HENRI BERGSON
A cura di Diego Fusaro
"Il mio stato d'animo, avanzando sulla via del tempo, si arricchisce
continuamente della propria durata: forma, per così dire, valanga con se
medesimo. Se la nostra esistenza fosse costituita di stati separati, di cui un
Io impassibile dovesse far la sintesi, non ci sarebbe per noi durata: poiché un
Io che non muti non si svolge, come non si svolge uno stato psichico che resti
identico a se stesso finchè non venga sostituito dallo stato successivo.
Infatti, la nostra durata non è il susseguirsi di un istante ad un altro
istante: in tal caso esisterebbe solo il presente, il passato non si
perpetuerebbe nel presente e non ci sarebbe evoluzione né durata concreta. La
durata è l'incessante progredire del passato che intacca l'avvenire e che,
progredendo, si accresce. E poichè si accresce continuamente, il passato si
conserva indefinitamente. " (L'evoluzione creatrice)
Henri Bergson nasce da famiglia ebrea e
resterà ebreo fino alla fine, anche se meditò spesso di convertirsi al
cristianesimo, senza mai però farlo, perché in quegli anni, in cui la Germania
nazista stava sterminando milioni di ebrei, convertirsi al cristianesimo avrebbe
voluto dire abiurare e la gente avrebbe facilmente creduto che il vero motivo di
tale gesto fosse appunto di evitare le persecuzioni. Una delle prime opere che
egli scrive, dal titolo anonimo ma dai contenuti dirompenti, è il Saggio sui
dati immediati della coscienza " (1889): si tratta di un'opera di remota
ascendenza cartesiana, in quanto l'uomo viene inteso come luogo in cui convivono
lo spirito e l'anima, ma, nonostante quest'analogia con il celebre pensatore
francese del Seicento, la soluzione che Bergson prospetta al problema del
rapporto spirito/anima è tutta in favore dell'anima, a dispetto dell'equilibrio
ipotizzato da Cartesio stesso. Ad un periodo più maturo risale l'opera più
famosa di Bergson, intitolata L'evoluzione creatrice (1907): in essa, il
pensatore francese dà un'immagine vitalistica dell'evoluzionismo di stampo
darwiniano, riconoscendo l'evoluzione delle specie, ma respingendo la tesi
canonica secondo cui essa avviene deterministicamente in base alla selezione
naturale: l'evoluzione di cui si fa portavoce Bergson è, piuttosto,
un'evoluzione vitale, spirituale e creatrice di novità (sullo sfondo troviamo le
concezioni "congentistiche" di Boutroux) ed è in quest'opera che il filosofo si
allontana maggiormente dalle tesi cartesiane, arrivando addirittura a negare che
la materia esista autonomamente. La formazione di Bergson è, in origine,
scientifica: ed egli si allontanerà, dunque, dalla scienza non perché
impreparato in quel campo, ma, al contrario, perché preparatissimo e consapevole
dei limiti propri della scienza. Nel 1928 gli fu conferito il premio Nobel per
la letteratura: fu uno dei pochi filosofi a riceverlo, proprio perché,
tradizionalmente, lo scopo della filosofia è di esprimere concetti, non di
dilettare i lettori; la vittoria di Bergson del premio Nobel è particolarmente
significativa perché legata, in qualche misura, all'impostazione del suo
pensiero: fin dalla sua prima opera (il Saggio sui dati immediati della
coscienza ), egli sostiene che, per una conoscenza del mondo spirituale,
l'atteggiamento proprio della scienza è del tutto inadeguato. In essa, però,
Bergson vede ancora lo strumento migliore per indagare il mondo fisico: in opere
successive, le negherà anche questa funzione, dichiarandola pertanto incapace di
cogliere l'essenza profonda che permea la realtà. Ai tempi del Saggio sui
dati immediati della coscienza , egli non ha ancora chiuso con la scienza e
le riconosce la capacità di investigare sulla realtà fisica, quasi
ritagliandola, per meglio analizzarla: tuttavia, ad essa è preclusa la facoltà
di proiettare la propria indagine nel mondo spirituale, poiché per Bergson la
coscienza è un flusso continuo che non può essere né colto né analizzato da una
scienza che separa e ritaglia. Sarà invece molto più portata per quest'indagine
la letteratura, la quale in effetti riesce a seguire il flusso della coscienza:
tutt'al più, ci si potrà avvalere di una filosofia che si serva dello stile
ampio e piacevole proprio della letteratura, non di quell'argomentare
impassibile e arido impiegato da Kant e da Hegel. E non è un caso che Bergson
fosse parente di Proust: quest'ultimo, intriso delle concezioni filosofiche di
Bergson, propone (soprattutto in Alla ricerca del tempo perduto ) una
letteratura intesa come forma per indagare il flusso della coscienza; e se
Proust fa uso di una letteratura che assume gli obiettivi della filosofia,
Bergson si serve invece di una filosofia che assume lo stile della letteratura e
in virtù di ciò gli viene conferito il premio Nobel. Il Saggio sui dati immediati della coscienza ha come argomento
centrale, proprio come Alla ricerca del tempo perduto di Proust, il tempo
e si configura pertanto come una ricerca di esso; in altri termini, Bergson si
propone di andare alla ricerca dei dati immediati della coscienza, depurandoli
da tutto ciò che ad essi si sovrappone, per poterli così cogliere nella loro
immediatezza. La grande scoperta che fa Bergson in quest'opera è l'eterogeneità
qualitativa dei dati di coscienza rispetto alla realtà esteriore e, in questa
fase del suo pensiero, egli non fa altro che riproporre quella netta
contrapposizione, di sapore cartesiano, tra mondo esteriore e mondo interiore:
mentre il mondo esteriore viene interpretato attraverso lo spazio, quello
interiore ha come sua dimensione il tempo e da ciò si capisce bene che cosa
intenda dire Bergson quando parla di "immediatezza dei dati della coscienza".
Egli, infatti, sottolinea come troppo spesso interpretiamo erroneamente anche
l'interiorità in forma spaziale, ovvero come commettiamo l'errore di sovrapporre
il concetto di tempo a quello di spazio: si tratta pertanto, dice Bergson, di
ritornare ai dati immediati della coscienza per coglierli nella loro purezza,
cioè nella dimensione temporale, depurandoli dagli elementi spaziali a cui ci
siamo erroneamente abituati per via del rapporto che abbiamo con il mondo
esterno. E' ormai nostra abitudine, infatti, " spazializzare il tempo " ,
inquinando in tal modo la conoscenza interiore: si tratterà dunque di cogliere
nuovamente l'interiorità nella sua dimensione genuinamente temporale. Ed è a
questo punto che Bergson contrappone il "tempo spazializzato" a quella che lui
definisce " durata reale " , che altro non è se non il
tempo che scorre nella nostra coscienza, il tempo autentico; e per fare
un'analisi dell'interiorità, non è possibile impiegare il linguaggio rigoroso
della scienza e così Bergson si distacca dalla tradizione cartesiana che cercava
di emulare in tutto e per tutto il linguaggio e la conoscenza scientifica:
infatti, egli osserva, i concetti scientifici e quelli filosofici ad imitazione
della scienza, tendono a ritagliare la realtà, sono strumenti adottati per
inquadrarla in modo rigoroso, ma questo procedimento è possibile solo per il
mondo esterno, proprio perché esso si colloca nello spazio e solo ciò che si
colloca nello spazio può essere ritagliato, cioè diviso in parti ciascuna delle
quali sia rigorosamente separata dalle altre. Ma per il tempo e per ciò che si
colloca in esso (ossia l'interiorità della coscienza) ciò è inattuabile e per
questo motivo Bergson ricorre ad un linguaggio scintillante di immagini,
convinto che i concetti non siano del tutto in grado di tratteggiare una realtà
indivisibile quale è appunto quella interiore: dove non arrivano i concetti, ci
potranno aiutare le immagini e così si spiega il linguaggio letterario che è
valso il Nobel a Bergson. Le immagini a cui egli ricorre sono quella della
valanga e quella del gomitolo: arrotolando il filo di lana su se stesso, cresce
il gomitolo e, man mano che cresce, c'è sempre nuovo filo che si aggiunge, senza
però che quello che c'era già sparisca: resta nascosto, anzi racchiuso dal filo
che si aggiunge e il gomitolo nella sua interezza non potrebbe esistere senza il
filo racchiuso in precedenza. In modo analogo, la valanga nasce nel momento in
cui si stacca della neve e comincia a rotolare accumulando sempre più neve,
senza che quella presente in origine venga persa. Secondo Bergson, la memoria,
la coscienza e il tempo autentico ("durata reale") assomigliano al gomitolo e
alla valanga, poiché nel tempo reale (cioè quello della coscienza) non vi è
nulla che si perda mai veramente. E infatti, se il termine "reale" viene
impiegato per sottolineare la contrapposizione con il tempo "falso" dello
spazio, il vocabolo "durata" suggerisce il concetto di tempo, ma anche l'idea
del permanere; ed è esattamente ciò che accade al gomitolo e alla valanga, che "
concrescono " senza perdere i pezzi iniziali. Si tratta pertanto, fuor di
metafora, di uno scorrere del tempo in cui il passato viene continuamente
accumulato, il che fa sì che nel vero tempo i tempi successivi non siano mai
propriamente omogenei tra loro e proprio in questo si distinguono dallo spazio.
Le parti dello spazio, infatti, sono assolutamente omogenee tra loro, uno spazio
non si distingue qualitativamente da un altro; invece col tempo tutto è diverso:
e Bergson ci chiede di fare un esperimento mentale per renderci conto.
Immaginiamo di essere chiusi in una stanza priva di finestre e di osservare un
oggetto posto su un tavolo per un minuto e poi per un altro minuto: le
osservazioni, intese oggettivamente, sono tra loro uguali, visto che non è
cambiato nulla dal primo al secondo minuto; potremmo perfino dire che, dal punto
di vista oggettivo del mondo esterno, sono omogenee come le porzioni di spazio;
tuttavia, se riflettiamo meglio sull'esperienza, ci accorgiamo che se scrutiamo
l'oggetto per un minuto e poi per un altro succede magari che, avendo colto nel
primo minuto gli aspetti superficiali dell'oggetto, nel secondo possiamo
cogliere i dettagli, oppure nel primo minuto eravamo animati da curiosità, nel
secondo eravamo invece annoiati. Tutto ciò significa che il secondo minuto
dell'esperienza è qualitativamente diverso rispetto al primo e lo è perché il
primo c'è già stato, perché cioè il primo minuto è presente anche nel secondo.
Pertanto, se gli spazi diversi si escludono a vicenda, i tempi successivi,
invece, non escludono quelli precedenti, ma li recuperano come con il gomitolo o
con la valanga, tutto resta presente e si arricchisce continuamente, sicchè il
secondo momento è ricco di tutto quello precedente. E così nell'esteriorità
sembrava non essere successo nulla, mentre nell'interiorità è avvenuto eccome
qualcosa: ogni istante successivo è ricco di tutti gli istanti precedenti e la
"durata" implica il permanere e dunque sembrerebbe che per Bergson sia centrale
il passato, ma in realtà non è così. E' vero che da un lato egli mette in luce
come nella durata reale in ogni istante successivo sia presente il tempo
passato, ma è anche vero che ogni fase del tempo è come se spingesse e
penetrasse in quella successiva, come se ogni momento si sforzasse per entrare
in quello successivo, cosicchè il passato è conservato nella sua interezza ma è
come se spingesse verso il futuro, il che suggerisce a Bergson l'idea di
"spontaneità". E' curioso come egli, in origine, volesse intitolare il Saggio
sui dati immediati della coscienza in un altro modo, più precisamente
"Problema della libertà": il problema della libertà, strettamente connesso con
quello della spontaneità, è infatti centrale nell'opera. L'idea del passato che
spinge verso il futuro suggerisce infatti che nulla sia determinato
rigorosamente, ma che sussista quello che Bergson chiamerà, in opere successive,
"slancio vitale", una sorta di forza creatrice sempre in grado di produrre
qualcosa di nuovo. Per meglio distinguere il tempo reale da quello
spazializzato, egli ricorre ad un'altra immagine: immaginiamo di sciogliere una
zolletta di zucchero in un bicchier d'acqua; mentre il tempo trascorre, vi sarà
un'attesa interiore, ovvero il tempo verrà vissuto interiormente, mentre, nota
Bergson, il tempo spazializzato è quello impiegato dalla scienza: egli, con un
esempio calzante, fa l'esempio dell'astronomo che fa calcoli per prevedere
un'eclissi che si verificherà dopo un sacco di anni: nella testa dell'astronomo,
ciò che l'astro farà da quel momento per i prossimi cinquecento anni viene
compattato e compresso in poche frazioni di secondi; il tempo con cui
l'astronomo sta lavorando non è reale, poiché il tempo reale (quello con cui
attendiamo che la zolletta si sciolga) non è comprimibile, ha bisogno di una
durata per svolgersi, un'attesa che si attua inevitabilmente nella coscienza.
Per capire meglio può essere utile fare ricorso ad un'altra immagine, di sapore
cartesiano: immaginiamo che vi sia un genio maligno che comprime al contempo
tutti gli eventi della natura, cosicchè tutti gli eventi accelerano
contemporaneamente e nella stessa misura. In questo caso, noi non saremmo più in
grado di misurare il tempo, o meglio, non ci accorgeremmo di nessun cambiamento,
dato che lo misuriamo in base ad una serie di coincidenze: per dire che sono lo
9 e 20 dico che sul mio orologio le lancette sono in una determinata posizione,
poi le vedo in 'altra posizione e dico che sono le 9 e 30 e avrò constatato in
due momenti diversi la corrispondenza tra due situazioni spaziali (le lancette),
non temporali. Ora, se tutto accelerasse contemporaneamente, io farei la stessa
misurazione e otterrei il medesimo risultato, però, dice Bergson, questo vale
solo per il tempo spazializzato, in quanto, in qualche modo non concettualmente
analizzabile, nella mia coscienza percepirei che il tempo è cambiato, che c'è
stato bisogno di meno tempo perché avvenisse quella cosa a me nota. Da ciò si
evince benissimo la distinzione tra il tempo "falso" dello spazio e quello
"reale" della coscienza, in cui vige la spontaneità ,
cioè lo spingere per penetrare nel futuro, quasi una specie di slancio vitale
che sfugge ad ogni determinismo e comporta appunto la spontaneità, sinonimo di
libertà. E sotto questo profilo, è curioso notare come Bergson respinga la
contrapposizione tradizionale tra meccanicismo e finalismo, da sempre
considerati antitetici: il pensatore francese si pone da un punto di vista nuovo
e afferma espressamente che il meccanicismo e il finalismo sono
le due facce della stessa medaglia e tale medaglia è il determinismo. Il
meccanicismo è, naturalmente, una forma di determinismo in quanto prescrive che
tutto avvenga in modo deterministicamente prevedibile attraverso rapporti di
causa/effetto; il finalismo, dal canto suo, prevede che l'azione sia orientata
verso un fine, per cui l'architetto che progetta la casa mira ad un disegno
preciso fin dall'inizio; ne consegue che anche nel finalismo, come nel
meccanicismo, tutto è già rigorosamente determinato fin dall'inizio. Caduta la
contrapposizione tra i due, Bergson afferma che la maniera corretta per
interpretare la realtà interiore non è né il finalismo né il meccanicismo, bensì
la spontaneità: la si deve cioè intendere come un flusso di coscienza in cui non
si possono ritagliare pezzi (dal momento che ogni momento è presente anche in
quello successivo) e in cui nulla è già determinato e tutto spinge e, quindi,
crea continuamente in una forma che schizza via da ogni determinazione (e da ciò
traspare l'influenza contingentista di Boutroux). E la nostra vita, dice
Bergson, è come una frase, con le sue virgole, le sue parentesi e i suoi due
punti: il punto finale è costituito dalla morte; e proprio come in una frase,
anche nella vita basta inserire una virgola per far cambiare non solo ciò che
viene dopo, ma anche tutto ciò che c'era prima. A questo punto del discorso di
Bergson, abbiamo l'individuazione di due ambiti diversi della realtà, uno
esterno, costituito da cose materiali che si collocano nello spazio, l'altro
interno e che si colloca nel tempo; il primo è oggetto di studio da parte della
scienza e, più in generale, dell'intelligenza che, lavorando nello spazio, tende
a ritagliare le cose (il che è più che legittimo, se fatto solo ed
esclusivamente nello spazio) e anche quando pare che sia presente il tempo, in
realtà hanno sempre e solo a che fare con lo spazio: e non è un caso che la
scienza tenda a rappresentare graficamente il tempo come linea retta, ma è una
rappresentazione imprecisa, giacchè le parti di una linea sono contemporanee e i
vari punti che la costituiscono sono staccati dagli altri, mentre nella durata
reale ogni istante è presente anche in quello successivo. Nella coscienza, la
scienza e l'intelligenza cedono il passo alla metafisica e all'intuizione:
l'intuizione ci permette di cogliere direttamente i dati immediati della
coscienza, la durata reale, il flusso della coscienza, e addirittura la
spontaneità (e quindi la libertà) di ciò che avviene all'interno, in antitesi al
determinismo che impera all'esterno. E Bergson fin qui è ancora molto
cartesiano, poiché ammette la distinzione, propria di Cartesio, tra mondo
materiale e mondo spirituale e riconosce l'esistenza di una facoltà
(l'intuizione) che consente di creare una disciplina particolare (la metafisica)
che studia l'interiorità; ad essa Bergson contrappone il mondo materiale,
collocato nello spazio e inquadrabile dall'intelligenza e dalla scienza: in
sostanza, Bergson ammette l'esistenza di due mondi diversi con due scienze
diverse. Poi, però, in " Materia e memoria " (1896) si pone il problema
del rapporto tra questi due mondi (il sottotitolo dell'opera recita in modo
significativo: "Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito") e, infine, in
" L'evoluzione creatrice ", si sbarazza di uno dei due mondi, più
precisamente, sulle orme di Leibniz, di quello materiale, e arriva a dire che al
di sotto della realtà materiale vi è un principio spirituale e vitalistico
simile a quello dell'interiorità. " Materia e memoria "
parte dal concetto di "immagine": Bergson, rispetto alle tradizionali
alternative dell'idealismo e del materialismo, sceglie una via intermedia, dal
momento che lui è partito dai dati immediati della coscienza ed essi non
suggeriscono né l'ipotesi idealistica né quella materialistica. Infatti, per gli
idealisti non vi sono realtà indipendenti dal nostro atto di percepirle e per i
materialisti, invece, ad esistere sono propriamente solo le cose materiali: ma
la nostra coscienza, nota Bergson, ci dice che esiste qualcosa di indipendente
da noi (a dispetto della tesi idealista), che vediamo e percepiamo, però (e qui
affiora l'influenza di Cartesio) non ci dice che quel qualcosa che esiste
indipendentemente dall'essere da noi percepito esista materialmente (checchè ne
dicano i materialisti); in altri termini, abbiamo sensazioni di colore, di
sapore, ecc, e siamo convinti che esse siano dotate di esistenza autonoma, ma il
dato di coscienza non ci testimonia affatto che siano entità materiali, sicchè
sia l'idealismo sia il materialismo si spingono al di là di quel che ci è
testimoniato dalla coscienza. Essa, infatti, si limita a dirci che c'è qualcosa
fuori di noi, senza tuttavia darci altre informazioni in merito. Questa realtà
intermedia fra il non-esistere autonomamente e l'esistere come realtà materiale
Bergson la chiama " immagine ": noi abbiamo immagini
della realtà che esistono autonomamente, cosicchè quando vedo un libro ho la
certezza (perché è la coscienza a dirmelo) che esso sia dotato di esistenza
effettiva, ma che sia costituito da materia è una dottrina filosofica che esula
dalla testimonianza della coscienza: " per immagine intendiamo una
determinata esistenza che è più di ciò che l'idealista chiama una
rappresentazione, ma meno di ciò che il realista chiama una cosa- un'esistenza
che si trova a metà strada tra la cosa e la rappresentazione " ("Materia e
memoria", Prefazione alla VII edizione). E Bergson, con una considerazione
fortemente schopenhaueriana, fa notare che la prima immagine che abbiamo è
l'immagine del nostro corpo, la cui funzione è di selezionare le altre immagini;
e con quest'affermazione si perviene al nucleo di "Materia e memoria", nel
tentativo di risolvere l'annoso problema del rapporto che intercorre tra l'anima
e il corpo. Bergson conduce, a tal proposito, un'analisi clinica di alcuni casi
di amnesia dovuti ad incidenti: all'epoca, si cominciava a notare che a
determinati danni fisici riportati da certe parti del cervello corrisponde la
perdita della memoria di determinate "aree"; ovviamente, ciò accreditava
l'ipotesi che vi fosse uno stretto legame tra il cervello come base materiale e
le funzioni psichiche, ipotesi che suggeriva la validità della psicofisiologia.
E Bergson, nella sua indagine, si rivela un pensatore poliedrico, pronto a
concentrare la sua attenzione su saperi anche non propriamente filosofici: dalla
sua indagine tecnica egli evince che la funzione del cervello non è di essere un
magazzino della memoria, per cui è scorretto dire che ad un danno materiale del
cervello corrisponde un danneggiamento anche del contenuto; viceversa, il
contenuto della memoria resta integro, e ad essere danneggiata è la capacità del
cervello di fare da filtro nei confronti del materiale della memoria. Ne
consegue che per Bergson la memoria in quanto tale è
indipendente dal cervello , sicchè il cervello, alla stregua del corpo,
seleziona le altre immagini, fa da filtro tra mondo interiore della coscienza e
mondo esteriore: immaginiamo di avere un piano e un cono rovesciato la cui punta
poggia su tale piano. Il cono rappresenta la coscienza umana, il piano la
realtà: la mente (che si identifica con la memoria, in quanto è somma di
ricordi) ha un contenuto vastissimo, ma, per così dire, tocca la realtà in un
solo punto: ad esempio, mentre sto parlando chiudo tutti i molteplici passaggi
che mettono in contatto la mente (il cono) e la realtà (il piano) e lascio solo
una fessura, attraverso la quale la mia coscienza entra in contatto con la
realtà. Tutto il resto della mente viene invece nascosto, fatta eccezione,
appunto, per ciò di cui parlo in quel momento, e ad avvalorare il discorso
bergsoniano (in cui serpeggiano le concezioni freudiane) è l'esistenza di alcune
patologie che fanno sì che la mente non riesca più a controllare i ricordi. E'
infatti necessario che la mente, in entrata e in uscita, sia a contatto con la
realtà solo in un punto e spetta appunto al cervello tenere nascosto tutto il
restante contenuto mentale e Bergson è convinto di essere riuscito a dimostrare
questa tesi dall'analisi dei casi di amnesia. E se ciò è vero, egli nota, allora
la memoria non è riducibile al cervello, ma ha una sua dimensione autonoma e
spirituale, mentre il cervello è un puro e semplice meccanismo che filtra: e i
casi di amnesia non fanno altro che mettere in luce come sia stato danneggiato
tale meccanismo con cui la nostra mente si rapporta col mondo esterno. A questo
punto può essere interessante riprendere il rapporto bergsoniano con Proust: per
entrambi i pensatori, nella memoria non vi è nulla che si perda, a patto che si
faccia una distinzione tra l'avere memoria e il rammemorare. Infatti, se è vero
che abbiamo sempre memoria di tutto, a tal punto che non è scorretto affermare
che la mente è memoria e che tutte le nostre esperienze sono custodite in essa
(come il filo nel gomitolo), è anche vero che per rammemorare si deve far sì che
la punta del cono tocchi il piano, ovvero che la mente entri in relazione con la
realtà: ma anche se a toccare il piano è solo la punta del cono, ciononostante
il resto del cono non sparisce e da ciò deriva la convinzione bergsoniana e
proustiana che debbano esistere modi per far emergere anche ciò che sembra
scivolato nell'oblìo, sparito dalla memoria. Celebri, a tal proposito, sono le
pagine in cui Proust racconta di quando gli viene offerto del the con dei
biscotti caratteristici e comincia a provare sensazioni particolarissime, in
quanto, attraverso i sapori e gli odori, gli torna alla memoria di quando li
aveva già mangiati in passato; ora, secondo Bergson e Proust, questo ricordo era
presente nella memoria, ma non poteva emergere finchè non fosse stato
sollecitato: e non è certo lo sforzo razionale che può far sì che i ricordi
vengano a galla, visto che la memoria, come abbiam visto, ha a che fare con
quelle realtà fluide e volatili che sono le sensazioni, coglibili dall' intuizione . E infatti Bergson, fin dal "Saggio sui dati
immediati della coscienza", contrappone l'intelligenza, riguardante il mondo
esterno, propria della scienza e cristallizzata nel linguaggio, all'intuizione,
sulla quale si costruisce la metafisica, capace invece di attingere al flusso
della coscienza, di cogliere l'essenza dall'interno della vita psichica;
tuttavia Bergson, nelle ultime fasi del suo viaggio filosofico (soprattutto in
"L'evoluzione creatrice") tenderà sempre più a vedere qualcosa di analogo alla
coscienza nell'intero cosmo, più precisamente arriverà a ravvisare un principio
comune, uno slancio vitale che governa l'evoluzione del mondo vivente. E con
queste considerazioni egli, da dualista, diverrà monista: nel "Saggio sui dati
immediati della coscienza" aveva riscontrato un'insanabile frattura tra mondo
spirituale e mondo fisico; ora, con "Memoria e materia", ha ridotto il corpo ad
un' "immagine" e, infine, con "L'evoluzione creatrice", arriverà ad ammettere un
unico principio valido per l'intera realtà, superando così il dualismo
anima/corpo e pervenendo ad una forma di monismo, cioè alla convinzione che la
realtà sia, in fin dei conti, una sola. Pertanto non avrà più senso parlare di
due realtà differenti (anima e corpo) e di due strumenti diversi per conoscerli
(l'intelligenza e l'intuizione): essendo respinta l'esistenza della materialità,
la distinzione tra intelligenza e intuizione viene stravolta nel suo
significato, sicchè non indagano più due realtà diverse, bensì indagano in due
modi diversi l'unica realtà esistente. L'intelligenza (e quindi la scienza) non
avrà alcuna funzione conoscitiva, come già aveva prospettato Schopenhauer,
giacchè non è in grado di cogliere la realtà nella sua vitalità, ma,
ciononostante, le verrà riconosciuta una valenza pratica, in quanto permette di
dominare concettualmente la realtà, facendocela vedere come un insieme di "cose"
immerse nello spazio e, in tal modo, permettendoci di manipolarla. Sarà invece
l'intuizione a fornire una conoscenza valida e metafisica, penetrando nel
profondo della realtà. L'intuizione, dice Bergson in "L'evoluzione creatrice",
nasce da una sintesi di intelligenza ed istinto, una sintesi cioè degli aspetti
migliori dell'umanità e dell'animalità. " L'evoluzione
creatrice " è un testo il cui tema portante è ben riassunto nel titolo:
l'argomento centrale è l'evoluzione del mondo animale, ma non è darwinianamente
intesa in modo meccanicistico, bensì viene letta come il frutto di uno slancio
vitale ed è proprio in questa prospettiva che Bergson respinge la tradizionale
contrapposizione tra meccanicismo e finalismo, intendendoli come due facce della
stessa medaglia deterministica. L'intera realtà è, invece, il frutto di uno
slancio vitale, creativo e spontaneo, che sfugge ad ogni forma di
determinabilità: nell'interiorità scopriamo un flusso, dice Bergson, e,
attraverso un processo quasi analogico di ascendenza schopenhaueriana, possiamo
tranquillamente affermare che questo processo investe non solo la coscienza
(come si credeva nel "Saggio sui dati immediati della coscienza"), ma tutta
quanta la realtà; in particolare, osserva il filosofo francese, la durata reale
ha come caratteristica il fatto che il passato spinge nel presente e
nell'avvenire con il risultato che nella durata reale non si può immaginare di
capovolgere il tempo. Infatti, una volta che il tempo si è sviluppato, si è
arricchito di nuovi momenti, sicchè non è più possibile smontare e tornare
indietro, dal momento che non si tratta di semplici pezzi aggregati insieme, ma,
come si capiva dall'esempio del gomitolo, ogni istante ha in sé tutti quelli
precedenti. E Bergson, in "L'evoluzione creatrice", fa notare che tutto ciò è
anche vero per il mondo vivente, non solo per la coscienza: se una certa
tradizione ha letto gli animali (e La Mettrie perfino gli uomini) come macchine,
Bergson afferma ora che è impensabile smontare e rimontare un animale come se
fosse una macchina, proprio perché, come il tempo della coscienza, così anche
quello della vita appare irreversibile, non si può giocare su di esso. Poi,
esaminando ulteriormente il mondo fisico, con un processo analogico di matrice
schopenhaueriana, Bergson ritiene di poter estendere il discorso a tutto il
cosmo: la durata reale, scoperta nel "Saggio sui dati immediati della coscienza"
e inizialmente ravvisata solo nella coscienza, viene ora concepita come chiave
di lettura del mondo vivente e, in ultima analisi, dell'intero universo,
cosicchè in Bergson il dualismo cede definitivamente il passo al monismo.
Infatti, la coscienza e la materia, coi loro due tempi (la durata reale e il
tempo spazializzato) e con i loro due strumenti (l'intuizione e l'intelligenza),
non vengono più contrapposte, in quanto anche la materia è permeata da
quell'unico principio vitale che Bergson chiama " slancio
vitale ". Esso corrisponde in parte alla volontà di Schopenhauer: è
anch'esso un principio unico che soggiace all'intera realtà, e con esso Bergson
spiega l'evoluzione del mondo vivente. Tuttavia, ancor prima di addentrarsi in
questo problema, ne sorge un altro: se ammettiamo un unico principio ed esso è
spirituale, come si spiega la materia? Per capirlo può essere utile far
riferimento a due immagini bergsoniane che si richiamano e si chiarificano a
vicenda: immaginiamo di affondare la mano in un recipiente pieno di limatura di
ferro; le nostra dita si allargano e spingono le varie particelle fino ad un
certo punto, finchè la resistenza della limatura blocca la mano. La mano
rappresenta lo slancio vitale, la limatura, invece, la materia: l'immagine sta a
significare che lo slancio vitale, penetrando nella materia, la spinge in
direzioni diverse finchè esso non si esaurisce di fronte alla resistenza fatta
dalla materia stessa: secondo Bergson è esattamente in questo modo che procede
l'evoluzione; gli esseri viventi, cioè, contengono in sé lo slancio vitale, ma
sono pur sempre esseri animali incarnati nella materia, e così si può dire che
ogni essere vivente è il risultato della spinta data in una certa direzione
dall'unico slancio vitale, che di fronte alla materia si divide e in qualche
caso spinge più in là, in qualche altro caso si ferma prima. E ogni specie
vivente è il risultato di una spinta dello slancio vitale che si è spinto fin
dove ha potuto e poi si è arenato. Ovviamente, si tratta di un'interpretazione
dell'evoluzionismo assai diversa rispetto a quella di Darwin, in quanto è carica
di spiritualismo e presuppone quasi una lotta perenne tra slancio vitale e
materia inerte che lo frena: e Bergson stesso si distacca da Spencer e dalla sua
concezione evoluzionistica perché, ai suoi occhi, eccessivamente meccanica.
Oltre a giustificare il fatto che le specie animali sono tra loro diverse (in
alcune lo slancio vitale si è spinto più in là, in altre si è arrestato prima),
l'immagine della mano e della limatura spiega anche la differenza tra individuo
e individuo: più lo slancio vitale va in alto e più riesce ad emergere nella sua
natura più propriamente spirituale. E così nelle forme vegetali l'identità
spirituale è quasi ingabbiata, come se lo slancio vitale non fosse riuscito a
penetrare molto nella materia: negli animali e ancora di più nell'uomo, esso si
è spinto oltre qualitativamente e quantitativamente. L'immagine della mano e
della limatura, però, lascia irrisolto un problema non da poco: spiega come
avviene l'evoluzione senza però giustificare la materia. Occorre pertanto fare
riferimento ad un'altra immagine bergsoniana: quella dei fuochi d'artificio. Lo
slancio vitale è un fuoco d'artificio che sale verso l'alto ma prima o poi
esaurisce la sua spinta e tende a ricadere al suolo; ad esaurirsi, però, non è
lo slancio (poiché è infinito), bensì sono i singoli frammenti che si spengono e
che nel momento in cui tendono a ricadere vengono ancora tenuti su per un po'
dal flusso che continua a giungere dal basso. La materia, in questa nuova
prospettiva, non è più un qualcosa di esterno e autonomo dentro cui lo slancio
vitale deve farsi strada, come sembrava nell'immagine della limatura: viceversa,
è lo stesso slancio vitale che, spirituale nella sua essenza, nel momento in cui
esaurisce la sua forza tende a manifestarsi come materia. Essa è pertanto
l'insieme dei resti dello slancio vitale e con questa concezione Bergson si
avvicina in modo impressionante alla teoria leibniziana secondo cui le "monadi"
più passive si estrinsecano materialmente; l'antico Plotino in persona, del
resto, aveva detto che dove l'essere si esaurisce, lì c'è la materia. Ritornando
ai fuochi d'artificio di Bergson, l'istante in cui le scintille sono tenute
ancora un po' in aria dalle altre, questa è la vita dei singoli individui e
delle specie: ciascuno di noi è, in altri termini, un corpo vivificato dallo
slancio vitale e l'esistenza altro non è se non un brandello lasciato per strada
dallo slancio, cosicchè noi siamo un corpo materiale che piano piano si spegne.
La vita, così, è, secondo la definizione pirandelliana, un flusso continuo che
cerchiamo di arrestare, di fissare in forme stabili. E la vitalità affiora anche
nella risata, sulla quale Bergson conduce un'analisi nel saggio Il riso :
in questo saggio sul significato del comico, egli si concentra su tre aspetti
della comicità: 1) è legata a un fattore umano (se cado faccio ridere; se vedo
un paesaggio non mi suscita ilarità, un animale può essere comico se vi ravviso
somiglianze con una caricatura dell'uomo); 2) è legata all'insensibilità (non si
può ridere di una persona che genera pietà; il comico non si rivolge al cuore ma
all'intelligenza pura); 3) ridere ha natura sociale (è sempre il riso di un
gruppo o si immagina di condividerlo con altri magari immaginari). La cosa
curiosa, sottolinea Bergson, è che lo slancio vitale si articola in
ramificazioni fondamentali: una prima ramificazione può essere scorta tra il
mondo vegetale e quello animale e in quest'ultimo, a sua volta, troviamo un
nuovo bivio tra due grandi percorsi evolutivi caratterizzati, rispettivamente,
da due modi molto raffinati, anche se diversi, di manifestazione dello slancio
vitale. Si tratta della ramificazione tra vertebrati e artropodi (insetti,
crostacei, ecc): la differenza tra i due percorsi evolutivi risiede nel fatto
che il percorso dei vertebrati spinge sempre più verso l'emergere della
coscienza e dell'intelligenza e culmina nell'uomo, mentre il percorso degli
artropodi non è orientato verso lo sviluppo della coscienza, bensì verso quello
dell'istinto, uno strumento altrettanto raffinato per risolvere i problemi.
L'istinto, però, non è caratterizzato dalla coscienza: gli insetti, infatti,
fanno cose complicatissime (pensiamo alle ragnatele) ma le fanno istintivamente,
senza averne coscienza. Questi due strumenti, l'istinto e l'intelligenza, hanno
i loro pregi e i loro difetti: il pregio dell'intelligenza consiste nell'essere
cosciente e, proprio in quanto cosciente, essa è anche più duttile, riflette
dall'esterno sui problemi e adatta ad essi le soluzioni; l'istinto, invece, non
è cosciente, ma è immediato, governa le cose dall'interno, e infatti il ragno
non progetta coscientemente la tela, ha una sorta di certezza interiore che lo
induce ad agire in quel modo e Bergson nota come l'istinto può portare a grandi
cose, ma anche a grandi errori. Questa distinzione tra intelligenza e istinto è
particolarmente rilevante perché nell'uomo, che costituisce il vertice dei
vertebrati, l'origine comune diversificatasi tra vertebrati e artropodi si
ricongiunge, dato che l'uomo è dotato di intelligenza ma, se lo desidera, può
recuperare la dimensione dell'istinto e fonderla con quella dell'intelligenza,
dando vita all'intuizione, una specie di intelligenza istintiva che fa sì che si
abbia la certezza immediata e interiore dell'istinto e la coscienza propria
dell'intelligenza. " Le due fonti della morale e della
religione " (1932) è l'opera che conclude il discorso bergsoniano
sull'evoluzione creatrice: l'evoluzionismo, dopo aver prodotto l'uomo, non si
ferma, ma procede nelle realizzazioni culturali umane e, proprio come nelle
evoluzioni dei viventi, anche in questo nuovo ambito troviamo elementi più
evoluti e altri più "arenati". In altre parole, all'uomo è dato scegliere se far
proseguire nel suo corso lo slancio vitale o se bloccarlo dentro di sé: ciò
traspare dalla contrapposizione (che sarà ripresa da Popper) tra "società
chiuse" e "società aperte". La società chiusa è quella autoritaria, in cui
l'uomo è spinto con forza ad identificarsi nella società e nei suoi rigidi
valori; quella aperta, invece, è la società in cui ci si apre all'umanità e si
promuove la libertà degli individui, creando (un po' come aveva detto Nietzsche)
dei nuovi valori da anteporre ai vecchi. Dalle società chiuse si sviluppano le
"religioni statiche", quelle cioè istituzionalizzate, che tendono a favorire un
atteggiamento dogmatico e chiuso degli individui; in seno alle società aperte,
invece, nascono le "religioni dinamiche" (che Bergson di gran lunga preferisce
rispetto a quelle statiche): esse, in sostanza, si identificano con il
misticismo che, per sua natura, sfugge all'istituzionalizzazione. Non c'è da
stupirsi che Bergson nutra simpatia per il misticismo, soprattutto se teniamo
presente che, fin dal "Saggio sui dati immediati della coscienza", egli cercava
di scorgere nell'uomo una vivace spontaneità, tentativo proseguito in
"L'evoluzione creatrice", quando trovava in un unico principio la chiave di
lettura dell'intera realtà: è naturale che la religione che più lo affascina sia
il misticismo, che esprime l'essenza libera dell'uomo e lo metto in contatto
diretto con quel flusso vitale che scorre in profondità. E, con un'immagine
stupenda, in "L'evoluzione creatrice", Bergson sostiene che " l'umanità
intera, nello spazio e nel tempo, è come uno sterminato esercito che galoppa al
fianco di ciascuno di noi, avanti e dietro a noi, in una carica travolgente
capace di rovesciare tutte le resistenze e di superare moltissimi ostacoli,
forse anche la morte ". Anch'egli si pone, come molti suoi contemporanei, il
problema della tecnica e la concepisce come un
prolungamento del corpo umano, in quanto grazie ad essa l'uomo è agevolato nelle
sue attività: e in un'epoca in cui il corpo si è gonfiato a dismisura, si rende
necessario anche un " supplemento di anima ", espressione con la quale
Bergson sottolinea come le responsabilità siano infinitamente cresciute, come a
dire che, aumentato il corpo, anche l'anima deve adeguarsi. In precedenza
abbiamo riscontrato analogie tra il pensiero di Bergson e quello di
Schopenhauer, in particolare abbiamo intravisto una notevole vicinanza tra lo
slancio vitale e la volontà schopenhaueriana: tuttavia, è bene notarlo, se il
discorso di Schopenhauer è fortemente venato di pessimismo, tant'è che egli
arriva a proporre l'annullamento della volontà, quello di Bergson, invece, è
vivacemente colorato di ottimismo e può essere inquadrato in quel filone
vitalistico, sorto in opposizione al Positivismo e al suo culto della ragione e
dei dati di fatto, in cui rientra anche quello di Nietzsche. La prospettiva di
Nietzsche, però, era una sorta di ottimismo tragico, poiché il sostanziale
ottimismo che la informava nasceva dal nichilismo e dalla tragicità
dell'esistenza; tutto questo in Bergson manca. Egli, al contrario, è un
ottimista nel vero senso della parola e, non a caso, pensò anche di convertirsi
al cattolicesimo, che, fra tutte le religioni, è forse quella più conciliante
con il mondo.
INDIETRO