HANNAH ARENDT
A cura di Diego Fusaro
Poco incline alle posizioni conservatrici e più vicina alle forme di spontaneismo dell'esperienza rivoluzionaria dei Consigli, teorizzata da Rosa Luxemburg
, non legata da simpatia a Strauss, ma neppure ai francofortesi,
estranea al problema del potere e attiva nella difesa dei diritti civili e delle minoranze, fu Hannah Arendt (1906-1975), ebrea, nata nei pressi di Hannover, studentessa tra il 1924 e il 1929 nell'università di Marburgo, dove fu allieva
di Heidegger, con il quale ebbe anche una relazione sentimentale. Arrestata nel 1933,
fuggì a Praga, poi a Ginevra e a Parigi e successivamente, nel 1941, a New York.
Dopo la guerra potè riallacciare i suoi rapporti con Jaspers, mentre incontrò difficoltà con Heidegger anche per il persistente silenzio di quest'ultimo sulla pro
pria adesione al nazismo. Nel 1960 seguì a Gerusalemme, come corrispondente di
un giornale, il processo al nazista Eichmann, che le apparve un uomo mediocre,
incapace di distinguere tra bene e male: da ciò trasse la conclusione della "banalità" del male, che non ha di per sé profondità, e attribuì una parte di responsabilità del genocidio alle stesse vittime del nazismo, ma questo sollevò nei suoi confronti accuse di antisionismo. Intanto, a partire dal 1956 aveva cominciato a insegnare all'università di Berkeley, per passare poi a quella di Chicago, tra il 1963
e il 1967, e infine alla "New School for Social Research" di New York, dal 1967 sino
alla morte.
La prima opera significativa della Arendt, pubblicata negli Stati Uniti, è " Le origini del totalitarismo " (1951). Caratteristica saliente del totalitarismo è non tanto una
concezione filosofica, quanto l'esistenza di campi di concentramento: nessun governo totalitario, infatti, può sussistere senza terrore e il terrore non può essere
edificato e mantenuto senza tali campi, nei quali gli individui sono ridotti a entità
superflue. Per questo aspetto, esistono, secondo la Arendt, profonde analogie tra
nazismo e stalinismo, entrambi diversi dalla democrazia proprio per l'assenza di
ogni salvaguardia delle libertà civili. L'esperienza della rivoluzione in Ungheria, nel
1956, rafforza la sua convinzione che l'unica alternativa al totalitarismo nell'età
moderna è nel sistema dei Consigli, che nascono spontanei, senza organizzazione,
in nome della libertà, nel corso dei moti rivoluzionari. Intanto, lo studio di Marx
e del problema del lavoro la conduce ad interrogarsi sul tema dell'equilibrio delle
attività umane: nasce di qui il volume " La condizione umana " (1959), noto anche col
titolo " Vita activa ". Ispirandosi all'etica aristotelica, Arendt individua tre componenti nella vita
attiva degli uomini: sono tre attività, il lavoro, la fabbricazione, o produzione di
oggetti, e l'azione (in greco, "praxis"), le quali si connettono alle condizioni generali
dell'esistenza umana, ossia al nascere e al morire, al rapporto con gli altri e alla permanenza sulla terra. Il lavoro assicura la sopravvivenza non solo individuale, ma
della specie umana, mentre la fabbricazione produce un mondo sulla terra. Mentre
è possibile lavorare e produrre anche in solitudine, non è possibile agire se non in
relazione almeno ad un'altra persona, ossia, in generale, ad una pluralità di individui. Questo vuol dire che lavoro e fabbricazione non realizzano qualità specificamente
umane, dal momento che anche un animale può lavorare e una divinità artefice potrebbe produrre. Specificamente umano è, invece, l'agire insieme, che costituisce
l'ambito della politica e presuppone il linguaggio come mezzo essenziale per il rapporto tra una pluralità di individui. Ciò stabilisce una distinzione tra la sfera pubblica, corrispondente alla polis dei greci, e la sfera privata, corrispondente a ll'oikos dei greci:
quest'ultima è il regno della necessità, caratterizzato dalle attività economiche del
lavoro e della produzione necessarie per sopravvivere, mentre la politica è il regno
della libertà, dell'emergenza del nuovo. Tutte queste attività, infatti, sono radicate
nella natalità, in quanto hanno il compito di preparare e conservare il mondo per
i nuovi venuti, ma più di tutte lo è l'agire come capacità di dar luogo a qualcosa
di integralmente nuovo. I rapporti tra queste attività, che sono le costanti dell'esperienza umana, variano storicamente. Nel mondo moderno, il lavoro ha assunto
una posizione di primato rispetto all'agire, prioritario presso i greci, e al fabbricare, dominante nell'immagine cristiana di un Dio creatore. Questo mutamento ha
indebolito la distinzione tra pubblico e privato e ha generato una nuova sfera, quella del sociale, che viene ad assumere le funzioni prima pertinenti all'oikos e alla
polis. I risultati sono, da un lato, una nazione amministrata burocraticamente
come se si trattasse di un'unica famiglia e un generale conformismo e, dall'altro,
una riduzione della partecipazione politica attiva e la trasformazione della sfera privata
in intimità puramente individuale.
L'integrazione armonica delle varie attività, con l'attribuzione del primato all'agire e, quindi, alla politica, si è invece realizzata, ad avviso di Arendt, nella polis,
ma già i filosofi greci avevano minato questo modello, nel momento in cui, a parti
re da Platone, avevano spezzato la connessione tra la prassi e il discorso, che caratterizza la politica, e subordinato la politica alla loro attività, intesa come teoria,
ossia attività contemplativa. In questa situazione, la politica veniva concepita come
un ambito che deve essere disciplinato da regole che nascono nella sfera superiore
della teoria e sono accessibili soltanto ad una saggezza superiore. Da questa impostazione sono nate, in età moderna, le filosofie della storia e le teorie, come quella
hegeliana, che trasformano le nozioni di mezzo e di fine in categorie politiche e
interpretano la storia come un processo necessario, finendo in tal modo per giustificare le pratiche totalitarie del XX secolo e sollevando dalla responsabilità di giudicare gli eventi storici. In opposizione a ciò occorre, secondo Arendt, una nuova
scienza politica, che torni a porre al centro l'azione, interpretata come inizio di qualcosa di nuovo e di imprevedibile, non fabbricabile ne dall'uomo ne da Dio. Infatti,
quando un'azione si perverte in una specie di fabbricazione, si può generare il male
e la distruzione degli uomini, proprio come per fare una frittata occorre rompere
le uova. In questa prospettiva, nello scritto " Sulla rivoluzione " (1963), la Arendt individua il conflitto essenziale dell'epoca moderna non tra diversi sistemi economici o
tra classi, ma tra libertà e autoritarismo; da parte sua, ella si schiera dal lato delle
associazioni che nascono spontaneamente, soprattutto nelle situazioni rivoluzionarie, ma rifiuta la definizione della politica come lotta per il potere e le giustificazioni della violenza, fornite da Marx, Sorel e Sartre, in quanto confondono tra loro
azione, fabbricazione e processi naturali: ai suoi occhi, la non violenza è essenziale
al movimento per la pace e la disobbedienza civile è lo strumento per la difesa dei
diritti civili.
L'ultima opera, rimasta incompiuta, " La vita della mente ", pubblicata postuma nel
1978, è presentata da Arendt come " un trattato del buon governo mentale ": essa
descrive le attività dello spirito, ossia il pensare, il volere e il giudicare, cercando
di mostrare la necessità di un controllo e di un equilibrio reciproco fra esse. Il pensare è diverso dal conoscere, che ha un oggetto e un fine: esso, invece, non ha un
oggetto, ma si riferisce solo a sé e produce significati, non la verità, che è piuttosto
prodotta dal consenso. Il pensare consente di affrontare i fenomeni direttamente,
senza alcun sistema preconcetto, e quindi prepara il terreno al giudizio, che rappresenta la vera attività politica della mente. Anche il volere è costitutivo della sfera
politica, in quanto mira a produrre un riconoscimento reciproco tra gli individui.
In questo senso, la Arendt critica Heidegger per aver rifiutato il volere a favore
del pensiero, concepito come forma di azione: ciò equivale, infatti, a rifiutare la
politica. Condizione dell'armonia fra le tre attività è la libertà interna di ciascuna.
Anche in Germania, nel dopoguerra, ridiventa essenziale il problema del tipo
di sapere e di razionalità che deve sovrintendere all'agire individuale e collettivo.
Presupposto diffuso è che il modello non possa essere offerto dalle scienze naturali,
ne dalle scienze sociali che si costruiscono in conformità ad esse. In questo orizzonte ha luogo, dall'inizio degli anni Sessanta, quella che è stata denominata riabilitazione della filosofia pratica, ossia del diritto, dell'etica e della politica, alla quale
hanno contribuito vari autori, tra i quali Gadamer e Joachim
Ritter (1903-1974), allievo di Heidegger e di Cassirer.
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