ALFRED JULIUS AYER
Alfred Julius Ayer (1910-1989) fu inizialmente il corifeo anglosassone del neopositivismo, che egli sintetizzò in maniera esemplare nel suo saggio Linguaggio, verità e logica (1936). Durante un soggiorno a Vienna nel 1932, egli entrò in contato con il neopositivismo del “Circolo di Vienna” e nel suo primo scritto Language, Truth and Logic (Linguaggio, verità e logica, 1936), sostiene i principali temi neopositivistici, anche se con grande attenzione alle questioni etiche e religiose. Successivamente affronta le questioni tipiche dell’empirismo inglese (i dati sensibili, la conoscenza del mondo esterno, ecc.) risentendo anche dell’influenza del secondo Wittgenstein. Professore di Logica dapprima a Londra e successivamente a Oxford, Ayer accentua nella sua opera la valenza logico/linguistica dell’analisi, a svantaggio delle indagini sul funzionamento effettivo del sapere scientifico. Questo aspetto non discende però da un’intenzionale adesione agli atteggiamenti cardinali della filosofia analitica - adesione che in Ayer avviene in seguito -, ma da un limite oggettivo nel suo modo di intendere la filosofia della scienza. Infatti, si cercherebbero senza successo, nel saggio Linguaggio, verità e logica, riferimenti concreti e precisi alla prassi delle scienze positive e alla fisica in primis, ridotte a un genere specifico di linguaggio e di logica del quale viene ignorata la connessione con l’esperienza e con la sperimentazione. Del resto, l’opera del ’36 non rivela alcun interesse per l’analisi del linguaggio ordinario. Ayer vi difese strenuamente una forma accentuata di verificazionismo e abbracciò un empirismo estremo che poi fu superato dagli stessi sviluppi interni del movimento neopositivistico. La versione ayeriana, assai ristretta e parziale, del principio di verificazione si proponeva di mettere al bando senza mezzi termini ogni forma di metafisica, i cui enunciati non erano a suo avviso né analitici (come invece erano quelli matematici) né sintetici (come invece erano quelli empirici) e, pertanto, privi di qualsiasi valore conoscitivo. Il rifiuto della metafisica poggia dunque sulla constatazione della sua infondatezza gnoseologica. Ne seguiva che la filosofia si dissolveva come disciplina autonoma ed era riassorbita nella riflessione metodologica interna ai vari settori della scienza. Un po’ diversa sarà la posizione sostenuta da Ayer verso la metafisica in un saggio del 1966, intitolato Metaphysics and Common Sense: anche qui egli vuol mantenere le distanze dalla metafisica, secondo la tradizione del neopositivismo, dell’empirismo e del primo Wittgenstein, ma prendere le distanze non significa più rifiuto totale e in blocco. Certamente la metafisica non svolge nessuna funzione conoscitiva e nemmeno è in grado di autogiustificare la propria esistenza (sulla scia di quanto Ayer sosteneva già nel ’36); ma può svolgere comunque una funzione positiva come correttivo di certe difese strenue del “linguaggio comune” (come il linguaggio comune è correttivo “ai voli più spericolati della metafisica”):
C’è
un senso in cui essa può accrescere la nostra comprensione del mondo, aprendoci
gli occhi sulle implicazioni teoriche dei modi in cui noi lo descriviamo. Io
non ho alcuna ricetta sovrana per risolvere, o dissolvere, gli enigmi
filosofici, ma in alcuni casi, almeno, penso che la soluzione può prendere la
forma “metafisica” di mostrare che qualche classe di entità è eliminabile, o
che il carttere di qualche concetto, o serie di concetti, è stato inteso
erroneamente, o che qualche concetto potrebbe, con vantaggio, venire definito
piú rigorosamente o modificato in qualche maniera.Il fatto che si possano
sollevare problemi esterni ci induce anche a tollerare asserzioni metafisiche
come quella che siamo noi a introdurre il tempo nel mondo. L’implicazione è che
la realtà è condizionata dal nostro modo di descriverla e che sta a noi
decidere quale metodo impiegare, cosicché in un certo senso noi non scopriamo
propriamente, ma determiniamo come il mondo è. Anche qui, tuttavia, non
dobbiamo parlare di metodi alternativi di descrizione, dobbiamo accertarci che
esistano, ed è arduo vedere come ci potrebbe essere una descrizione
intelligibile del mondo che non includesse la categoria di tempo. Non va
inoltre dimenticato che quando parliamo di noi stessi come facenti questo o
quello, stiamo già operando all’interno di un sistema concettuale. Poiché, che
cosa siamo noi, se non corpi fisici che occupano una posizione nello spazio e
nel tempo? Ma, fino a che stiamo operando entro un sistema concettuale, siamo
legati ai suoi criteri di realtà; e allora dire che introduciamo il tempo nel
mondo è dire che capitò niente prima della comparsa degli uomini sulla Terra,
il che è completamente falso, proprio come è completamente falso, se uno sta
operando entro un sistema che pone la condizione degli oggetti fisici, dire che
questi non esistono quando non sono percepiti. Ciò che il metafisico gradirebbe
fare è di assumere una posizione al di fuori di un sistema concettuale: ma ciò
non è possibile. Il massimo che e gli può sperare di ottenere è qualche
modificazione del prevalente orientamento generale; trovare un modo, per
esempio, di eliminare i termini singolari o forse anche escogitare di
rappresentare se stesso e le cose attorno a sé come costruzioni logiche a
partire dalle loro apparenze. Ma se tale avventura deve essere comprensibile, e
sia pur soltanto di interesse teorico, essa deve avere almeno una
corrispondenza grossolana con il modo in cui esse sono ordinariamente
concepite. Cosí se un filosofo vuol riuscire non soltanto a coinvolgerci in
enigmi logici o semantici o epistemologici, ma nel cambiare o nell’affinare la
nostra visione del mondo, egli non può lasciare dietro di sé il senso comune. Questo
non significa tuttavia, che egli debba vincolarsi strettamente alle sue
domande. L’insistenza sul fatto che il linguaggio ordinario è perfettamente a
posto è stata un correttivo assai utile ai voli piú spericolati della
speculazione metafisica, ma, se presa troppo letteralmente, può portare al
nostro lasciare andare cose che potrebbero essere poste in questione e a
mobilitarci in difesa di ciò che non bisognerebbe difendere. È certo meglio ordinare
le pietre miliari lungo la strada principale dell’uso ordinario che parlare con
grande entusiasmo della nullità o dell’essenza dell’uomo; ma sarebbe un errore
concettuale rinunciare alle specie piú ricche di immaginazione
dell’esplorazione concettuale, puramente a causa del maggior rischio di
perdersi. In filosofia niente dovrebbe essere assolutamente sacrosanto: neppure
il senso comune.
Sempre nel saggio del ’36, Ayer andava sostenendo una prospettiva emotivistica dell’etica, secondo la quale le asserzioni etiche sarebbero semplicemente espressioni del sentimento, prive di contenuto cognitivo e di valenza prescrittivi. Le valutazioni non aggiungono alcunché di fattuale alle proposizioni, cosicché asserire “hai fatto male a rubare!” equivale in tutto e per tutto ad asserire “hai rubato”, a parte l’aggiunta della personale disapprovazione di quell’azione.
“Vi sono, in primo luogo, proposizioni che esprimono definizioni di
termini etici, ovvero giudizi intorno alla legittimità o possibilità di certe
definizioni. In secondo luogo si danno proposizioni che descrivono i fenomeni dell'esperienza
morale e le loro cause. In terzo luogo vi sono esortazioni alla virtù morale.
E, da ultimo, si danno effettivi giudizi etici. Purtroppo si dà il caso che la
distinzione, pur cosí lineare, di queste quattro classi sia comunemente
ignorata dai filosofi; con il risultato che spesso dalle loro opere riesce
molto difficile dire cosa vadano cercando di scoprire o dl provare. In realtà è
facile vedere che soltanto la prima delle nostre quattro classi, e precisamente
quella comprendente le proposizioni che si riferiscono alle definizioni di
termini etici, si può dire costituisca la filosofia etica. Le proposizioni che
descrivono i fenomeni dell'esperienza morale e le loro cause, vanno assegnate
alla psicologia o alla sociologia. Le esortazioni alla virtù morale non sono
affatto proposizioni, ma esclamazioni o comandi con la funzione di spingere il
lettore verso azioni di un certo tipo. Perciò non appartengono a nessun ramo
della filosofia o della scienza. Riguardo alle espressioni di giudizi etici, non
abbiamo ancora stabilito come classificarle. Ma in quanto certamente non si
tratta né di definizioni, né di commenti a definizioni, né di citazioni,
possiamo decidere che non appartengono alla filosofia etica. Perciò un trattato
rigorosamente filosofico intorno all'etica non dovrebbe presentare espressioni
etiche” (Linguaggio, verità e logica).
A partire dagli anni Quaranta, anche successivamente a parecchie critiche che lo accusavano dell’insostenibilità del principio di verificazione da lui formulato, Ayer cambiò rotta, scostandosi dalle posizioni neopositivistiche fino ad allora sostenute e scrivendo testi come I fondamenti della conoscenza empirica (1940), Saggi filosofici (1959), Il problema della conoscenza (1956), Il concetto di persona e altri saggi (1963) e infine Bilancio filosofico (1973) e La filosofia del Novecento (1982). Il fondamento empirico delle concezioni di Ayer risulta dalla permanente esigenza di un verificazionismo che però adesso richiede soltanto l’astratta possibilità di effettuare la verifica empirica indiretta degli enunciati. Il fatto che nessun enunciato sia verificabile in maniera totale e definitiva non porta comunque allo scetticismo, giacché uno scetticismo radicale è improduttivo. Rilevante è piuttosto stabilire il diverso grado di affidabilità delle nostre affermazioni, il che tuttavia non ha portato Ayer ad affrontare (come invece fecero gli altri neopositivisti) la teoria della probabilità, della quale egli sostenne sempre un’interpretazione soggettivistica. Benché si affacciassero sempre nuove problematiche, Ayer non rinnegò mai le tesi sostenute ai tempi di Linguaggio, verità e logica e rimase sempre fedele al metodo dell’analisi linguistica in tutta la sua produzione: quest’ultima, al di là della maggiore o minore originalità delle soluzioni prospettate, continua ad avere fortissime connessioni con l’empirismo inglese di David Hume e di Bertrand Russell.