GLI UCCELLI
di Aristòfane
traduzione di Ettore Romagnoli

PERSONAGGI DELLA COMMEDIA:

Gabbacompagno, cittadino ateniese
Sperabene, cittadino ateniese
Trottolino, servo di Bubbola
Bubbola (Terèo)
Coro d'Uccelli, guidato dal corifeo
Sacerdote
Poeta
Spacciaoracoli
Metone, geometra
Ispettore
Decretivendolo
Messaggeri
Iride
Araldo
Figlio snaturato
Cinesia, poeta ditirambico
Sicofante
Prometeo
Posidone
Triballo
Ercole


PROLOGO
Paese roccioso, deserto. In mezzo, un poggetto, circondato d'alberi,
fra i quali, mascherata dalla verzura, è la casa del Bubbola.
S'avanzano Gabbacompagno e Sperabene, seguiti da servi che portano
bagagli, e tenendo in pugno, questo un graccio, quello una cornacchia,
che dovrebbe servir loro di guida.

SPERABENE (Al graccio che tiene in pugno):
   Diritto, dici, dove c'è quell'albero?
GABBACOMPAGNO (Alla cornacchia che l'ha beccato):
   Crepa! - Questa, poi, gracchia un dietro fronte!
SPERABENE:
   Pover'òmo, che andiamo in su e in giú?
   Gira e rigira, ci ammazziamo a ufo!
GABBACOMPAGNO:
   E io, misero me, per dare ascolto
   a una cornacchia, me ne vado a zonzo
   per piú di mille miglia!
SPERABENE:
   E io, per dare
   ascolto a un graccio, ho già ridotte in polvere
   l'unghie dei piedi, poveretto me!
GABBACOMPAGNO:
   In che parte del mondo ci troviamo,
   non lo so mica piú!
SPERABENE:
   Non la sapresti
   trovare piú, di qui, la patria nostra?
GABBACOMPAGNO:
   Di qui? Di qui non la trova Esecèstide!
SPERABENE:
   Ahi!
GABBACOMPAGNO:
   Falla tu, mio caro, quella strada!
SPERABENE:
   Eh, Vinciamico, il pollaiuolo, grossa
   fatta ce l'ha, quel pazzo da legare!
   (Accenna agli uccelli)
   Questi due, ci promise, ci saprebbero
   accompagnare da Terèo, dal Bubbola,
   che uccello fu, per via di quegli uccelli:
   e ce li mise, questo graccio, figlio
   di Tarrelída, un obolo; e un triobolo
   questa cornacchia. E loro non sapevano
   che lavorar di becco!
   (Al graccio)
   E che spalanchi
   la bocca, adesso? Dove vuoi condurci
   giú per questi dirupi? Non c'è strade,
   li!
GABBACOMPAGNO:
   Né qui c'è viottoli, perdio!
   Neppure l'ombra!
SPERABENE:
   Ehi! La cornacchia dice
   qualcosa della via?
GABBACOMPAGNO:
   Non gracchia adesso
   come gracchiava poco fa, per Giove!
SPERABENE:
   Che dice della via?
GABBACOMPAGNO:
   Che deve dire?
   Rodi, e rodi, mi stermina le dita.
SPERABENE (Agli spettatori):
   O spettatori, è buffa o non è buffa?
   Noi due dobbiamo andare a quel paese,
   ci andiam di nostra buona voglia, e intanto
   non troviamo la via. Giacché soffriamo,
   o spettatori, un male opposto a quello
   di Saca, noi. Lui, che non è d'Atene,
   ci si vuole ficcare. Invece noi,
   onorati per nascita e tribú,
   noi, cittadini in mezzo a cittadini,
   spicchiamo il volo dalla patria, a gambe
   levate, senza che nessun ci scacci.
   Né l'odïamo, no, perché non sia
   grande per sua natura, e fortunata,
   e aperta a tutti... per buttar quattrini.
   Ma le cicale sopra i rami cantano
   un mese o due: gli Atenïesi cantano
   sui piati vita natural durante.
   Perciò, dunque, facciam questo viaggio,
   con un canestro, un pentolo, e dei rami
   di mortella; ed erriamo alla ventura,
   cercando un luogo senza grattacapi.
   E siam diretti al Bubbola, Terèo,
   per chiedergli se mai, girando a volo,
   ha visto una città di questo genere.
GABBACOMPAGNO:
   Coso?
SPERABENE:
   Che c'è?
GABBACOMPAGNO:
   Da un pezzo la cornacchia
   m'accenna in su, non so che cosa.
SPERABENE:
   E il graccio
   anche lui sta col becco aperto, come
   per indicarmi qualche cosa, in su.
GABBACOMPAGNO:
   Via, non c'è dubbio, qui ci sono uccelli!
SPERABENE:
   Facciam rumore, e lo sapremo súbito.
GABBACOMPAGNO:
   Lo sai che devi far? Batti lo stinco
   sopra quel sasso!
SPERABENE:
   Battici la testa
   tu, ché il rumore sarà doppio.
GABBACOMPAGNO:
   Andiamo,
   raccatta un sasso, e picchia!
SPERABENE:
   Oh, questa, sí!
   (Raccoglie un sasso, e lo picchia su una rupe)
   Ehi di casa! Ehi di casa!
GABBACOMPAGNO:
   E come! Dici
   di casa, e sono uccelli? Animo, di':
   Ehi di nido!
SPERABENE:
   Ehi di nido! Ho da picchiare
   un'altra volta? Ehi di nido! Ehi di nido!
TROTTOLINO (Dal di dentro):
   Chi è che picchia? Chi chiama il padrone?
(Sbuca dal poggetto un uccello, con un becco enorme spalancato:
i due amici dànno segni evidenti di spavento, e lasciano scappare
gli uccelli che tengono in pugno; e Gabbacompagno cade al suolo)
SPERABENE (Sgomento, guardando il becco di Trottolino):
   Ah, che razza di tana! Apollo, aiutaci!
TROTTOLINO (Spaventatissimo):
   Ah, poveretto me! Son cacciatori!
SPERABENE:
   Oh, che siamo il babàu? Non sai dir nulla
   di meglio, tu?
TROTTOLINO:
   Vi pigli un accidente!
SPERABENE:
   Ma se noi non siamo uomini!
TROTTOLINO:
   E che siete?
SPERABENE:
   Io sono il Tremarello, uccel di Libia.
TROTTOLINO:
   Tu celii!
SPERABENE (Accennando alle conseguenze del suo spavento):
   Guarda ai piedi miei, che roba!
TROTTOLINO:
   E quest'altro, che uccello è? Non lo dici?
GABBACOMPAGNO:
   Lo Smerdato sono io, di Soffiavalle!
SPERABENE:
   Santi Numi! Ma tu, che bestia sei?
TROTTOLINO:
   Sono un uccello schiavo.
SPERABENE:
   E che, t'ha vinto
   qualche gallo?
TROTTOLINO:
   Macché! Quando il padrone
   prese forma di bubbola, m'impose
   che divenissi uccello anch'io, per stargli
   sempre a fianco, e servirgli da domestico.
SPERABENE:
   Bisogno anche un uccello ha del domestico?
TROTTOLINO:
   Questo sí: credo perché un dí fu uomo.
   Ora gli viene voglia di mangiare
   acciughe del Falero: io prendo un piatto,
   e trotto per acciughe: ora desidera
   un passato di ceci: occorre il mestolo
   ed il pentolo: io trotto per il mestolo...
SPERABENE:
   È il Trottolino, questo! Oh, bene! Sai
   che devi fare, Trottolino? Chiamaci
   il padrone!
TROTTOLINO:
   Perdio, se adesso adesso
   è andato a fare un pisolino, dopo
   il suo pranzo di coccole di mirto
   e di zanzare!
SPERABENE:
   Ad ogni modo, destalo!
TROTTOLINO:
   L'avrà di molto a noia, lo so bene;
   ma perché siete voi, lo desterò.
   (Entra)
GABBACOMPAGNO:
   Ti pigli un accidente! Un altro po'
   morivo di paura!
SPERABENE:
   Ahimè! Persino
   scappato il graccio, m'è , per la paura!
GABBACOMPAGNO:
   Ah, vilissima bestia! Per paura
   l'hai lasciato scappare?
SPERABENE:
   Oh, dimmi! E tu,
   non glie l'hai dato, il volo, alla cornacchia,
   cadendo a terra?
GABBACOMPAGNO:
   Io glie l'ho dato? No!
SPERABENE:
   E dov'è mai?
GABBACOMPAGNO:
   Da sé, l'ha preso, il volo!
SPERABENE:
   Ma mica glie l'hai dato tu! Che fegato
   ti rimpasti, brav'òmo!
BUBBOLA (Dal di dentro):
   Apri la macchia,
   e fammi uscire!
(Esce un attore camuffato da upupa: è mezzo spennacchiato;
e specialmente appariscente è il suo ciuffo)
SPERABENE:
   Ercole mio! Che razza
   di bestia è questa? Che penne son quelle?
   Quale la foggia di quel triplo ciuffo?
BUBBOLA:
   Chi mi cercava?
SPERABENE:
   I dodici Immortali...
   t'hanno conciato, pare, per le feste!
BUBBOLA:
   Per le mie penne, mi beffate, forse?
   O forestieri, un tempo uomo già fui!
SPERABENE:
   Mica di te ridiamo!
BUBBOLA:
   E di chi mai?
SPERABENE:
   Il becco tuo, ci pare un po' ridicolo.
BUBBOLA:
   In questa guisa, nelle sue tragedie
   Sofocle appunto me Terèo conciò.
SPERABENE:
   Sicché, tu sei Terèo! L'uomo o l'uccello?
BUBBOLA:
   Io? Son l'uccello!
SPERABENE:
   E dove hai messe l'ali?
BUBBOLA:
   Mi son cadute!
SPERABENE:
   Che? Per qualche male?
BUBBOLA:
   No! Ma d'inverno perdono le penne
   tutti gli uccelli; e poi se ne rimettono
   dell'altre nuove. Ma voi due, chi siete,
   dite un po'!
SPERABENE:
   Noi? Mortali!
BUBBOLA:
   E di che razza?
SPERABENE:
   Della città dalle triremi belle!
BUBBOLA:
   Dunque, elïasti.
SPERABENE:
   No, tutto al contrario:
   antelïasti!
BUBBOLA:
   E questa pianta, ancora
   si semina, laggiú?
SPERABENE:
   Potresti coglierne
   un po', cercando per i campi.
BUBBOLA:
   E quale
   necessità vi spinse qui?
SPERABENE:
   Vogliamo
   discorrere con te.
BUBBOLA:
   Di che cosa?
SPERABENE:
   Ecco.
   Tu eri, al par di noi, mortale, un dí:
   chiodi, al pari di noi, piantavi, un dí:
   saldarli, al par di noi, t'uggiva, un dí.
   Assunta quindi immagine d'uccello,
   su la terra e sul mar volasti in giro;
   sicché ne sai per uomo e per uccello.
   Per questo, dunque, a te siamo venuti
   peregrinando, perché tu c'insegni
   una città di buona lana, morbida
   come una materassa, da sdraiarcisi!
BUBBOLA:
   E allora, cerchi una città migliore
   di quella dei Rocciosi?
SPERABENE:
   Eh, no, migliore!
   Piú confacente a noi!
BUBBOLA:
   Ti sei scoperto:
   puzzi d'aristocratico!
SPERABENE:
   Io? Macché!
   Se ho fino a schifo il figlio di Scellíade!
BUBBOLA:
   E che città v'andrebbe proprio a sangue?
SPERABENE:
   Dove fossero queste le faccende
   piú gravi. All'alba picchia all'uscio mio
   qualche amico, e mi dice: «Affé di Giove,
   fa' di venir da me, tu coi marmocchi,
   dopo il bagno: ché oggi dò un banchetto
   di nozze. E non mancare! Caso mai,
   non ci venire quando passo guai!»
BUBBOLA:
   Ti contenti, per Giove, di bazzecole!
   (Si volge a Gabbacompagno)
   E tu?
GABBACOMPAGNO:
   Gli stessi gusti, ho io!
BUBBOLA:
   Cioè?
GABBACOMPAGNO:
   Dove m'incontra d'un bel bimbo il padre,
   e, come offeso, mi rampogna: «E bravo
   il mio Lucido! Trovi il mio figliuolo
   che dopo il bagno vien dalla palestra,
   e non lo baci, non gli dici nulla,
   non l'accompagni, non gli palpi il pipi...
   Guarda che bell'amico di famiglia!»
BUBBOLA:
   Oh, pover'òmo! Che miserie cerchi!
   Una città felice, come dite,
   c'è, vicino al Mar Rosso!
SPERABENE:
   Ahimè! No, no,
   vicino al mare, dove un bel mattino
   spunta la Salaminia con l'usciere! -
   E una città dell'Ellade, sai dircela?
BUBBOLA:
   Oh perché non v'andate a stabilire
   nell'Èlide, a Leprèa?
SPERABENE:
   Perché, perdio,
   pur senza averla vista mai, Leprèa
   mi fa schifo, per via di quel Melanzio!
BUBBOLA:
   C'è degli altri: gli Opunzî della Locride:
   potreste andare li!
SPERABENE:
   Neppure se
   mi copri d'oro, ci divento, Opunzio!
   Ma che vita si fa, qui fra gli uccelli?
   Tu lo sai!
BUBBOLA:
   Non c'è male, a farci l'osso!
   Intanto, qui si campa senza borsa!
SPERABENE:
   Togli alla vita una magagna grossa!
BUBBOLA:
   Poi, becchiam nei giardini il bianco sèsamo,
   e lavanda e papavero e mortella.
SPERABENE:
   E voi fate una vita da sposini!
GABBACOMPAGNO (Che da qualche momento era come immerso in
meditazione profonda, prorompe):
   Evviva, evviva!
   Che gran progetto mi balena per
   la razza degli uccelli! Oh, che potere
   sarebbe il vostro, se mi deste retta!
BUBBOLA:
   E in che dovremmo darti retta?
GABBACOMPAGNO:
   In che
   dovreste darmi retta? Punto primo,
   smettete quel volare a becco aperto,
   di qua, di là: non c'è, decoro! Vedi:
   se ai farfallini di laggiú dimandi:
   «Che uccello è questo mai?» - Telèa risponde:
   «È un uomo uccello, instabile, malfido,
   pronto al volo, mai fisso in un sol luogo!»
BUBBOLA:
   In questo, giurabbacco, ci mortifichi
   a buon diritto. E allora, che si fa?
GABBACOMPAGNO:
   Fondate una città!
BUBBOLA:
   Noialtri uccelli
   fondare una città? Ma come?
GABBACOMPAGNO:
   Come?
   L'hai detta proprio da balordo, questa!
   Guarda giú!
BUBBOLA:
   Guardo!
GABBACOMPAGNO:
   Adesso guarda su!
BUBBOLA:
   Guardo!
GABBACOMPAGNO:
   Ora gira il collo!
BUBBOLA:
   Affé di Dio,
   bel guadagno, se piglio un torcicollo!
GABBACOMPAGNO:
   Hai visto nulla?
BUBBOLA:
   Sí, le nubi e il cielo.
GABBACOMPAGNO:
   Oh, non è questo il polo degli uccelli?
BUBBOLA:
   Il polo? E come?
GABBACOMPAGNO:
   È come dire il posto!
   Ora si chiama polo, perché gira,
   ed ogni cosa in mezzo ad esso muove;
   ma se ci fabbricate, e lo cingete
   di bastioni, sarà detto acropoli
   e non piú polo. Avrete allor dominio
   sui mortali come or sulle locuste,
   e con la fame ammazzerete i Numi
   come i Melíti.
BUBBOLA:
   E come?
GABBACOMPAGNO:
   L'aria sta
   fra terra e cielo. Or, come quando noi
   vogliamo andare a Pito, dobbiam chieder
   il passaggio ai Beoti; cosí, quando
   gli uomini fanno sacrifizio ai Numi,
   se i Numi non vi pagano un tributo,
   intercettate i fumi delle vittime.
BUBBOLA (Entusiasmato):
   Evviva, evviva!
   Per la terra, pei lacci, per le ragne,
   per le reti, non l'ho sentita mai
   una pensata piú di garbo. Io sono
   pronto a fondar con te questa città,
   se son d'accordo pure gli altri uccelli!
GABBACOMPAGNO:
   E chi potrà spiegargli la faccenda?
BUBBOLA:
   Tu stesso! Erano barbari, una volta;
   ma io, standoci a lungo in compagnia,
   gli ho insegnata la lingua.
GABBACOMPAGNO:
   E a radunarli,
   come farai?
BUBBOLA:
   Ci vuol poco! Entro súbito
   qui nel boschetto, e ridesto la mia
   rosignoletta: li chiamiamo a due,
   ed essi, appena udran la nostra voce,
   verran di corsa!
GABBACOMPAGNO:
   Amore d'un uccello,
   non metter tempo in mezzo, ti scongiuro!
   Entra senza indugiare in quel macchione,
   e ridesta la tua rosignoletta!

MONODIA DEL BUBBOLA
BUBBOLA (Il Bubbola entra nel macchione e canta):
   Sorgi dal sonno, e schiudi le divine
   tue labbra, o mia compagna, all'inno santo,
   onde tu gemi il fine
   d'Iti, quel mio, quel tuo perenne pianto.
   L'inno tremulo vola
   dalla canora gola;
   e tra rami fiorenti
   d'uno smilàce, levasi fino al trono di Giove
   limpida un'eco: dove
   risponde ai tuoi lamenti
   su l'eburnea cetra, e insieme guida
   le carole divine
   Febo dall'aureo crine.
   E con celesti grida
   armonïose, intanto
   schiudon le labbra gl'Immortali al canto.
(Giunge di dietro la scena un suono di flauto imitante
il gorgheggio dell'usignuolo)
SPERABENE:
   Oh Giove re, che voce ha l'uccelletto!
   Come di miel tutta la macchia inonda!
(Un flauto preludia)
GABBACOMPAGNO:
   Ehi!
SPERABENE:
   Che c'è?
GABBACOMPAGNO:
   Vuoi star zitto?
SPERABENE:
   E perché mai?
GABBACOMPAGNO:
   Già s'apparecchia a ricantare, il Bubbola!
BUBBOLA:
   Epò, popò, popò, popò, popí,
   pipí, qui qui, qui qui,
   qui qui, qui tutti, o miei compagni alati,
   quanti dai seminati
   degl'industri bifolchi
   semi ed orzo rapite,
   o prosapie infinite - dalla morbida voce
   e dall'ala veloce;
   e quanti per i solchi - errando a schiera
   pigolate con sí grata e leggera
   voce a le zolle intorno,
   tio, tiò, tiotiò;
   e quanti nei giardini hanno soggiorno
   fra ramuscelli d'edera,
   o su montane piagge
   d'albatrelle si nutrono e d'olive selvagge,
   tutti volate alla mia voce qui:
   tiotiò tiotiò tirití.
   Voi che ingoiate in umidi valloni
   le stridule zanzare,
   voi che godete il pascolo fiorito
   di Maratona ed ogni irriguo sito,
   e voi ch'errate a par con le alcïoni
   sul procelloso mare,
   qui venite a sentir le novità;
   ché ogni tribú dei collilunghi aligeri
   ora aduniamo qua.
   Perché giunto è un tal vecchietto
   di talento,
   che mandar vuole ad effetto
   un nuovissirno progetto:
   sú, sú, tutti a parlamento,
   qui qui qui,
   torotò torotò tirití,
   chicchabàu chicchabàu,
   torotò torolilí.
GABBACOMPAGNO:
   Ne vedi, uccelli?
SPERABENE:
   Punti, affé d'Apollo!
   E sí, che guardo in cielo a bocca aperta!
GABBACOMPAGNO:
   E allora, a quel che vedo, inutilmente
   s'è andato a lamentar dentro la macchia,
   facendo il verso del piviere, il Bubbola!

PARODOS

UN UCCELLO:
   Torotí, torotí.
GABBACOMPAGNO:
   Ah, mio caro, vedi, vedi! Un uccello si fa presso.
SPERABENE:
   Sí, per Giove; ma che uccello? Che un pavone sia?
GABBACOMPAGNO (Accennando al Bubbola):
   Lui stesso
   cel dirà. - Che uccello è questo?
BUBBOLA:
   Non comune, né di quelli
   che sott'occhio avete ognora: di palude egli è.
SPERABENE:
   Corbelli,
   quant'è bello! Le sue piume sembran porpore fenice!
BUBBOLA:
   Eh, lo credo! Non per nulla Fenicottero si dice!
SPERABENE (A Gabbacompagno, urlando):
   Dico a te, coso!
GABBACOMPAGNO:
   Che strilli?
SPERABENE:
   Ce n'è un altro!
GABBACOMPAGNO:
   Per davvero,
   ce n'è un altro.
BUBBOLA:
   E anch'ei si trova sopra un suolo a lui
   straniero!
GABBACOMAPGNO:
   E chi è?
BUBBOLA:
   L'Augel profeta!
GABBACOMPAGNO:
   Oh, com'è spocchioso e strano!
BUBBOLA:
   E si chiama Uccello Medo.
SPERABENE:
   Medo! Oh Ercole sovrano!
   Come mai senza cammello qui volò, se proprio è Medo?
GABBACOMPAGNO:
   A noi viene un altro uccello con la cresta.
SPERABENE (Al Bubbola):
   Che mai vedo?
   Che prodigio è questo? Il Bubbola tu non sei dunque tu solo?
   Ce n'è un altro?
BUBBOLA:
   Ma del Bubbola Filoclèo questo è figliuolo,
   ed io son suo nonno; è come quando io dico: Ippònico è
   figlio a Callia, Callia a Ippònico.
SPERABENE:
   L'Uccelcàllia, cosicché!
   Quante penne va perdendo!
GABBACOMPAGNO:
   Spende e spande, e i sicofanti
   lo spennacchiano; e le piume poi gli strappano le amanti.
SPERABENE:
   Ecco un altro uccello, tutto sdilinquito, per Nettuno!
   Questo qui, come si chiama?
BUBBOLA:
   Il Pappone.
SPERABENE:
   C'è qualcuno
   che all'infuori di Cleonimo sia pappone?
GABBACOMPAGNO:
   Se davvero
   è Cleonimo, non gitta, per fuggire, il suo cimiero?
   Ma perché di tal crestume questi uccelli fanno mostra?
   Che alle volte sian venuti qui per far la doppia giostra?
BUBBOLA:
   No! Ma come quei di Caria, fan dimora, essi, o mio caro,
   su le creste piú elevate, per trovarcisi al riparo.
(I ventiquattro coreuti, camuffati da uccelli, entrano tumultuosamente,
facendo vari versi, ed agitando le ali; i quattro uccelli musicisti
accompagnano col suono dei flauti il loro stridío)
GABBACOMPAGNO:
   Per Nettuno, quanti uccelli! Guarda che maledizione
   se ne sta mettendo insieme!
SPERABENE:
   Febo re, che nuvolone!
   Uh! Col loro svolazzío già nascosto hanno l'ingresso!
BUBBOLA:
   La pernice, mira, l'anatra mandarina, lí da presso
   c'è, per Giove, il francolino: l'alcïone.
GABBACOMPAGNO:
   Chi è quello
   dietro a lei?
BUBBOLA:
   L'uccel barbiere.
GABBACOMPAGNO:
   E un barbier v'è dunque
   uccello?
SPERABENE:
   E barbier non è Sporgílo?
BUBBOLA:
   Una nottola ora viene.
SPERABENE:
   Una nottola? Bel sugo, portar nottole ad Atene!
BUBBOLA:
   Pica, lodola, cucúlo, beccatímo, elèa, colombo,
   falco, nerto, voltolino, gheppio, tortora, palombo,
   avvoltoio, capirosso, uccelporpora, tuffetto...
SPERABENE:
   Quanti uccelli, quanti merli... Come chioccolan, cospetto!
   Van correndo, pigolando, schiamazzando a piú non posso...
   Ma che l'abbian con noialtri?... Ci han ficcato gli occhi addosso...
   stanno a becco spalancato...
GABBACOMPAGNO:
   Anche a me sembra cosí!
(I due compagni si nascondono dietro una roccia)
CORIFEO:
   Chi chi chi, chi m'ha chiamato? Dove sta?
BUBBOLA:
   Mi trovo qui
   da un bel pezzo, né gli amici lascio soli.
CORIFEO:
   Qua qua quale
   bel progetto hai da propormi?
BUBBOLA:
   Di vantaggio universale,
   lusinghier, giusto, sicuro, di stragrande utilità.
   Ecco: giunti due sottili pensatori sono qua...
CORIFEO (Impetuosamente):
   Dove? Dove? Che favelli?
BUBBOLA:
   Dalla terra, dico, giunti fino a noi, due vecchierelli,
   d'un negozio gigantesco seco addussero il pedàno.
CORIFEO:
   Oh tu reo d'uno sproposito che mai vidi il piú marchiano,
   da ch'io vivo! Come dici?
BUBBOLA:
   Quanto dico ti spaventa?
CORIFEO:
   Che m'hai fatto?
BUBBOLA:
   Ho ricevuto due mortali cui talenta
   divenir compagni nostri.
CORIFEO:
   Quest'orrore hai tu commesso?
BUBBOLA:
   L'ho commesso, e me ne tengo!
CORIFEO:
   Ma quei due ci sono, adesso?
   Sono qui? fra noi?
BUBBOLA:
   Ci sono, quant'è ver che a voi son presso!
CORO:                                  Strofe
   Ahimè, ahimè,
   frodi empie ci tendono, noi siamo traditi!
   Costui, ch'era amico, che a un pascolo istesso
   nutriasi, a noi presso,
   spezzò gli antichissimi riti,
   spezzò degli aligeri i patti;
   e quivi all'agguato chiamavane, e preda ne ha fatti
   d'un'empia progenie, che a noi fu, dal giorno natale,
   nemica mortale!
CORIFEO:
   Ma con lui faremo i conti poi; frattanto, non si tardi
   a punire e fare a sbrendoli con il becco i due vegliardi!
GABBACOMPAGNO:
   Sicché, dunque, siamo fritti!
SPERABENE:
   E la colpa è tua soltanto!
   Perché m'hai qui trascinato?
GABBACOMPAGNO:
   Perché tu mi stessi accanto.
SPERABENE:
   Perché avessi di che piangere!
GABBACOMPAGNO:
   Quel che dici tu non sai.
   Se ti cavano ora gli occhi, dimmi, come piangerai?
CORO:                                  Antistrofe
   Urrah, urrah!
   Via, lànciati, avànzati, ostile, cruento
   su lor, tutt'attorno le piume distendi,
   e in mezzo li prendi. -
   Levar doloroso lamento
   costoro, e il mio rostro saziare
   dovranno; né ombra di monte, né onda di mare
   spumosa, né nuvola eterea darà loro scampo
   dall'ira onde avvampo.
CORIFEO:
   Che s'indugia? I due mortali si spelacchino coi morsi!
   Dov'è il duce? Con il dritto corno, innanzi ei venga a porsi.
SPERABENE:
   Ahi, ci siamo! Dove fuggo, me tapino!
GABBACOMPAGNO:
   Vuoi star sodo?
SPERABENE:
   Per lasciarmi fare a pezzi?
GABBACOMPAGNO:
   Sai tu allora qualche modo
   di cavartela?
SPERABENE:
   Che cosa vuoi che sappia?
GABBACOMPAGNO:
   Ed io ti dico
   che convien tôrre le pentole, e far fronte all'inimico.
SPERABENE:
   Per che farcene, le pentole?
GABBACOMPAGNO:
   Terran lungi, per lo meno,
   la civetta!
SPERABENE:
   E per questi altri rostradunchi?
GABBACOMPAGNO:
   Sul terreno
   pianta innanzi a te lo spiedo!
SPERABENE:
   Ma per gli occhi?
GABBACOMPAGNO:
   Con un piatto
   puoi coprirli, o col vasetto dell'aceto!
SPERABENE:
   Questo è un tratto
   da gran duce! A stratagemmi mi vai Nicia superando!
CORIFEO:
   Urrah! Sotto! Becco in resta! Agl'indugi diasi bando!
   Tira, strappa, picchia, scortica! Spezza pria quella pignatta!
BUBBOLA:
   Dite, belve fra le belve, quale ingiuria v'hanno fatta
   questi due che trarre a morte voi volete, e fare a brani?
   Di mia moglie son parenti, pure, e suoi compaesani!
CORIFEO:
   Risparmiarli dobbiam forse piú che lupi? O v'è chi speri
   di sfogarsi su nemici di costoro a noi piú fieri?
BUBBOLA:
   Se nemici son per nascita, han d'amici il sentimento,
   e son qui per dirvi cose che v'arrechin giovamento.
CORIFEO:
   Aspettarmi alcunché d'utile da costor, come potrei,
   se dai tempi piú remoti fûr nemici ai padri miei?
BUBBOLA:
   Ma se al savio apprendon molte cose giusto gli avversari!
   Ben ti guardi, ben ti salvi. Ma a guardarti non l'impari
   finché sei fra gente amica: ti ci astringe l'inimica!
   Le città, dagl'inimici l'impararono, e non mica
   dagli amici, a costruire l'alte mura e i gran navigli;
   e con ciò pur si tutelano e le case, e i beni, e i figli.
CORIFEO:
   Ascoltar pria ciò ch'ei dicono parmi sia nel mio vantaggio;
   ché potria pur dai nemici imparar qualcosa il saggio.
GABBACOMPAGNO:
   Muovi pure uu passo indietro; l'ira loro va sbollendo.
BUBBOLA (Al Coro):
   Troppo giusto è quel che fate; e da voi grazie m'attendo.
CORIFEO:
   In niun altro affare, prima d'or, ci siamo opposti a te.
GABBACOMPAGNO (A Sperabene):
   Spira un vento, affé di Giove, piú pacifico: sicché
   piatti e pentole deponi.
   E impugnati gli schidioni,
   - dico l'aste - attorno andremo,
   in vedetta all'orlo estremo
   della pentola; poiché
   da svignarsela non c'è.
SPERABENE:
   Ma se poi ci fan la festa,
   quale tomba a noi s'appresta?
GABBACOMPAGNO:
   Ci porranno nel Ceràmico!
   Perché i nostri funerali
   stiano a conto dell'erario,
   noi diremo ai generali
   che perimmo in Uccellipoli,
   combattendo l'avversario.
CORIFEO:
   Si ritorni alle file nell'ordin primiero;
   ed al par dell'oplita, vicino alla bile
   posi ognuno, chinandosi, l'animo fiero.
   E a costoro chi sian si dimandi, da quale regione
   sian venuti, e con quale intenzïone.
   (Al Bubbola)
   Bubbola! Dico a te!
BUBBOLA:
   Che vuoi saper da me?
CORIFEO:
   Chi mai sono costoro? Donde le loro genti?
BUBBOLA:
   Son foresti, de l'Ellade, terra di sapïenti.
CORO:                                  Strofe
   E quale mai l'invita
   desio, di che fortune,
   a venir fra i volanti?
BUBBOLA:                               Antistrofe
   Desio della tua vita;
   d'aver tutto in comune
   con te, d'ora in avanti.
CORO:
   Che mi si narri! e quai cose
   dicono?
BUBBOLA:
   Inaudite, portentose!
CORO:                                  Strofe
   Qual vede utilità
   a restar? Nutre speme,
   vivendo insieme
   con me, di trionfar su l'inimico
   o d'aiutar l'amico?
BUBBOLA:                               Antistrofe
   D'una felicità
   ei favella indicibile,
   grande, incredibile.
   Che tutto al mondo è tuo, qui, là, costà,
   parlando ei proverà.
CORO:
   Oh, che forse egli è demente?
BUBBOLA:
   Chè! Piú savio è del credibile!
CORO:
   C'è del senno in quella mente?
BUBBOLA:
   È una volpe sopraffina,
   una lima, un furbaccio
   passato per setaccio,
   proprio un fiore di farina!
CORO:
   Ma parli, parli, diglielo!
   Spuntar mi sento già, pel tuo discorso,
   l'ali sul dorso.
BUBBOLA (A Gabbacompagno e Sperabene):
   Andiamo, tu e tu, rïappiccatela,
   alla buon'ora, sul camino, tutta
   quest'armeria, presso al treppiedi. - E tu
   (A Gabbacompagno)
   parla, a costoro spiega la ragione
   per cui li ho radunati.
GABBACOMPAGNO:
   Io, per Apollo,
   no, se con me non stringeranno il patto
   che con sua moglie fe' quello scimiotto
   d'un armaiuolo; ch'essi non mi mordano,
   né mi tirin la borsa, né mi sfondino...
CORO:
   Che! il...? Mai piú!
GABBACOMPAGNO:
   No, dico gli occhi!
CORO:
   Te lo
   prometto!
GABBACOMPAGNO:
   Giura!
CORO:
   Giuro! E con tal formola:
   cosí mi diano il voto favorevole,
   tutti gli spettatori e tutti i giudici.
GABBACOMPAGNO:
   La vada pur cosí!
CORO:
   Se poi spergiuro,
   possa ottenere il voto d'un sol giudice!
BUBBOLA:
   Udite, genti! Omai gli opliti prendano
   l'armi, e tornino a casa. E attenti bene
   a quanto scriverem sopra gli editti.

CONTRASTO

CORO:                                  Strofe
   È l'uomo per natura
   mastro di frode in ogni suo costume.
   Tu parla, tuttavia:
   forse scorgesti qualche mia ventura
   od opportunità d'alta potenza,
   sfuggite della mia
   mente allo scarso acume.
   Or d'ognuno, in presenza
   quanto vedesti di': ché le fortune
   porrem teco in comune.
CORIFEO:                               Invito
   Via, quale idea t'addusse fra noi, di' pur sicuro:
   che noi, certo, per primi non frangeremo il giuro.
GABBACOMPAGNO:
   Se non mi sfogo, scoppio! Nulla a impastar s'oppone
   l'intriso, di già pronto!
   (Volgendosi a un servo di scena)
   Reca un serto, garzone!
   Si dia l'acqua alle mani!
SPERABENE:
   Che, ci si pone a desco?
GABBACOMPAGNO:
   Ma che desco! Da un pezzo sto a ruminar se pesco
   qualche gran parolone della mole d'un bove,
   che spezzi loro il cuore.
   (Si volge improvvisamente al Coro)
   - Ahi, che pietà mi muove
   di voi, che un dí sovrani...
CORIFEO (Stupefatto):
   Noi sovrani? Di chi?
GABBACOMPAGNO:
   Voi, sí, di quanto esiste! Di me, di questo qui,
   (Accenna Sperabene)
   e di Giove in persona! E che siete piú anziani,
   e al giorno pria venuti che non Crono, e i Titani,
   e la terra...
CORIFEO:
   E la terra?
GABBACOMPAGNO:
   Ma certo!
CORIFEO:
   Oh, questa, poi,
   mi giunge nuova!
GABBACOMPAGNO:
   Súbito che sei ciuco, e non vuoi
   saperti d'istruirti! Né leggesti in Esopo
   come pria d'ogni cosa fu la lodola; e dopo
   la terra; e come il babbo fu alla lodola tolto
   da un malanno. La terra non c'era, ed insepolto
   ei restò cinque giorni. In mancanza di meglio,
   la figlia, imbarazzata, die' sepoltura al veglio
   in fondo al proprio encèfalo.
SPERABENE:
   Dunque, ora, a Cefalú
   è seppellito il babbo della lodola?
GABBACOMPAGNO (Con fuoco):
   Orsú,
   quelli che pria dei Numi, pria della terra fûro,
   non han, come piú anziani, dritto al regno?
SPERABENE:
   Sicuro!
   Anzi puoi dire: fatti capanna, becco mio!
   Ché non Giove, ma il picchio fra poco sarà Dio.
GABBACOMPAGNO:
   Che uccelli, e non già Numi fûr negli antichi tempi
   padroni e re degli uomini, lo provan molti esempi.
   Per cominciare, il gallo regnava in Persia, pria
   dei Darî e i Megabazi tutti: quindi venía
   chiamato Uccel di Persia.
SPERABENE:
   Ed ecco perché in testa
   lui solo, nel pollaio, porta ritta la cresta,
   come il Gran Re la tiara!
GABBACOMPAGNO:
   Tanto era grande, e gloria
   avea tanta, e tal torza, che tuttora, in memoria
   dell'antica possanza, come a brúzzolo canti,
   si levano e al lavoro corrono tutti quanti:
   fabbri, cuoiai, vasai, calzolai, bagnaiuoli,
   lïutai, venditori di farina, armaiuoli.
   Altri si calza, ed esce di notte.
SPERABENE:
   A chi lo dice!
   Per il gallo, una volta, perdé quest'infelice
   un mantello di lana frigia. Si dava il nome
   a un bambolo, in città. Venni invitato, e come
   giunsi, ne bevvi un gocciolo, e il sonno m'assalí.
   Prima che gli altri pranzino, sento un chicchirichí;
   penso: è l'alba, m'affretto verso Alimunte... appena
   fuor delle mura, un ladro mi spolvera la schiena
   con un randello. Casco quanto son lungo, e quello,
   mentr'io chiamo al soccorso, m'ha involato il mantello!
GABBACOMPAGNO:
   Il nibbio su gli Ellèni s'ebbe allor signoria,
   e fu re.
CORIFEO:
   Su gli Ellèni?
GABBACOMPAGNO:
   E precetto ei fe' pria
   di far la riverenza ai nibbi.
SPERABENE:
   È cosa certa!
   Ed io, vedendo un nibbio, la feci; e a bocca aperta
   stetti a mirarlo; e un obolo m'andò giú. Per quel giorno,
   col sacco vuoto a casa fare dovei ritorno.
GABBACOMPAGNO:
   Della Fenicia tutta, dell'Egitto, allor fu
   il cúculo sovrano. Com'ei facea cú, cú,
   mietean tutti i Fenicî pei campi l'orzo e il grano.
SPERABENE:
   «Cucú - suol dirsi infatti - giú, circoncisi, al piano!»
GABBACOMPAGNO:
   E sí grande era il loro potere, che, sebbene
   c'eran come sovrani, nelle cittadi elléne,
   Menelai e Agaménnoni, stava un uccello all'erta
   sul loro scettro, e partecipava ad ogni offerta.
SPERABENE:
   Questa mi giunge nuova! E mi stupivo, quando
   nelle tragedie un qualche Priamo uscia, recando
   un uccello; e poi questo spiava... quale dono
   scroccasse mai Lisícrate!
GABBACOMPAGNO:
   Adesso viene il buono.
   Com'è scolpito Giove, quello che adesso regna?
   Ha sopra il capo un'aquila, quasi regale insegna;
   sua figlia ha una civetta, e Apollo uno sparviero:
   degno emblema d'un servo!
CORIFEO:
   Sí, per Demètra, è vero!
   Ma perché ciò?
GABBACOMPAGNO:
   Perché, quando, com'è costume,
   qualcun, nei sacrifici, le interïora a un Nume
   in mano offre, gli uccelli s'abbian le interïora
   pria che lo stesso Giove. Niuno giurava allora
   per i Numi, ma tutti per gli uccelli.
SPERABENE:
   E anche adesso,
   Lampone, quando gabba qualcun, non fa lo stesso?
   Non dice: Giuro a pollo?
GABBACOMPAGNO:
   Tutti cosí da prima
   v'ebber per grandi e santi; ed or v'hanno in istima
   di schiavi, di grulli,
   di servi citrulli.
   Fin presso ad ogni tempio
   vi si strapazza, come gente pazza.
   Gli uccellatori di voi fanno scempio
   con lacci, ragne, panïoni, trappole,
   chiuse, reti ed archetti.
   Poi vi legano stretti,
   e vi vendono in piazza.
   Qui, chi compra, vi tasta.
   E dopo tanto strazio, non gli basta
   di porvi arrosto in tavola;
   ma olio e aceto e silfio e cacio mischiano;
   e composto un intingolo
   grasso e dolciastro, lo versano poi
   caldo caldo su voi,
   che immagine offrite - di mummie stecchite.
CORO (Con vivissima commozione):       Antistrofe
   Detti amari parlavi,
   mortale, ahi, troppo amari! Sí che io
   l'ignavia dei parenti
   lagrimai, quanto! Degli onor che gli avi
   mi lasciâro in retaggio, essi privârmi!
   Ma tu mi ti presenti
   come la sorte e un Dio
   t'han guidato a salvarmi:
   sí ch'io vo' teco vivere; e il mio nido
   e me stesso t'affido!
CORIFEO:                               Invito
   Or tu, fra noi restando, quanto v'è a far ne addita:
   senza l'avito impero, spregiamo omai la vita!
GABBACOMPAGNO:
   Ecco: d'augelli prima si fondi una città:
   l'étra poi tutto, e quanto fra cielo e terra sta,
   si cinga intorno intorno con un gran muraglione,
   come c'è a Babilonia.
SPERABENE:
   Cebrïon! Gerïone!
   Che babàu di città!
GABBACOMPAGNO:
   Poi, sorto il muro, a Giove
   si chieda il regno; e s'egli niega, né si rimuove,
   gli s'indíca la guerra santa: e venga inibito
   ai Numi che qui passino col pinco irrigidito,
   come un dí su la terra, per vïolar le Alcmene,
   le Alòpi, le Semèli; se qualcun poi ci viene,
   perché piú non le vïoli, gli si ponga un suggello
   sul bischero. Ciò fatto, si mandi un altro uccello
   in ambasciata agli uomini, ché, sendo omai regnanti
   gli uccelli, si sacrifichi a lor, d'ora in avanti,
   pria che ai Numi; e s'accoppî con ciascun dei Celesti
   l'uccello piú indicato. Se a Cípride si presti
   sacrifizio, alla fòlaga s'offra qualche focaccia;
   s'arda frumento all'anatra, se a Nettuno si faccia
   l'offerta d'una pecora; paste in miele al gabbiano,
   quando s'immoli ad Eracle; e chi a Giove sovrano
   sacrifica un montone, macelli al reattino,
   pria che allo stesso Giove, non castrato un moscino.
SPERABENE:
   Macellato un moscino! Ci penso e me la godo!
   Tuoni adesso a sua posta, il gran Giove!
CORIFEO:
   E in che modo
   ci crederan poi gli uomini non gracci, ma Immortali,
   se andiamo svolazzando e abbiam penne?
GABBACOMPAGNO:
   Cicali!
   Ermète non ha penne? Non vola? E sí ch'è Nume!
   E cosí altri: Nice vola sovr'auree piume;
   e Amore fa lo stesso; e Omero paragona
   Iri a colomba trepida...
SPERABENE:
   E Giove, quando tuona,
   non ci scaglia l'alata folgore?
CORIFEO:
   E se la gente,
   per ignoranza, séguita a stimarci un bel niente,
   e adora quei d'Olimpo?
GABBACOMPAGNO:
   Piombi allora una frotta
   di beccasemi e passeri sui loro campi, e inghiotta
   la sementa; e poi Dèmetra, se la fame li secca,
   spartisca loro il grano!
SPERABENE:
   Quella? Farà cilecca,
   troverà mille scuse!
GABBACOMPAGNO:
   E i corvi gli occhi ai buoi
   ch'arano il suolo, e al gregge cavino; e Apollo poi
   li guarisca, che è medico! E si spolpino!
SPERABENE:
   E prima
   lascia che la mia coppia di buoi venda!
GABBACOMPAGNO:
   Se stima
   fan poi che tu sii Nume, Terra, Vita, e Nettuno,
   e Crono, d'ogni bene godranno.
CORIFEO:
   Dinne uno.
GABBACOMPAGNO:
   Primo, delle lor viti non piú le cavallette
   roderanno le gemme; ché di gheppî e civette
   basta uno stormo a struggerle: né formiche ed ingordi
   bruchi staranno ognor sui fichi: un vol di tordi
   farà piazza pulita.
CORIFEO:
   Come fornirli d'oro,
   che ne crepan di voglia?
GABBACOMPAGNO (Accenna al Coro):
   Indicheran costoro,
   a chi tragga gli auspici, le piú ricche miniere,
   e all'augure gli affari lucrosi. E alcun nocchiere
   non troverà piú morte.
CORIFEO:
   Non troverà piú morte?
   E come?
GABBACOMPAGNO:
   A ognun che interroghi pel viaggio la sorte,
   predirà qualche uccello: «Or ci sarà burrasca,
   non navigare! Or naviga, ch'ai la fortuna in tasca».
SPERABENE:
   Compro un barcone e navigo, né piú fra voi dimoro.
GABBACOMPAGNO:
   E poi gl'indicheranno gli uccelli ogni tesoro
   nascosto dagli antichi: li sanno, essi: c'è il detto:
   Niun sa del mio tesoro, tranne qualche uccelletto!
SPERABENE:
   Vendo il barcone, e scavo le brocche col bidente.
CORIFEO:
   Ma la Salute, come dargliela a questa gente?
   Essa vive fra i Numi!
GABBACOMPAGNO:
   E aver le tasche piene
   non è fior di salute? Dà retta, non sta bene,
   ma punto bene, l'uomo che vive in ristrettezza!
CORIFEO:
   Ma come mai potranno pervenire a vecchiezza?
   La longevità pure, trovasi fra i Celesti!
   Dovran forse morire poppanti?
GABBACOMPAGNO (Accennando al Coro):
   Chè! Se questi
   metteranno tre secoli a lor disposizione!
CORIFEO:
   Come?
GABBACOMPAGNO:
   Come? Se li hanno! Le cornacchie strillone
   campano cinque vite d'uomo! Che, non lo sai?
SPERABENE:
   Questi re, non piú Giove! Ma sarà meglio assai!
GABBACOMPAGNO:
   Non valgon piú costoro?
   Ad essi, per esempio,
   non si edifica tempio
   di marmo, a porte d'oro.
   Un lecciòlo, un macchione,
   saranno a lor magione;
   e santuari
   gli ulivi agli uccelli piú rari.
   Né andremo piú lontano,
   in Delfo né in Ammone,
   ad offrir sacrifizio.
   Ritti fra gli oleastri e fra i corbezzoli,
   orzo recando e grano,
   imploreremo qualche benefizio,
   le palme al ciel levando; e sul momento
   avremo esaudimento,
   spargendo un po' di chicchi di frumento.
CORO:
   Vecchio, or diletto quanto prima odïoso m'eri,
   mai, d'ora in poi, staccarmi vorrò dai tuoi pareri.
   Pei tuoi detti sicuro,
   una minaccia io qui pronuncio e un giuro.
   Se meco, stretto ad equi patti, resti,
   e a danno dei Celesti
   muovi leale e fido e senza inganno,
   concorde al mio pensiero,
   sovra il mio scettro impero
   piú lungo tempo i Numi non avranno!
BUBBOLA:
   Non è tempo, perdio, di sonnecchiare,
   qui, né di nicieggiare; alla piú spiccia
   bisogna fare qualche cosa. Entrate
   prima nel nido mio, fra quelle poche
   pagliucole e i fuscelli; e intanto diteci
   il vostro nome!
GABBACOMPAGNO:
   Súbito! Io mi chiamo
   Gabbacompagno, e questo, Sperabene
   da Valmontone.
BUBBOLA:
   Benvenuti!
GABBACOMPAGNO:
   Grazie.
BUBBOLA:
   Entrate!
GABBACOMPAGNO:
   Eccoci. Tu guidaci!
BUBBOLA:
   Avanti!
(S'incamminano)
GABBACOMPAGNO:
   A proposito! Di', vòltati un po'. -
   Noi due non abbiam penne, e voi le avete.
   Come vivremo insieme?
BUBBOLA:
   A meraviglia!
GABBACOMPAGNO:
   Bada, che nelle favole d'Esopo
   si dice espresso che la volpe fece
   un affaraccio, a far lega con l'aquila!
BUBBOLA:
   Niente paura! Qui cresce una certa
   radicetta, che voi, se l'ingoiate
   vi spuntano le penne.
GABBACOMPAGNO:
   E allora, entriamo,
   Rosso! Mandoro! Oh via, mano ai bagagli!
CORO (Al Bubbola):
   Ehi! Dico a te, dico a te!
BUBBOLA:
   Che vuoi?
CORO:
   Teco essi vengano, e a loro
   offri l'asciolver; ma chiama - l'augelletta dal rostro canoro,
   voce concorde alle Muse - ch'io cantare con lei possa in coro!
GABBACOMPAGNO:
   Sí, davvero, per Giove, esaudiscili!
   Fa' venir dal giuncheto l'uccelletta!
SPERABENE:
   Falla venire qui, che, per gli Dei,
   si veda pure noi, l'usignoletta!
BUBBOLA:
   Se la bramate, convien farlo. - Procne,
   esci, mòstrati a questi forestieri.
(Esce l'usignoletta: è una fanciulla con un peplo candido,
che suona il doppio flauto)
GABBACOMPAGNO:
   Che amore d'uccelletto, affé di Giove!
   Com'è candido e morbido!
SPERABENE:
   Lo sai,
   che me l'inforcherei con gran piacere?
GABBACOMPAGNO:
   Quant'oro ha indosso! Pare una zitella!
SPERABENE:
   Ora le vado ad appioppare un bacio!
GABBACOMPAGNO:
   Se, disgraziato, ha due spiedi per becco!
SPERABENE:
   Gli si leva, perdio, prima dal viso
   il guscio, come a un uovo sodo, e poi
   si bacia!
BUBBOLA (Impaziente):
   Entriamo!
GABBACOMPAGNO:
   Entriamo, alla buon'ora!
(Entrano tutti, meno l'usignoletta, che rimane
per accompagnare il canto del Coro)

PARABASI

CORO (Invocando l'usignoletta Procne):
   Oh canora, oh gradita,
   gradita a me su quanti
   vivono augelli, amica, oh dei miei canti
   compagna, e della vita!
   Ecco, mi ti presenti,
   ecco, sei giunta, sei giunta a bearmi
   coi tuoi soavi carmi!
   Oh tu che sovra il flauto melodïoso accenti
   primaverili désti,
   intona or gli anapesti!
CORIFEO (Al pubblico):                 Parabasi
   Uomini, cui natura dannava a cieca notte,
   stirpi di fronde lievi, effimeri, senz'ali,
   di vita breve, impasti di fango: oh vane frotte
   d'ombre, oh simili ai sogni, sventurati mortali!

   Rivolgete il pensiero a noi ch'eternamente
   viviamo, e sconosciuta n'è la vecchiezza, a noi
   che abitiamo nell'ètere, a noi che nella mente
   agitiam sempiterni concetti; sí che poi,

   quando i misteri etérei conosciate, e qual sia
   l'esser nostro, e le origini dei Numi abbiate apprese,
   dell'Erebo, dei fiumi, del Caos; da parte mia
   possiate dire a Pròdico... che vada a quel paese. -

   La Notte, il Caos e l'Erebo fosco da prima, e v'era
   lo spazïoso Tartaro; ma non il firmamento,
   né la Terra, né l'Ètere. La Notte alata e nera
   primo depose un uovo, cui vita infuse il vento,

   nel grembo immensurato dell'Erebo. Con gli anni
   fuori balzonne Amore, desio del mondo, cui
   aurei sovra gli omeri lucean piccoli vanni:
   ratto come procella di venti. Insiem con lui

   unitosi nell'ampio Tartaro, il Caos dall'ali
   tenebrose fe' razza, e prima a luce trasse
   la stirpe nostra: innanzi non eran gl'Immortali
   che Amore tutte quante le cose mescolasse.

   La Terra, il Ciel, l'Oceano, da tale mescolanza
   nacque, e l'eterna stirpe dei beati Celesti.
   Per antichità, dunque, la nostra assai l'avanza.
   Che poi siamo figliuoli d'Amor, son manifesti

   molti segni: voliamo e viviam fra gli amanti;
   e piú d'un giovanetto ritroso, in su la soglia
   già dell'età matura, trasser gli spasimanti,
   per effetto del nostro potere, alla lor voglia,

   questi con una quaglia, quegli altri con il dono
   d'una fòlaga, questi d'un paperotto, quelli
   d'un uccello di Persia. E quanto di piú buono
   han gli uomini, lo debbono tutto a noialtri uccelli.

   Punto primo, noialtri v'indichiam la stagione:
   Autunno, Verno, Primavera. Se la gru piglia
   la via di Libia, e gracchia, per la seminagione
   maturo è il tempo; ed essa al nocchiero consiglia

   che appenda il suo timone al muro, e se ne resti
   a dormirsela: e a Oreste, che un mantello si tessa,
   sí che, sentendo il freddo, non vada a trar le vesti
   di dosso alle persone. Col nibbio, poi, s'appressa

   una nuova stagione, quando alla pecorella
   tosar conviene il morbido vello di primavera;
   e a dar consiglio giunge poscia la rondinella,
   che si muti il mantello con veste piú leggera.

   Dodona, Ammone, Apollo Febo noi siam per voi;
   dacché, pria di decidervi, in tutte le occasioni,
   correte dagli uccelli per un consiglio: vuoi
   per gli affari e gli acquisti, vuoi per i matrimoni.

   E per voi, tutto quanto sappia di profezia
   è auspicio: un motto, un grido, uno schiavo, un somaro,
   uno sternuto, un gesto, son tutti auspicî. - Oh, via,
   non siam per voi l'oracolo d'Apollo? Oh, non è chiaro?

                                       Stretta
   Dunque, se in conto di Numi ci abbiate,
   vi prediremo il futuro, ed amabile
   un zefiretto l'inverno, l'estate
   vi manderemo un calor sopportabile;
   né, come Giove, ad assiderci andremo
   gonfî di boria fra i nembi remoti;
   ma, rimanendo fra voi, qui, daremo
   a voi, ai vostri figliuoli, ai nepoti,
   quattrini e sanità,
   beni, felicità,
   balli, prosperità,
   risa, floridità,
   vita senza una spina,
   e latte di gallina:
   insomma, beni a macca
   da pigliarne una stracca.
   Eccovi diventati - tutti ricchi sfondati.
CORO:                                  Strofe
   Oh tu, Musa dei boschi,
   tiotiò, tiotiò tïotínx,
   garrula, su montane
   vette sublimi, o tra valloni foschi,
   d'un frassino fronzuto,
   tiotiò, tiotiò, tïotínx,
   fra i rami, a te vicino, intono arguto
   inni devoti e sacre danze a Pane
   e alla madre Cibele;
   tiotiò, tiotiò, tïotínx.
   Indi, come ape, il miele
   Frinico ognor suggea d'ambrosi modi,
   e armonïose ne intessea melodi.
CORIFEO:                               Epirrema
   Venga pure, spettatori, se fra voi qualcun desidera
   d'ora in poi far vita comoda; perché quanto si considera
   fra noi turpe, ed è punito dalla legge, qui è lodevole.
   Se costà picchiare il babbo pare cosa biasimevole,
   è fra noi prodezza grande, chi gli spolvera il groppone,
   e gli dice: se tu hai fegato d'azzuffarti, su' lo sprone!
   Se uno schiavo fuggitivo d'un bel marchio va distinto,
   verrà detto fra gli uccelli francolin varïopinto:
   se c'è un che, al par di Spíntaro, nella Frigia venne al dí,
   il frigílo, di Filèmone discendente, sarà qui;
   e se, al pari d'Esecèstide, servo nacque un altro in Caria,
   può venire a farsi un albero genealogico su in aria:
   non sarebbe mica il primo! Che se poi vuole il figliuolo
   di Pisía di nuovo accogliere gl'interdetti, oh spicchi il volo,
   trasformandosi in pernice! - Ciò al figliuolo ben s'addice
   d'un tal babbo; e non fa smacco, - fra noialtri alzare il tacco.
CORO (I coreuti levano tutti un altissimo grido di giubilo):
                                       Antistrofe
    Sollevarono tale,
    tiotiò, tiotiò, tïotínx,
    ad Apollo un concento
    gioioso i cigni, e insiem batteano l'ale,
    dell'Ebro su le sponde,
    tiotiò, tiotiò, tïotínx.
    Per l'eteree nubi il suon s'effonde,
    sí che ogni fiera sbigottisce: il vento
    lambe placido il flutto,
    tiotiò, tiotiò, tïotínx.
    Tuonò l'Olimpo tutto:
    stupîr gl'Iddii, le voci insiem confuse
    le olimpie Grazie alzarono e le Muse.
CORIFEO:                               Antepirrema
   Nulla al mondo c'è di meglio, non c'è cosa piú gustosa
   d'un bel par d'ali. Uditori, supponiam, per prima cosa,
   ch'un di voi, stando al teatro, e sentendosi appetito,
   si tediasse. Ben, se avesse l'ali al dorso, a vol partito,
   se n'andrebbe a casa, a fare il suo pranzo, e a pancia piena
   tornerebbe fra voialtri per assistere alla scena.
   E se a un certo Patroclíde gli scappasse, egli, piuttosto
   che imbrattare il suo mantello, volerebbe via dal posto.
   Tratto un peto, e preso fiato, tornerebbe. Ora, supponi
   che si trovi fra voialtri qualcheduno che incoroni
   un marito. Bene, ei scorge quel marito in adunanza:
   via, di volo! E torna, dopo fatta visita a la ganza.
   Che gran cosa esser pennuti! - Diotallevi avea per penne
   delle fiasche i soli manichi: pur, filarco pria divenne,
   poscia ipparco fu promosso - fu, da nulla, un pezzo grosso.
   Ora, poi, trotta a cavallo - pettoruto come un gallo.

PARTE SECONDA

(Entrano, ridicolamente camuffati da uccelli,
Sperabene e Gabbacompagno)
GABBACOMPAGNO:
   E questa è fatta.
   (Guarda Sperabene)
   Un coso piú ridicolo,
   perdio, non l'ho mai visto!
   (Sghignazza)
SPERABENE:
   Oh, di che ridi?
GABBACOMPAGNO:
   Dell'ali tue! Con quelle penne indosso,
   sai che mi pari? Un'oca disegnata
   alla carlona!
SPERABENE:
   E tu mi pari un tordo
   col capo spennacchiato.
GABBACOMPAGNO:
   E se ci calzano
   questi confronti, avvien, direbbe Eschilo,
   «Non per le altrui, ma per le nostre penne».
CORO:
   Via, che bisogna fare?
GABBACOMPAGNO:
   Innanzi tutto
   trovare un nome illustre e ben sonoro
   per la città: poi fare un sacrifizio.
SPERABENE:
   Anche io direi cosí.
CORO:
   Dunque, che nome
   porremo alla città?
GABBACOMPAGNO:
   Vi piacerebbe
   un nome illustre, di Laconia? - Sparta!
SPERABENE:
   Ercole mio! Servirmi, per la mia
   città, di sparto! Non ne adoprerei
   neppur per cinghie al materasso, sparto!
CORO:
   E allora, quale?
SPERABENE:
   Uno di qui, desunto
   dai paesi dell'aria e dalle nuvole,
   ben gonfio!
GABBACOMPAGNO (D'un tratto):
   Nubicuculía, vi piace?
CORO:
   Evviva, evviva!
   Bello e grandioso, proprio, l'hai trovato!
SPERABENE:
   È questa dunque la città dei nuvoli,
   dove son tutte d'Eschine e Teàgene
   le gran ricchezze!
GABBACOMPAGNO:
   E al paragone scàpita
   la pianura di Flegra, ove i Celesti
   a spacconate vinsero i Giganti.
CORO:
   Che po' po' di città! Ma qual dei Numi
   avrà patrono? A chi tessere il peplo?
SPERABENE:
   Che? Vogliamo sbalzarla, Atena nostra?
GABBACOMPAGNO:
   Come vuoi che camminino gli affari,
   in un paese ove una Dea ch'è donna
   maneggia l'armi, e Clístene la spola?
CORO:
   E chi porremo a guardia del Pelargico?
GABBACOMPAGNO:
   Uno dei vostri, qui, l'uccelpersiano.
   Dicono dappertutto, ch'egli è d'Ares
   terribile rampollo!
SPERABENE:
   Oh mio signore,
   Rampollo! Questo Dio, per abitare
   sopra le rocce, pare fatto apposta!
GABBACOMPAGNO (A Sperabene):
   Su', tu, va' in aria, e dà una mano a quelli
   che edificano il muro. Porgi ghiaia,
   lèvati il camiciotto, e intridi malta,
   porta su le vassoie, casca giú
   dalla scala, disponi sentinelle,
   tieni nascosto il fuoco, fa' la ronda
   col campanaccio, e addòrmiti sul luogo.
   Ed un araldo manda ai Numi, su,
   ed un altro ai mortali, di su, giú,
   e presso a me, di là, poscia...
SPERABENE:
   E tu scoppia
   presso a me, qui!
GABBACOMPAGNO:
   Va', galantuomo, dove
   ti mando! Senza te, non se ne fa
   nulla, di quel che dico!
   (Sperabene, via)
   Intanto io chiamo
   il sacerdote col corteo, per fare
   il sacrifizio ai nuovi Dei. Ragazzo,
   ragazzo! Qua l'acqua lustrale e il cesto!
CORO:                                  Strofe
   D'un pensier teco stretto
   e d'un voler, le solenni canzoni
   devote affretto. - Ai Numi anche un capretto,
   perché propizi a noi siano, s'immoli.
   Chèride il flauto suoni;
   e su, su, l'inno pizio al Nume voli.
(Incomincia il sacrifizio. Gabbacompagno pazienta un po',
quindi si volge al flautista)
GABBACOMPAGNO:
   E smetti di soffiare? Ercole mio,
   che affare è questo? N'ho vedute d'ogni
   colore; eppure, un corvo col bavaglio
   non l'ho mai visto. O sacerdote, a te!
   Celebra il sacrifizio ai nuovi Numi!
SACERDOTE:
   Son pronto. Quello col canestro, ov'è?
   (Il sacerdote fa le abluzioni di rito, e poi incomincia
   le invocazioni)
   Supplicate la Vesta degli uccelli, il Nibbio protettore del
   focolare (e gli uccelli e le uccellesse olimpie, tutti e tutte)...
CORO:
   Salve, o sunio sparviere, o re pelasgico!
SACERDOTE:
   ...e il cigno pizio e il delio, e Latona madre delle quaglie,
   e Artèmide Cardellina...
GABBACOMPAGNO:
   Non colenina, è cardellina Artèmide.
SACERDOTE:
   ...e il fringuello sabazio, e la struzzessa genitrice degli
   uomini e dei Numi...
GABBACOMPAGNO:
   O Dea Cibele, o madre di Cleòcrito!
SACERDOTE:
   ...che concedano ai Nubicuculiesi la salute, a loro ed a
   quelli di Chio...
GABBACOMPAGNO:
   Sempre fra i piedi, quei di Chio! Che gusto!
SACERDOTE:
   ...e gli uccelli eroi, e i figli degli eroi, e l'uccelporpora,
   e il pellicano, e il gallo di montagna, e la flessída, e il pa-
   vone, e l'airone, e la beccaccia, e l'egifallo, e l'elèa, e
   la capinera, e lo smergo...
GABBACOMPAGNO:
   Smetti, in malora, questi inviti, smettili!
   Mi fai ridere! A quale sacrifizio,
   o disgraziato, inviti gli avvoltoi
   e l'aquile marine? Non lo vedi
   che basta un nibbio a far piazza pulita
   di quello che c'è qui? Vattene via,
   tu e le tue bende: io solo sbrigo tutto!
(Il sacerdote esce)
CORO:                                  Antistrofe
   Convien che adesso resti
   presso il bacile, e intoni un nuovo cnnto
   devoto e santo - e che invochi i Celesti;
   anzi un Celeste; se anche a ciò vi possa
   bastare il cibo! Quanto
   si vede qui, non è che pelle e ossa!
(Entra un poeta stracciato e allampanato)
GABBACOMPAGNO (Accingendosi al sacrifizio):
   Preghiam, sacrificando, i Numi alati.
POETA (Con grand'enfasi):
   La fortunata Nubicuculía
   esalta, o Musa mia,
   con novella armonia.
GABBACOMPAGNO:
   Di dov'è questo coso? - Oh di', chi sei?
POETA:
   Sgorga dal labbro mio, soave miele,
   il canto: delle Muse sono io servo fedele,
   secondo Omero.
GABBACOMPAGNO:
   Un servo, sei? Con quel po' po' di zazzera?
POETA:
   No! Ma noi che vestiam di note i canti,
   servi siam delle Muse fedeli tutti quanti,
   secondo Omero.
GABBACOMPAGNO:
   Sí, vesti i canti, e metti in mostra i gomiti!
   Ma qui che vieni a fare, alla malora?
POETA:
   Per Nubicuculía vostra ho composti
   molti bei ditirambi, e poi partenî,
   e poi canti sul gusto di Simonide...
GABBACOMPAGNO:
   Tutta codesta roba, hai messa insieme?
   Da quando in qua?
POETA:
   Da tempo, da gran tempo
   questa città magnifico!
GABBACOMPAGNO:
   Se proprio
   sto celebrando il suo natale, e il nome
   le ho posto adesso adesso, come a un bambolo!
POETA:
   Ma quasi lampo di cavalli vola
   celere de le Muse la parola!
   O padre, o d'Etna fondatore, omonimo
   dei Misteri divini,
   assentendo la tua fronte si chini:
   e spontaneamente
   lieto rimanda me d'un tuo presente!
GABBACOMPAGNO:
   Qui senza qualche regaluccio, questo
   malanno ci darà filo da torcere!
   (A un servo)
   Tu, giusto, ch'ài sul camiciotto quella
   pelle, fanne un'offerta al saggio vate!
   (Prende la pelle, e la porge al poeta)
   Piglia! mi sembri tutto intirizzito!
POETA:
   Non giunge mal gradito
   il dono alla mia Musa,
   né lo ricusa.
   Ora accogli nell'animo
   il pindarico verso ch'io ti dico!
GABBACOMPAGNO:
   Non vuol proprio svignarsela, l'amico!
POETA:
   Reietto va, sui liti
   degli errabondi Sciti,
   chi una veste al telaio tessuta non possiede!
   Spregiato, senza camiciotto, un gabbano incede!
   (A Gabbacompagno)
   Intendi ciò ch'io parlo?
GABBACOMPAGNO:
   Intendo! Vuoi
   il camiciotto!
   (Al servo)
   Daglielo! Bisogna
   incoraggiare l'arte!
   (Al poeta)
   Piglia, e fila...!
POETA:
   Vado! E a esaltar la città vostra, io canto.
   Diva dell'aureo soglio, la rigida
   città di gelo trepida celebra!
   Io pervenni ai neviferi
   campi, cui limita l'immensità!
   Tralleralà.
   (Via)
GABBACOMPAGNO:
   Ora che il camiciotto l'hai scroccato,
   te n'infischi, perdio, di questi geli!
   Oh questo coso, come l'ha saputo
   presto, della città! Questa disdetta
   proprio, per Giove, non me l'aspettavo!
   (Al servo)
   Prendi il bacile, e fa' di nuovo il giro,
   tu! Zitti tutti!
(Preparativi pel sacrifizio. Mentre si sta per sgozzare
il capro, arriva uno Spacciaoracoli)
SPACCIAORACOLI:
   Lascia stare il capro!
GABBACOMPAGNO:
   E tu chi sei?
SPACCIAORACOLI:
   Chi? Uno spacciaoracoli!
GABBACOMPAGNO:
   Alla malora!
SPACCIAORACOLI:
   Non pigliar le cose
   divine alla leggera, galantuomo!
   C'è un oracol di Bàcide, che parla
   di Nubicuculía, chiaro lampante.
GABBACOMPAGNO:
   Oh perché, dunque, non me l'hai spacciato
   avanti ch'io fondassi la città?
SPACCIAORACOLI:
   Non me ne dava concessione il Nume.
GABBACOMPAGNO:
   È sempre un gusto, udire qualche oracolo!
SPACCIAORACOLI (Tira fuori uno scartafaccio, e legge):
   Ma quando poi dimora coi lupi le grigie cornacchie
   in uno stesso luogo avran fra Sicione e Corinto...
GABBACOMPAGNO:
   Che cosa ho da spartire, io, coi Corinzî?
SPACCIAORACOLI:
   Parla per via d'enigma! Intende l'aria!
   (Seguitando)
   Prima di bianco vello s'immoli a Pandora un montone,
   e a chi primiero giunga dei miei vaticinî profeta,
   candido un manto e nuovi calzari si porgano in dono.
GABBACOMPAGNO:
   Ci sono anche i calzari?
SPACCIAORACOLI (Mostrandogli lo scartafaccio):
   Eccoti il testo!
   (Leggendo, come sopra)
   Gli s'offra anche una coppa, d'entragne gli s'empian le mani!
GABBACOMPAGNO:
   Ci sono anche l'entragne?
SPACCIAORACOLI (Come sopra):
   Eccoti il testo!
   (Continua)
   Se tutto ciò ch'io dico, divino fanciullo, farai,
   aquila fra le nubi sarai. Ma se nulla tu doni,
   né aquila fra nubi sarai, né palombo, né picchio!
GABBACOMPAGNO:
   C'è pure questa roba?
SPACCIAORACOLI:
   (Come sopra)
GABBACOMPAGNO:
   Al tuo responso non somiglia punto
   questo, che Apollo stesso mi dettò.
   (Tira fuori anch'egli uno scartafaccio, e legge)
   Allor che arrivi un gabbaminchioni, senz'esser chiamato,
   e secchi chi sacrifica, e voglia scroccare budelli,
   fra capo e collo allora vibrargli conviene un randello.
SPACCIAORACOLI (Spaventato):
   Dici per burla, credo!
GABBACOMPAGNO (Squadernandogli sul muso lo scartafaccio):
   Eccoti il testo!
   (Seguitando)
   Non risparmiarlo! Fosse pur l'aquila a vol fra le nubi,
   fosse Lampone, fosse magari il gran Dioticonvince!
SPACCIAORACOLI:
   C'è pure questa roba?
GABBACOMPAGNO:
   Eccoti il testo!
   Infili l'uscio, alla malora?
   (Lo piglia a bastonate)
SPACCIAORACOLI (Scappando):
   Ahi, ahi!
GABBACOMPAGNO:
   Corri, spacciali ad altri, certi oracoli!
(Ricominciano il sacrifizio. Ma quasi súbito si presenta, con
andatura grave, carico di strumenti geometrici di proporzioni
e forme esagerare, il geometra Metone)
METONE:
   Sono fra voi...
GABBACOMPAGNO:
   Malanno come sopra!
   A far che cosa, tu? Con che proposito?
   Con che disegno? Che t'indusse a fare
   questo viaggio?
METONE:
   Misurar vo' l'aria,
   e spartirvela a iugeri!
GABBACOMPAGNO:
   Perdio!
   E tu chi sei?
METONE:
   Chi sono io? Metone,
   conosciuto per l'Ellade e a Colono!
GABBACOMPAGNO (Accennando ai suoi strumenti):
   E dimmi un po': che roba è mai codesta?
METONE:
   Son misure per l'aria. Hai da sapere
   che l'aria, su per giú, somiglia a un forno.
   Dunque, prima ci adatto questa squadra,
   dall'alto punto poi questo compasso...
   Capisci?
GABBACOMPAGNO:
   Niente affatto!
METONE:
   E poi spartisco
   con la squadra diritta, affinché il circolo
   ti risulti quadrato, e in mezzo resti
   la piazza, e in questa sbuchino le vie
   diritte, proprio verso il centro... come
   si vede in una stella: essa è rotonda,
   e dritti vibra d'ogni parte i raggi!
GABBACOMPAGNO:
   Ma quest'uomo è un Talete! - Di', Metone!
METONE:
   Eh?
GABBACOMPAGNO:
   Tu lo sai, come ti voglio bene!
   Beh, dammi retta! Lèvati dai piedi!
METONE:
   E che c'è da temere?
GABBACOMPAGNO:
   Qui si scacciano
   i forestieri, come a Sparta: qui
   son teste calde; e per le strade girano
   le busse a frotte!
METONE:
   Che? C'è la sommossa?
GABBACOMPAGNO:
   Dio ce ne guardi!
METONE:
   Oh allora?
GABBACOMPAGNO:
   Fu deciso
   all'unanimità, di dar lo sfratto
   a tutti i gabbamondo!
METONE:
   E allora filo!
GABBACOMPAGNO:
   Già! Ma sarà piú tempo? Chi lo sa?
   Vedi che già ti càpitano addosso!
   (Lo picchia)
METONE:
   Povere spalle mie!
GABBACOMPAGNO (Con interesse):
   Non te l'andavo
   ripetendo da un pezzo? - Sfratta, cércati
   un altro sito, e misúrati l'anima!
(Tentano di riprendere il sacrifizio; ma s'avanza, pomposamente
vestito, recando due urne, e dandosi grandi arie, un Ispettore)
ISPETTORE:
   Dove sono i prossèni?
GABBACOMPAGNO:
   Oh, chi sarà
   questo Sardanapalo?
ISPETTORE:
   Eletto a sorte,
   a Nubicuculía vengo ispettore.
GABBACOMPAGNO:
   Vieni ispettore? E chi ti ci ha mandato?
ISPETTORE:
   Un maledetto editto di Telèa!
GABBACOMPAGNO:
   Beh, senti. Vuoi pigliar l'indennità,
   e svignartela senza grattacapi?
ISPETTORE:
   Perdio, lo credo! Giusto avrei dovuto
   restare a casa e andare in assemblea.
   (Con importanza)
   Patrocino gli affari di Farnàce.
GABBACOMPAGNO (Gli dà una bastonata):
   Piglia su', fila! Ecco l'indennità!
ISPETTORE:
   Questo che è?...
GABBACOMPAGNO:
   L'assemblea per Farnàce!
ISPETTORE:
   Picchi me, l'ispettore?
   (Agli spettatori)
   Testimoni
   voi...
GABBACOMPAGNO:
   Sfratti o no? Le porti via, quell'urne?
   Oh, questa è grossa! Mandano ispettori,
   e non s'è fatto il sacrifizio ancora!
(L'ispettore fugge, poi si ferma in fondo alla scena,
Gabbacompagno e i servi tentano di ricominciare, ma s'avanza,
leggendo con voce monotona in uno scartafaccio un Decretivendolo)
DECRETIVENDOLO:
   Se un Nubicuculiese fa torto ad un Ateniese...
GABBACOMPAGNO:
   Che altro guaio è questo? Che sarà
   codesto scartafaccio?
DECRETIVENDOLO:
   Io son decreti-
   vendolo, e vengo con le leggi nuove,
   a spacciarle fra voi.
GABBACOMPAGNO:
   Di che si tratta?
DECRETIVENDOLO (Legge come sopra):
   ...i Nubicuculiesi adoperino le stesse misure e gli stessi
   pesi degli Olofistièi...
GABBACOMPAGNO (Picchiandolo):
   Quello dei piagnistei, gusterai, presto!
DECRETIVENDOLO:
   Coso, che fai?
GABBACOMPAGNO:
   Le porti via, le leggi?
   T'han da saper di sale, oggi, le leggi!
DECRETIVENDOLO (Fugge; poi, mentre si sta per riprendere il
sacrifizio, ritorna):
   Dò querela per ingiurie a Gabbacompagno, pel mese
   Munichione...
GABBACOMPAGNO:
   Davvero, eh, coso? C'eri ancora, tu?
ISPETTORE (Avanzandosi anche lui):
   Chi discaccia i funzionari e non li accoglie secondo le
   prescrizioni della stele...
GABBACOMPAGNO:
   Poveri noi! Tu pure ancora qui?
ISPETTORE:
   Ti finirò! Ti citerò per dieci-
   mila dramme!
GABBACOMPAGNO:
   Io ti stritolo quell'urne!
   (Gli dà col bastone)
ISPETTORE:
   Una sera hai smerdato il colonnino,
   te lo ricordi?
GABBACOMPAGNO:
   Ahimé! Su', voi, pigliatelo!
   (L'Ispettore scappa)
   Ora non resti? Noi filiamo, svelti!
   Il becco ai Numi, lo sgozziamo dentro!

SECONDA PARABASI

CORO:                                  Strofe
   Me che su tutto stendo
   l'occhio e lo scettro, adora
   omai la gente, e offrendo
   sacrifizi, m'implora.
   Perché la terra tutta
   io contemplo, e le frutta
   floride guardo, e struggo delle fiere
   le molteplici schiere.
   Chi sovra il piano con mascelle ingorde
   divora i germi teneri; chi morde
   su gli alberi fronzuti i dolci pomi;
   e chi l' orto, d'aromi
   soave, con letali
   atre sozzure imbratta;
   di chi rèpe la schiatta,
   e di chi morde: quanti sotto l'ali
   mi conduce la sorte,
   trovan cruenta morte.
CORIFEO (Al pubblico):                 Epirrema
   Oggidí si fa la grida piú che mai per la città:
   «Se Dïágora melíta qualcheduno ucciderà,
   un talento avrà di premio! E un talento avrà chi uccida
   un tiranno... di quei morti!» Noi vogliamo far la grida
   anche noi: «Se alcuno uccide Vinciamico, il passerita,
   un talento buschi; e quattro chi cel porti ancora in vita;
   perché piglia i lucherini, li fa a mazzi, e poi per sette
   vuole un obolo; e col fiato gonfia i tordi, e te li mette
   in berlina, e ne fa strazio; e una penna infila ai merli
   nelle nari; e poi fa incetta di colombi, per tenerli
   prigionieri, e per costringerli che gli servan da richiamo,
   nella rete, impastoiati». Tale grida far vogliamo.
   «E se alcun mantiene uccelli nella corte, chiusi in rete,
   gl'imponiamo che li liberi. Guai per voi, se nol farete!
   Perché allora vi si piglia, vi si lega, e fra gli uccelli,
   chiusi in rete, a vostra volta servirete da zimbelli».
CORO:                                  Antistrofe
   O stirpi degli uccelli
   beate, che fra i geli
   non cingiamo mantelli,
   né dai profondi cieli
   ci brucia il sol d'estate
   con le vampe infocate!
   Ma su fioriti pascoli ne accoglie
   il grembo delle foglie,
   quando piú l'aura ferve a mezzo il giorno,
   e la divina cicaletta intorno
   ebbra di sole il canto arguto effonde.
   Sverniamo entro profonde
   caverne, in giuochi assorti,
   dell'Orèadi a fianco.
   Il virgineo bianco
   mirto di Primavera, e i fior degli orti
   onde le Grazie han cura,
   son la nostra pastura.
CORIFEO (Rivolto ai giudici della gara):
                                       Antepirrema
   Or vogliamo esporre ai giudici quanti beni a tutti loro
   noi daremo, ov'essi accordino la vittoria al nostro coro.
   Fûro i doni ch'ebbe Paride, in confronto, una bazzecola.
   Primo, avrete - ed ogni giudice per goderne molto specola -
   abbondanza di civette laurïote: a far la cova
   vi verranno dentro casa, vi verranno a depor l'ova
   nelle borse; e n'usciranno tanti piccoli denari.
   Poi, starete in casa vostra come dentro santuari;
   perché un'aquila sovr'essa noi farem che l'ali stenda.
   E se, avendo un impieguccio, d'arraffar desio vi prenda,
   vi faremo, cogli artigli d'un falchetto, i diti aguzzi:
   e trovandovi a un banchetto, vi darem dei nostri buzzi.
   Ma se il voto ci negate, d'una bronzëa lunetta,
   come statue, ricopritevi: ché trarremo aspra vendetta
   su chi sia senza riparo, quando avrete dei mantelli
   di bucato; che a smerdarveli voleran tutti gli uccelli.

PARTE TERZA

GABBACOMPAGNO:
   Sortito i sacrifizi hanno buon èsito,
   uccelli miei! - Ma come va, che ancora
   non giunge alcun dal muro, ad informarci
   delle cose di là? - Vedine uno
   che arriva; e sbuffa al pari dell'Alfèo!
MESSAGGERO (Non riuscendo a prender fiato):
   Dov'è, dov'è, do do do do do dò
   dov'è Gabbacompagno, il capitano?
GABBACOMPAGNO:
   Eccomi!
MESSAGGERO:
   Il muro è fabbricato!
GABBACOMPAGNO:
   Bene!
MESSAGGERO:
   Opera grandiosissima e bellissima.
   Tanto che Prossenída lo Sbruffonio
   e Teàgene, sopra vi potrebbero
   guidare l'uno contro l'altro, due
   cocchi, tirati da cavalli grossi
   quanto quello di Troia!
GABBACOMPAGNO:
   Ercole mio!
MESSAGGERO:
   L'altezza, io l'ho misurata, è cento
   cubiti!
GABBACOMPAGNO:
   Dio del mare, che grandezza!
   E un tal colosso, chi l'ha fabbricato?
MESSAGGERO:
   Uccelli, e nessun altro. Non ci fu
   egizio manoval, né muratore,
   né scalpellino: uccelli, di lor mano,
   sí ch'io restai di stucco. Trentamila
   gru, dalla Libia, vennero, coi sassi
   pei fondamenti nel ventriglio. I tralli
   li squadravan coi becchi. Le cicogne,
   - diecimila - spianavano mattoni.
   Acqua portavan, dalla terra in aria,
   pivieri, ed altri uccelli di palude.
GABBACOMPAGNO:
   Chi portava la malta?
MESSAGGERO:
   Gli aghironi,
   col giornello!
GABBACOMPAGNO:
   E in che modo la mettevano
   nel giornello?
MESSAGGERO:
   Per questo, amico mio,
   si fece una trovata ingegnosissima.
   L'oche ce la buttavano, ficcandoci
   dentro le zampe, a mo' di pale.
GABBACOMPAGNO:
   A che
   non arrivano i piedi!
MESSAGGERO:
   E l'anatrelle,
   in grembiale, portavano mattoni.
   E per aria volavano le rondini,
   con la malta nel becco, trascinandosi
   l'archipenzolo dietro, a mo' dei bimbi.
GABBACOMPAGNO:
   Chi piglierà piú uomini a giornate?
   Ma i lavori di legno, me lo dici
   chi li ha fatti?
MESSAGGERO:
   Spertissimi maestri
   furono gli accitelli, che spianavano
   le porte coi lor becchi; e pel rumore
   di quelle accette, ti pareva d'essere
   in un cantiere. E adesso, è tutto chiuso
   e inchiavacciato, e ben guardato in giro.
   Si fa la ronda, si va col campàno,
   ci sono sentinelle in ogni parte,
   e fuochi entro le torri! Adesso io corro
   a darmi una sciacquata! Il resto a te!
(Via di corsa. Gabbacompagno rimane un momento immobile,
pieno di meraviglia)
CORO:
   Ehi là, che fai? Ti meravigli forse
   ch'abbiano cosí presto alzato il muro?
GABBACOMPAGNO:
   Santi Numi, lo credo! E c'è di che!
   Par d'udire una favola, davvero!
   Ma vedi una delle sentinelle
   di là, che a noi, guerra spirando, muove!
UN ALTRO MESSAGGERO (Arriva trafelato, e grida):
   Olà, olà, olà. olà, olà!
GABBACOMPAGNO:
   Che cosa avviene?
MESSAGGERO:
   Ce l'han fatta grossa!
   Adesso, adesso, un Nume della cricca
   di Giove, a volo, ha varcate le porte,
   sotto il naso dei corvi che facevano
   la sentinella, e s'è ficcato in aria.
GABBACOMPAGNO:
   Ah, che tiro ribaldo e scellerato!
   Chi Nume?
MESSAGGERO:
   Non sappiamo. Aveva penne,
   questo sappiamo!
GABBACOMPAGNO:
   Oh dunque, come mai
   non mettergli all'istante inseguitori
   alle calcagna?
MESSAGGERO:
   E l'abbiam fatto! Trenta-
   mila sparvieri con cavalli ed archi!
   E sono in moto tutti i rostradunchi:
   gufi e gheppi e falconi e nibbi ed aquile!
   Per la romba dell'ali e per il bàttito,
   nella caccia del Dio, rimbomba l'ètere.
   Né egli è lunge: omai qui giunge al valico!
GABBACOMPAGNO:
   Dunque convien che agli archi ed alle frombole
   mano si dia! Qui corra ogni gregario!
   Una frombola a me! - Saetta, picchia!
CORO:                                  Strofe
   Scoppia una guerra, una guerra indicibile
   fra i Numi e me. Difenda ognuno l'Ètere
   cinto di nembi, cui fu padre l'Èrebo,
   ché qualche Nume non gli sfugga! Vigile
   volga attorno lo sguardo! Odo già fremere
   d'un Dio le penne, come aereo vortice!
(Arriva Iride di corsa, agitando due ali smisurate, con un
gran peplo svolazzante indietro e gonfiato dall'aria)
GABBACOMPAGNO:
   Ehi, cosa! Dove, dove, dove voli?
   Non tanta furia! Adagio! Cosa corri?
   Ferma costí! Chi sei? Di che paese?
   Di dove giungi?
IRIDE:
   Io? Dagli olimpî Numi.
GABBACOMPAGNO:
   Come t'ho da chiamar? Barca, o ragazza?
IRIDE:
   Iride snella.
GABBACOMPAGNO:
   Salaminia o Pàralo?
IRIDE:
   Che vai dicendo?
GABBACOMPAGNO:
   E non le piomba sopra
   per acciuffarla, qualche fottivento?
IRIDE:
   Per acciuffarmi? Che malanno è questo?
GABBACOMPAGNO:
   L'hai da pagar salata!
IRIDE:
   Oh, questa è buffa!
GABBACOMPAGNO:
   Per quali porte hai valicato il muro,
   di', scellerata?
IRIDE:
   E chi lo sa, Dio mio,
   per quali porte?
GABBACOMPAGNO:
   La sentite, come
   fa la gnorri! Ti sei fatta vedere
   dai gracci di fazione? Non rispondi?
   Te l'han messo il suggello, le cicogne?
IRIDE:
   Che affare è?
GABBACOMPAGNO:
   Te l'han messo?
IRIDE:
   Uscissi pazzo?
GABBACOMPAGNO:
   T'ha bollato nessun capo d'uccello?
IRIDE:
   Perdio, nessuno m'ha bollato, grullo!
GABBACOMPAGNO:
   E cosí chiotta chiotta, te la voli
   per la città degli altri e pel Caòsse?
IRIDE:
   E per che strade han da volare, i Numi?
GABBACOMPAGNO:
   Te l'ho a dire io? Per questa, no di certo!
   E adesso, fai sopruso. E sai che, a darti
   quel che ti spetta, mai c'è stata un'Iride
   che meritasse piú di te la morte?
IRIDE:
   Ma se sono immortale!
GABBACOMPAGNO:
   E creperesti
   tal'e quale! Se no, sarebbe comoda!
   Gli altri, a obbedirci tutti, e voi d'Olimpo
   a sbizzarrirvi, senza riconoscere
   che, a nostra volta, noi siamo i piú forti,
   e bisogna star sotto. Ma rispondimi:
   il remeggio dell'ali ove rivolgi?
IRIDE:
   Io? Vado giú fra gli uomini, da parte
   del padre mio, per dire che sacrifichino
   ai Numi olimpî, e immolino bestiame,
   e per le vie vaporino profumi
   di buoi sgozzati...
GABBACOMPAGNO:
   Un momento! A chi olimpî?
IRIDE:
   A chi? A noi, Numi del cielo!
GABBACOMPAGNO:
   E voi
   sareste Numi?
IRIDE:
   E che, ce n'è degli altri?
GABBACOMPAGNO:
   Gli uccelli, adesso, son Numi degli uomini:
   bisogna offrirli ad essi, i sacrifizi,
   e non a Giove, affé di Giove!
IRIDE:
   Ah, stolto!
   Il terribile sdegno dei Celesti
   non suscitar, ché Dice la tua stirpe
   alla rovina estrema non adduca
   con la scure di Giove; o la fuliggine
   di licinnia saetta non inceneri
   a te le membra e di tua casa ogni adito.
GABBACOMPAGNO (Con la massima calma):
   Senti, cosina! Certe spampanate
   lasciale stare! Calma! Oh, dimmi un po',
   per un Frigio, m'hai preso, per un Lidio,
   da spaventare col babau? Lo sai,
   che se non smette, Giove, di seccarmi,
   io gli brucio, con l'aquile piròfore,
   tutti i palagi e d'Anfïón le case?
   Poi mando in cielo, contro lui, seicento
   e piú porfirïoni, avvolti in pelli
   di pardo. E sí, che un sol Porfirïone
   gli die' filo da torcere, una volta!
   E tu poi, se mi secchi, messaggera
   mia, t'alzo su le gambe, e mi ti fotto,
   Iride e buona! E resterai di stucco,
   ch'io, bello e vecchio, reggo a tre volate!
IRIDE:
   Schianta, citrullo, tu con le tue ciance!
GABBACOMPAGNO:
   Non sfratti? Svelta, su'! Píffete, pàffete!
IRIDE:
   Il babbo mio ti spezzerà le corna!
GABBACOMPAGNO:
   Povero me! Non fili? Coi tuoi fulmini
   infinòcchiaci qualche sbarbatello!
(Iride va via)
CORO:                                  Antistrofe
   Sarà conteso, d'ora innanzi, il transito,
   per la nostra cittade, ad ogni Olimpio;
   e dei mortali, ad ingombrarne l'ètere,
   niuna d'offerte ai Numi ara piú fumighi.
GABBACOMPAGNO:
   L'affare si fa brutto! Non ritorna
   mica, l'araldo che inviammo agli uomini!
ARALDO (Giunge di corsa):
   Gabbacompagno, o beato, o saggissimo,
   bellissimo, saggissimo, illustrissimo,
   o tre volte beato...
CORO (A Gabbacompagno):
   Oh, fallo smettere!
GABBACOMPAGNO (All'araldo):
   Che c'è di nuovo?
ARALDO (Gli offre una corona):
   Per la tua saggezza,
   questa corona d'oro al crin ti cingono,
   e onor ti tanno tutti quanti i popoli.
GABBACOMPAGNO (S'incorona):
   Grazie! E perché mi fanno onore, i popoli?
ARALDO:
   Tu che una celeberrima città
   hai fondata fra i nuvoli, non sai
   quanto raccogli fra i mortali onore,
   quanti pel tuo paese ardon di brama.
   Prima che tu questa città fondassi,
   tutti andavano pazzi pei Laconi,
   digiunavan, giravan con la zazzera
   e con la mazza, lerci... si specchiavano
   su Socrate. Ora, fatto un voltafaccia,
   van pazzi per gli uccelli; e in tutto pigliano
   per modello gli uccelli, allegramente.
   Primo, sguisciàti appena dalle coltri,
   volan, come noialtri, all'alba, al pascolo;
   poi s'adunano a sciami su gli editti;
   e poi costí si ciban di decreti.
   E l'uccellomanía giunta è a tal segno,
   che a molti hanno persino appiccicati
   nomignoli da uccelli. Un oste zoppo
   lo chiamano pernice: rondinella
   è il nome di Menippo: Opunzio è il corvo
   guercio da un occhio, Filocle l'allodola;
   Cherefonte la nottola: Licurgo
   l'ibi, Diogene il papero d'Egitto;
   Siracusa la gàzzera; Midía
   lo chiamavano quaglia: e già, pareva
   una quaglia percossa su la testa
   dal giocatore. E tutti canticchiavano,
   per amor degli uccelli, canzonette
   dove ci fosse qualche rondinella,
   o capoverde, o colombella, o passero,
   o ali o piume, fosse pure un briciolo.
   Cosí vanno le cose di laggiú!
   E ti dico una cosa. Piú di dodici-
   mila, verranno fra le nubi, a chiederti
   ali ed artigli ben aguzzi. Dunque,
   scova, donde che sia, penne per gli ospiti!
GABBACOMPAGNO:
   Non s'ha da stare con le mani in mano!
   (A un servo)
   Corri tu, svelto, empi corbelli e cesti
   d'ali. Manète me li porti fuori.
   Quanto a chi arriva, lo ricevo io!
CORO:                                  Strofe
   D'uommi popolosa si dirà
   presto la mia città,
   se Fortuna l'assista:
   ché gli amanti di lei crescono a vista!
GABBACOMPAGNO  (Al servo):
   Vieni, dunque, o non vieni?
CORO:
   Qual manca a lei dei beni - che gradita
   rendono all'uom la vita?
   Qui Amor, qui Sapïenza, delle ambrosie
   Grazie qui brilla il riso,
   e della Pace il prediletto viso!
GABBACOMPAGNO (Al servo):
   Oh, come te la prendi - comoda! Svelto, intendi!
CORO:                                  Antistrofe
   Pronto qui rechi alcun dell'ali il cesto.
   E tu sprona codesto,
   (Additando il servo)
   né sii di bòtte avaro!
   (Gabbacompagno eseguisce)
   Cosí! Ché piú poltrone è d'un somaro!
GABBACOMPAGNO:
   Mane è il re dei poltroni!
CORO:
   Tu in bell'ordine poni - intanto l'ali
   marine, musicali,
   fatidiche; ed ognun di quanti giungono
   esamina ben bene,
   e a lui dà il paio d'ali che conviene.
GABBACOMPAGNO (Al servo):
   Mi prudono le mani, affé dei gheppi,
   nel vederti cosí pigro e poltrone.
(Fa per picchiare il servo: in questa, arriva un Figlio snaturato)
FIGLIO SNATURATO (Canterellando):
   Deh! Aquila potessi diventar!
   Librarmi sui cerulei
   gorghi vorrei dell'infecondo mar.
GABBACOMPAGNO:
   L'araldo, pare, non contava frottole!
   S'avanza un tomo che canticchia d'aquile!
FIGLIO SNATURATO:
   Evviva!
   Non c'è cosa piú dolce che volare!
   Io vado pazzo per gli uccelli, e voglio
   volare, voglio dimorar con voi,
   sotto le vostre leggi!
GABBACOMPAGNO:
   E quali leggi?
   Tante, sono, le leggi degli uccelli!
FIGLIO SNATURATO:
   Tutte! E massime quella che considera
   prodezza grande dar di becco al padre,
   e strangolarlo!
GABBACOMPAGNO:
   E lo stimiamo un cuore
   di leone, chi è buono a darne al babbo,
   essendo ancor pulcino!
FIGLIO SNATURATO:
   Ecco perché
   io voglio appunto stabilirmi qui,
   strozzare il babbo, e aver tutta la roba.
GABBACOMPAGNO:
   Ma fra noialtri uccelli, poi, nel codice
   delle cicogne, c'è quest'altra legge:
   «Quando il babbo cicogna avrà nutriti
   sino al punto che volino da sé
   tutti i suoi cicognini, i cicognini
   alla lor volta han da nutrire il padre!»
FIGLIO SNATURATO:
   Ho fatto un bel guadagno, a venir qui,
   se devo pure mantenerlo, il babbo!
GABBACOMPAGNO:
   Non serve, poveraccio! E giacché sei
   venuto come amico, ora t'impenno
   da uccello orfano. E adesso, giovanotto,
   ti voglio dare un buon consiglio, avuto
   quando era ancora bimbo. - Non picchiare
   tuo padre! -
   (Incomincia a camuffarlo da uccello)
   Piglia queste penne - questo
   sprone nell'altra mano - questa cresta
   fa' conto sia di gallo, e poi, va' in campo,
   monta la guardia, tira la tua paga,
   campaci, e il babbo tuo lascialo vivere!
   E giacché sei manesco, spicca il volo,
   vattene in Tracia, e sfógati a combattere.
FIGLIO SNATURATO:
   Mi par che dica bene, giurabbacco!
   Ti darò retta!
GABBACOMPAGNO:
   E avrai, perdio, giudizio!
(Il figlio snaturato parte, e arriva il poeta ditirambico
Cinesia: è un coso magro, allampanato)
CINESIA:
   M'innalzo all'Olimpo su vanni leggeri,
   dei cantici errando qua e là pei sentieri...
GABBACOMPAGNO:
   E qui di penne ce ne vuole un carico!
CINESIA:
   E in cerca del nuovo,
   con membra, con animo intrepido io movo.
GABBACOMPAGNO:
   Salve, o Cinesia, oh steccolo di tiglio!
   Perché qui volgi il torto piede in giro?
CINESIA:
   Voglio spiccare il volo,
   vo' diventare arguto rosignolo!
GABBACOMPAGNO:
   Smetti di canticchiare, e di' che vuoi!
CINESIA:
   Impennato da te, voglio levarmi
   a vol sublime, e ai nuvoli rapire
   nuovi preludî nevicati, etèrei...
GABBACOMPAGNO:
   E i preludî si piglian dalle nuvole?
CINESIA:
   Se di lí, viene tutta l'arte nostra!
   I ditirambi piú famosi, sono
   eterî, oscuri, cerulofulgenti,
   alifrementi... Senti, e capirai!
GABBACOMPAGNO:
   Questo poi no!
CINESIA:
   Sentimi, sí, per Ercole!
   Ché tutto per te l'ètra ora io percorro!
   (Con aria d'ispirato, fissa il cielo)
   O degli alati immagini
   sorvolanti per l'ètere,
   o collilunghi aligeri...
GABBACOMPAGNO:
   Ohòp!
CINESIA:
   Fra i soffi dei venti vagare
   vorrei sopra i flutti del mare...
GABBACOMPAGNO:
   Adesso te li smorzo io, questi soffi!
(Prende due ali, e nascondendo sotto esse il bastone,
si avvicina a Cinesia)
CINESIA (Come sopra):
   Ed ora per l'umide strade io veleggi
   di Noto, or le membra tu, Borea, mi reggi,
   sí ch'io solchi l'ètere privo d'ormeggi!
   (Gabbacompagno gli è vicino, e finge di assicurargli le ali.
   Cinesia guarda con soddisfazione)
   Grazioso e fine, il tuo trovato, o vecchio!
GABBACOMPAGNO (Dandogli una bastonata):
   Questi fremiti d'ali ti soddisfano?
CINESIA:
   E cosí tratti un vate ditirambico
   che tutte le tribú cercano a gara?
GABBACOMPAGNO:
   Vuoi restar fra noialtri, e ammaestrare
   qui pure un coro di volanti uccelli
   della tribú cecropia, a Pascipopolo?
CINESIA:
   Mi pigli in giro, è chiaro! Ma però
   non la finisco, sappilo, finché
   cinto di penne, a vol, l'ètra io non fenda!
(Cinesia va via. Si avanza, coperto di un meschino vestituccio,
un Sicofante)
SICOFANTE (Che squadra Gabbacompagno e i suoi accoliti,
e fa una smorfia di sprezzo):
   Augelli son questi di varî colori fulgenti
   ma nullatenenti...
   (Canterella)
   Varïopinta rondine veloce!
GABBACOMPAGNO:
   Un altro guaio s'è destato! E grosso!
   S'accosta ancora un altro canterino!
SICOFANTE:
   Di nuovo, rondinella - varïopinta e snella...
GABBACOMPAGNO:
   Par che alluda al mantello, la canzone:
   ma per lui ci vuol altro che una rondine!
SICOFANTE:
   Dov'è quello che dà penne a chi giunge?
GABBACOMPAGNO:
   Son qui. Ma devi dire a che ti servono!
SICOFANTE (Tragico):
   L'ali, qua l'ali! E piú non dimandare!
GABBACOMPAGNO:
   Dritto a Pallene, vuoi volare?
SICOFANTE:
   Chè!
   Son dell'isole usciere e sicofante...
GABBACOMPAGNO:
   Beato te, che razza di mestiere!
SICOFANTE (Seguitando):
   ...ed azzeccagarbugli. E perciò voglio
   avere penne, e fare a volo il giro
   delle città, citando!
GABBACOMPAGNO:
   E in che maniera
   citerai meglio, con le penne al dorso?
SICOFANTE:
   Perché i ladri, perdio, non me la facciano,
   io tornerò di lí, con le cicogne,
   con tante liti, per zavorra, in corpo!
GABBACOMPAGNO:
   Ah! Questo, fai? Ma dimmi: giovanotto
   qual sei, campi facendo lo spione?
SICOFANTE:
   Che devo fare? Mica so zappare!
GABBACOMPAGNO:
   Ma c'è, per Giove, altri mestieri onesti,
   che un uomo come te ci può campare
   con piú decoro, che imbastendo liti!
SICOFANTE:
   Penne, dammi, brav'òmo, e non consigli!
GABBACOMPAGNO:
   Parlando, te le metto, ora, le penne!
SICOFANTE:
   Che, fai crescer le penne con le chiacchiere?
GABBACOMPAGNO:
   Tutti, mettono penne, per le chiacchiere!
SICOFANTE:
   Tutti?
GABBACOMPAGNO:
   Li hai mai sentiti, come dicono
   i babbi ai figli, nelle barbieríe?
   «È un affar serio, come Diotallevi
   ha dato penne per guidar cavalli,
   al mio ragazzo!» Un altro, poi, dirà
   che penne il figlio suo mise al pensiero
   e spicca il volo verso la tragedia.
SICOFANTE:
   Dunque si metton penne coi discorsi?
GABBACOMPAGNO:
   Se te lo dico! Coi discorsi, in aria
   il pensiero s'innalza, e l'uom s'eleva.
   E cosí, io, con le buone parole,
   vo' darti penne, e indurti ad abbracciare
   un'arte come va!
SICOFANTE:
   Non me la sento!
GABBACOMPAGNO:
   E che farai?
SICOFANTE:
   Non macchierò la stirpe!
   Dare denunzie, è arte di famiglia,
   per me! Su', svelto, impennami con leste
   e lievi penne di sparviere o gheppio,
   sicché, data querela a un forestiere,
   ad istruire qui torni il processo,
   e poi di nuovo voli lí...
GABBACOMPAGNO:
   Capisco!
   Dici cosí: che il forestiere, prima
   che giunga qui, sia bello e condannato!
SICOFANTE:
   Hai proprio inteso.
GABBACOMPAGNO:
   E poi, mentre lui naviga
   qui, tu voli di nuovo al suo paese,
   per arraffar la roba sua!
SICOFANTE:
   Ci dài!
   Ho da rassomigliare ad una trottola!
GABBACOMPAGNO:
   Una trottola! Ho inteso! Ho giusto qui
   queste ali di Corcira! Eh, che bellezza!
   (Brandisce una sferza)
SICOFANTE:
   Uno scudiscio! Poveretto me!
GABBACOMPAGNO:
   Ali, sono! E con queste oggi ti voglio
   far trottolare!
   (Lo picchia)
SICOFANTE:
   Poveretto me!
GABBACOMPAGNO:
   Vuoi levarti di qui? Non sloggi, pezzo
   di forca?
   (Il sicofante scappa)
   Presto ti saprà di sale
   codest'imbrogliazzeccagarbugliaggine!
   (Ai servi)
   Pigliamo l'ali, e andiamocene, noi!
(Via tutti)

PARTE QUARTA

CORO:                                  Strofe
   Nuovi casi abbiam veduti,
   svolazzando, e assai miracoli
   e gran mostri conosciuti.
   C'è, lontan da Corleone,
   un arbusto affatto inutile,
   ma vigliacco e spilungone:
   il Cleònimo. Esso adorna
   di bei fiori di calunnia
   le sue chiome, quando torna
   primavera; e quando gelida
   si fa l'aria, le sue spoglie
   sono scudi e non son foglie.

                                       Antistrofe
   Una terra esiste poi
   presso il regno delle tenebre,
   sempre al buio. Con gli eroi
   pranzan quivi e fan dimora
   i mortali sino a vespero.
   Fare incontri su quest'ora,
   non è poi cosa sicura:
   ché se alcun dovesse imbattersi
   con Oreste all'aria scura,
   quell'eroe pronto le costole
   gli rifila col randello,
   e gli spolvera il mantello.
(Alle ultime parole del Coro, entra Prometeo, tutto imbacuccato
in un mantellone, con un grande ombrello sotto il braccio:
volge attorno sospettosamente gli sguardi)
PROMETEO:
   Povero me, che non mi veda Giove! -
   Dov'è Gabbacompagno?
GABBACOMPAGNO:
   Ohò! Codesto,
   che affare sia? Chi è questo fagotto?
PROMETEO:
   Vedi alcuno dei Numi, dietro me?
GABBACOMPAGNO:
   Io no, perdio! Ma tu, chi sei?
PROMETEO:
   Che or'è?
GABBACOMPAGNO:
   Che or'è? Passato è appena mezzogiorno.
   Ma tu chi sei?
PROMETEO:
   È vespero, o piú tardi?
GABBACOMPAGNO:
   Mi dài proprio il travaglio!
PROMETEO:
   E che fa, Giove?
   Spazza le nubi, oppur le aduna?
GABBACOMPAGNO (Minaccioso):
   Adesso
   senti, che nubi!
PROMETEO:
   Allora mi sfagotto!
   (Si scuopre)
GABBACOMPAGNO:
   Oh caro Prometèo...
PROMETEO:
   Zitto, sta zitto!
   Non gridare!
GABBACOMPAGNO:
   E che c'è?
PROMETEO:
   Zitto! Non l'hai
   da pronunciare, il nome mio! Se Giove
   mi scuopre qui, son fritto! Ma se vuoi
   che ti spifferi tutte le faccende
   di lassú, piglia quest'ornbrello, e tiènimelo
   su la testa, che i Numi non mi scorgano!
GABBACOMPAGNO:
   Evviva, evviva!
   Bel trovato! Da vero Prometèo!
   (Piglia l'ombrello, lo apre, lo presenta a Prometeo)
   Fíccati sotto, svelto, e parla franco!
PROMETEO:
   Allora, senti!
GABBACOMPAGNO:
   Di', son tutt'orecchi!
PROMETEO:
   Giove è spacciato!
GABBACOMPAGNO:
   Ah, sí! Da quando in qua?
PROMETEO:
   Da quando avete fabbricato in aria.
   Nessuno piú degli uomini sacrifica
   ai Numi; da quel dí non è piú giunto
   in ciel fumo di vittime; e noialtri,
   privi d'offerte, digiuniamo come
   alle feste di Dèmetra. Ed i Numi
   barbari, strepitando per la fame,
   come Illirî, minaccian di piombare
   dall'alto sopra Giove, ov'ei non faccia
   riaprire i mercati, per pigliarci
   i budelli al minuto.
GABBACOMPAGNO:
   E che, ci sono
   degli altri Numi, barbari, su voi?
PROMETEO:
   Oh, quelli donde Esecestíde ha tolto
   il suo patrono, non saranno barbari?
GABBACOMPAGNO:
   E il nome, poi, di questi Numi barbari,
   qual è?
PROMETEO:
   Qual è? Triballi!
GABBACOMPAGNO:
   Ora capisco!
   Di lí deriva il nostro tribolare!
PROMETEO:
   Precisamente! Ora io ti voglio dire
   solo una cosa. Arriveranno qui,
   per stringere una tregua, ambasciatori
   di Giove e dei Triballi di lassú:
   ma non ne fate, voi, tregue, se Giove
   non consegna agli uccelli un'altra volta
   lo scettro, e a te non dà Regina in moglie.
GABBACOMPAGNO:
   Chi è questa Regina?
PROMETEO:
   Una bellezza
   di ragazza; e amministra le saette
   di Giove, e tutto il resto: il buon consiglio
   la saggezza, il diritto, l'arsenale,
   il cassiere, il triobolo, le ingiurie...
GABBACOMPAGNO:
   Dunque, tutto amministra!
PROMETEO:
   E che ti dico?
   E se tu glie la pigli, è tutto tuo!
   E io per questo son venuto a dirtelo:
   ché pei mortali ho avuto sempre un debole!
GABBACOMPAGNO:
   Infatti, è bontà tua, se cuciniamo
   la carne arrosto.
PROMETEO:
   E ho sempre avuti in tasca
   i Numi; e tu lo sai!
GABBACOMPAGNO:
   Ma sí! Sei stato
   mangianumi, perdio, sempre!
PROMETEO:
   Un Timone
   nato e sputato! - Adesso ho da scappare!
   Dà qua l'ombrello, ché se pure Giove
   mi vede di lassú, creda che faccia
   coda a qualche canefora!
GABBACOMPAGNO:
   To'! Piglia,
   e porta pure questo sgabelluccio!
(Prometeo via)
CORO:                                  Strofe
   In Piedombra evvi uno stagno,
   dove l'alme evòca Socrate,
   che giammai non fece bagno.
   Qui Pisandro fece arrivo
   anche lui, per trovar l'anima,
   che smarria mentr'era vivo.
   E per vittima, trafisse
   nella gola un cammelpecoro;
   poi die' indietro, come Ulisse;
   e sbucò dalla voragine,
   verso il sangue del cammello,
   Cherefonte il pipistrello.
(Durante questo intermezzo, si sono portati su la scena
attrezzi di cucina, e Gabbacompagno ha incominciato ad
arrostire della carne. Giungono Posídone, Ercole,
e un Nume Triballo)
POSIDONE:
   Di Nubicuculía vedi la rocca,
   dove ci hanno mandati ambasciatori!
   (Al Triballo)
   Coso, che fai? Cosí ti avvolgi? A manca?
   Ti s'è attaccato il male di Lepòdia?
   A che ci ridurrai, democrazia!
   Vedi che ambasciatore, i Numi eleggono!
   (Cerca di accomodargli alla meglio la roba addosso)
   Alla malora! Stai fermo? Il piú barbaro
   fra quanti Numi ho conosciuto, sei
   tu! - Noi, che si farà, vediamo, Ercole?
ERCOLE (Truce):
   Te l'ho già detto! Vo' torcere il collo
   all'uomo, sia chi sia, che ci ha bloccati!
POSIDONE:
   Amore mio, se siamo ambasciatori
   di pace!
ERCOLE:
   E tanto piú dico che voglio
   strangolarlo due volte!
GABBACOMPAGNO (Fingendo di non averli visti):
   Chi mi dà
   la grattugia? Qua il silfio! Mi passate
   un po' di cacio? - Attizzami quel fuoco!
POSIDONE:
   Uomo, siamo in tre Numi a salutarti!
GABBACOMPAGNO (Come sopra):
   Tritaci su del silfio, via!
ERCOLE:
   Che carne
   è quella?
GABBACOMPAGNO:
   Certi uccelli rivoltosi
   condannati alla morte dal partito
   democratico.
ERCOLE (Con interesse):
   E prima ci trituri
   sopra del silfio?
GABBACOMPAGNO (Fingendo di vederlo ora):
   Oh, Ercole, buon giorno!
   Che novità?
POSIDONE:
   Veniamo ambasciatori
   da parte degli Dei, per far la pace!
GABBACOMPAGNO (A un servo):
   Non c'è piú olio, dentro l'ampollina.
ERCOLE:
   E sí gli uccelli s'hanno a unger bene!
POSIDONE:
   La guerra, a noi, dà poco frutto; e voi,
   quando sarete amici nostri, avrete
   colme d'acqua piovana le cisterne,
   e godrete un'eterna primavera.
   Veniam per questo; e abbiam pieni poteri.
GABBACOMPAGNO:
   Non le aprimmo già noi, le ostilità!
   E se vi piace, ora siam pronti, solo
   che vogliate adempir quello ch'è giusto,
   a stringere la tregua. E il giusto è questo;
   che a noi pennuti Giove riconsegni
   lo scettro. Se su questo ci si accorda,
   invito a desinar gli ambasciatori.
ERCOLE:
   Io, per me, n'ho d'avanzo, e il voto mio...
POSIDONE:
   Che, disgraziato? Stupido, ventraccio
   che sei! Privar vuoi del suo regno il babbo?
GABBACOMPAGNO:
   Davvero? Oh, che voi Dei non contereste
   di piú, quando gli uccelli governassero
   quaggiú? Nascosti adesso sotto i nuvoli,
   i mortali spergiurano alla vostra
   barba, chinando il capo. Ma se aveste
   per alleati noi, quand'uno giura
   pel corvo e Giove, il corvo spicca il volo,
   gli si avvicina chiotto chiotto, e púnfete!
   una beccata, e gli ha cavato un occhio!
POSIDONE:
   Per Posídone, in questo hai detto bene!
ERCOLE:
   Pare anche a me!
GABBACOMPAGNO (Al Triballo):
   Che dici tu?
TRIBALLO:
   Viàmo!
GABBACOMPAGNO:
   Lo vedi? Anch'egli approva. Ora sentite
   che altro buon ufficio a voi faremo.
   Quando un uomo promesso ha un sacrifizio
   a qualche Nume, e poi trova pretesti,
   e dice: i Numi possono aspettare;
   e per taccagneria non dà piú nulla:
   esigeremo anche da questo.
POSIDONE:
   E come?
GABBACOMPAGNO:
   Quando starà contando degli spiccioli,
   l'amico, o pur nel bagno, in molle, un nibbio
   piomba dal cielo, ruba di nascosto
   il valor di due pecore, e lo porta
   al Dio!
ERCOLE (Entusiasmato):
   Voto di nuovo che lo scettro
   sia ridato a costoro!
POSIDONE:
   Adesso, senti
   il Triballo.
ERCOLE:
   Triballo, te la senti...
   d'andare alla malora?
TRIBALLO:
   Sbolferarti
   nerfo bastrano!
ERCOLE:
   Ho detto bene, dice!
POSIDONE:
   Se voi siete d'accordo, io mi rimetto.
   (A Gabbacompagno)
   Quanto allo scettro, siamo intesi, amico.
GABBACOMPAGNO:
   Perdio! C'è un'altra cosa! La scordavo!
   Lascio Giunone a Giove; ma Regina,
   la ragazza, la voglio io per consorte!
POSIDONE:
   Non hai voglia di pace!
   (Ai compagni)
   A casa, a casa!
GABBACOMPAGNO:
   M'importa poco! Cuoco, ben piccante
   sia quella salsa!
(Posidone fa per andarsene; lo rattiene Ercole)
ERCOLE:
   Dove vai? Posídone,
   benedett'uomo! E noi per una donna
   si fa la guerra?
POSIDONE:
   E che vuoi fare?
ERCOLE:
   Che?
   La pace!
POSIDONE:
   Ah, sí, babbione? E non t'accorgi
   che po' di tiro ti faceva? Tu
   ti rovini da te! Se Giove adesso
   dà Regina a costoro, quando muore,
   tu rimani spiantato! E lo sai, quello
   che Giove lascia, viene tutto a te!
GABBACOMPAGNO:
   Ah, poveretto me, come t'abbindola!
   Vien qui, vicino a me, ne sentirai
   delle belle!
   (Gli parla a parte)
   Tuo zio ti mette in mezzo,
   poveraccio! Dei beni di tuo padre,
   non te ne tocca un picciolo, per legge.
   Sei figlio spurio, tu, non sei legittimo!
ERCOLE (Con uno scatto d'indignazione):
   Spurio, io? Che mai dici?
GABBACOMPAGNO:
   Eh, sí, per Giove,
   tu in persona! Tua madre era straniera!
   Credi, se no, che Atena, lei ch'è donna,
   sarebbe ereditiera, se ci fossero
   dei fratelli legittimi?
ERCOLE:
   E se il babbo
   morendo, lascia tutto al figlio spurio?
GABBACOMPAGNO:
   Non permette la legge! E qui Posídone,
   ch'ora ti mette su, sarà lui primo
   a contenderti i beni di tuo padre,
   dicendo ch'egli è suo fratello buono!
   Ma già, senti la legge di Solone!
   Se vi sono figliuoli legittimi, il figlio spurio non ha alcun
   diritto all'eredità; se non vi son figliuoli legittimi, i beni
   toccano ai parenti piú prossimi.
ERCOLE:
   Sicché, niente mi tocca, della roba
   di mio padre?
GABBACOMPAGNO:
   Nientissimo, perdio!
   E dimmi un po': t'ha iscritto, ancora, il babbo,
   al comune?
ERCOLE:
   Per nulla! Anzi, non è
   la prima volta ch'io me ne stupisco!
   (Fissa il cielo in atto d'odio e di minaccia)
GABBACOMPAGNO:
   Oh, cosa guardi il cielo a stracciasacco?
   Se resti qui, se il regno viene a me,
   io ti mantengo a latte di gallina!
ERCOLE:
   Mi par che pure quanto alla ragazza
   tu dica bene; e io te la concedo.
GABBACOMPAGNO (A Posidone):
   E tu, che cosa dici?
POSIDONE:
   Io voto contro!
GABBACOMPAGNO:
   Tutto dipende dal Triballo, allora!
   (Al Triballo)
   Come la pensi, tu?
TRIBALLO:
   Pella racazza
   cranta Recina uccelo concetère!
GABBACOMPAGNO:
   Dice di darla!
POSIDONE:
   Ma che dice e dice!
   Se cinguetta, perdio, come le rondini!
GABBACOMPAGNO:
   Dunque, è chiaro, la vuol dare alle rondini!
POSIDONE:
   E allora combinatevi, e intendetevela
   fra voi due! Quanto a me, se lo volete,
   non apro bocca!
ERCOLE (A Gabbacompagno):
   Tutto quel che chiedi
   ti s'accorda. Ora in ciel vieni con noi,
   per pigliarti Regina ed ogni cosa!
GABBACOMPAGNO:
   Proprio a puntino per lo sposalizio,
   gli s'è tirato il collo, a questi uccelli!
ERCOLE:
   Dite! Volete ch'io rimanga, a dare
   un'occhiata all'arrosto? E intanto andate?
POSIDONE:
   Un'occhiata all'arrosto? Ecco golaccia
   che parla! Vieni con noialtri, svelto!
ERCOLE:
   Bella mia scorpacciata andata in fumo!
GABBACOMPAGNO:
   Mi dia qualcuno l'abito da sposo!
(Gli recano un mantello di lusso, che egli indossa;
e i quattro escono)
CORO:                                  Antistrofe
   Nella terra Spionía,
   di Clessídra presso ai margini,
   c'è la perfida genía
   dei Linguatici, che impingua
   di calunnie, e miete, e semina,
   e vendemmia con la lingua,
   e ci coglie fiorprocessi.
   Son dei barbari, dei Gorgia,
   dei Filippi: è sol per essi
   che la lingua a parte mozzasi;
   e per l'Attica tal rito
   si diffuse in ogni sito.

LE NOZZE

ARALDO:
   Oh voi beati in tutto! Oh voi, piú che nol dice
   parola fortunati! Oh tre volte felice
   progenie degli aligeri! Nelle vostre dimore
   il Re s'accolga. Ei giunge: né di tanto splendore
   l'onniveggente Vespero ferisce la pupilla
   dai suoi tramiti d'oro, né di tal raggio brilla
   il sole dai profondi cieli, qual ei ne viene
   - e una beltà indicibile a sé vicina tiene -
   palleggiando la folgore, l'alato olimpio telo.
   Un olezzo ineffabile per gli abissi del cielo
   si diffonde. Oh spettacolo gradito! E lambe l'ala
   dei zefiri la spira volubile che esala
   dai timïami. Ed egli stesso giunge. Dischiusa
   la sacra bocca, l'inno canta augurale, oh Musa!
(S'avanzano Gabbacompagno e Regina seguiti dal corteo nuziale)
CORIFEO:
   Dietro! Fate ala! Accodatevi! Avanti!
   Bene auguranti
   l'ali spiegate a quel felice attorno!
CORO:
   Deh, deh, quanta freschezza,
   che viso adorno!
   Oh sposalizio
   alla città propizio!
CORIFEO:
   Infinita, infinita floridezza
   alla progenie dei
   pennuti la Fortuna omai destina,
   grazie a costui! Ma al suon degl'Imenèi
   lui s'accolga e Regina!
CORO:                                  Strofe
   Guidâr le Parche al suono
   cosí degl'Imenèi
   il signor degli Dei
   dall'etereo trono
   ed Era, olimpia Dea
TUTTI:
   Imen, oh, Imenèo!
CORO:
   Pronubo Amor, di piume
   d'oro lucente il dorso,
   le attorte briglie al corso
   nelle nozze del Nume
   e di Giuno reggea.
TUTTI:
   Imen, oh, Imenèo!
GABBACOMPAGNO:
   Gioisco agl'inni vostri, gioisco ai vostri canti,
   i vostri detti ammiro.
CORIFEO:
   La lode omai risuoni
   dei fulmini di Giove rutilanti, dei tuoni
   inferni, degli orrendi folgori scintillanti.
CORO:
   Sublime, roggia
   vampa dei folgori,
   olimpî strali eterni
   onde il fuoco si disserra;
   tuoni, oh di pioggia
   rombanti nunzî, e voi, sussulti inferni
   ond'ei scòte ora la terra!
   Ogni cosa divina
   ei regge; e accanto a lui siede Regina.
TUTTI:
   Imen, oh, Imenèo!
GABBACOMPAGNO:
   Seguite ora il corteo,
   tutti, o compagni aligeri,
   fino all'olimpia stanza
   e al letto nuzïale.
   E tu la mano porgimi,
   cara, e mi stringi all'ale;
   saldo il mio braccio a danza
   agil ti rapirà.
CORO:
   Viva, viva, tralleralà!
   Cantiamo l'inno della vittoria!
   Al piú possente dei Numi, gloria!
(Escono tutti giubilando)



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