PLUTO
di Aristòfane
traduzione di Ettore Romagnoli
PERSONAGGI DELLA COMMEDIA:
SCARACCHIA, vecchio ateniese
NOCCIOLA, servo di Scaracchia
PLUTO
CORO di Vecchi Contadini
SBIRCIALARDO, vecchio ateniese, amico di Scaracchia
MOGLIE di Scaracchia
Un GALANTUOMO
Un SICOFANTE
Una VECCHIA
Un GIOVANOTTO
ERMETE
Un SACERDOTE di Giove
PROLOGO
Piazza avanti la casa di Scaracchia. Da sinistra giungono questi
e il suo servo Nocciola, incoronati, seguendo passo passo
un vecchio cieco e male in gambe.
NOCCIOLA:
Giove mio! Santi Numi! Oh, che fastidio
stare al servizio d'un padrone pazzo!
Il servo potrà dar consigli d'oro
sin che gli piace: se chi tiene il mestolo
si vuol rompere il collo, dopo, i guai
sono a mezzo! Ché il diavolo non vuole
ch'abbia la signoria del proprio corpo
chi ci sta dentro, ma chi l'ha comprato.
Cosí vanno le cose! E adesso, poi,
io me la piglio con l'ambiguo Apollo,
che dal tripode d'oro oracoleggia.
Non ho forse ragione? Lui che, dicono,
è medico e indovino da cartello,
ha rimandato il mio padrone pazzo
da legare. Ché va dietro le peste
d'un uomo cieco; e fa tutto il contrario
di quello che dovrebbe. Perché noi
che ci vediamo, li guidiamo, i ciechi.
Questo si fa guidare, e vi costringe
me, né risponde sillaba.
(Al padrone)
Ma zitto
di certo non ci sto, se non mi dici
perché, padrone, siamo alle calcagna
di costui: ti vo' dar filo da torcere.
Tanto, non puoi picchiarmi: ho la corona.
SCARACCHIA:
Ma, perdio, te la levo, io, la corona,
se tu mi secchi, perché senta meglio
le batoste.
NOCCIOLA:
Son chiacchiere! O mi dici
prima chi è quest'uomo, o non la smetto.
Per il tuo bene, insisto tanto a chiederlo.
SCARACCHIA:
E io te lo dirò: perché ti reputo
il piú fedele dei miei servi, e il piú
ladro. Io, che sono un galantuomo, tutto
timore di Dio, me la passavo male
a stavo al verde.
NOCCIOLA:
Eh, lo so bene!
SCARACCHIA:
Ricchi
diventavano gli altri: sicofanti,
scàssinasantuari, mozzorecchi...
NOCCIOLA:
Lo credo!
SCARACCHIA:
E allora, consultai l'oracolo.
La vita mia, povero me, lo vedo,
è agli sgoccioli, ormai: ma volli chiedere
se il mio figliuolo, il solo ch'abbia, avesse
a cambiar vita, a diventare un nulla
di buono, un birbaccione, un imbroglione:
per sbarcare il lunario è questa l'unica.
NOCCIOLA (Solenne):
E che, dai serti suoi, Febo rispose?
SCARACCHIA:
Cosí mi disse chiaro e tondo: senti:
mi comandò che il primo che incontrassi
uscendo, non me ne staccassi piú,
e l'inducessi a seguitarmi a casa.
NOCCIOLA:
Ed in chi primo t'imbattesti?
SCARACCHIA:
In questo.
NOCCIOLA:
E non capisci che intendeva il Nume?
Ti diceva, balordo, a chiare note,
d'allevarlo all'usanza paesana,
il tuo figliuolo.
SCARACCHIA:
E donde l'argomenti?
NOCCIOLA:
Da ciò: ch'è tanto chiara, da vederla
perfino un orbo, ch'oggi si può andare,
schivando l'onestà, lontano assai.
SCARACCHIA:
No, non si può piegare a tal sentenza,
l'oracolo! È piú serio! Or, se costui
ci dicesse chi è, per che motivo
è venuto fra noi, che gli bisogna,
potremmo forse interpretar l'oracolo.
NOCCIOLA (Al vecchio):
Animo, tu chi sei? Dillo, o so io
quello che devo fare. Parla, e svelto!
VECCHIO:
Ti pigliasse un malanno!
NOCCIOLA (A Scaracchia):
L'hai sentito
chi è? L'ha detto.
SCARACCHIA:
Ha detto a te, cosí,
mica a me! Tu l'investi con quei modi
rozzi e scortesi!
(Al vecchio)
A te piace trattare
con un uomo di garbo? Oh, dillo a me.
VECCHIO:
Un accidente che ti pigli!
NOCCIOLA:
Béccati
quest'uomo e quest'oracolo d'Apollo!
SCARACCHIA (Minaccioso al vecchio):
Poco allegro hai da stare, giuraddio!
NOCCIOLA:
Se non parli, ti concio per le feste!
VECCHIO:
Scostatevi da me, brave persone!
SCARACCHIA:
Mai e poi mai!
NOCCIOLA:
Il meglio è quel che dico
io, padrone! Gli fo questo servizio.
Lo poso sopra un baratro, lo lascio,
e me ne vado, ché caschi e si rompa
l'osso del collo.
SCARACCHIA:
E piglialo!
(Lo acciuffano)
VECCHIO:
No, no!
SCARACCHIA:
Parlerai, dunque?
VECCHIO:
Ma se poi saprete
chi sono io, mi farete qualche brutto
tiro, lo so, né piú mi lascerete
andare!
SCARACCHIA:
Eh sí, perdio, quando tu voglia.
VECCHIO:
Beh, lasciatemi andare, prima.
SCARACCHIA:
Eccoti
lasciato.
VECCHIO:
Udite, dunque, dal momento
ch'io debbo dire, a quanto sembra, quello
che volevo tacere. Io sono Pluto...
NOCCIOLA (Prorompendo):
Birba d'un uomo! Schiuma delle birbe!
Dunque tu eri Pluto, e stavi zitto?
SCARACCHIA:
Tu sei Pluto, cosí male in arnese?
O Febo Apollo, o Demoni, o Celesti,
o Dio! Che dici? Sei davvero quello?
PLUTO:
Si!
SCARACCHIA:
Quel desso?
PLUTO:
Dessissimo!
SCARACCHIA:
Che sento!
Dimmi, e di dove vieni, cosí sudicio?
PLUTO:
Dalla casa di Pàtroclo, che mai
non s'è lavato, da che nacque!
SCARACCHIA:
E come
ti capitò questo malanno? Dimmelo!
PLUTO:
Giove me l'affibbiò, per gelosia
dei mortali. Ché io, da ragazzetto,
lo minacciai che mi sarei recato
solo dai giusti, i savi, i costumati;
e lui, perché non ne scernessi alcuno,
m'accecò: tanto ha in uggia i galantuomini!
SCARACCHIA:
Pure, gli fanno onore i galantuomini
soltanto, e i giusti.
PLUTO:
Siam d'accordo!
SCARACCHIA:
E di':
se tornassi a vederci come un tempo,
fuggiresti i bricconi?
PLUTO:
Facci conto.
SCARACCHIA:
E andresti dagli onesti?
PLUTO:
E come! È tanto
che non ne ho visti piú!
SCARACCHIA:
Che meraviglia?
Non li vedo io, che ci vedo!
PLUTO:
Lasciatemi,
or che sapete i fatti miei.
SCARACCHIA:
Perdio!
Anzi, ti si terrà tanto piú stretto.
PLUTO:
Ve lo dicevo, che m'avreste dato
dei grattacapi!
SCARACCHIA:
No, di grazia, dammi
retta, e non mi lasciare. Uomo piú a modo
di me cercalo pure, e non lo trovi.
NOCCIOLA:
Perdio, non ce n'è altri - eccetto me.
PLUTO:
Dicon tutti cosí! Ma se davvero
poi fan tanto d'avermi, ed arricchiscono,
eccoli fatti fiori di furfanti.
SCARACCHIA:
Cosí la va: ma non son tutti birbe!
PLUTO:
Non tutti, affé di Dio! Dal primo all'ultimo!
NOCCIOLA:
Vuoi finir male!
SCARACCHIA:
Oh, bada un po': restando
con noi, rifletti che vantaggi avrai.
Io spero, io spero, e un Nume oda i miei detti,
di guarirti da questa cecità,
e ridarti la vista.
PLUTO:
Ah no, non farlo!
Io non ci voglio rivedere!
SCARACCHIA:
Come?
NOCCIOLA:
L'ha nel sangue, quest'uomo, la disgrazia!
PLUTO:
Se se n'accorge Giove, delle vostre
pazzie, lo so, mi concia per le feste.
SCARACCHIA:
Oh, non lo fa già ora? Non ti manda
in giro a dare il capo dappertutto?
PLUTO:
Che devo dirti? Io n'ho tanta paura!
SCARACCHIA:
Proprio, oh di tutti i Demoni il piú vile?
Credi che Giove regnerebbe, e che
varrebbero tre soldi, le sue folgori,
se tu ci rivedessi anche un solo attimo?
PLUTO:
Empio, non dirle certe cose!
SCARACCHIA:
Zitto!
Io ti provo che tu sei piú potente
di Giove, assai.
PLUTO:
Tu, me?
SCARACCHIA:
Io te, pel cielo!
(Si volge a Nocciola)
Per che cosa comanda agli altri Numi,
Giove?
NOCCIOLA:
Per i quattrini: ce n'ha tanti!
SCARACCHIA:
Avanti! E a Giove chi glie li procaccia?
NOCCIOLA (Indica Pluto):
Questo!
SCARACCHIA:
E perché gli fanno sacrifizi?
Non è per lui?
NOCCIOLA:
Di certo! E a faccia tosta
lo pregan di arricchirli.
SCARACCHIA:
Oh, non è questo
la cagione di tutto? E se volesse,
non ci porrebbe fine come nulla?
PLUTO:
E perché, dunque?
SCARACCHIA:
Perché piú nessuno
né bove né focaccia immolerebbe,
né checchessia, se tu non lo volessi.
PLUTO:
E come?
SCARACCHIA:
Come? Non avrebbe mezzo
di comperare, se non fossi tu
a fornirgli i quattrini. Onde, se Giove
ti secca, puoi da solo rovesciare
il suo potere.
PLUTO:
I sacrifizi glieli
fanno per causa mia, dici?
SCARACCHIA:
Di certo.
E se la gente ha nulla, affé di Dio,
di garbato, di splendido, di bello,
è per merito tuo! Tutto obbedisce
al Dio Quattrino.
NOCCIOLA:
E io per pochi soldi
faccio lo schiavo: per trovarmi al verde.
SCARACCHIA:
E le bagasce di Corinto, dicono,
se le stuzzica un povero, neppure
gli dànno retta; a un quattrinaio, invece,
gli offrono senza indugio ambe le natiche.
NOCCIOLA:
E le baraasse fan lo stesso, dicono,
per l'amore non già, ma pei quattrini.
SCARACCHIA:
Non quelli a modo, no, ma i bagascioni!
Quelli a modo non chiedono quattrini.
NOCCIOLA:
E che chiedono?
SCARACCHIA:
Questo un puro sangue,
quello cani da caccia!
NOCCIOLA:
A chieder soldi
si vergognano; e indorano la loro
furfanteria con belle parolette.
SCARACCHIA:
E tutte le scoperte e tutte l'arti
dei mortali, per te furon trovate.
Questi siede al panchetto e taglia il cuoio,
NOCCIOLA:
uno lavora il legno, un altro il rame,
SCARACCHIA:
uno, preso da te l'oro, lo fonde,
NOCCIOLA:
uno spoglia alla strada, un altro scàssina,
SCARACCHIA:
uno scardassa,
NOCCIOLA:
purga uno la lana,
SCARACCHIA:
concia uno il cuoio,
NOCCIOLA:
vende uno cipolle,
SCARACCHIA:
spelacchiato per te viene un adultero...
PLUTO:
Misero me! Chi l'ha saputo mai?
SCARACCHIA:
E il Gran Re non si gonfia per via tua?
NOCCIOLA:
L'assemblea non s'aduna per quest'uomo?
SCARACCHIA:
Di'! Non sei tu che armi le triremi?
NOCCIOLA:
Non mantiene il presidio egli a Corinto?
SCARACCHIA:
Per lui non dovrà Pànfilo crepare?
NOCCIOLA:
E Spacciaspilli fargli compagnia?
SCARACCHIA:
E non tira per lui corregge, Agirrio?
NOCCIOLA:
Flessio non conta favole per te?
SCARACCHIA:
Per te non demmo aiuto a quei d'Egitto?
NOCCIOLA:
Làide non l'ama per via tua, Filònide?
SCARACCHIA:
La torre di Timòteo...
NOCCIOLA:
Ti caschi
addosso!
SCARACCHIA:
Non si fanno per via tua
tutti quanti gli affari? La cagione
sei tu solo, solissimo, dei beni
come dei mali, ficcatelo in testa.
NOCCIOLA:
E nelle guerre, basta che tu segga
su l'un dei piatti, e súbito trabocca!
PLUTO:
E di tanto, da solo, io son capace?
SCARACCHIA:
E di piú molto, affé di Dio! Per questo
mai nessuno di te divenne sazio.
Ogni altra cosa viene a noia: amore,
NOCCIOLA:
pagnotte,
SCARACCHIA:
canti,
NOCCIOLA:
pasticcetti,
SCARACCHIA:
fama,
NOCCIOLA:
pizze,
SCARACCHIA:
prodezze,
NOCCIOLA:
fichi secchi,
SCARACCHIA:
onori,
NOCCIOLA:
torte,
SCARACCHIA:
guidare eserciti,
NOCCIOLA:
lenticchie,
SCARACCHIA:
ma nessuno di te fu mai satollo!
Se un uomo busca tredici talenti,
tanto piú brama di buscarne sedici:
e se ci arriva, poi, ne vuol quaranta,
e dice che se no, non tira avanti.
PLUTO:
Discorrete, mi sembra, a meraviglia.
Un solo dubbio mi rimane.
SCARACCHIA:
E quale?
PLUTO:
Per poteme disporre, del potere
che ho, secondo voi, come mi regolo?
SCARACCHIA:
Perdio, tutti lo dicono, che Pluto
porta la palma per viltà!
PLUTO:
Ché! Questa
fu calunnia d'un ladro. Un giorno, entratomi
in casa, non pote' portar via nulla,
che trovò tutto sotto chiave. E allora,
quella prudenza mia disse viltà.
SCARACCHIA:
Via, non ci stare a pensar tanto. Méttiti
di buona voglia, ed io farò che tu
abbia piú di Lincèo la vista acuta.
PLUTO:
Come potrai far ciò, che sei mortale?
SCARACCHIA:
Buona speranza n'ho per quel che Apòlline
a me, scotendo il pizio lauro, disse.
PLUTO:
Dunque anche lui sa queste cose?
SCARACCHIA:
E come!
PLUTO:
Badate...
SCARACCHIA:
Sta, brav'òmo, di buon animo!
Io vo' condurre quest'affare in porto,
facci conto, dovessi anche rimetterci
la pelle.
NOCCIOLA:
Ed io la mia.
SCARACCHIA:
Nostri alleati
poi saranno altri molti, che, per essere
gente dabbene, non aveano pane.
PLUTO:
Che meschini alleati hai detto, cappio!
SCARACCHIA:
Meschini no, se torneranno ricchi.
(A Nocciola)
Tu corri, presto...
NOCCIOLA:
A fare che? Comanda!
SCARACCHIA:
Chiama i compagni contadini - ai campi
li troverai di certo, a tribolare -
perché vengano qui tutti, e ciascuno
abbia la parte sua, di questo Pluto.
NOCCIOLA:
Vado senz'altro! - Ehi di casa! Chi piglia
e porta dentro questo po' di ciccia?
SCARACCHIA:
Ci starò attento io: tu corri, sbrigati!
(Nocciola, via di corsa)
E tu, che tutti sopravanzi i Dèmoni
col tuo potere, o Pluto, entra qui dentro
con me. La casa è questa ch'oggi devi,
o di riffe o di raffe, empire d'oro.
PLUTO:
Pei Numi, assai mi secca sempre, entrare
in casa altrui: non me ne venne mai
nulla di buono. Càpito da un tirchio?
Mi seppellisce súbito sotterra,
e se un amico galantuomo viene
a domandargli un quattrinello, dice
di non avermi mai neppure visto.
Casco da uno sciupone? Eccomi in mezzo
al giuoco, alle bagasce, e in poco d'ora
mi mettono alla porta ignudo bruco.
SCARACCHIA:
Perché mai non trovasti un uomo a modo.
Ma di tal tempra sempre io sono stato,
ch'amo quanto altri mai l'economia,
e far le spese, invece, quando occorrono.
Entriamo, su! Vo' presentarti a mia
moglie, e a mio figlio, l'unico, che amo
piú d'ogni cosa... dopo te!
PLUTO:
Lo credo!
SCARACCHIA:
Perché non dirla, a te, la verità?
(Entrano ambedue in casa)
PARODOS
(Dalla sinistra entra Nocciola, seguito a poca distanza da ventiquattro
coreuti vestiti da vecchi bifolchi)
NOCCIOLA:
Voi che col mio padrone spesso spesso a radici
campaste, o borghigiani sodi al travaglio, o amici,
su, correte, affrettatevi, giunto è adesso il momento
che affrontar senza indugio deve ognuno il cimento.
CORIFEO:
Non lo vedi che il passo da un pezzo allungo già,
quanto può farlo un uomo già innanzi con l'età?
Ma vuoi ch'io corra senza dirmi pria la ragione
per cui sin qui m'ha fatto venire il tuo padrone?
NOCCIOLA:
Non te la sto dicendo, da un pezzo? Non ci senti?
Voi tutti questa vita penosa e da pezzenti
muterete, il padrone dice, e vivrete in festa.
CORIFEO:
Che affare è questo? E come mai gli è saltato in testa?
NOCCIOLA:
Ei tornò, poverini, recando un vecchio sozzo,
gobbo, grinzoso, misero, calvo, sdentato; e mozzo
io credo, affé del cielo, ch'egli abbia il pascipeco!
CORIFEO:
Novelle d'oro annunzi! Potrà darsi allo spreco,
se tante, n'ha portate, di ricchezze! Ridí...!
NOCCIOLA:
Un mucchio di malanni da vecchi ei recò qui!
CORIFEO:
E tu prenderci in giro vorresti, e farla franca?
Te la credi! Il randello vedi che non mi manca!
(Lo minaccia col bastone)
NOCCIOLA:
Perché voi mi stimate fatto a codesto modo
in tutto, e vi credete che mai parli sul sodo?
CORIFEO:
Dignitoso, il birbone! Ma di già le tue gambe
ahi, ahi! strillano, e i ceppi già invocano e le strambe.
NOCCIOLA:
La sorte a fare il giudide, ti chiamò nella bara.
Svelto! Per te la tessera Caronte già prepara.
CORIFEO:
Crepa! Quanto sei d'animo ciarlatano e cattivo!
Spacci frottole, e dirci non vuoi per che motivo
ci chiama il tuo padrone. E noi siam corsi, affranti
come s'era, ed a corto di tempo: e tanti e tanti
porri abbiam trascurato di coglier per la strada!
NOCCIOLA:
Il padrone è tornato, piú non vi tengo a bada,
e Pluto a voi, che ricchi vi farà tutti, guida.
CORIFEO:
Tutti ricchi davvero saremo?
NOCCIOLA:
Tanti Mida!
Specie se v'attaccate l'orecchie del somaro.
CORO:
Oh, come godo e giubilo, e a danzar mi preparo
col massimo diletto - se vero è ciò ch'ài detto.
NOCCIOLA (Danzando): Strofe
Ed io, tintirintí, vo' esser vostra guida,
a guisa del Ciclope facendo piroette.
Su, figli, a pinco ignudo, levando fitte grida,
seguitemi, arïette
di pecori o di fetide
capre belando; e lecchi - l'un l'altro, come i becchi.
CORO: Antistrofe
E fra un belato e l'altro, noi te côrremo, sporco
Ciclope, mentre, tintirintí, gonfio di vino,
col sacco di selvatiche roride erbe, tu corco
dormi al gregge vicino;
e a una rovente pertica
dato quindi di piglio - ti bucheremo il ciglio.
NOCCIOLA: Strofe
Or quella Circe in tutto io d'imitare cerco
che tossici intrideva, che un giorno ebbe convinto
gli amici di Filònide,
come fossero ciacchi, ad ingoiare sterco,
ch'essa impastò per loro, di sua mano, in Corinto.
Adesso, inuzzoliti, - voi, levando grugniti,
la vostra madre, o porcelli, seguite!
CORO: Antistrofe
Noi te, Circe, che intridi venefiche pozioni,
pigliando inuzzoliti, te che magie prepari,
e i tuoi compagni sudici,
t'appenderemo, come fe' Ulisse, pei coglioni,
t'impiastrerem di merda, come a un becco, le nari!
E tu, col becco schiuso, - come Aristillo ha l'uso,
dirai: La madre, o porcelli, seguite.
NOCCIOLA: Coda
Su dunque, a un altro tòno, le burle omai bandite,
passiamo: in questo mezzo
vo a rubar di nascosto
al padrone un bel pezzo
di pane e ciccia; e all'opera,
battendo le ganasce, sarò meglio disposto!
(Esce)
(Danza del Coro)
(Entra Scaracchia)
SCARACCHIA:
Darvi il bene arrivati, o paesani,
sarebbe un'anticaglia, un rancidume;
giacché siete venuti di buon grado,
senza farvi pregare, ed in buon ordine,
vi stringo al seno. Aiuto anche nel resto
datemi, e specie per guarire il Nume.
CORIFEO:
Fa' cuore: in me vedrai Marte in persona.
Bella, sarebbe, se noialtri, che
in assemblea facciamo sempre ai gomiti
per tre miseri soldi, ci lasciassimo
strappar da chicchessia Pluto in persona!
SCARACCHIA:
Vedi, s'accosta pure Sbircialardo:
ha inteso qualche cosa dell'affare,
si vede! Guarda come allunga il passo!
SBIRCIALARDO (Fra sé):
Che faccenda è codesta? Oh, come mai
Scaracchia a un tratto è diventato ricco?
Dove li ha presi? Mi convince poco.
Eppure, nelle barbierie, pei crocchi,
si faceva un gran dire che l'amico,
di punto in bianco, è diventato ricco.
E questo mi stupisce anche di piú:
che fa fortuna, e chiama a sé gli amici:
non è costume paesano, questo!
SCARACCHIA:
Senza tanti misteri glie la snocciolo.
Sbircialardo, oggi va meglio di ieri:
anche per te, ce n'è: sei degli amici!
SBIRCIALARDO (Circospetto):
Sei diventato ricco, a quel che dicono?
SCARACCHIA:
Fra poco lo sarò, piacendo al cielo:
ché un punto nero c'è, c'è, nell'affare.
SBIRCIALARDO:
Quale?
SCARACCHIA:
Questo...
SBIRCIALARDO (Impaziente):
Di', via, ciò ch'ài nel sacco!
SCARACCHIA:
Se la s'imbrocca, abbiamo l'avvenire
assicurato: se la si fa corta,
siamo in mezzo a una strada.
SBIRCIALARDO:
Questa è merce
di contrabbando, e mi va poco... Questo
diventare un riccone all'improvviso,
e aver paura, ti dipinge l'uomo
che ha fatto un qualche guaio.
SCARACCHIA:
Un qualche guaio?
SBIRCIALARDO:
Se dal tempio del Dio di dove torni
hai sgraffignato un po' d'argento e d'oro,
e adesso, affé di Dio, te ne pentissi...
SCARACCHIA:
Apollo me ne guardi! Io no, per Giove!
SBIRCIALARDO:
Meno chiacchiere, amico! Io me n'intendo.
SCARACCHIA:
Non sospettarmi reo di colpa simile!
SBIRCIALARDO (Fra sé, patetico):
Ahimè!
Come non c'è proprio in nessuno briciola
d'onestà! L'interesse vince tutto.
SCARACCHIA:
Diventi pazzo, quant'è vera Dèmetra!
SBIRCIALARDO (Come sopra):
Che mutamento da com'era prima!
SCARACCHIA:
Coso, perdio, sei pazzo da legare!
SBIRCIALARDO (Come sopra):
Neppur lo sguardo è quello d'una volta:
ci leggi scritta la furfanteria.
SCARACCHIA:
Perché gracchi, lo so. Pensi che io
abbia rubato, e vuoi la parte.
SBIRCIALARDO:
Voglio
la parte? Di che cosa?
SCARACCHIA:
Non consiste
in ciò, ma in altro, la faccenda.
SBIRCIALARDO:
Forse
non si tratta di furto, ma di scasso?
SCARACCHIA:
Vaneggi!
SBIRCIALARDO:
Dunque, tu non hai truffato
nessuno?
SCARACCHIA:
Io? Punto!
SBIRCIALARDO:
Dove batto il capo?
Se non vuoi dir la verità, per Ercole!
SCARACCHIA:
Lanci accuse, e non sai di che si tratta!
SBIRCIALARDO:
Accomodo io la cosa, amico, prima
che trapeli in città, con poca spesa,
turando il becco ai legulei con qualche
quattrinello.
SCARACCHIA:
M'hai l'aria, affé dei Numi,
di volerci impiegar, da buon amico,
tre mine, e a conto mettermene dodici!
SBIRCIALARDO (Con tòno e piglio profetico):
Vedo, seduto in tribunale, un uomo
con la moglie e coi figli: in pugno stringe
un ramo d'oleastro, e rassomiglia,
come due gocce d'acqua, ai figli d'Ercole
di Pànfilo.
SCARACCHIA:
Ma no! Solo gli onesti,
o disgraziato, adesso arricchirò,
le persone per bene e di giudizio.
SBIRCIALARDO:
Che dici? Il furto è stato cosí grosso?
SCARACCHIA:
Povero me, che guai! Tu m'assassini.
SBIRCIALARDO:
T'assassini da te, se non mi sbaglio.
SCARACCHIA:
Ma no, no, disgraziato: ho in mano Pluto!
SBIRCIALARDO:
Tu Pluto? Pluto chi?
SCARACCHIA:
L'istesso Nume!
SBIRCIALARDO:
E dov'è?
SCARACCHIA:
Dentro!
SBIRCIALARDO:
Dove?
SCARACCHIA:
In casa mia.
SBIRCIALARDO:
In casa tua?
SCARACCHIA:
Sicuro.
SBIRCIALARDO:
E a quel paese,
ci vai? Pluto in tua casa?
SCARACCHIA:
Eh, sí, pei Numi!
SBIRCIALARDO:
Parli sul serio?
SCARACCHIA:
Sul serio!
SBIRCIALARDO:
Nel nome
di Vesta?
SCARACCHIA:
Di Nettuno!
SBIRCIALARDO:
Dici quello
di mare?
SCARACCHIA:
E se ce n'è qualche altro, dei
Nettuni, anche per l'altro!
SBIRCIALARDO:
E dunque, a noi,
amici tuoi, non ne fai parte?
SCARACCHIA:
Ancora
la faccenda non è giunta a tal punto.
SBIRCIALARDO:
Che? Non al punto di spartirlo?
SCARACCHIA:
No,
perdio! Bisogna prima...
SBIRCIALARDO:
Cosa?
SCARACCHIA:
Fargli
recuperar la vista.
SBIRCIALARDO:
Noi? La vista
a chi? Si può sapere?
SCARACCHIA:
A Pluto, come
l'aveva prima, o di riffe o di raffe.
SBIRCIALARDO:
Che? Proprio è orbo?
SCARACCHIA:
Eh, sí, pel cielo!
SBIRCIALARDO:
Apposta
dunque, da me non ci è venuto mai!
SCARACCHIA:
Ma se vogliono i Numi, ora verrà!
SBIRCIALARDO:
Oh, non bisogna far venire un medico?
SCARACCHIA:
E che medico trovi oggi in Atene?
La paga è a nulla, a nulla è pure l'arte!
SBIRCIALARDO (Guardando fra gli spettatori):
Cerchiamo!
SCARACCHIA:
Non ce n'è.
SBIRCIALARDO:
Cosí mi pare.
SCARACCHIA:
Per Giove, il meglio è ciò ch'io prima avevo
disposto: porlo a giacere nel tempio
d'Esculapio.
SBIRCIALARDO:
Perdio, ma si capisce.
Non cincischiare, fa' qualcosa, sbrígati!
SCARACCHIA:
Vado súbito!
SBIRCIALARDO:
Sbrígati!
SCARACCHIA:
E che faccio?
(S'incammina con senile frettolosità; ma gli sbarra la via
una donna emaciata, scialba, vestita di miserrime e sordide
vesti. I due cercano di scansarla)
POVERTÀ:
O voi che osate, sciagurati omuncoli,
un'opra iniqua, scellerata ed empia,
dove, dove fuggite? Non ristate?
SCARACCHIA:
Ercole mio!
POVERTÀ:
Farò misero strazio
di voi, che ardite temeraria impresa,
quale niun altro osò giammai, dei Superi
né dei mortali. E adesso siete fritti.
SCARACCHIA:
E tu chi sei? Ti vedo gialla gialla!
SBIRCIALARDO:
È un'Erinni, vedrai, della tragedia:
ha giusto un piglio fra pazzesco e tragico.
SCARACCHIA:
Ma se non ha la face!
SBIRCIALARDO:
E allora, crepi.
POVERTÀ:
Chi credete ch'io sia?
SCARACCHIA:
Qualche erbivendola,
o qualche ostessa! Oh, che se no, senz'essere
stuzzicata, venivi a schiamazzare?
POVERTÀ:
Davvero? Oh, procurar di darmi il bando
via d'ogni terra, non vi pare grossa?
SCARACCHIA:
Non ti restava il baratro? Ma dicci
chi sei, súbito súbito.
POVERTÀ:
Son quella
che pagar vi farà quest'oggi il fio
d'aver cercato ch'io sfrattassi.
SBIRCIALARDO:
È proprio
l'ostessa sotto casa mia, che quando
misura il vino, me ne ruba mezzo.
POVERTÀ:
Son Povertà, che sto con voi da un pezzo!
SBIRCIALARDO (Fugge in preda a pazzo spavento):
O Numi, o Apollo re, dove fuggire?
SCARACCHIA:
Coso, che fai? Vilissimo animale,
stai sodo?
SBIRCIALARDO:
No, no!
SCARACCHIA:
Sta sodo! Due uomini
fuggiranno una donna?
SBIRCIALARDO:
È Povertà,
pover'a te, la piú sterminatrice
bestia del mondo!
SCARACCHIA:
Sta, ti prego, sta!
SBIRCIALARDO:
Perdio, no, proprio no!
SCARACCHIA:
Ma non capisci
che codardia sarebbe mai la nostra,
se, per paura di costei, fuggissimo
lasciando solo il Dio, senza combattere?
SBIRCIALARDO:
A quali armi affidarci, a qual possanza?
Quale corazza, quale usbergo esiste
che questa iniqua non lo metta in pegno?
SCARACCHIA:
Fa' cuore! So che il Dio basta da solo
a spuntarla su questa, ed a sconfiggerla.
POVERTÀ:
E osate anche fiatare, empî ribaldi,
còlti sul punto di sí reo delitto?
SCARACCHIA:
E tu, ché vieni, ti pigliasse un canchero,
senza che alcun ti offenda, a dirci ingiurie?
POVERTÀ:
Vi sembra, per gl'Iddei, di non offendermi,
quando cercate di far sí che Pluto
recuperi la vista?
SCARACCHIA:
Oh, come dici?
Che offesa a te, si fa, se ci si adopera
per far del bene a tutti quanti gli uomini?
POVERTÀ:
Voialtri due fare del bene? E come?
SCARACCHIA:
Come? Prima di tutto, discacciandoti
via da l'Ellade tutta.
POVERTÀ:
Discacciandomi?
E che male peggiore immaginate
di poter fare agli uomini?
SCARACCHIA:
Che male?
Dar mano a tale impresa e poi desistere.
POVERTÀ:
Prima di tutto, voglio entrare in disputa,
con voi su questo punto. E, se vi provo
che d'ogni vostro bene io son la causa,
io sola, e tutti voi per me campate...
Se no, fate di me quel che vi piace!
SCARACCHIA:
Cosí, pozzo d'infamia, osi parlare?
POVERTÀ:
E impara, tu! Ché dimostrarti spero
come quattro e quattr'otto, che tu pigli
un granchio a secco, se gli onesti rendere
vuoi, come dici, ricchi.
SCARACCHIA:
Oh verghe, oh verghe,
non accorrete?
POVERTÀ:
Prima d'ascoltare,
non bisogna strillare e andare in bestia!
SCARACCHIA:
Chi può tenersi, udendo certi orrori,
dallo strillare: «ahi, ahi!»?
POVERTÀ:
Chi sale ha in zucca!
SCARACCHIA:
E che pena t'assegno, nella causa,
se tu sei vinta?
POVERTÀ:
Quella che ti pare.
SCARACCHIA:
Dici bene!
POVERTÀ:
Ché poi, quella medesima
voi dovrete patir, se siete vinti.
SCARACCHIA (A Sbircialardo):
Che credi tu? che venti morti bastino?
SBIRCIALARDO:
Per lei sí; ma per noi bastano un paio!
POVERTÀ:
Non la scapolerete! E chi potrebbe
contrappormi alcunché di ragionevole?
CONTRASTO
CORO: Invito
Dire alcunché d'arguto, per vincer disputando
costei, dovete, e porre ogni fiacchezza in bando!
SCARACCHIA:
Giusto sarebbe, tutti ne sono persuasi,
che agli onesti seguissero ognor prosperi casi,
e avversi ai tristi e agli empî. Or noi, fittoci il chiodo
che cosí avesse ad essere, trovammo infine un modo
utile in tutto, fino, pieno di nobiltà.
Se infatti ora a vederci Pluto ritornerà,
né girerà piú orbo, andrà solo dai buoni,
per non piú distaccarsene, fuggendo empî e bricconi:
e ogni uomo onesto e pio avrà presto arricchito.
Si potrebbe, per gli uomini, trovar meglio partito?
SBIRCIALARDO:
Nessuno! A lei non chiederlo: te ne fo garanzia.
SCARACCHIA:
Chi pazzia non direbbe, o meglio frenesia,
la vita di noi uomini d'oggidí? Malandrini,
ne trovi tanti e tanti ch'àn mucchi di quattrini,
messi assieme imbrogliando. Tanti e tanti, al contrario,
fiori di galantuomini, sbarcan male il lunario,
soffron la fame, passano il piú del tempo teco.
Dunque, ragiono io, se Pluto, non piú cieco.
a ciò ponesse termine, ecco aperta una via
per cui gran bene agli uomini rendere alcun potria.
POVERTÀ:
Deh coppia di barbogi, deh pazzi da catena,
deh, colleghi di chiacchiere e di delirio, appena
in tutto esaudita fosse la vostra brama,
credete a me, la vita sarebbe assai piú grama.
Se Pluto, rivedendoci, sé dispensasse in parti
uguali, non si avrebbero piú scienze né arti
fra gli uomini. E scomparse, grazie a voi, queste e quelle,
ci sarà piú chi fonda metalli, conci pelle,
tagli calzari, faccia ruote pei cocchi, lavi
panni, formi mattoni, cucia, fabbrichi navi,
e con l'aratro spezzi di Demètra le zolle,
se, di tutto infischiandovi, star potrete in panciolle?
SCARACCHIA:
Cianci a vanvera! Forse non ci saranno schiavi,
per far ciò che tu dici?
POVERTÀ:
Bravo! E donde gli scavi?
SCARACCHIA:
Li compero a contanti.
POVERTÀ:
E chi, se di contante
ne avrà lui pure, venderli vorrà?
SCARACCHIA:
Qualche mercante
di schiavi di Tessaglia, per specularvi su!
POVERTÀ:
Ma mercanti di schiavi non ce ne sarà piú,
se stiamo a quel che dici! Chi rischierà la vita
a tal mestier, quand'abbia la cassa ben fornita?
Sicché, dovendo arare, zappar, far da te stesso
ogni lavoro, molto piú misero d'adesso
vivrai.
SCARACCHIA:
Crepi l'astrologo!
POVERTÀ:
Né per dormire avrai
letti: non ci saranno; né tappeti: ai telai
ci starà chi avrà soldi? - Né d'essenze odorose
potrete, ai dí di nozze, profumare le spose,
né di panni adornarle varïopinti e rari:
or senza tutto questo, che giova aver denari?
Ma io, quanto v'occorre posso darvi in gran copia:
ché, sedendo signora, pel bisogno e l'inopia
fo pensare a ogni artefice donde procuri il vitto.
SCARACCHIA:
E sapresti largire tu, forse, altro profitto
che pustole nei bagni, con turbe di marmocchi
famelici e vecchiette? Le pulci ed i pidocchi,
delle zanzare il nuvolo non vo' dir, che alla testa
ronzandoci dattorno, ci tortura e ci desta,
e dice: avrai ben fame, ma pur lévati. Taccio
quel dover possedere per mantello uno straccio,
per letto un po' di paglia di cimici gremita,
che ridesta chi dorme, una stuoia marcita
per tappeto, e un macigno tanto, per origliere.
E per panini, a tavola, talli di malva avere,
e per focaccia, foglie mosce di ravanello,
il coccio d'un boccale spezzato per sgabello,
e per madia la doga d'un barile, in frantumi
pure codesto. Oh, dimmi, i beni che costumi
largire a tutti gli uomini, non son quelli che annovero?
POVERTÀ:
Ma tu non parli mica della vita del povero!
Te la pigli con quella del pitocco.
SCARACCHIA:
Eh, si sa
che della pitoccaggine sorella è Povertà!
POVERTÀ:
Per voi, che confondete Díonisî e Trasiboli!
Ma non mai la mia vita patí simili triboli,
né mai dovrà patirli! Tu parli del pitocco
che la vita campare deve senza, un baiocco!
Il poveretto, invece, conduce un'esistenza
di parsimonia, intento sempre al lavoro, senza
nulla aver di superfluo, ma senza privazioni!
SCARACCHIA:
Che vita da Beati, per Cerere, m'esponi,
se non gli resta, dopo tanti stenti e risparmi,
da pagare il becchino!
POVERTÀ:
Tu non fai che beffarmi
e celiare, e sul serio non vuoi parlare: e ignori
ch'io d'aspetto e di mente fo gli uomini migliori,
che non Pluto! Con Pluto, gambe gonfie, podagra,
sconcio grasso, ventraie; ma con me, gente magra,
tafani di sveltezza, pronti a menar le mani.
SCARACCHIA:
Già, con la fame, simili tu li rendi ai tafani.
POVERTÀ:
Poi, venendo al morale, dimostrerò che stanza
ha con me verecondia, con Pluto tracotanza.
SCARACCHIA:
Rubare e scassinare, son cose vereconde?
SBIRCIALARDO:
E come no? Chi ruba vedi che si nasconde!
POVERTÀ:
Guarda un po' gli avvocati nelle città! Quand'essi
son poveri, del popolo curano gl'interessi,
e dello Stato: quando coi quattrini di tutti
son fatti ricchi, súbito divengon farabutti,
fan guerra al popol, tramano contro il govemo méne!
SCARACCHIA:
Sebbene iettatrice, questa l'hai detta bene.
Ma non stare a gonfiarti! Creperai tal'e quale,
perché ci vuoi convincere che la povertà vale
piú del denaro!
POVERTÀ:
E nulla sai contrappormi! Butti
giú chiacchiere, e divaghi!
SCARACCHIA:
Oh, come va che tutti
da te fuggono, allora?
POVERTÀ:
Perché io li miglioro!
Guarda i bambini! Il padre, che cerca il bene loro,
sfuggono: il ben discernere è difficile assai.
SCARACCHIA:
Dunque, che neppur Giove lo scerne, tu dirai:
ché si tien la ricchezza.
SBIRCIALARDO (A Povertà):
E a noi te manda in dono!
POVERTÀ:
Menti piene di cispa, bacucchi piú di Crono,
Giove di certo è povero, e ve n'adduco chiare
prove. Se fosse ricco, credi che nelle gare
d'Olimpia, dove tutti gli Ellèni esso raccoglie
ogni cinqu'anni, ghirlanderebbe con le foglie
dell'ulivastro, quelli che vincono? Piú presto
d'oro, se fosse ricco, le farebbe!
SCARACCHIA:
Codesto,
anzi, mostra in che conto tien la ricchezza! Specola
per non darla, e risparmia; e codesta bazzecola
donando ai vincitori, per sé tiene il denaro!
POVERTÀ:
Vizio peggior gli affibbi che povertà, se avaro
e interessoso è tanto, pur sendo ricco.
SCARACCHIA:
Al crine
l'olivastro ei cingendoti... ti spinga a mala fine!
POVERTÀ:
Come osate negare che ogni bene è largito
a voi da Povertà?
SCARACCHIA:
Ad Ecate il quesito
s'ha da far, se sta meglio chi è ricco, o chi digiuna.
Ché una cena le apprestano, quando torna la luna,
ricchi e abbienti; ma prima che pronti siano i tavoli,
sparecchiata ogni cosa hanno i poveri diavoli.
Stretta
Ma crepa: e piú non ti scappi un grugnito:
ché tu mai non potrai
convincerci, neppure se ci convincerai.
POVERTÀ:
Avete, o Argivi, com'ei parla, udito?
SCARACCHIA:
Chiama Pausone, quel tuo commensale.
POVERTÀ:
Tapina, che farò?
SCARACCHIA:
Sfratta alla spiccia, e ti pigli un malanno!
POVERTÀ:
In quale parte della terra andrò?
SCARACCHIA:
Alla gogna! Ché tempo non è questo
d'indugiar, ma di battertela, e presto.
POVERTÀ:
Eppur, dovrete qui chiamarmi ancora!
SCARACCHIA:
Allora torna: adesso va' in malora!
Arricchir mi sa meglio,
a te lasciar che il fistolo ti pigli!
(Povertà si ritira)
SBIRCIALARDO:
Perdio, fatto signore, anch'io desidero
darmi bel tempo con la sposa e i figli;
e lindo e pinto poi dal bagno uscendo,
a chi campa di braccia
e a Povertà corregge trarre in faccia.
SCARACCHIA:
Oh, se n'è ita, quella maledetta.
Or noi rechiamo presto e lesto il Nume
a giacere nel tempio d'Esculapio.
SBIRCIALARDO:
Sí, non perdiamo tempo! Che non abbia
da venire alcun altro, ad impedirci
di fare tutto quello che necessita.
SCARACCHIA:
Nocciola, qui! Ragazzo! Reca fuori
le coltri, e Pluto stesso, come s'usa,
e l'altra roba preparata dentro!
(Esce Nocciola carico di roba, guidando a mano Pluto. Escono tutti)
(Danza del Coro)
NOCCIOLA (Esce solo e parla ai coreuti):
Vecchi, che spesso avete fatto ai gomiti,
nelle annuali di Tesèo, per briciole
di pane, oh voi felici, oh voi beati,
e quanti al par di voi son galantuomini!
CORIFEO:
Che n'è, brav'uomo, degli amici tuoi?
Di fauste nuove apportator mi sembri.
NOCCIOLA:
Ebbe il padrone la piú gran fortuna,
e Pluto anche di piú: che cieco egli era,
e adesso ha gli occhi spalancati e fulgidi.
Il salutare Asclepio ebbe propizio.
CORIFEO:
Che gaudio annunzi a me! Grido pel giubilo.
NOCCIOLA:
Giubilerai... per forza o per amore.
CORO (Cantando):
Il padre io canto d'illustre prole,
Asclepio, agli uomini fulgido sole...
(Dalla casa esce in fretta la moglie di Scaracchia)
MOGLIE DI SCARACCHIA:
Che grida sono queste mai? Recate
liete novelle? È un pezzo ch'io di brama,
aspettando costui, mi struggo in casa.
NOCCIOLA:
Presto, padrona, reca vino, presto,
per trincarne anche tu: ché ne vai pazza:
tutte le buone nuove a fascio io reco.
MOGLIE:
Dov'è?
NOCCIOLA:
Le mie parole odi, e saprai.
MOGLIE:
Di', dunque, ciò che devi dire: sbrígati.
NOCCIOLA:
Porgimi dunque orecchio, e ciò che avvenne
tutto, da cima a fondo, io t'esporrò.
MOGLIE:
A fondo vacci tu!
NOCCIOLA:
Che? Gli accidenti
occorsi...
MOGLIE:
Non ne voglio, io, d'accidenti.
NOCCIOLA (Quasi solenne):
Come del Dio giungemmo al santuario,
quell'uom guidando, il piú tapino allora
d'ogni altro, adesso piú di quanti esistono
fortunato e beato, in prima al pelago
lo guidammo, e lavammo.
MOGLIE:
Un bagno freddo
a un uomo vecchio! Che fortuna, càspita!
NOCCIOLA:
Poscia, nel tempio entrammo; e, consacrata
la focaccia su l'ara e la farina,
alla vampa d'Efesto offerte sacre,
Pluto a modo adagiammo; ed un giaciglio
apparecchiò ciascun di noi per sé.
MOGLIE:
E c'erano altri, a chiedere la grazia
al Dio?
NOCCIOLA:
Chiavaccionovo, uno ch'è cieco,
ma quando ruba supera i veggenti.
E poi, tanti e tanti altri, afflitti d'ogni
specie di mali. Ed ecco, il sacerdote
i lumi spenge, e di dormir c'impone,
dicendo che, se pur s'ode rumore,
non bisogna fiatare. E noi stavamo
chiotti chiotti cosí. Ma prender sonno
io non potevo: un pentolo di pappa
c'era, vicino a una vecchietta, poco
da me lontano: ond'io rimescolarmisi
sentivo il sangue, pel desio di metterci
le mani sopra. Or, gli occhi innalzo, e vedo
il prete sgraffignar fichi e focacce
dalla tavola sacra, e fare quindi
il giro degli altari, uno per uno,
e quante pizze c'erano rimaste,
ficcarle dentro in una sacca. Immagino
che si tratti d'un atto di pietà,
e m'alzo anch'io, per dare addosso al pentolo.
MOGLIE:
Pezzo d'infame! E non temevi il Dio?
NOCCIOLA:
Temevo, sí: temevo che piombasse
prima di me sul pentolo, con tutta
la sua brava corona. Il prete suo
m'aveva dato un saggio! - La vecchietta,
appena udí qualche rumore, tese
la mano; e sibilando io l'addentai,
come se fossi un serpe ganascione.
Lei la ritrasse tosto, e zitta e cheta
si coricò, si avvoltolò; ma un peto
tirò per la paura, puzzolente
piú di quel d'una donnola. Ed infine
ingollai buona parte della pappa,
e quando fui ben rimpinzato, smisi.
MOGLIE:
E il Dio non s'accostava?
NOCCIOLA:
Ancora no.
Una ne feci poi, proprio da ridere.
Trassi, mentr'egli s'accostava, un peto
fenomenale. Sai com'ero gonfio!
MOGLIE:
Gli avrai fatto cosí voltar lo stomaco
di colpo!
NOCCIOLA:
Punto! Ma Medela, che
lo seguiva, si fece rossa rossa,
e Panacèa si turò il naso, e torse
la testa indietro. Eh, non scorreggio incenso!
MOGLIE:
E il Dio?
NOCCIOLA:
Nemmeno ci badò, perdio!
MOGLIE:
A darti retta, questo Nume è un tanghero!
NOCCIOLA:
Tanghero, non direi: mangiamerda!
MOGLIE:
Empio!
NOCCIOLA:
M'imbacuccai, per la paura, súbito
dopo. Ed il giro egli compie', con molta
dignità, tutti esaminando i mali.
E un bimbo accanto gli teneva un cesto,
e di pietra un mortaio, ed un pestello.
MOGLIE:
Di pietra, un cesto?
NOCCIOLA:
Eh, il cesto, no, perdio!
MOGLIE:
Ti pigli un male! E come ci vedevi
tu, ch'eri imbacuccato?
NOCCIOLA:
Per i buchi
del mantello! Perdio, non ce n'è pochi!
Un cataplasma per Chiavaccionovo
prima manipolò. Gittò tre capi
d'agli di Teno nel mortaio: aggiunse
e triturò latte di fico e scilla,
poi stemperò con aceto di Sfette,
e le pàlpebre gli unse, arrovesciandole,
perché sentisse piú dolore. Quello
scappò d'un salto, urlando e strepitando;
e il Nume rise, e disse: «Adesso, adàgiati,
impiastrato cosí: ti vo' levare
il vezzo di berciare in assemblea.»
MOGLIE:
Vedi che Nume saggio e patriotico!
NOCCIOLA:
Fatto questo, sede' vicino al vecchio.
E prima il capo gli palpò, poi prese
un pannolino netto, e intorno intorno
gli rasciugò le palpebre; e la testa
Panacèa gli coperse, e tutto il viso
con un panno di porpora. Fischiò,
poscia, il Nume; e due draghi fuori emersero
spettacolosi dalla cella...
MOGLIE:
Oh Dio!
NOCCIOLA:
Sotto il panno strisciando adagio adagio,
gli lambirono questi ambe le pàlpebre
se bene ho visto. E in men che tu non stermini
dieci, padrona mia, tazze di vino,
Pluto si alzò che ci vedeva. Allora,
battei le mani, pel gran gusto, e scossi
dal sonno il mio padrone: e a un tratto, sparvero
dentro la cella e serpi e Dio. Figúrati
gli abbracciamenti di quelli che stavano
accosto a Pluto. E sino all'alba stettero,
tutta la notte, a far la veglia. Ed io
non la finivo di lodare il Nume,
che sí presto la vista a Pluto rese,
e fe' Chiavaccionovo anche piú cieco!
MOGLIE:
Grande, Iddio signor nostro, è la tua possa!
Ma dimmi, Pluto ov'è?
NOCCIOLA:
Giunge. Un turba
gli era dattorno, non saprei dir quanti!
Quelli che già, per esser galantuomini,
campavano a stecchetto, l'abbracciavano,
gli stringevan la destra di gran gusto:
quanti avevan quattrini e roba a iosa,
e tiravano avanti con gl'imbrogli,
aggrottavano il ciglio, e lo guardavano
in cagnesco. Ma gli altri, incoronati,
ridendo ed acclamando, lo seguivano:
e i sandali dei vecchi risuonavano,
ché marciavano in tempo!
(Agli spettatori)
Oh, via, d'accordo
tutti, ballate, saltate, danzate!
Tornati a casa, niuno vi dirà
che dentro il sacco non c'è piú farina!
MOGLIE:
Cingere al crine anch'io ti vo', per Ècate,
una corona di panini al forno,
per le fauste novelle.
NOCCIOLA:
Or non s'indugi:
ché già vicino all'uscio è quella gente!
MOGLIE:
Bene, io vo dentro a prendere i confetti:
per spargerli su gli occhi... comperati
di fresco!
NOCCIOLA:
Ed io li vado ad incontrare!
(Escono tutti e due. Danza del Coro)
(Entra Pluto, accompagnato da Scaracchia e Sbircialardo,
e seguíto da una folla di persone)
PLUTO:
Prima il Sole saluto, indi la terra
di Palla veneranda inclita, e tutto
il suol cecropio che mi diede asilo.
Delle sciagure mie m'assal vergogna.
Con che uomini, dunque, insieme vissi,
senza saperlo! E quanti erano degni
della mia compagnia, fuggivo, ignaro
di tutto, oh me infelice! Onde, né in quello
né in questo, bene adoperavo! Or tutto
io capovolgerò, dimostrerò
ad ogni gente, d'ora innanzi, ch'io
mal grado mio mi concedevo ai tristi.
SCARACCHIA:
All'inferno! Che noia, questi amici,
che, come passi una fortuna, súbito
si fanno avanti! T'urtano coi gomiti,
t'ammaccano gli stinchi, e ognuno sfoggia
gran tenerezza. Chi non s'è voluto
congratulare? Quanti vecchi in piazza
non m'han fatto corona? Una caterva!
(Dalla casa esce la moglie di Scaracchia, recando
confetture su un vassoio)
MOGLIE (A Pluto):
Oh tesoro d'un uomo, a te salute!
(Al marito e a Sbircialardo)
A te pure, a te pure!
(A Pluto)
Aspetta un po',
che adesso prendo, come si costuma,
questi confetti, e te li spargo addosso.
PLUTO:
No, punto! Entrando per la prima volta
in questa casa, adesso che ci vedo,
prender non devo, no, bensí portare.
MOGLIE:
Questi confetti non li accetti, dunque?
PLUTO:
Sí, dentro, accanto al fuoco, come s'usa!
S'evita pure una volgarità,
cosí: ché ad un maestro non conviene
gittare fichi secchi e leccorníe
agli uditori, per forzarli a ridere!
MOGLIE (Guardando fra gli apettatori):
Ben detto! Vincipiglia, per ghermire
i fichi secchi, s'era alzato già!
(Entrano tutti. Danza del Coro)
NOCCIOLA (Esce di casa gongolando):
Gente mia, che dolcezza il viver comodo,
senza spendere il becco d'un quattrino!
Un mucchio, in casa, c'è piovuto, senza
far male a chicchessia, di buone cose!
È piena l'arca di farina bianca,
e l'anfore di vin rosso fragrante:
i vasi tutti son ricolmi d'oro
e d'argento, da far trasecolare;
il pozzo è pieno d'olio, le ampolline
riboccano di mirra, la soffitta
di fichi secchi: son di bronzo tutte
le padelle, le pentole, le ampolle.
I taglieri del pesce, ch'eran fradici,
son d'argento: la cappa del camino
divenuta è d'avorio, all'improvviso!
Noi servi, poi, si giuoca a pari e dispari
con le monete d'oro; e ci si netta
non già coi sassolini, ma coi gambi
d'aglio, da gente delicata. E adesso,
dentro casa, il padrone, inghirlandato,
immola un porco, un bove ed un montone.
Me, m'ha scacciato il fumo! Non potevo
restarci, lí: mi pizzicava gli occhi.
(Entra, vestito a nuovo, e accompagnato da un bambino
che porta un mantello e un paio di zoccoli, un Galantuomo)
GALANTUOMO:
Bimbo, vieni con me, si va dal Nume.
NOCCIOLA:
Ehi là, chi s'avvicina?
GALANTUOMO:
Un uomo ch'era
misero per l'innanzi, ora è felice.
NOCCIOLA:
A quel che pare, un galantuomo, sei.
GALANTUOMO:
E come!
NOCCIOLA:
E che ti occorre?
GALANTUOMO:
Io vengo al Nume,
che procurati m'ha vantaggi grandi.
Sappi che io dal babbo ereditai
un largo patrimonio; e sovvenivo
gli amici bisognosi: in questo modo
credevo d'acquistar benemerenze.
NOCCIOLA:
Cosí, presto i quattrini se n'andarono.
GALANTUOMO:
Proprio cosí!
NOCCIOLA:
E tu restasti al verde.
GALANTUOMO:
Proprio cosí! Credevo, io, di trovare,
se cadessi in miseria, amici fidi
in tutti quelli che finora avevo
soccorso nel bisogno. Invece, quelli,
a scantonare, e a fingere di non
vedermi!
NOCCIOLA:
Intendo bene; e ti beffavano.
GALANTUOMO:
Proprio cosí! Mi rovinava l'essere
male in arnese. Adesso, invece, il vento
è cambiato: e in compenso, è troppo giusto
ch'io venga qui, per fare onore al Nume.
NOCCIOLA (Indicando il mantello portato dal bambino):
Oh, quello straccio lí, che porta il bimbo
che vien con te, perdio, di', che significa?
GALANTUOMO:
Vo' fare anche di questo offerta al Nume.
NOCCIOLA:
Ci fosti forse inizïato ai Grandi
Misteri? È quello?
GALANTUOMO:
No! Ma ci passai
tredici anni di freddo.
NOCCIOLA:
E questi zoccoli?
GALANTUOMO:
Nei geli, anch'essi miei compagni furono.
NOCCIOLA:
E questa roba porti in dono?
GALANTUOMO:
Eh, sí!
NOCCIOLA:
Che bei regali, da portare al Nume!
(Entra un sicofante accompagnato da un testimonio)
SICOFANTE:
Ahi, me infelice! Che tracollo, oh misero!
Ahi, tre volte infelice, quattro, cinque,
dodici, diecimila! Ahimè, ahimè,
qual m'irretisce Demone maligno!
NOCCIOLA:
O Apollo scacciamali, o Numi amici,
che malanno gli ha preso, a codest'uomo?
SICOFANTE:
Chi sopportar potrebbe i miei malanni?
Ho perduto ogni ben di casa mia,
per questo Nume, che, se non mi vengono
meno i processi, ha da tornare cieco.
GALANTUOMO (A Nocciola):
Capisco, su per giú, di che si tratta.
L'amico qui che s'avvicina, se la
passa male. Mi par di triste conio.
NOCCIOLA:
E benedetto quel tracollo, allora!
SICOFANTE:
Dov'è, dov'è, colui che prometteva
di farci a colpo tutti ricchi, se
tornasse a rivederci? Invece, tanti
n'ha mandati in rovina.
NOCCIOLA:
A chi l'ha fatto
questo servizio?
SICOFANTE:
Per esempio, a me.
NOCCIOLA:
Eri un furfante? Scassinavi porte?
SICOFANTE:
Affé di Dio, che voi non siete nulla
di buono! È certo, i miei quattrini sono
in mano vostra.
NOCCIOLA:
Con che furia soffia,
senti, l'amico sicofante! È chiaro
che crepa dalla fame.
SICOFANTE:
Non la scapoli!
Hai, senza storie, da venire in piazza,
e steso lí, sopra la ruota, devi
confessare le tue ribalderie.
NOCCIOLA:
Un accidente che ti lasci lí!
GALANTUOMO:
Quante benemerenze, Iddio mi salvi,
presso gli Ellèni tutti ha questo Nume,
che stermina cosí quelle canaglie
di sicofanti!
SICOFANTE:
Ah, poveretto me!
Mi canzoni anche tu? Gli tieni il sacco?
Oh, quel mantello, dove l'hai rubato?
Ieri t'ho visto con un cencio in dosso!
GALANTUOMO:
Te, ti conto un bel nulla. Ho quest'anello
in dito! L'ho comprato da Buonpopolo
per una dramma.
NOCCIOLA:
Eh, non guarisce il morso
d'un sicofante.
SICOFANTE:
Oh colmo d'impudenza!
Mi corbellate, e non mi dite quello
che state a fare. Già, nulla di buono!
NOCCIOLA:
Buono per te, no certo, perdio, contaci.
SICOFANTE:
Papperete, perdio, coi miei quattrini?
NOCCIOLA:
Magari fosse! E tu scoppiassi, insieme
col testimonio tuo, satollo d'aria!
SICOFANTE:
Negate? In casa, pezzi di birboni,
avete pesce a taglio, e carne a iosa.
(Fiuta l'aria, e batte i denti pel freddo)
Bu bu, bu bu,
bu, bu, bu bu,
bu bu...
NOCCIOLA:
Oh poveraccio! Senti qualche odore?
GALANTUOMO:
Odor di freddo! Guarda un po' che cencio
ha in dosso, per mantello.
SICOFANTE:
Oh Giove, oh Numi,
io di costoro tollerar le beffe?
che cruccio! Perché sono un uom dabbene,
un patriota, me la passo male.
GALANTUOMO:
Un patriota e un uom dabbene, tu?
SICOFANTE:
Come non ce n'è altri.
GALANTUOMO:
Beh, rispondi
ad una mia domanda.
SICOFANTE:
A quale?
GALANTUOMO:
Sei
bifolco?
SICOFANTE:
M'hai preso per pazzo?
GALANTUOMO:
Allora
mercante?
SICOFANTE:
Quando càpita, m'industrio.
GALANTUOMO:
Oh, allora? Sai qualche mestiere?
SICOFANTE:
No,
perdio!
GALANTUOMO:
Come e di che, dunque, campavi,
senza far nulla?
SICOFANTE:
Curo le faccende
pubbliche tutte e le private!
GALANTUOMO:
Tu?
Per qual diritto?
SICOFANTE:
Perché me la sento!
GALANTUOMO:
E come sei, canaglia, un uom dabbene,
se per faccende che non ti riguardano
ti fai prendere in tasca?
SICOFANTE:
E procurare
il bene della patria, o gran corbello,
non mi riguarda?
GALANTUOMO:
Ah, sí? Tu ficchi il naso
nei fatti altrui, pel bene della patria?
SICOFANTE:
Sí: le leggi sancite io vo' difendere,
e se qualcun le trasgredisce, ad altri
non rimettermi.
GALANTUOMO:
E che? Non ci son giudici
per applicarle?
SICOFANTE:
Già. Ma chi denuncia?
GALANTUOMO:
Chi n'ha la vocazione.
SICOFANTE:
Io son quel desso.
E in Atene sbrigo io tutti gli affari.
GALANTUOMO:
Che birba d'un ministro, Atene mia! -
E dimmi un po': campare in santa pace,
senza gatte a pelar, ti piacerebbe?
SICOFANTE:
Campare senza occupazione? Dici
una vita da pecoro!
GALANTUOMO:
E neppure
cambieresti mestiere?
SICOFANTE:
Se mi dessi
Pluto in persona, e il silfio di Cirene,
risponderei di no.
NOCCIOLA:
Sbrígati, allora,
metti giú quel mantello.
GALANTUOMO:
Ehi, dice a te.
NOCCIOLA:
E scàlzati!
GALANTUOMO:
Codesta è tutta roba
che dice a te!
SICOFANTE (Minaccioso):
Si faccia qui vicino,
chi di voi se la sente!
NOCCIOLA:
Io son quel desso.
(Acciuffa il sicofante e comincia a spogliarlo.
Il testimonio se la dà a gambe)
SICOFANTE:
Povero me, mi spogliano, e di giorno.
NOCCIOLA:
E tu, perché vuoi campare impicciandoti
nei fatti d'altri?
SICOFANTE (Voltandosi verso dove era il testimonio):
Lo vedi che fa?
Ti piglio in testimonio...
NOCCIOLA:
Il testimonio
che conducesti, se l'è data a gambe!
SICOFANTE:
Ah, m'acchiappano a solo!
NOCCIOLA:
Adesso strilli?
SICOFANTE:
Ahimè! Ahimè!
NOCCIOLA (Al galantuomo, indicando il mantello tenuto dal ragazzo):
Dà qui codesto cencio,
ché io l'infilo al sicofante.
GALANTUOMO:
Ah, questo
poi no! Da tanto l'ho promesso a Pluto.
NOCCIOLA:
E c'è luogo piú adatto, per appenderlo,
che le spalle d'un ladro e d'un furfante?
Pluto si deve ornar con vesti splendide!
(Infila il mantello sdrucito al sicofante)
GALANTUOMO:
Degli zoccoli, di', che ne facciamo?
NOCCIOLA:
Glie li conficco sulla fronte súbito
súbito, come un serto d'ulivàggine.
SICOFANTE:
Lo vedo bene, son troppo piú debole,
e per ora, vo' via. Ma se mai trovo
qualche collega in soffionismo, a questo
gran Dio, dentr'oggi, glie la fo pagare:
Perché da solo, e senza il beneplacito
del Parlamento e del Senato, mira
a scalzare il regime democratico.
GALANTUOMO:
E tu, giacché possiedi ora di mio
armi e bagagli, al bagno fila súbito.
E lí, scàldati ritto, in capofila:
ché quello era una volta il posto mio.
NOCCIOLA:
Ma spero bene che il bagnino súbito
l'afferri pei coglioni, e lo sbatacchi
fuori dell'uscio: lo vedrà di colpo,
che buona lana sia! Ma entriamo, noi.
E cosí tu dirai la prece al Nume.
(Danza del Coro)
(Entra una vecchiaccia tutta imbellettata e in ghingheri. La segue
una fantesca, portando su un piatto focacce e leccorníe)
VECCHIA (Ai coreuti):
Buoni vecchi, di grazia, siamo proprio
giunte innanzi alla casa del Dio nuovo,
oppure siam del tutto fuor di strada?
CORO:
Sei proprio innanzi all'uscio, o bimba bella.
Ma con che grazia ha fatta la domanda!
VECCHIA:
Allora chiamerò qualcun di casa.
SCARACCHIA (Uscendo):
Inutile chiamare: eccomi qui.
Che buon vento ti mena?
VECCHIA:
Me ne càpita
di grosse, di birbone, anima mia!
Questo Nume, da sí che ci rivede,
ha resa la mia vita insopportabile.
SCARACCHIA:
Cosa c'è? Fossi mai sicofantessa
tra le femmine, tu?
VECCHIA:
Macché, perdina!
SCARACCHIA:
Non t'hanno tratta a sorte per... trincare?
VECCHIA:
Tu mi corbelli, ed io, tapina, brucio!
SCARACCHIA:
Di che bruciore? Svelta, parla!
VECCHIA:
Sentimi!
Avevo per amante un giovinetto
povero, sí, ma bello, tutto garbo,
appariscente; e in ogni mia bisogna
mi serviva con grazia e con bel modo!
Ed io, per tutto ciò, lo compensavo.
SCARACCHIA:
E per lo piú, che cosa ti chiedeva?
VECCHIA:
Roba di poco! Aveva soggezione,
quanta dir non si può. Poteva chiedermi
venti dramme d'argento pel mantello,
otto per i calzari; o che comprassi
per le sorelle un vestituccio, per la
madre una mantellina: gli potevano
bisognar quattro staia di frumento...
SCARACCHIA:
Roba da poco, quant'è vero Apollo,
a quel che dici tu. Che soggezione!
VECCHIA:
E questa roba, la chiedeva, dice,
per amore, e non già per interesse:
portando il mio mantello, egli m'avrebbe
avuto sempre innanzi!
SCARACCHIA:
Innamorato
cotto!
VECCHIA:
Ma lo sfacciato non ha piú
gli stessi sentimenti, ed ha mutato
dal bianco al nero! Gli ho mandato questa
focaccia, e queste leccorníe che vedi
sul vassoio, annunziandogli che andrei
verso sera da lui...
SCARACCHIA:
Che ha fatto, lui?
VECCHIA:
M'ha rimandato la focaccia, e ha detto
che non mi faccia riveder piú mai.
E m'ha mandato a dire, oltre il rifiuto,
che passò il tempo che Berta filava.
SCARACCHIA:
Si vede chiaro che non è minchione!
È ricco, e la lenticchia non gli piace
piú: per miseria, prima trangugiava
ogni cosa!
VECCHIA:
E veniva all'uscio mio,
perdina, tutti i santi giorni, prima!
SCARACCHIA:
Pel funerale?
VECCHIA:
No! Pel solo gusto
d'udir la voce mia!
SCARACCHIA:
Chè! Per beccare!
VECCHIA:
Quando poi mi vedeva malinconica,
mi diceva anatrella e colombella...
SCARACCHIA:
Poi bussava a quattrini per le scarpe!
VECCHIA:
Una volta che andammo in cocchio ai Grandi
Misteri, perché un tale mi guardò,
ne toccai tutto il giorno. Il giovanotto
era geloso fradicio!
SCARACCHIA:
Voleva
la privativa della pappatoria.
VECCHIA:
Diceva ch'ò le mani tanto belle!
SCARACCHIA:
Quando allungavan venti dramme, certo.
VECCHIA:
Che io spando un odore soavissimo...
SCARACCHIA:
E certo, quando gli mescevi Taso.
VECCHIA:
E che son gli occhi miei soavi e languidi.
SCARACCHIA:
Non era grullo, no! Sapeva come
mangiar la roba d'una vecchia in fregola.
VECCHIA:
In questo, il Dio non si comporta bene,
per quanto egli proclami di soccorrere
i bisognosi.
SCARACCHIA:
Proponi tu stessa
quello che deve fare, e sarà fatto.
VECCHIA:
Io lo beneficai: deve costringerlo
a ricambiarmi; o che mai piú non abbia
oncia di bene.
SCARACCHIA:
Oh, non ti ricambiava
notte per notte?
VECCHIA:
Già: ma prometteva
di non piantarmi sin ch'io fossi viva.
SCARACCHIA:
Giusto: ma viva or piú non ti considera.
VECCHIA:
La passïone m'ha disfatta, o caro.
SCARACCHIA:
Disfatta, proprio, non direi: marcita.
VECCHIA:
Mi faresti passar per un anello.
SCARACCHIA:
Sí, largo quanto il cerchio d'uno staccio.
VECCHIA:
Ma guarda, arriva proprio lui, quel giovane
di cui mi stavo querelando. Pare
che vada per bagordi.
SCARACCHIA:
Cosí pare.
Guardalo! È coronato ed ha la fiaccola!
(Entra un giovanotto inghirlandato, brillo, tenendo
in pugno una fiaccola)
GIOVANOTTO (Alla vecchia):
Tanti ossequî!
VECCHIA:
Che dice?
GIOVANOTTO:
Oh vecchia amica...
Cielo! I tuoi crini a un tratto incanutirono!
VECCHIA:
Misera me, che oltraggi ho da patire!
SCARACCHIA (Alla vecchia):
Da un pezzo, pare che non t'abbia vista.
VECCHIA:
Da un pezzo! Disgraziato! Ancora ieri
era da me.
SCARACCHIA:
Vuol dire che gli accade
il contrario di ciò che avviene a tutti:
piú s'ubriaca, e piú ci vede chiaro.
VECCHIA:
Macché! Sempre sgarbato è, di maniere!
GIOVANOTTO (Avvicinandole al viso una fiaccola):
Nume del mare, e Dei della vecchiaia,
guarda un po' quante grinze su quel viso!
VECCHIA:
Ahi, ahi! Non accostarmi quella fiaccola
al viso!
SCARACCHIA:
Dice bene! Se la tocca
una sola scintilla, piglia fuoco
come una frasca secca.
GIOVANOTTO:
Dopo tanto,
si ruzza insieme un po'?
VECCHIA (Facendo la graziosa):
Dove, birbante?
GIOVANOTTO:
Qui. Piglia queste noci!
VECCHIA:
A che si giuoca?
GIOVANOTTO:
A quanti denti ti ritrovi.
SCARACCHIA:
Anch'io
te l'indovino! Tre o quattro, n'avrà.
GIOVANOTTO:
Ha un mascellare, figlio unico. Paga!
VECCHIA:
Sei pazzo, infame? Qui, davanti a tutti,
li sciacqui, i panni sudici di casa?
GIOVANOTTO:
Tu ci guadagni un tanto, se ti sciacquano.
SCARACCHIA:
No, no, ché impiastricciata è di belletto,
e se, dio guardi, se ne va la biacca,
restano a nudo i solchi della faccia.
VECCHIA:
Anzïano, qual sei, mi sembri un pazzo.
GIOVANOTTO:
Ti tenta, di'? Ti palpa le poppine,
e pensa ch'io non me n'accorga!
VECCHIA:
No,
birbone, non le mie, per Afrodite!
SCARACCHIA:
Per Ecate, no, proprio! - E che, son pazzo?
(Con gravità)
Ma, giovanotto mio, non ti permetto
che tu disprezzi questa bella giovine.
GIOVANOTTO:
Ma se l'adoro!
SCARACCHIA:
Eppure, si lamenta
dei fatti tuoi.
GIOVANOTTO:
Di che si lagna?
SCARACCHIA:
Afferma
che tu le manchi di rispetto, e canti:
«Non è piú il tempo che Berta filava!»
GIOVANOTTO:
Egli è che tuo rivale esser non bramo.
SCARACCHIA:
E perché?
GIOVANOTTO:
Per rispetto agli anni tuoi:
a nessun altro glie la passerei:
tu piglia pur la bimba, e va' con Dio!
SCARACCHIA:
Intendo, intendo: non vuoi piú saperne
di star con lei.
GIOVANOTTO:
E chi me lo fa fare?
Non ci voglio dormire: sono tredici
mil'anni, che si fa sbattere.
SCARACCHIA:
Eppure,
bevi la feccia, or ch'hai bevuto il vino.
GIOVANOTTO:
Ma questa feccia è proprio vecchia e putrida.
SCARACCHIA:
Un colatoio aggiusta tutto. Entrate.
GIOVANOTTO:
Aspetta, voglio consacrare al Nume
queste corone.
VECCHIA:
Voglio dirgli anch'io
una parola!
GIOVANOTTO:
E allora, resto fuori
io!
SCARACCHIA (Alla vecchia, che fa smorfiette):
Sú, coraggio, non temere! Mica
ti farà forza!
GIOVANOTTO:
Son parole d'oro.
L'ho sufficientemente impegolata
pel passato.
VECCHIA:
Cammina: io vengo dietro.
SCARACCHIA:
Giove mio, con che forza la vecchietta
s'attacca al giovanotto! Pare un'ostrica.
(Entrano tutti. Danza del Coro)
(Entra Ermète, picchia con gran forza all'uscio di Scaracchia,
e poi si nasconde)
NOCCIOLA:
Chi picchia all'uscio? Che rob'è? Nessuno,
pare! Oh, che l'uscio cigola e tentenna
da sé?
(Fa per rientrare)
ERMETE:
Nocciola, aspetta.
NOCCIOLA:
Oh coso, hai dunque
picchiato tu, con quel po' po' di forza?
ERMETE (Minaccioso):
Un altro po', sangue di Giove! Hai proprio
aperto in tempo. Corri svelto, e chiama
il tuo padron, quindi la moglie, quindi
i bimbi, quindi i servi, quindi il cane,
quindi la scrofa, quindi te medesimo...
NOCCIOLA:
Che c'è di nuovo?
ERMETE:
Giove, oh disgraziato,
vuol rimpastarvi tutti in un gran pentolo,
e scagliarvi nel baratro.
NOCCIOLA:
Gli possa
cascar la lingua, a certi ambasciatori!
E perché ci vuol far questo servizio?
ERMETE:
Perché compiuta avete la piú turpe
opra del mondo! Da che Pluto ha preso
a rivederci, non c'è piú chi offra
a noi Celesti né incenso, né alloro,
né focaccia, né vittima, né altro.
NOCCIOLA:
Né l'offrirà piú mai! Voi prima
ci pensavate a noi?
ERMETE:
Degli altri Numi
poco m'importa: gli è che sono fritto,
sono fottuto, io!
NOCCIOLA:
Non dici male.
ERMETE:
Come spuntava il dí, prima trovavo
fiore di leccorníe presso le ostesse:
ciambelle al vino, fichi secchi, miele,
tutta roba indicata per la bocca
d'Ermète. Adesso ho da patir la fame,
a gambe incrocicchiate.
NOCCIOLA:
E ti sta bene.
Ché spesso, in cambio di quel ben di Dio,
ci davi delle noie.
ERMETE:
Ahimè! ahimè!
Focaccia cotta il quattro d'ogni mese!!
NOCCIOLA:
Chi non c'e tu sospiri, e invan l'appelli.
ERMETE:
Cosce di porco, ahimè, ch'io trangugiavo!
NOCCIOLA:
Scòsciati pure a ciel sereno, qui!
ERMETE:
Viscere calde, che m'empièano il buzzo!
NOCCIOLA:
Ché! Dolore alle viscere, t'è preso?
ERMETE:
Oh coppa metà acqua e metà vino!
NOCCIOLA:
Tracanna questa, e lèvati dai piedi!
ERMETE:
Non faresti un piacere ad un amico?
NOCCIOLA:
Sí, quando sia però cosa fattibile.
ERMETE:
Non mi potresti dare una pagnotta
ben cotta, ed un bel pezzo della ciccia
che immolate là dentro?
NOCCIOLA:
Eh, non son generi
d'esportazione.
ERMETE:
Non rammenti ch'io
te la mandavo sempre liscia, quando
rubacchiavi al padrone?
NOCCIOLA:
Eh, per averne
la tua parte, ladrone! Io non t'offrivo
un panino croccante?
ERMETE:
È vero. E poi
te lo mangiavi tu.
NOCCIOLA:
Perché la tua
parte di busse, se mi ci coglievano,
non la pigliavi tu.
ERMETE:
Via, non serbarmi
rancore. Hai presa File! Entrar qui lasciami.
NOCCIOLA:
Per rimanere qui, tu pianteresti
gli Dei?
ERMETE:
Se qui ve la passate meglio!
NOCCIOLA:
Ché? Disertar ti pare una finezza?
ERMETE:
Dove ben te la passi, ivi è la patria.
NOCCIOLA:
E se rimani, a che ci puoi servire?
ERMETE:
Mettetemi alla porta, ed io la giro.
NOCCIOLA:
No, che i raggiri non ci servon piú.
ERMETE:
Vi proteggo il commercio.
NOCCIOLA:
Siamo ricchi:
a che nutrire Ermète rivendugliolo?
ERMETE:
Fo il maestro di trappole.
NOCCIOLA:
Di trappole?
Alla larga! Non servono piú trappole,
ora, ma lealtà.
ERMETE:
Faccio la guida.
NOCCIOLA:
Se il Nume ora ci vede! Non ci servono
guide.
ERMETE:
Sarò giudice nelle gare!
Hai da ridirci? Niente si confà
a Pluto piú che istituire gare
ginniche e musicali.
NOCCIOLA:
Eh! Che bellezza
avere molti soprannomi! Lui
ci sbarcherà il lunario. Apposta i giudici
brigano tutti per essere iscritti
in piú d'un tribunale!
ERMETE:
E allora, entro
a queste condizioni!
NOCCIOLA:
E corri al pozzo,
e risciacqua i budelli, che si veda
súbito, che sei buono a qualche cosa.
(Entrano. Danza del Coro)
(S'avanza un sacerdote)
SACERDOTE:
Chi mi dice preciso ov'è Scaracchia?
SCARACCHIA (Esce):
Galantuomo, che c'è?
SACERDOTE:
Che ci dev'essere,
se non malanni? Da che questo Pluto
ha cominciato a rivederci, crepo
di fame! Proprio non ho pane! E dire,
che son prete di Giove salvatore!
SCARACCHIA:
O santi Numi! E quale n'è la causa?
SACERDOTE:
Niuno si degna piú d'immolar vittime.
SCARACCHIA:
Perché?
SACERDOTE:
Perché son tutti ricchi! Prima,
ch'erano al verde, si trovava chi
facesse qualche sacrifizio: quando
un mercatante di ritorno, quando
un imputato assolto in un processo:
un terzo, poi, sacrificava in casa,
e mi chiamava ad officiare. Adesso,
nessuno immola piú nulla... ma nulla,
né viene al tempio, meno per cacarci:
ah, per codesto, dieci mila e passa!
SCARACCHIA:
E a te non te ne tocca la legittima?
SACERDOTE:
Io, dunque, voglio far tanti saluti
a Giove salvatore, e resto qui.
SCARACCHIA:
Se Dio vuole, le cose andranno bene.
Fa' cuore: Giove salvatore è qui;
con le sue gambe, ci è venuto!
SACERDOTE:
Dunque,
va tutto a gonfie vele!
SCARACCHIA:
Resta. Súbito
s'ha da insediare Pluto ov'era un tempo,
a custodir gli arredi della Diva.
Su, le fiaccole accese alcuno rechi.
(Al sacerdote)
Prendile in pugno, e al Nume apri la via.
SACERDOTE:
Proprio codesto è quello che ci vuole.
SCARACCHIA:
Qualcuno chiami Pluto.
(Esce Pluto, seguíto dalla vecchia)
VECCHIA:
Ed io, che faccio?
SCARACCHIA:
Piglia, e porta con gran solennità,
sopra la testa, i pentoli che servono
per festeggiar l'insediamento! Giusto,
per venire, ti sei messa la veste
varïopinta.
VECCHIA:
E quel negozio mio?
SCARACCHIA:
Sarai servita a modo: il giovanotto
capiterà da te fra il lusco e il brusco.
VECCHIA:
Se me lo garantisci, affé di Giove,
che ci capiterà, li porto, i pentoli!
(Si mette sul capo i pentoli, infilati l'uno dentro l'altro.
Il corteo è formato cosí, dal sacerdote, da Pluto,
la vecchia, Scaracchia e i servi)
SCARACCHIA (Guardando la vecchia):
Gli succede, cosí, tutto il contrario
degli altri, a questi pentoli! Per solito
il bianco della spuma l'han di sopra,
i pentoli; ma questi l'han di sotto!
CORO:
Tregua agli indugi pongasi: facciamo ala, davanti
a costoro; e seguiamoli poscia, intonando canti!
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