si lascia, ma a chi l'acquista, torlo. Ben dico che mi sarebbe caro lasciare e' miei ricchi e fortunati piú che poveri, e molto desidero, e molto, quanto in me sta, m'adopero lasciarli in tale fortuna che poco abbino ad arivare alle merzè d'altrui, ché non sono ignorante quanto sia miseria ne' suoi bisogni non potersi aiutare senza le mani d'altrui. Non credere però, s'e' padri non temono morte e povertà ne' figliuoli, che siano senza maninconia. E dove sta il peso di fargli costumati? Apresso il padre. Dove sta la soma di fargli imparare lettere e virtú? Appresso il padre. Dov'è quel carico smisurato di fargli apprendere una e un'altra dottrina, arte, scienza? Pure appresso il padre, ben sai. Agiugni a queste la grandissima sollecitudine che hanno i padri in scegliere quale arte, quale scienza, qual vita piú si confaccia alla natura del figliuolo, al nome della famiglia, al costume della terra, alle fortune, a' tempi e condizione presenti, alle occasioni, alle espettazioni de' cittadini. Non patisce la terra nostra che de' suoi alcuno cresca troppo nelle vittorie dell'armi. Savia, perché sarebbe pericoloso alla nostra antichissima libertà, se chi have adempiere nella republica le sue voluntà con favore e amore degli altri cittadini, potesse con minacce e forza d'arme aseguire quanto l'animo il traporta, quanto la fortuna si gli porge, quanto il tempo e condizioni delle cose gli accede e persuade. Né anche fa la terra nostra troppo pregio de' litterati, anzi piú tosto pare tutta studiosa al guadagno e cupida di ricchezze. O questo il paese che lo dia, o pure la natura e consuetudine de' passati, tutti pare crescano alla industria del guadagno, ogni ragionamento pare che senta della masserizia, ogni pensiero s'argomenta ad acquistare, ogni arte si stracca in congregare molte ricchezze. Non so se in noi Toscani questo fusse o da' cieli, come diceano gli antichi che, perché Atene avea il cielo puro e leggiero, però ivi erano uomini sottili e d'ingegni acuti; Tebe avea il cielo piú grasso, però erano e' Tebani piú tardi e meno astuti. Alcuni affermavano perché i Cartaginesi si trovavano il paese sterile e arido, per questo a loro era forza ne' suoi bisogni avere conversazione e ospizio con molte vicine ed estranee genti, onde riveniano esperti e dotti in molta astuzia e inganni. E anche forse si può credere ne' cittadini nostri l'uso e consuetudine de' passati abbia amminicolo e possanza. Come scrive Platone, quel principe de' filosofi, che ogni costume de' Lacedemoniesi era infiammato di cupidità di vincere, cosí stimo alla terra nostra il cielo produce gl'ingegni astuti a discernere el guadagno, el luogo e l'uso gl'incende non a gloria in prima, ma ad avanzarsi e conservarsi roba, e a desiderare ricchezze, colle quali e' credono meglio valere contro alle necessità, e non poco potere ad amplitudine e stato in fra i suoi cittadini. E se cosí fusse, quanto saranno solliciti e' padri quali stimeranno il figliuolo piú atto alle lettere o arme che a racogliere o coadunare denari! Non gli combatterà egli nell'animo uno volere seguire el costume della terra contro a uno desiderare d'adempiere le sue grandissime speranze? Sarà egli poco stimolo a' padri cosí avere a posporre l'utile e onore de' figliuoli e della famiglia sua? Non gli sarà egli gravissimo all'animo, per schifare odio e invidia de' suoi cittadini, esserli non licito quanto vorrebbe e gioverebbe, dirizzare il figliuolo a una o un'altra virtude o lode? E testé non occorrono a me in mente tutte le nostre doglie, e forse sarà troppo lunga opera e troppa esquisita fatica volertele a una a una tutte racontare. Basti a te quinci vedere ch'e' figliuoli sono a' padri pieni di lagni e maninconie innumerabili.

LIONARDO Quanto, Adovardo, se io ti dicessi ch'e' padri non avessino a sofferire delle fatiche, sendo ogni vita, come dicea Crisippo, grieve e laboriosa. Nessuno si truova mortale a chi el dolore non tocchi. Le infermità, la paura e le maninconie lo premano; sotterrare figliuoli, amici e parenti; perdere e di nuovo rifare; aspettare e proccurare quanto bisogna ad infinite nostre necessitati. E questa pena pare data a chi ci vive, che reiterate le piaghe della fortuna, nelle case s'invecchi con lacrime, merore, e in veste nera. Sí che, se i padri fussero piú che gli altri mortali sciolti da queste leggi a noi date dalla natura, e securi da queste incursioni e impeti delle cose, e liberi da tante a tutti gli uomini necessarie cure e pensieri, quali al continuo l'animo di chiunque si sia non stolto avolgono, credo sarebbono e' padri piú che gli altri felici e beati. Non ti niego però ch'e' padri sopratutto piú che gli altri debbano colle mani e co' piedi, con tutti e' nervi, con ogni industria e consiglio, quanto possono sforzarsi ch'e' figliuoli sieno costumati e onestissimi, sí perché fanno l'utile de' suoi, - il costume in uno giovane si stima certo non meno che la ricchezza, - sí etiam perché rendono ornamento e pregio alla casa e alla patria sua e a sé stesso. I figliuoli costumati sono testimoni e lodo della diligenza de' loro padri. E stimasi meglio essere alla patria, s'i' non erro, e' cittadini virtudiosi e onesti che i ricchi molto e possenti. E di certo e' figliuoli non costumati debbono essere a' padri non insensati e stolti grandissimo dolore, non tanto perché a loro dispiacciono le bruttezze e spurcizie de' figliuoli, quanto ché niuno dubita ogni scorretto figliuolo rendere al padre in molti modi non piccola vergogna, ove certo ciascuno conosce e giudica quanto stia ne' padri delle famiglie fare la gioventú sua onesta, costumata e virtudiosa. Né credo sarà chi nieghi questo, che tanto possono e' padri ne' loro figliuoli quanto e' vogliono. E come uno buono e sollecito scorgitore farà uno puledro mansueto e ubidiente, quale un altro men destro e negligente non arà potuto imbrigliarlo, cosí e' padri ne' suoi con diligenza e modo gli renderanno civilissimi e modestissimi. Onde non senza grandissimo biasimo di negligenza saranno e' padri quali aranno e' figliuoli non corretti, ma disviati e scelerati.

Però in questo sarà la prima cura e pensiere de' maggiori, come dianzi diceva Lorenzo, in provedere che la gioventú sua quanto si può sia ornatissima di virtú e costume. Del resto consiglierei io e' padri che ne' figliuoli seguissero piuttosto il ben della famiglia che il giudicio del volgo, già che si vede questo, alla virtú mai quasi manca ricetto e luogo, per tutto truova dove essere lodata la virtú e amata. Però farei come faceva quello Apollonio alabandese retorico quale, se i giovani non gli pareano bene atti alla eloquenza, gli traduceva a quegli mestieri da natura piú si gli afaceano, e non se gli lasciava apresso perdere tempo. E scrivesi di quelli Ginnosofiste, populi orientali, riputati fra gl'Indii savissimi, che allevavano e' nati non a voglia e desiderio del padre, ma secondo el ditto e sentenza di que' publici savi, a' quali era officio notare il nascimento e l'effigie di ciascuno. Indi giudicavano quanto e a che cosa fussero meglio atti, e in quelle come da questi prudenti vecchi era commendato, sé essercitavano. E se fussero stati a' buoni essercizii deboli e disadatti, non era chi volesse perdervi né spese né fatiche: dicesi gli gittavano e talora gli anegavano. Cosí facciano e' padri a quello ch'e' figliuoli sono atti, ascoltino l'oraculo d'Apolline, quale rispuose a Cicerone: "segui coll'opera e colla industria là dove la natura e lo 'ngegno tuo ti tira". E s'e' figliuoli sono pronti e accomodati alle virtú, a' fatti virili, alle scienze e arti prestantissime, alla vittoria e gloria delle armi, ponganvisi, faccianvisi essercitare e apprenderle, e diesi opera che insino dalla prima età vi si avezzino. Qualunque uso pigliano e' minori, con esso crescono. E se forse non fussero o per ingegno, o per intelletto, o per fermezza o prosperità, sufficienti alle cose maggiori, diesi loro minori e piú leggieri essercizii, e sempre se gli preponga essercitazioni quanto a loro sarà possibile essequirle, magnifice, virili e onorate. E se non fussero idonei e abili a quelle lodatissime, e se fussero inutili ad altro, facciano e' padri simile a que' Ginnosofiste, aneghino i figliuoli nelle cupidità, facciangli cupidenarii, incendino ne' giovani volontà non ad onore e gloria, ma all'auro, ricchezza, al quattrino.

ADOVARDO E questo ci duole ancora, Lionardo, che noi non sappiàno il certo, qual via sia piú a' nostri facile, né bene scorgiamo a quale buon corso la natura gl'invii.

LIONARDO Quanto io, stimo a uno padre diligente e desto non sarà questo molto difficile, conoscere a che essercizio e a che laude e' figliuoli suoi sieno proclivi e disposti. Quale piú sempre fu incerto e dubbioso che il ritrovare quelle cose, le quali in tutto voleano starsi nascose, le quali la natura si serbava molto entro coperte sotto la terra? Pur questo si vede, gl'industriosi artefici l'hanno ritrovate e agiunte. Chi disse all'avaro e cupido là sotto fussero metalli, argento e auro? Chi gl'insegnò? Chi gli aperse la via sí difficile e ambigua ad andarvi? Chi lo fé certo fussino minere piú tosto di preziosi metalli che di piombo? Furono gl'indizii, furono e' segni per li quali si mossono ad investigare, e co' quali investigando conseguirono, e addussorli in notizia e uso. E tanto potette la industria e diligenza degli uomini che nulla cosa di quelle occultissime piú a noi sta non conosciuta. Ecco ancora gli architetti vorranno edificare el pozzo o la fonte. Prima cercano gl'indizii, né però cavano in ogni luogo, perché sarebbe inutile spesa cavare dove non fusse buona, netta e presta vena. Però pongono mente sopra terra onde possano conoscere quello che sta sotto, entro, dalla terra nascoso. E dove e' veggono el terreno tuffoso, arido e arenoso, ivi non perdono opera, ma dove surgano virgulti, vinci e mirti, o simile verzure, ivi stimano porre sua opera non indarno. E cosí non, senza indizio, si danno a seguire quanto allo edificio sarebbe accommodato, ma dispongono lo edificio a meglio ricevere quel che gl'indizii gli prescrivono.

Simile adunque faccino e' padri verso de' figliuoli. Rimirino di dí in dí che costumi in loro nascono, che volontà vi durino, a che piú spesso ritornino, in che piú sieno assidui, e a che peggio volentieri s'induchino. Imperoché di qui aranno copiosi e chiari indizii a trarne e fermarne perfetta cognizione. E se tu credessi nell'altre cose ascosissime avere e' segni manco fallaci che ne' costumi e nel viso degli uomini, e' quali sono da essa natura congregabili, e volentieri e con studio si congiungono, e fra gli uomini lieti convivono, fuggono, spiacegli e attristagli la solitudine; se tu in costoro credessi trovare meno indizio e meno certezza che in quell'altre cose copertissime e in tutto dal necessario uso, presenza e giudicio de' mortali rimotissime, certo erreresti. La natura, ottima constitutrice delle cose, volle nell'uomo non solo che viva palese e in mezzo degli altri uomini, ma certo ancora pare gli abbia imposto necessità che con ragionamento e con altri molti modi comunichi e discopra a' medesimi uomini ogni sua passione e affezione, e raro patisce in alcuno rimanere o pensiero o fatto ascoso, e non da qualcuno lato saputo dagli altri. E pare che la natura stessa dal primo dí che qualunque cosa esce in luce abbia loro iniunte e interserte certe note e segni patentissimi e manifesti, co' quali porgano sé tale che gli uomini possano conoscerle quanto bisogna a saperle usare in quelle utilità sieno state create. E piú nell'ingegno e intelletto de' mortali have ancora inseminato la natura e inceso una cognizione e lume di infinite e occultissime ragioni di ferme e propinque cagioni, colle quali conosca onde e a che fine sieno nate le cose. E agiunsevi una divina e maravigliosa forza di sapere distinguere ed eleggere di tutte qual sia buona e qual nociva, qual mala, qual salutifera, quale accommodata e qual contraria. E vedi sí tosto come la pianta si scopre sopra della terra, cosí allora il pratico e diligente la conosce, e chi meno fusse pratico, colui alquanto piú tardi la conoscerebbe.

Ma certo ogni cosa prima è conosciuta che scemata, prima redutta ad uso che mancata. E cosí stimo la natura negli uomini faccia il simile. Né a' fanciulli diede sí coperte e oscure operazioni, né a' padri sí rozzi e inesperti iudicii che non possano di molti luoghi compreendere a che i figliuoli suoi piú s'adirizzino. E vederai dal primo dí che 'l fanciullo comincia a dimonstrare suo alcuno appetito, subito si scorge a che la natura lo 'nchina. Ramentami udire da' medici ch'e' parvuli, quando e' ti veggono cosí grillare colle mani, allora se vi badano, se vi si destano, dimonstrano essere composti alli essercizii virili e all'arme. E se piú loro piace que' versi e canti co' quali si sogliono ninnare e acquietare, significa che sono nati all'ozio e riposo delle lettere e alle scienze. E un diligente padre di dí in dí compreenderà e penserà per meglio iudicare ne' figliuoli ogni piccolo atto, ogni parola e cenno, come si scrive fece quel ricco agricoltore Servio Oppidio canusino: perché e' vedea uno de' suoi figliuoli sempre avere el seno suo pieno di noci, giucare e donare a questo e a quello, l'altro vedea egli tutto quieto starsi e tristerello, anoverandole e per le bucherattole transponendole, conobbe per questo solo indizio in ciascuno di loro che ingegno e animo vi fussi. Però, morendo gli chiamò, e disse dividea loro la eredità, perché e' non volea, se alcuna pazzia toccasse loro, avessero insieme materia d'adirarsi. E feceli certi come e' vedea non erano di una natura, ma l'uno sarebbe stretto e avaro, l'altro prodigo e gittatore. E non voleva dove in loro fusse tanta contrarietà d'ingegno e di costumi, ivi fussero simili e' loro animi oppositi e contrarii. E dove nella masserizia e spese non fussero d'una opinione e volere, provedeva fra loro venisse ira niuna, né vi cadesse dissidio alcuno di ferma benivolenza e amore. In costui adunque fu buona e lodata diligenza. Fece come è officio a' padri di fare: stare curioso e cauto a provedere ogni atto ne' figliuoli e ogni indizio, e con questi misurare che volontà e che animi si scuoprono, e a quel modo scorgere a che ciascuno piú sia da natura cinto e pronto.

E possono di molti luoghi e' padri assai bene scorgere a che ciascuno fanciullo s'adirizzi. Nessuno uomo è di cosí compiuta e pratica età, né di tanta malizia, né di sí artificioso e astuto ingegno a occultare e' suoi appetiti, voglie e passioni d'animo, che se tu piú dí v'arai l'intelletto e l'occhio desto a mirare suoi cenni, atti e maniere, nel quale tu non compreenda ogni suo vizio per occulto che sia. Scrive Plutarco per solo un guardo quale a certi vasi barbari fé Demostene, che subito Arpallo conobbe quanto e' fusse avaro e cupido. E cosí un cenno, uno atto, una parola spesso ti scuopre e apre a vedere per tutto dentro l'animo d'uno uomo, e molto piú facile ne' fanciulli che ne' piú saggi per età e per malizia, già che questi non sanno coprirsi bellamente con fizioni o simulazioni alcune. E ancora credo cosí che uno gran segno di buono ingegno ne' fanciulli sia quando raro si stanno ociosi, anzi vogliono fare ciò che fare veggono; uno grande segno di buona e facile natura quando presto si rachetano e la ricevuta iniuria si dimenticano, né sono nelle cose ostinati, ma rimettono e cedono senza troppa durezza e senza vendicarsi, e senza vincere ogni voluntà. Uno grande segno d'animo virile sta in uno fanciullo quando egli è a risponderti desto e pronto, presto, ardito a comparire tra gli uomini, e senza salvatichezza e sanza rustico alcuno timore. E in questo molto pare l'uso e consuetudine gl'aiuti. Però sarebbe utile, non come alcune madri usano sempre tenerseli in camera e in grembo, ma avezzargli tra le genti e ivi costumargli essere a tutti riverenti, né mai lasciargli soli, né sedere in ozio femminile, né ridursi covando tra le femmine. Platone solea riprendere quel suo Dione di troppa solitudine, dicendo che la solitudine era compagna e coniunta alla pertinacia. Catone vedendo un giovane ozioso e solo, lo domandò quello che facesse. Questo gli rispose, favellava da sé a sé. "Guarda", disse Catone, "che tu non parli testé con uomo alcuno cattivo". Prudentissimo, che sapea e per uso e per età quanto ne' giovenili intelletti umani piú possa la volontà incesa e corrotta di libidine, iracundia, o malvagia alcuna opinione e pensiere che la vera e intera ragione. E però conoscea che a costui, occupato ad ascoltare e rispondere a sé stessi, piú era facile consentire all'apetito e volontà che alla onestà, e manco credere alla continenza e fuga delle cose voluttuose che a' desiderati e aspettati suoi piaceri e diletti. Diventasi adunque cosí per solitudine coniunta con ozio, pertinace, vizioso e bizzarro.

Voglionsi adunque e' garzoni dal primo dí usarli tra gli uomini ove e' possino imparare piú virtú che vizio, e fino da piccioli cominciarli a fare virili usandogli ed essercitandogli in cose quanto nella loro età si possa magnifice e ample, storli da tutti i costumi e maniere femminile. E' Lacedemoniesi facevano andare e' fanciulli loro la notte al buio sopra e' sepulcri per asuefarli a non temere né credere le maschere e favole delle vecchie. Conoscevano, quanto uomo prudente niuno dubita, l'uso in tutta l'età valere assai, e nella prima adolescenza piú quasi avere forza che in tutte l'altre. Chi da piccolo sarà allevato nelle cose virili e ample, a costui ogni lode non supprema e di piú peso che alla età sua non s'appartenga, parrà se non leggiere, e stimeralla non difficile ad intraprenderla. Però si vuole cominciare usare e' fanciulli in cose laboriose e ardue, ove con industria e fatica cerchino e sperino vera laude e molta grazia. E in questo giova essercitargli la persona e l'ingegno; né si potrebbe facilmente lodare quanto sia in ogni cosa l'essercizio utile e molto necessario. Dicono e' fisici, e' quali lungo tempo hanno con diligenza notato e conosciuto quanto ne' corpi umani vaglia, l'essercizio conserva la vita, accende il caldo e vigore naturale, schiuma le superflue e cattive materie, fortifica ogni virtú e nervo. Ed è l'essercizio necessario a' giovani, utile a' vecchi; e colui solo non faccia essercizio, el quale non vuole vivere lieto, giocondo e sano. Solea Socrate, quel padre de' filosofi, per essercitarsi non rarissimo e in casa e, come lo descrive Senofonte, in conviti ballare e saltellare, tanto stimava licito e onesto per essercitarsi quello che certo altrove sarebbe lascivo e inetto. Ed è l'essercizio una di quelle medicine naturali, colle quali ciascuno può sé stesso senza pericolo alcuno medicare, come il dormire e il vegghiare, saziarsi e astenere, star caldo e fresco, mutare aere, sedersi quieto ed essercitarsi piú e manco ove bisogna. E soleano gl'infermi, uno tempo, solo colla dieta e collo essercizio purgarsi e rafermarsi. A' fanciulli che sono per età sí deboli che quasi sostengano sé, piú si loda el giacere in quiete molta e in lungo ozio, però che costoro stando troppo ritti e sofferendo fatica s'indeboliscono. Ma a' fanciulletti piú forteruzzi e agli altri tutti troppo nuoce l'ozio. Empionsi per l'ozio le vene di flemma, stanno acquidosi e scialbi, e lo stomaco sdegnoso, i nerbi pigri e tutto il corpo tardo e adormentato; e piú l'ingegno per troppo ozio s'apanna e ofuscasi, e ogni virtú nell'animo diventa inerte e straccuccia. E per contrario molto giova l'essercizio. La natura si vivifica, i nervi s'ausano alle fatiche, fortificasi ogni membro, assottigliasi il sangue, impongono le carni sode, l'ingegno sta pronto e lieto.

Né acade per ora referire quanto sia l'essercizio utilissimo e molto necessario a tutte l'età, e in prima a' giovani. Vedilo come sieno e' fanciulli allevati in villa alla fatica e al sole robusti e fermi piú che questi nostri cresciuti nell'ozio e nella ombra, come diceva Columella, a' quali non può la morte agiugnervi di sozzo piú nulla. Stanno paliducci, seccucci, occhiaie e mocci. E però giova usarli alle fatiche, sí per renderli piú forti, sí ancora per non lassarli summergere dall'ozio e inerzia, usargli a ogni cosa virile. E anche lodo coloro e' quali costumano e' figliuoli sofferire col capo scoperto e il pié freddo, molto vegghiare adrento alla notte, levare avanti el sole, e nell'avanzo dar loro quanto richiede la onestà, e quanto bisogna a imporre e confermarsi la persona; assuefarli adunque in queste necessitadi, e cosí farli quanto si può virili, però che le giovano piú molto non nocendo che elle non nuocono non giovando. Scrive Erodoto, quello antico greco nominato padre della istoria, che doppo la vittoria di Cambise re de' Persi avuta contro agli Egizii, furono l'ossa de' molti morti ivi ragunate, le quali poi a tempo benché mescolate insieme, facile si conosceano, però che e' teschi de' Persi con minima percossa si sgretolavano, quegli vero degli Egizii erano durissimi e a ogni gran picchiata reggevano; e dice di questo esserne cagione ch'e' Persi piú dilicati usavano el capo coperto, quelli Egizii persino da fanciulli sé adusavano a star sotto la vampa del sole e sotto le piove, e la notte al vento e sereno sempre col capo discoperto. Certo adunque molto da considerare quanto questo uso vaglia, che dice de' Persi per questo mai quasi niuno si vede esser calvo. Cosí volse Licurgo, quello prudentissimo re de' Lacedemoni, ch'e' cittadini suoi s'ausassino da piccoli non con vezzi, ma nelle fatiche, non in piazza co' sollazzi, ma nel campo coll'agricultura e colli essercizii militari. E quanto bene conoscea potere assai l'essercizio in ogni cosa! Non sono eglino pure tra noi alcuni destri e forti diventati, quali prima erano deboli e disadatti, e alcuni per veemente essercizio sono riusciti ottimi corridori, saltatori, lanciatori, saettatori, quali prima a tutte queste cose erano rozzissimi e inutilissimi? Demostene ateniese oratore, non fec'egli collo essercizio la lingua agile e versatile, il quale avendo le parole da natura pigre e agroppate, si empieva la bocca di calculi, e apresso de' liti con molta voce declamava? Giovògli questo essercizio tanto che niuno poi era piú di lui soave a udirlo, niuno quanto lui netto e spiccato a proferire.

Può adunque di certo l'essercizio assai non solo nel corpo, ma nell'animo ancora tanto potrà quanto vorremo con ragione e modo seguire. E potrà certo l'essercizio non solamente d'uno languido e cascaticcio farlo fresco e gagliardo, ma piú ancora d'uno scostumato e vizioso farlo onesto e continente, d'un debole ingegno possente, d'una inferma memoria farla tenacissima e fermissima. Nessuno sarà vezzo sí strano né sí indurato che in pochi dí una ferma diligenza e sollecitudine nollo emendi tutto e rimuti. Scrivono che Stifonte megaro filosofo da natura era inclinato ad essere ubriaco e lussurioso, ma con essercitarsi in scienza e virtú vinse la sua quasi natura, e fu sopra gli altri costumatissimo. Virgilio, quello nostro divino poeta, da giovane fu amatore, e cosí di molti altri si scrive, e' quali prima in sé avevano qualche vizio, poi con studio essercitandosi in cose lodatissime sé corressero. Metrodoro, quel filosofo antiquo, el quale fu ne' tempi di Diogene cinico, tanto acquistò con uso ed essercitazione della memoria, che non solo referiva cose insieme dette da molti, ma ancora con quel medesimo ordine e sito profferiva le medesime loro parole. Che diremo noi di quel sidonio Antipar, el qual soleva per molta essercitazione e uso essametri e pentametri, lirici, comici, tragedi e ogni ragion di versi, ragionando di qualunque proposta materia, esprimere e continuato proferirgli senza punto prima avergli pensato? A costui, per molto avervi l'ingegno essercitato, fu possibile e facile fare quello quale a' meno essercitati eruditi oggi con premeditazione e spazio si vede essere fatigoso. Se in costoro in cose difficili l'essercitarsi tanto valse, chi dubita quanto sia grandissima la forza dell'essercizio? Ben lo conoscevano e' Pitagorici, e' quali fermavano con essercizio la memoria riducendosi ogni sera a mente qualunque cosa fatta il dí. E forse questo medesimo giovarebbe a' fanciulli, ascoltare ogni sera quello che il giorno avessono imparato. E' mi ramenta che nostro padre spesso non bisognando ci mandava con imbasciate a piú persone, solo per essercitarci la memoria, e spess'ora di molte cose voleva udire il parere nostro per acuirci e destarci l'intelletto e l'ingegno, e molto lodava chi meglio avesse detto per incenderci a contenzione d'onore.

E cosí sta bene, anzi debito a' padri in molti modi provare l'ingegno de' suoi, star sempre desto, notare in loro ogn'atto e cenno, quelli che sono virili e buoni trargli innanzi e lodarli, quelli che sono pigri e lascivi emendarli, farli essercitare secondo e' tempi quanto bisogna. Essercitarsi colla persona subito drieto al pasto si dice che nuoce. Muoversi innanzi al cibo e afaticarsi alquanto non nuoce, ma straccarsi non giova. Essercitare l'ingegno e l'animo in virtú in qualunque ora, in ogni luogo, in tutte le cose mai fu se non lodatissimo. Piglinsi e' padri questa faccenda, adunque, none a maninconia, ma piú tosto a piacere. Tu vai alla caccia, alla foresta, affatichiti, sudi, stai la notte al vento, al freddo, el dí al sole e alla polvere per vedere correre, per pigliare. Ett'egli manco piacere vedere concorrere due o piú ingegni ad attingere la virtú? Ett'egli manco utile con tua lodatissima e iustissima opera vestire e ornare il tuo figliuolo di costumi e civilità, che tornare sudato e stracco con qualunque salvaggiume? Adunque e' padri con piacere incitino e' figliuoli a seguire virtú e fama, confortingli a concorrere ad attignere onore, festeggino chi vince, godano d'avere e' figliuoli presti e avidi a meritare lode e pregio.

ADOVARDO Dilettami certo, Lionardo, questa tua copia, e piacemi ogni tua sentenza, e lodo assai questo essercitarsi, e confesso che lo essercizio emenda e' vizii e conferma la virtú. Ma per certo, Lionardo, o io non so dirlo, o io non posso bene esprimere quello che io sento in me. In questo essere padre non sono e' pensieri e le fatiche né sí rare, né sí leggieri, né sí grati e dilettosi quanto tu forse credi. E che so io? E' fanciugli crescono; segue il tempo di fargli, quanto di', apprendere virtú. E' padri non sanno, forse per maggiori occupazioni non possono, hanno el pensiero e l'animo occupato altrove, non gli è licito lasciare l'altre cose publice e private per dirozzare e instruire e' fanciulli. E cosí bisogna il maestro, bisógnati udirli stridire, vedili lividi, vergheggiati, e spesso se' necessitato tu stessi darli, gastigarli. Ma queste so ti paiono nulla, che non sai l'amore e la pietà de' padri quanto ella sia tenera e condogliosa. Apresso poi e' fanciulli possono riuscire golosi, capresti, bugiardi e viziosi. Né ora voglio, né potrei senza dolore ricordarmi d'ogni nostro incarco.

LIONARDO Tu forse per far ch'io piú ti creda quanto mi di' che 'l troppo lungo mio ragionare non ti dispiace, però testé mi porgi nuova trama ove io pigli licenza ad estendermi in un altro piú molto lungo favellare. Accetto questa occasione, ché per ora non so come meglio usufruttare questo ocio che conferendo di simili cose utilissime. E piacerammi o dilettarti, se cosí aspetti, o trarti dell'animo questa mala opinione, se cosí forse bisogna. E dimmi, Adovardo, quale dee pesare piú al padre, o la bottega, lo stato, la mercatantia, o il bene e salvamento del figliuolo? Solea dire Crates, quello antiquo e famosissimo filosofo, se a lui fusse licito, salirebbe in sul piú alto luogo della terra e griderebbe: "O cittadini stolti, dove ruinate voi? Seguite voi con tante fatiche, con tanta sollecitudine, con tante innumerabili arte e infinito afanno questo vostro coadunare ricchezze, e di quelli a cui avete e le volete lasciare non vi curate, non ne avete pensiero alcuno né diligenza?"

De' figliuoli adunque si vuole avere cura in prima, e poi delle cose le quali noi proccuriamo perché siano utile e commode a' nostri figliuoli. E sarebbe non sanza stultizia non far che questi, per chi tu acquisti roba, meritino d'averla e possederla, e sarebbe poca prudenza volere ch'e' figliuoli tuoi avessero a trassinare e governare cose quali e' non conoscessero, né sapessino quanto si debba maneggiare. Né sia chi stimi le ricchezze se non faticose e incommode a chi non sa bene usarle, e sarà se non dannosa ogni ricchezza a colui el quale nolla saprà bene usare e conservare. Né a me piacerebbe chi donasse un cavallo gagliardissimo e generosissimo a un che non bene lo sapesse cavalcare. E chi dubita gl'impedimenti e istrumenti da far il vallo, da contenere l'essercito, da sostenere gl'impeti ostili, l'arme da propulsare e seguire fugando gl'inimici, e cosí simili altre molte cose essere allo essercito non meno utili che necessarie? Ma quale isciocco non conosce lo essercito ivi essere inutile, ove o d'arme o d'impedimenti sia troppo grave? E qual prudente non giudica tutte quelle medesime cose le quali moderate giovano, allora nuocere quando sian immoderate? Sono l'arme quanto basta utilissime a difendere la salute propria e a offendere el nimico. Le troppe armi certo ti convien o gittarle per vincere, o perdere per serbarle. Adunque era meglio venire a vincere sanza quello pericoloso incarco, che dubitando perdere convenirtene iscaricare. Né mai nave alcuna stimo io si potrà riputare sicura, quando di cose benché al sicuro navigar utilissime, remi, sartie, e vele, sia superchio carica. Suol in ogni cosa non meno essere dannoso quel che v'è troppo, che utile quel che basta.

Né sarà poca ricchezza a' figliuoli nostri lasciarli che da parte niuna cosa necessaria alcuna loro manchi. E sarà di certo ricchezza lasciare a' figliuoli tanto de' beni della fortuna, che non sia forza loro dire quella acerbissima e agli ingegni liberali odiosissima parola, cioè: "io ti prego". Ma certo sarà maggiore eredità lasciare a' figliuoli tale instituzion d'animo che sappino piú tosto sofferire la povertà, che indurse a pregare o servire per ottenere ricchezze. Assai ti sarà grande eredità quella la qual satisfarà, non tanto a tutte le tue necessitati, ma e alle voglie. Chiamo qui io voglia sol quella che sia onesta. Le voglie inoneste a me sempre parsero piú tosto furore di mente e vizio d'animo corrotto che vera volontà. Cioè che tu lasci troppo a' figliuoli rimane loro incarco. Non è amore paterno caricare i suoi di fatica, ma alleggerirli. Ogni superchio carco sta difficile a reggere. Quello el quale non si può reggere, facile cade, né cosa alcuna piú si pruova fragile quanto la ricchezza. Né chiamerò dono degno dal padre verso el figliuolo quello dono el quale porti seco molestia e servitú a servarlo. Daremo le cose moleste e gravi a' nostri inimici. Agli amici daremo letizia e libertà. Né confesserò sia ricchezza quella la qual abbia in sé servitú e maninconie, come per certo hanno le superchie ricchezze. Manco nuocerà a' figliuoli procacciarsi al bisogno, che insieme col superfluo e isconcio incarco perdere quella parte la qual era utile e commoda, come sanza dubbio aviene a chi non sa reggere e usufruttare e' beni della fortuna. Tutto quello el qual e' tuoi figliuoli non sapranno maneggiare e governare, tutto quello sarà loro superfluo e incommodo. Però si vuole insegnare a' tuoi virtú, farli imparare reggere sé in prima ed emendare gli apetiti e le volontà sue, instituirli che sappino acquistare lodo, grazia e favore molto piú che ricchezze, ammaestrarli che sieno dotti come nell'altre cose civili, cosí a conservarsi onore e benivolenza.

Già però chi non sarà ignorante in questo modo ad essornarsi di fama e dignità, per certo sarà saputo e dotto a conquistare e conservare ogni altra minor cosa.

E se i padri da sé non sono atti, o per altri maggior faccendi (se alcuna n'è maggiore che avere cura de' figliuoli) saranno troppo occupati, abbino ivi persona dalla quale e' figliuoli possano imparare dire e fare le cose lodate bene e prudentemente, come diceano di Pelleo, el quale ad Achille suo avea dato in compagnia quello Fenix prudentissimo ed eloquentissimo, a ciò che da questo el figliuol suo Achilles imparasse essere buono oratore di parole e buono fattore delle cose; o vero darlo a chi piú sappia, porlo apresso di chi e' possa apprendere buone instituzioni al vivere, e buoni erudimenti al conoscere e sapere le pregiate cose. Marco Tullio Cicerone, quel nostro principe degli oratori, fu dal suo padre dato a Quinto Muzio Scevola iurisconsulto, che mai si gli partisse dal lato. Prudente padre. Voleva che 'l figliuolo fusse apresso di chi lo potea rendere dotto ed erudito molto piú che lui forse non potea. Ma chi può e' suoi con sua opera ornarli di virtú, lettere e scienza, come puoi tu Adovardo, perché non debb'egli lasciare ogn'altra faccenda per averseli piú litterati, costumati, savi e piú civili? Catone, quel buono antiquo, non si vergognava, né gli pareva fatica insegnare al figliuolo, oltre alle lettere, notare, schermire, e simili tutte destrezze militari e civili, e stimava in sé officio de' padri insegnare a' figliuoli tutte le virtú qual fusse degno sapere a liberi uomini, né gli pareva giustamente da chiamare libero alcuno in chi si disiderassi virtú alcuna; però di tutte volle a' figliuoli non altri che lui stesso ne fusse instruttore, né gli parse da preporsi alcuno in simile opera, né stimava si trovasse chi dovesse essere nelle cose sue piú che lui stesso sollicito, né giudicava e' figliuoli con quello amore imparassino da altri quanto e' faceano dal proprio padre. E piú giova la fede, lo studio e la cura del padre in fare e' figliuoli suoi virtuosissimi, che non farebbe ogni maggior dottrina di qualunque altro litteratissimo. E quanto a me in questo piacerebbe seguire Catone e gli altri buoni antiqui, e' quali erano a' figliuoli in quello che sapeano maestri e dottori, e sopratutto volevano essere quelli che a' suoi emendassero ogni vizio rendendogli molto virtuosi; e piú agiugnevano e' figliuoli apresso di quelli savi e litterati, ove con maggiore uso e dottrina e' divenissero d'ingegno espertissimi e di virtú ornatissimi.

Cosí farei io, se io fussi padre. Ogni mia prima e propria cura sarebbe fare e' figliuoli miei molto costumati e riverenti; e se pure e' fanciulli sdrucciolassino in qualche vizio, penserei che l'errare qualche volta si è cosa comune della fanciullezza. E vogliono e' fanciulli essere corretti con modo e ragione, e anco talora con severità. Non vi si acanire però suso, come alcuni rotti e furiosi padri fanno; ma lodo io gastigarli sanza ira, senza passione d'animo, fare come si dice fece Archita, quel tarentino el quale disse: "Se io non fussi crucciato, io te ne pagherei". Savio detto. Non gli parea da pigliarne punizione in altrui, se prima non deponeva in sé la sua ira. Né può l'ira colla ragione bene stare insieme; e correggere senza ragione a me pare cosa da stoltissimi. E chi non sa con senno correggere, credo merita essere né maestro, né padre. Però correggano e' padri coll'animo sedato e vacuo d'ogni iracundia, ma sempre piaccia loro piú vedere e' figliuoli piangere e continenti, che ridere e viziosi. E de' loro vizii sopratutto a me pare si voglino emendare e gastigare di tutti, e prima di questi vizii communissimi a' fanciulli, ma piú che gli altri nocivi e molto dannosi, e in questo piú avervi che non sogliono e' padri cura e diligenza ch'e' fanciugli non creschino provani e caparbii, e che non sieno né bugiardi né fallaci. Suole chi è provano e ostinato in dire e fare l'oppinioni sue, mai dare orecchi ad altrui buoni consigli, sempre in sé stesso troppo fidarsi e piú credere alle oppinioni sue che alla prudenza e ragione di qualunque altro approbatissimo ed espertissimo; e vedilo stare superbo, gonfiato, pieno di veneno e di parole odiose e incomportabili, onde leggiermente da tutti si rende malvoluto. Onde qui a me piace la sentenza di Gherardo Alberto, al quale ogni durezza troppo dispiaceva, uomo liberalissimo, facilissimo e umanissimo, a cui solea parer che 'l capo dello ostinato e provano uomo fusse non altrimenti che di vetro; e dicea come in sul vetro niuna punta, per acuta e forte ch'ella sia, può né segnarlo né penetrarlo cosí l'uomo duro e nelle sue opinioni confermato e immobile mai aconsente a niuna sottile e forte ragione che proposta gli sia, non consiglio d'amico, non certo e vero disegno d'alcuno, mai contro a' suoi duri propositi si ferma; e sí come el vetro medesimo per ogni minima picchiata si spezza e fracassa, cosí lo indurito e incaparbito sé stessi rompe ad ira, versasi con parole pazze e furiose, sparge e transcorre in cose ove dipoi gli è forza pentirsi e soffrire molta pena della durezza sua.

Però proveggano e' diligenti e prudenti padri e maggiori, estirpino delle menti e consuetudini de' suoi sino dalla prima infanzia questo massime e ogni altro simile vizio, né lassino nelle menti e uso de' suoi invecchiare alcuna mala radice, però che il mal vecchio poi disteso e abarbicato sta con radici troppo grandi e troppe tenaci. E come a chi scamozza il tronco annoso e indurato per le radici, poi si vede rampollare piú e piú astili e rami, cosí el vizio negli animi degli uomini aradicato e per uso offirmato, che solea stendersi e ampliarsi quanto la volontà lo pingeva, ora circumstretto e rimesso dalle acerbità de' tempi e dalle necessità, pare che da molte parti rampolli altri assai vizii. Vedesi chi era prima in larga e libera fortuna vivuto prodigo e lascivo, poi per nuove avversitati impoverito, per cupido aseguire alcuna antica e a lui consueta voluttà; per satisfare a' suoi appetiti e voluntà diventa furone, decettore, rattore, e dassi a bruttissimi essercizii e a vilissime arti e infame, e bruttamente cerca riavere quelle ricchezze quali bruttamente perdette. Cosí si truova chi già in sé stesso abituato a non patire se non quanto gli agradi, e in ciò che a lui piace sarà consueto molto volersi contentare e di tutte le sue opinioni e imprese agli altri soprastare, costui, se caso alcuno se gli oppone e interrompe le voglie e concertazioni sue, pare non curi dare sé stessi in precipizii e ruine maravigliose; non stima robba, non onore, non amistà; ogni lodata e da' mortali desiderata cosa pospone alla opinione sua; solo per adempiere la sua impresa soffra rimanere e senza fortuna, ancora e senza vita. E cosí chi di sé stessi poco fa cura, molto manco curerà della quiete e bene della famiglia sua. Però a' padri sta molto debito a buona ora cominciare a resecare e sverglier ne' suoi tanto e sí pericoloso vizio qual si vede questa provanità essere, non solo a chi ne sia vizioso, ma a tutta la famiglia pestifero e mortale. Adunque in cosa alcuna, per minima che ella sia, mai patischino e' maggiori a' suoi fanciulli indurarvi alcuna ostinata volontà o proposito non onestissimo. E tanto loro piú ogni gara dispiaccia quanto in sé la veggano men lodevole.

E cosí ancora molto proccurino che i suoi figliuoli sieno in ogni cosa molto veritieri, e stimino quanto egli è troppo piú dannoso che brutto vizio essere bugiardo. Chi s'avezza a fingere e negare la verità, leggiermente per onestarsi molte volte pergiura, e chi spesso giura con animo fitto e fallace, costui di dí in dí s'avezza a men temere Dio e a spregiare la religione. E chi non teme Dio, chi nell'animo suo have spenta la religione, questo in tutto si può riputare cattivo. Agiungi qui che uno bugiardo si truova in tutta la vita sua infame, sdegnato, vile, schifato ne' consigli, sbeffato da tutti, senza avere amistà, senza alcuna autorità. Né sarà virtú alcuna, per grande ch'ella sia, in uno bugiardo riputata mai o pregiata, tanto sta sozzo e laido questo vizio che immacola e disonesta ogn'altro splendore di lode. E perché noi qui toccammo della religione, si vuole empiere l'animo a' piccoli di grandissima reverenza e timore di Dio, imperoché l'amore e osservanza delle cose divine tiene mirabile freno a molti vizii. E se a' padri duole quella cura di correggere e gastigare e' figliuoli, facciano come diceva Simonides poeta ad Ierone apresso Senofonte: "Le cose grate a' figliuoli facciangli loro, e le ingrate lascinle fare ad altri; onde sia benivolenza prendansela, onde nasca odio deferíscallo ad altri". Abbino e' figliuoli tuoi chi e' temano, el maestro da chi e' siano gastigati piú tosto con paura che con busse. E sia il precettore piú sollicito a non lasciare e' suoi discepoli errare che a gastigarli. Ma e' sono molti padri che per troppa ignavia piú che per piatà perdonano ogni cosa a' figliuoli, e pare loro che basti dire: "non lo fare piú". E, sciocchi babbi, se 'l fanciullo arà scalfito il piè, subito si manderà per lo medico, tutta la casa s'infaccenda, ogni altra cosa si lascia adrieto; ma se el fanciullo cade coll'animo in quella superbia di fare e rispondere se non quello che gli pare, se ruina in quella golosità, se profonda in quella ostinata e caparbia pruova, onde né con ragione, né con argomento alcuno si può cavarlo, perché non volere el medico che gli emendi e guarisca l'animo tanto corrotto, e che gli rassetti la mente malcomposita, che gli fasci e leghi gli apetiti e volontà bestiali con ragioni, ammonimenti e correzioni, che a lui con onestate e tema saldi quella piaga e apertura di licenza, onde e' riusciva cosí dissoluto e disubbidiente, e cosí a sua voglia scelerato? Quale stolto padre dirà non volere udire el suo figliuolo piangere, non gli patire l'animo vederlo gastigato, o non potere attendere a tanto suo officio? Saresti tu di quegli che stimassi essere piú officio del maestro gastigare e' tuoi figliuoli che tuo? Saresti tu di quegli a chi manco dispiacesse el vizio de' figliuoli tuoi che ogni altra fatica? Certo stimo no, però che ti sarebbe scritto a grande errore, ove conosci quanto da' vizii e lascivia di chi per tua negligenza sia fatto vizioso aresti aspettare, oltre alla vergogna, dolori assai, come si vede un vizioso figliuolo essere l'ultimo tormento de' padri.

Adunque gastigarli, averne cura e opera in farli dotti e virtuosi sarà proprio debito al padre. E vuolsi come suole nel campo fare l'ortolano. Non si cura di calpestrare qualche buona e fruttifera erba per isverglierne le triste e nocive. Cosí el padre non curi, facendo il figliuolo migliore, aspreggiare un poco piú che la natura e tenerezza non gli patisce.