LA CENA DE LE CENERI
DESCRITTA IN
CINQUE DIALOGI, PER QUATTRO INTERLOCUTORI,
CON
TRE CONSIDERAZIONI, CIRCA DOI SUGGETTI
*
All'unico refugio de le Muse
l'illustrissimo
MICHEL DI CASTELNOVO
Signor di Mauvissier, Concressalto e di Ionvilla,
Cavalier de l'ordine del Re Cristianissimo e Conseglier
nel suo privato Conseglio, Capitano di 50 uomini d'arme,
Governator e Capitano di S. Desiderio ed Ambasciator
alla Serenissima Regina d'Inghilterra.
*
L'universale intenzione è dechiarata nel proemio.
1584
AL MAL CONTENTO
Se dal cinico dente sei trafitto,
lamentati di te, barbaro perro;
ch'invan mi mostri il tuo baston e ferro,
se non ti guardi da farmi despitto.
Perché col torto mi venesti a dritto,
però tua pelle straccio, e ti disserro:
e s'indi accade ch'il mio corpo atterro,
tuo vituperio è nel diamante scritto.
Non andar nudo a tôrre a l'api il mele;
non morder, se non sai s'è pietra o pane;
non gir discalzo a seminar le spine.
Non spreggiar, mosca, d'aragne le tele;
se sorce sei, non seguitar le rane;
fuggi le volpi, o sangue di galline.
E credi a l'Evangelo,
che dice di buon zelo:
dal nostro campo miete penitenza
chi vi gettò d'errori la semenza.
PROEMIALE EPISTOLA
SCRITTA ALL'ILLUSTRISSIMO ED ECCELLENTISSIMO
SIGNOR DI MAUVISSIERO
CAVALIER DE L'ORDINE DEL RE E CONSEGLIER DEL SUO
PRIVATO CONSEGLIO, CAPITANO DI CINQUANT'UOMINI
D'ARMA, GOVERNATOR GENERALE DI S. DESIDERIO ED
AMBASCIATOR DI FRANCIA IN INGHILTERRA
Or eccovi, Signor, presente, non un convito nettareo de l'Altitoante, per una maestà; non un protoplastico, per una umana desolazione; non quel d'Assuero, per un misterio; non di Lucullo, per una ricchezza; non di Licaone, per un sacrilegio; non di Tieste, per una tragedia; non di Tantalo, per un supplicio; non di Platone, per una filosofia; non di Diogene, per una miseria; non de le sanguisughe, per una bagattella; non d'un arciprete di Pogliano, per una bernesca; non d'un Bonifacio candelaio, per una comedia; ma un convito sì grande, sì picciolo; sì maestrale, sì disciplinale; sì sacrilego, sì religioso; sì allegro, sì colerico; sì aspro, sì giocondo; sì magro fiorentino, sì grasso bolognese; sì cinico, sì sardanapalesco; sì bagattelliero, sì serioso; sì grave, sì mattacinesco; sì tragico, sì comico; che, certo, credo che non vi sarà poco occasione da dovenir eroico, dismesso; maestro, discepolo; credente, mescredente; gaio, triste; saturnino, gioviale leggiero, ponderoso; canino, liberale; simico, consulare; sofista con Aristotele, filosofo con Pitagora; ridente con Democrito, piangente con Eraclito. Voglio dire: dopo ch'arrete odorato con i peripatetici, mangiato con i pitagorici, bevuto con stoici, potrete aver ancora da succhiare con quello che, mostrando i denti, avea un riso sì gentile, che con la bocca toccava l'una e l'altra orecchia. Perché, rompendo l'ossa e cavandone le midolla, trovarete cosa da far dissoluto san Colombino, patriarca de gli Gesuati, far impetrar qualsivoglia mercato, smascellar le simie e romper silenzio e qualsivoglia cemiterio.
Mi dimandarete: che simposio, che convito è questo? È una cena. Che cena? De le ceneri. Che vuol dir cena de le ceneri? Fuvi posto forse questo pasto innante? Potrassi forse dir qua: cinerem tamquam panem manducabam? Non, ma è un convito fatto dopo il tramontar del sole, nel primo giorno de la quarantana, detto da' nostri preti dies cinerum, e talvolta giorno del memento. In che versa questo convito, questa cena? Non già in considerar l'animo ed effetti del molto nobile e ben creato sig. Folco Grivello, alla cui onorata stanza si convenne; non circa gli onorati costumi di que' signori civilissimi, che, per esser spettatori ed auditori, vi furono presenti; ma circa un voler veder quantunque può natura in far due fantastiche befane, doi sogni, due ombre e due febbri quartane; del che, mentre si va crivellando il senso istoriale, e poi si gusta e mastica, si tirano a proposito topografie, altre geografice, altre raziocinali, altre morali; speculazioni ancora, altre metafisiche, altre matematiche, altre naturali.
ARGOMENTO DEL PRIMO DIALOGO
Onde vedrete nel primo dialogo proposti in campo doi suggetti con la raggion di nomi loro, se la vorrete capire; secondo, in grazia loro, celebrata la scala dei numero binario; terzo, apportate le condizioni lodabili della ritrovata e riparata filosofia; quarto, mostrato di quante lodi sia capace il Copernico; quinto, positivi avanti gli frutti de la nolana filosofia, con la differenza tra questo e gli altro modi di filosofare.
ARGOMENTO DEL SECONDO DIALOGO
Vedrete nel secondo dialogo: prima la causa originale de la cena; secondo, una descrizion di passi e di passaggi, che più poetica e tropologica, forse, che istoriale sarà da tutti giudicata; terzo, come confusamente si precipita in una topografia morale, dove par che, con gli occhi di Linceo quinci e quindi guardando (non troppo fermandosi) cosa per cosa, mentre fa il suo camino, oltre che contempla le gran machine, mi par che non sia minuzzaria, né petruccia, né sassetto, che non vi vada ad intoppare. Ed in ciò fa giusto com'un pittore; al qual non basta far il semplice ritratto de l'istoria; ma anco, per empir il quadro, e conformarsi con l'arte a la natura, vi depinge de le pietre, di monti, de gli arbori, di fonti, di fiumi, di colline; e vi fa veder qua un regio palaggio, ivi una selva, là un straccio di cielo, in quel canto un mezo sol che nasce, e da passo in passo un ucello, un porco, un cervio, un asino, un cavallo; mentre basta di questo far veder una testa, di quello un corno, de l'altro un quarto di dietro, di costui l'orecchie, di colui l'intiera descrizione; questo con un gesto ed una mina, che non tiene quello e quell'altro, di sorte che con maggior satisfazione di chi remira e giudica viene ad istoriar, come dicono, la figura. Cossì, al proposito, leggete e vedrete quel che voglio dire. Ultimo, si conclude quel benedetto dialogo con l'esser gionto a la stanza, essere graziosamente accolto e cerimoniosamente assiso a tavola.
ARGOMENTO DEL TERZO DIALOGO
Vedrete il terzo dialogo, secondo il numero de le proposte del dottor Nundinio, diviso in cinque parti. De quali la prima versa circa la necessitá de l'una e de l'altra lingua. La seconda esplica l'intenzione dei Copernico, dona risoluzione d'un dubio importantissimo circa le fenomie celesti, mostra la vanità del studio di perspettivi ed optici circa la determinazione della quantità di corpi luminosi, e porge circa questo nuova, risoluta e certissima dottrina. La terza mostra il modo della consistenza di corpi mondani; e dechiara essere infinita la mole de l'universo, e che invano si cerca il centro o la circonferenza del mondo universale, come fusse un de' corpi particulari. La quarta afferma esser conformi in materia questo mondo nostro, ch'è detto globo della terra, con gli mondi, che son gli corpi degli altri astri; e che è cosa da fanciulli aver creduto, e credere, altrimente; e che quei son tanti animali intellettuali; e che non meno in quelli vegetano ed intendono molti ed innumerabili individui semplici e composti, che veggiamo vivere e vegetar nel dorso di questo. La quinta, per occasion d'un argomento ch'apportò Nundinio al fine, mostra la vanità di due grandi persuasioni, con le quali, e simili, Aristotele ed altri son stati acciecati sì, che non veddero esser vero e necessario il moto de la terra; e son stati sì impediti, che non han possuto credere quello esser possibile; il che facendosi, vengono discoperti molti secreti de la natura sin al presente occolti.
ARGOMENTO DEL QUARTO DIALOGO
Avete al principio del quarto dialogo mezzo per rispondere a tutte raggioni ed inconvenienti teologali, e per mostrar questa filosofia esser conforme alla vera teologia e degna d'esser faurita da le vere religioni. Nel resto vi se pone avanti uno, che non sapea né disputar, né dimandar a proposito il quale per essere più impudente ed arrogante pareva a gli più ignoranti più dotto ch'il dottor Nundinio; ma vedrete che non bastarebbono tutte le presse del mondo per cavar una stilla di succhio dal suo dire per prender materia da far dimandar Smitho, e rispondere il Teofilo; ma è a fatto soggetto de le spampanate di Prudenzio e di rovesci di Frulla. E certo mi rincresse che quella parte ve si trove.
ARGOMENTO DEL QUINTO DIALOGO
S'aggionge il quinto dialogo, vi giuro, non per altro rispetto, eccetto che per non conchìudere sì sterilmente la nostra cena. Ivi primamente s'apporta la convenientissima disposizione di corpi nell'eterea reggione, mostrando che quello, che si dice ottava sfera, Cielo de le fisse, non è si fattamente un cielo, che que' corpi, ch'appaiono lucidi, siano equidistanti dal mezzo; ma che tali appaiono vicìni, che son distanti di longhezza e latitudine l'un da l'altro più che non possa essere l'uno e l'altro dal sole e da la terra. Secondo, che non sono sette erranti corpi solamente, per tal caggione che sette n'abbiamo compresi per tali; ma che, per la medesima raggione, sono altri innumerabili, quali da gli antichi e veri filosofi non senza causa son stati nomati aethera, che vuol dire corridori, perché essi son que' corpi, che veramente si muovono, e non l'imaginate sfere. Terzo, che cotal modo procede da principio interno necessariamente, come da propria natura ed anima; con la qual verità si destruggono molti sogni, tanto circa il moto attivo della luna sopra l'acqui ed altre sorte d'umori, quanto circa l'altre cose naturali, che par che conoscano il principio de lor moto da efficiente esteriore. Quarto, determina contra que' dubii, che procedeno con la stoltissima raggione della gravità e levità di corpi; e dimostra ogni moto naturale accostarsi al circolare, o circa il proprio centro, o circa qualch'altro mezzo. Quinto, fa vedere quanto sia necessario, che questa terra ed altri simili corpi si muovano non con una, ma con più differenze di moti; e che quelli non denno esser più, né meno di quattro semplici, benché concorrano in un composto; e dice quali siano questi moti ne la terra. Ultimo, promette di aggiongere per altri dialogi quel che par che manca al compimento di questa filosofia; e conchiude con una adiurazione di Prudenzio.
Restarete maravigliato, come con tanta brevità e sufficienza s'espediscano sì gran cose. Or qua, se vedrete talvolta certi men gravi propositi, che par che debbano temere di farsi innante alla superciliosa censura di Catone, non dubitate; perché questi Catoni saranno molto ciechi e pazzi, se non sapran scuoprir quel ch'è ascosto sotto questi Sileni. Se vi occoreno tanti e diversi propositi attaccati insieme, che non par che qua sia una scienza, ma dove sa di dialogo, dove di comedia, dove di tragedia, dove di poesia, dove d'oratoria; dove lauda, dove vitupera, dove dimostra ed insegna; dove ha or dei fisico, or del matematico, or del morale, or del logico; in conclusione, non è sorte di scienza, che non v'abbia di stracci. Considerate, Signore, che il dialogo è istoriale, dove, mentre si riferiscono l'occasioni, i moti, i passaggi, i rancontri, i gesti, gli affetti, i discorsi, le proposte, le risposte, i propositi ed i spropositi, remettendo tutto sotto il rigore del giudizio di que' quattro, non è cosa, che non vi possa venir a proposito con qualche raggione. Considerate ancora, che non v'è parola ociosa; perché in tutte parti è da mietere e da disotterrar cose di non mediocre importanza, e forse più là dove meno appare. Quanto a quello che nella superficie si presenta, quelli che n'han donato occasione di far il dialogo, e forse una satira e comedia, han modo di dovenir più circonspetti, quando misurano gli uomini con quella verga, con la quale si misura il velluto, e con la lance di metalli bilanciano gli animi. Quelli, che sarrano spettatori o lettori, e che vedranno il modo, con cui altri son tocchi, hanno per farsi accorti ed imparar a l'altrui spese. Que', che son feriti o punti, apriranno forse gli occhi; e vedendo la sua povertà, nudità, indignità, se non per amore, per vergogna almen si potran correggere o cuoprire, se non vogliono confessare. Se vi par il nostro Teofilo e Frulla troppo grave e rigidamente toccare il dorso d'alcuni suppositi, considerate, Signor, che questi animali non han sì tenero il cuoio; che se le scosse fussero a cento doppia maggiori, non le stimarebono punto o sentirebbono più che se fussero palpate' d'una fanciulla. Né vorrei che mi stimate degno di riprensione per quel che sopra sì fatte inepzie e tanto indegno campo, che n'han porgiuto questi dottori, abbiamo voltito exaggerar sì gravi e sì degni propositi; perché son certo, che sappiate esser differenza da togliere una cosa per fondamento, e prenderla per occasione. I fondamenti invero denno esser proporzionati alla grandezza, condizione e nobiltà de l'edificio; ma le occasioni possono essere di tutte sorte, per tutti effetti; perché cose minime e sordide son semi di cose grande ed eccellenti, sciocchezze e pazzie sogliono provocar gran consegli, giudizii ed invenzioni. Lascio ch'è manifesto, che gli errori e delitti han molte volte porgiuta occasione a grandissime regole di giustizia e di bontade.
Se nel ritrare vi par che i colori non rispondano perfettamente al vivo, e gli delineamenti non vi parranno al tutto proprii, sappiate ch'il difetto è provenuto da questo, che il pittore non ha possuto essaminar il ritratto con que' spacii e distanze, che soglion prendere i maestri de l'arte; perché, oltre che la tavola, o il campo era troppo vicino al volto e gli occhi, non si possea retirar un minimo passo a dietro, o discostar da l'uno e l'altro canto, senza timor di far quel salto, che feo il figlio del famoso defensor di Troia. Pur, tal qual è, prendete questo ritratto, ove son que' doi, que' cento, que' mille, que' tutti; atteso che non vi si manda per informarvi di quel che sapete, né per gionger acqua al rapido fiume del vostro giudizio ed ingegno; ma perché so, che secondo l'ordinario, benché conosciamo le cose più perfettamente al vivo, non sogliamo però dispreggiar il ritratto e la rapresentazion di quelle. Oltre che son certo, ch'il generoso animo vostro drizzarà l'occhio della considerazion più alla gratitudine dell'affetto con cui si dona, che al presente della mano che vi porge. Questo s'è drizzato a voi, che siete più vicino e vi mostrate più propizio e più favorevole al nostro Nolano, e però vi siete reso più degno supposito di nostri ossequi in questo clima, dove i mercanti senza conscienza e fede son facilmente Cresi, e gli virtuosi senz'oro non son difficilmente Diogeni. A voi, che con tanta munificenza e liberalità avete accolto il Nolano al vostro tetto e luogo più eminente di vostra casa; dove, se questo terreno, in vece che manda fuori mille torvi gigantoni, producesse altri tanti Alessandri Magni, vedreste più di cinquecento venir a corteggiar questo Diogene, il quale per grazia de le stelle non ave altro, che voi che gli venga a levar il sole, se pur (per non farlo più povero di quel cinico mascalzone) manda qualche diretto o reflesso raggio dentro quella buca, che sapete. A voi si consacra, che in questa Britannia rapresentate l'altezza di sì magnanimo, sì grande e sì potente Re, che dal generosissimo petto de l'Europa, con la voce de la sua fama fa rintronar gli estremi cardini de la terra; quello che, quando irato freme, come leon da l'alta spelonca, dona spaventi ed orror mortali a gli altri predatori potenti di queste scive, e quando si riposa e si quieta, manda tal vampo di liberale e di cortese amore, ch'infiamma il tropico vicino, scalda l'Orsa gelata, e dissolve il rigor de l'artico deserto, che sotto l'eterna custodia del fiero Boote si raggira. Vale.
DIALOGO PRIMO
INTERLOCUTORI
SMITHO, TEOFILO filosofo PRUDENZIO pedante, FRULLA
SMI. Parlavan ben latino?
TEO. Sì.
SMI Galantuomini?
TEO. Sì.
SMI. Di buona riputazione?
TEO. Sì.
SMI Dotti?
TEO. Assai competentemente.
SMI. Ben creati, cortesi, civili?
TEO. Troppo mediocremente.
SMI. Dottori?
TEO. Messer sì, padre sì, madonna sì, madesì, credo da Oxonia.
SMI.Qualificati?
TEO. Come non? uomini da scelta, di robba lunga, vestiti di velluto; un de' quali avea due catene d'oro lucente al collo, e l'altro, per Dio, con quella preziosa mano, che contenea dodeci anella ìn due dita, sembrava uno ricchissimo gioielliero, che ti cavava gli occhi ed il core, quando la vagheggiava.
SMI. Mostravano saper di greco?
TEO. E di birra eziandio.
PRU. Togli via quell'eziandio, poscia che è una obsoleta ed antiquata dictione.
FRUL. Tacete, maestro, ché non parla con voi.
SMI. Come eran fatti?
TEO. L'uno parea il connestabile della gigantessa e l'orco, l'altro l'amostante della dea de la riputazione.
SMI. Sì che eran doi?
TEO. Sì per esser questo un numero misterioso.
PRU. Ut essent duo testes.
FRU. Che intendete per quel testes?
PRU. Testimoni, essaminatori della nolana sufficienza. At, me hercle, perché avete detto, Teofilo, che il numero binario è misterioso?
TEO. Perché due sono le prime coordinazioni, come dice Pitagora, finito ed infinito, curvo e retto, destro e sinistro, e va discorrendo. Due sono le spezie di numeri, pare ed impare, de' quali l'una è maschio, l'altra è femina. Doi sono gli Cupidi, superiore e divino, inferiore e volgare. Doi sono gli atti della vita, cognizione ed affetto. Doi sono gli oggetti di quelli, il vero ed il bene. Due sono le specie di moti: retto, con il quale i corpi tendeno alla conservazione, e circulare, col quale si conservano. Doi son gli principii essenziali de le cose, la materia e la forma. Due le specifiche differenze della sustanza, raro e denso, semplice e misto. Doi primi contrarii ed attivi principii, il caldo e il freddo. Doi primi parenti de le cose naturali, il sole e la terra.
FRU. Conforme al proposito di que' prefati doi, farò un'altra scala del binario. Le bestie entrorno ne l'arca a due a due; ne uscirono ancora a due a due. Doi sono i corifei di segni celesti: Aries e Taurus. Due sono le specie di nolite fieri: cavallo e mulo. Doi son gli animali ad imagine e similitudine de l'uomo: la scimia in terra, e 'l barbagianni in cielo. Due sono le false ed onorate reliquie di Firenze in questa patria: i denti di Sassetto e la barba di Pietruccio. Doi sono gli animali, che disse il profeta aver più intelletto, ch'il popolo d'Israele: il bove perché conosce il suo possessore, e l'asino perché sa trovar il presepio del padrone. Doi furono le misteriose cavalcature del nostro redentore, che significano il suo antico credente ebreo ed il novello gentile: l'asina e il pullo. Doi sono da questi li nomi derivativi, ch'han formate le dizioni titulari al secretario d'Augusto: Asinio e Pullione. Doi sono i geni degli asini: domestico e salvatico. Doi i lor più ordinarii colori: biggio e morello. Due sono le piramidi, nelle quali denno esser scritti e dedicati all'eternità i nomi di questi doi ed altri simili dottori: la destra orecchia del caval di Sileno, e la sinistra de l'antagonista del dio degli orti.
PRU. Optimae indolis ingenium, enumeratio minime contemnenda!
FRU. Io mi glorio, messe Prudenzio mio, perché voi approvate il mio discorso, che sete più prudente che l’istessa prudenzia, perciò che sete la prudentia masculini generis.
PRU. Neque id sine lepore et gratia. Orsù, isthaec mittamus encomia. Sedeamus, quia, ut ait Peripateticorum princeps, sedendo et quiescendo sapimus; e cossì, insino al tramontar del sole, protelaremo il nostro tetralogo circa il successo del colloquio del Nolano col dottor Torquato e il dottor Nundinio.
FRU. Vorrei sapere quel che volete intendere per quel tetralogo.
PRU. Tetralogo, dissi io: id est, quatorum sermo; come dialogo vuol dire duorum sermo, trilogo trium sermo; e cossì oltre, de pentalogo, eptalogo, ed altri, che abusivamente si chiamano dialogi, come dicono alcuni quasi diversorum logi: ma non è verisimile che li greci inventori di questo nome abbino quella prima sillaba "di" pro capite illius latinae dictionis "diversum". `
SMI. Di grazia, signor maestro, lasciamo questi rigori di gramatica, e venemo al nostro proposito.
PRU. O saeclum! voi mi parete far poco conto delle buone lettere. Come potremo far un buon tetralogo, se non sappiamo che significhi questa dizione tetralogo, e, quod peius est, pensaremo che sia un dialogo? Nonne a difinìtione et a nominis explicatione exordiendum, come il nostro Arpinate ne insegna?
TEO. Voi, messer Prudenzio, sete troppo prudente. Lasciamo, vi priego, questi discorsi grammaticali; e fate conto, che questo nostro raggionamento sia un dialogo, atteso che benché siamo quattro in persona, saremo dui in officio di proponere e rispondere, di raggionare e ascoltare. Or, per dar principio e reportar il negocio da capo, venite ad inspirarmi, o Muse. Non dico a voi, che parlate per gonfio e superbo verso in Elicona: perché dubito che forse non vi lamentiate di me al fine, quando, dopo aver fatto sì lungo e fastidioso peregrinaggio, varcati sì perigliosi mari, gustati sì fieri costumi, vi bisognasse discalze e nude tosto repatriare, perché qua non son pesci per Lombardi. Lascio, che non solo siete straniere, ma siete ancor di quella razza, per cui disse un poeta:
Non fu mai greco di malizia netto.
Oltre che non posso inamorarmi di cosa, ch'io non vegga. Altre, altre sono che m'hanno incatenata l'alma. A voi altre, dunque, dico, graziose, gentili, pastose, morbide, gioveni, belle, delicate, biondi capelli, bianche guance, vermiglie gote, labra succhiose, occhi divini, petti di smalto e cuori di diamante; per le quali tanti pensieri fabrico ne la mente, tanti affetti accolgo nel spirto, tante passioni concepo nella vita, tante lacrime verso da gli occhi, tanti suspiri sgombro dal petto e dal cor sfavillo tante fiamme; a voi, Muse d'Inghilterra, dico: inspiratemi, suffiatemi, scaldatemi, accendetemi, lambiccatemi e risolvetemi in liquore, datemi in succhio, e fatemi comparir non con un picciolo, delicato, stretto, corto e succinto epigramma, ma con una copiosa e larga vena di prosa lunga, corrente, grande e soda: onde, non come da un arto' calamo, ma come da un largo canale, mande i rivi miei. E tu, Mnemosine' mia, ascosa sotto trenta sigilli, e rinchiusa nel tetro carcere dell'ombre de le idee, intonami un poco ne l'orecchio.
Ai dì passati vennero doi al Nolano da parte d'un regio scudiero, facendogl'intendere qualmente colui bramava sua conversazione, per intender il suo Copernico ed altri paradossi di sua nova filosofia. Al che rispose il Nolano, che lui non vedea per gli occhi di Copernico, né di Ptolomeo, ma per i proprii, quanto al giudizio e la determinazione; benché quanto alle osservazioni, stima dover molto a questi ed altri solleciti matematici, che successivamente, a tempi e tempi, giongendo lume a lume, ne han donati principii sufficenti, per i quali siamo ridutti a tal giudicio, quale non possea se non dopo molte non ociose etadi esser parturito. Giongendo, che costoro in effetto son come quelli interpreti, che traducono da uno idioma a l'altro le paroli: ma sono gli altri poi, che profondano ne' sentimenti, e non essi medesimi. E son simili a que' rustici, che rapportano gli affetti e la forma d'un conflitto a un capitano absente: ed essi non intendono il negocio, le raggioni e l'arte, co' la quale questi son stati vittoriosi; ma colui, che ha esperienza e meglior giudicio ne l'arte militare. Cossì a la tebana Manto, che vedeva, ma non intendeva, Tiresia, cieco, ma divino interprete, diceva:
visu carentem magna pars veri latet,
sed quo vocat me patria, quo Phoebus, sequar.
Tu lucis inopem gnata genitorem regens,
manifesta sacri signa fatidici refer.
Similmente che potreimo giudicar noi, si le molte e diverse verificazioni de l'apparenze de' corpi superiori o circostanti non ne fussero state dechiarate e poste avanti gli occhi de la raggione?
Certo, nulla. Tuttavia, dopo aver rese le grazie a gli dèi, distributori de' doni, che procedono dal primo ed infinito onnipotente lume, ed aver magnificato il studio di questi generosi spirti, conoscemo apertissimamente, che doviamo aprir gli occhi a quello ch'hanno osservato e visto, e non porgere il consentimento a quel ch' hanno conceputo, inteso e determinato.
SMI. Di grazia, fatemi intendere, che opinione avete del Copernico?
TEO. Lui avea un grave, elaborato, sollecito e maturo ingegno; uomo che non è inferiore a nessuno astronomo che sii stato avanti lui, se non per luogo di successione e tempo; uomo che, quanto al giudizio naturale, è stato molto superiore a Tolomeo, Ipparco, Eudoxo e tutti gli altri, ch'han caminato appo i vestigi di questi. Al che è dovenuto per essersi liberato da alcuni presuppositi falsi de la comone e volgar filosofia, non voglio dir cecità. Ma però non se n'è molto allontanato; perché lui, più studioso de la matematica che de la natura, non ha possuto profondar e penetrar sin tanto che potesse a fatto toglier via le radici de inconvenienti e vani principii, onde perfettamente sciogliesse tutte le contrarie difficuità e venesse a liberar e sé ed altri da tante vane inquisizioni e fermar la contemplazione ne le cose costante e certe. Con tutto ciò chi potrà a pieno lodar la magnanimità di questo germano, il quale, avendo poco riguardo a la stolta moltitudine, è stato sì saldo contra il torrente de la contraria fede, e benché quasi inerme di vive raggioni, ripigliando quelli abietti e rugginosi fragmenti ch'ha possuto aver per le mani da la antiquità, le ha ripolìti, accozzati e risaldati in tanto, con quel suo più matematico che natural discorso, ch'ha resa la causa, gìà ridicola, abietta e vilipesa, onorata, preggiata, più verisimile che la contraria, e certissimamente più comoda ed ispedita per la teorica e raggione calculatoria? Cossì questo alemano, benché non abbi avuti sufficienti modi, per i quali, oltre il resistere, potesse a bastanza vencere, debellare e supprimere la falsità, ha pure fissato il piede in determinare ne l'animo suo ed apertissimamente confessare, ch'al fine si debba conchiudere necessariamente, che più tosto questo globo si muova a l'aspetto de l'universo, che sii possibile che la generalità di tanti corpi innumerabili, de' quali molti son conosciuti più magnifici e più grandi, abbia, al dispetto della natura e raggioni che con sensibilissimi moti cridano il contrario, conoscere questo per mezzo e base de' suoi giri ed influssi. Chi dunque sarà sì villano e discortese verso il studio di quest'uomo, che, avendo posto in oblìo quel tanto che ha fatto, con esser ordinato dagli dèi come una aurora, che dovea precedere l'uscita di questo sole de l'antiqua vera filosofia, per tanti secoli sepolta nelle tenebrose caverne de la cieca, maligna, proterva ed invida ignoranza; vogli, notandolo per quel che non ha possuto fare, metterlo nel medesmo numero della gregaria moltitudine, che discorre, si guida e si precipita giù per il senso de l'orecchio d’una brutale e ignobil fede; che [non] vogli computarlo tra quei, che col felice ingegno s'han possuto drizzare ed inalzarsi per la fidissima scorta de l'occhio della divina intelligenza?
Or che dirrò io del Nolano? Forse, per essermi tanto prossimo, quanto io medesmo a me stesso, non mi converrà lodarlo? Certamente, uomo raggionevole non sarà, che mi riprenda in ciò, atteso che questo talvolta non solamente conviene, ma è anco necessario, come bene espresse quel terso e colto Tansillo:
Bench'ad un uom, che preggio ed onor brama,
di se stesso parlar molto sconvegna,
perché la lingua, ov'il cor teme ed ama,
non è nel suo parlar di fede degna;
l'esser altrui precon de la sua fama
pur qualche volta par che si convegna,
quando vien a parlar per un di dui:
per fuggir biasmo, o per giovar altrui.
Pure, se sarà un tanto supercilioso, che non vogli a proposito alcuno patir la lode propria, o come propria, sappia, che quella talvolta non si può dividere da sui presenti e riportati effetti. Chi riprenderà Apelle, che presentando l'opra, a chi lo vuol sapere, dice, quella esser sua manifattura? Chi biasimarà Fidia,
s'a un, che dimanda l'autore di questa magnifica scoltura, risponda esser stato lui? Or dunque, a fin ch'intendiate il negocio presente e l'importanza sua, vi propono per una conclusione, che ben presto facile e chiarissimamente vi si provarà: che, se vien lodato lo antico Tifi per avere ritrovata la prima nave, e cogli Argonauti trapassato il mare:Audax nimium, qui freta primus
rate tam fragili perfida rupit,
terrasque suas post terga videns,
animam levibus credidit auris;
se a' nostri tempi vien magnificato il Colombo, per esser colui, de chi tanto tempo prima fu pronosticato:
Venient annis
saecula seris, quibus Oceanus
vincula rerum laxet, et ingens
pateat tellus, Tiphysque novos
detegat orbes, nec sit terris
ultima Thule;
che de' farsi di questo, che ha ritrovato il modo di montare al cielo, discorrere la circonferenza de le stelle, lasciarsi a le spalli la convessa superficie del firmamento? Gli Tifi han ritrovato il modo di perturbar la pace altrui, violar i patrii genii de le reggioni, di confondere quel che la provida natura distinse, per il commerzio radoppiar i difetti, e gionger vizii a vizii de l'una e l'altra generazione, con violenza propagar nove follie e piantar l'inaudite pazzie ove non sono, conchiudendosi alfin più saggio quel ch'è più forte; mostrar novi studi, instrumenti ed arte de tirannizar e sassinar l'un l'altro; per mercé de' quai gesti tempo verrà, che, avendono quelli a sue male spese imparato, per forza de la vicissitudine de le cose, sapranno e potranno renderci simili e peggior frutti de sì perniciose invenzioni.
Candida nostri saecula patres
videre procul fraude remota.
sua quisque piger littora tangens,
patrioque senex fractus in arvo
parvo dives, nisi quas tulerat
natale solum, non norat opes.
Bene dissepti foedera mundi
traxit in unum Thessala pimis,
Iussitque pati verbera pontum,
partemque metus fieri nostri
mare sepostum.
Il Nolano, per caggionar effetti al tutto contrarii, ha disciolto l'animo umano e la cognizione, che era rinchiusa ne l'artissimo carcere de l'aria turbulento; onde a pena, come per certi buchi, avea facultà de remirar le lontanissime stelle, e gli erano mozze l'ali, a fin che non volasse ad aprir il velame di queste nuvole e veder quello che veramente là su si ritrovasse, e liberarse da le chimere di quei, che, essendo usciti dal fango e caverne de la terra, quasi Mercuri ed Apollini discesi dal cielo, con moltiforme impostura han ripieno il mondo tutto d'infinite pazzie, bestialità e vizii, come di tante vertù, divinità e discipline, smorzando quel lume, che rendea divini ed eroici gli animi di nostri antichi padri, approvando e confirmando le tenebre caliginose de' sofisti ed asini. Per il che già tanto tempo l'umana raggione oppressa, tal volta nel suo lucido intervallo piangendo la sua sì bassa condizione, alla divina e provida mente, che sempre ne l'interno orecchio li susurra, si rivolge con simili accenti:
Chi salirà per me, madonna, in cielo,
a riportarne il mio perduto ingegno?
Or ecco quello, ch'ha varcato l'aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli margini del mondo, fatte svanir le fantastiche muraglia de le prime, ottave, none, decime ed altre, che vi s'avesser potuto aggiongere, sfere, per relazione de vani matematici e cieco veder di filosofi volgari; cossì al cospetto d'ogni senso e raggione, co' la chiave di solertissima inquisizione aperti que' chiostri de la verità, che da noi aprir si posseano, nudata la ricoperta e velata natura, ha donati gli occhi a le talpe, illuminati i ciechi che non possean fissar gli occhi e mirar l'imagin sua in tanti specchi che da ogni lato gli s'opponeno, sciolta la lingua a' muti che non sapeano e non ardivano esplicar gl'intricati sentimenti, risaldati i zoppi che non valean far quel progresso col spirto che non può far l'ignobile e dissolubile composto, le rende non men presenti che si fussero proprii abitatori del sole, de la luna ed altri nomati astri, dimostra quanto siino simili o dissimili, maggiori o peggiori quei corpi che veggiamo lontano a quello che n'è appresso ed a cui siamo uniti, e n'apre gli occhi a veder questo nume, questa nostra madre, che nel suo dorso ne alimenta e ne nutrisce, dopo averne produtti dal suo grembo, al qual di nuovo sempre ne riaccoglie, e non pensar oltre lei essere un corpo senza alma e vita, ad anche feccia tra le sustanze corporali. A questo modo sappiamo che, si noi fussimo ne la luna o in altre stelle, non sarreimo in loco molto dissimile a questo, e forse in peggiore; come possono esser altri corpi cossì buoni, ed anco megliori per se stessi, e per la maggior felicità de' propri animali. Cossì conoscemo tante stelle, tanti astri, tanti numi, che son quelle tante centenaia de migliaia, ch'assistono al ministerio e contemplazione del primo, universale, infinito ed eterno efficiente. Non è più impriggionata la nostra raggione coi ceppi de' fantastici mobili e motori otto, nove e diece. Conoscemo, che non è ch'un cielo, un'eterea reggione immensa, dove questi magnifici lumi serbano le proprie distanze, per comodità de la participazione de la perpetua vita. Questi fiammeggianti corpi son que' ambasciatori, che annunziano l'eccellenza de la gloria e maestà de Dio. Cossì siamo promossi a scuoprire l'infinito effetto dell'infinita causa, il vero e vivo vestigio de l'infinito vigore; ed abbiamo dottrina di non cercar la divinità rimossa da noi, se l'abbiamo appresso, anzi di dentro, più che noi medesmi siamo dentro a noi; non meno che gli coltori degli altri mondi non la denno cercare appresso di noi, l'avendo appresso e dentro di sé, atteso che non più la luna è cielo a noi, che noi alla luna. Cossì si può tirar a certo meglior proposito quel che disse il Tansillo quasi per certo gioco:
Se non togliete il ben che v'è da presso,
come torrete quel che v'è lontano?
Spreggiar il vostro mi par fallo espresso,
e bramar quel che sta ne l'altrui mano.
Voi sete quel ch'abandonò se stesso,
la sua sembianza desiando in vano:
voi sete il veltro, che nel rio trabocca,
mentre l'ombra desia di quel ch'ha in bocca.
Lasciate l'ombre, ed abbracciate il vero;
non cangiate il presente col futuro.
Io d'aver di meglior già non dispero;
ma, per viver più lieto e più sicuro
godo il presente e del futuro spero:
cossì doppia dolcezza mi procuro.
Con ciò un solo, benché solo, può e potrà vencere, ed al fine arà vinto, e trionfarà contra l'ignoranza generale; e non è dubio se la cosa de' determinarsi, non co' la moltitudine di ciechi e sordi testimoni, di convizii e di parole vane, ma co' la forza di regolato sentimento, il qual bisogna che conchiuda al fine; perché, in fatto, tutti gli orbi non vagliono per uno che vede, e tutti i stolti non possono servire per un savio.
PRU.
Rebus et in censu si non est quod fuit ante,
fac vivas contentus eo, quod tempora praebent.
Iudicium populi nunquam contempseris unus,
ne nulli placeas, dum vis contemnere multos
.TEO. Questo è prudentissimamente detto in proposito del convitto e regimento comone e prattica de la civile conversazione: ma non già in proposito de la cognizione de la verità e regola di contemplazione, per cui disse il medesmo saggio:
Disce, sed a doctis; indoctos ipse doceto.
È anco, quel che tu dici, in proposito di dottrina espediente a molti; e però è conseglio, che riguarda la moltitudine: perché non fa per le spalli di qualsivoglia questa soma, ma per quelli, che possono portarla, come il Nolano; o almeno muoverla verso il suo termine, senza incorrere difficoltà disconveniente, come il Copernico ha possuto fare. Oltre, color ch'hanno la possessione di questa verità, non denno ad ogni sorte di persona comunicarla, si non vogliono lavar, come se dice, il capo a l'asino, se non vuolen vedere quel che san far i porci a le perle, e raccogliere que' frutti del suo studio e fatica, che suole produrre la temeraria e sciocca ignoranza, insieme co' la presunzione ed incivilità, la quale è sua perpetua e fida compagnia. Di que' dunque indotti possiamo esser maestri, e di que' ciechi illuminatori, che non per inabilità di naturale impotenza, o per privazion d'ingegno e disciplina, ma sol per non avvertire e non considerare son chiamati orbi; il che avviene per la privazion de l'atto solo, e non de la facultà ancora. Di questi sono alcuni tanto maligni e scelerati, che per una certa neghittosa invidia si adirano ed inorgogliano contra colui, che par loro voglia insegnare; essendo, come son creduti e, quel ch'è peggio, si credono, dotti e dottori, ardisca mostrar saper quel che essi non sanno. Qua le vederete infocar e rabbiarsi.
FRU. Come avvenne a que' doi dottori barbareschi, de' quali parlaremo; l'un de' quali, non sapendo più che si rispondere e che argumentare, s'alza in piedi in atto di volerla finir con una provisione di adagi d'Erasmo, over coi pugni: cridò: - Quid? nonne Antyciram navigas? Tu ille philosophorum protoplastes, qui nec Ptolomaeo, nec tot tantorumque philosophorum et astronomorum maiestati quippiam concedis? Tu ne nodum in scirpo quaeritas?; - ed altri propositi, degni d'essergli decisi a dosso co' quelle verghe doppie, chiamate bastoni, co' le quali i facchini soglion prender la misura per far i gipponi agli asini.
TEO. Lasciamo questi propositi per ora. Sono alcuni altri, che, per qualche credula pazzia, temendo che per vedere non se guastino, vogliono ostinatamente perseverare ne le tenebre di quello c'hanno una volta malamente appreso. Altri poi sono i felici e ben nati ingegni, verso gli quali nisciuno onorato studio è perso: temerariamente non giudicano, hanno libero l'intelletto, terso il vedere e son prodotti dal cielo, si non inventori, degni però esaminatori, scrutatori, giodici e testimoni de la verità. Di questi ha guadagnato, guadagna e guadagnarà l'assenso e l'amore il Nolano. Questi son que' nobilissimi ingegni, che son capaci d'udirlo e disputar co' lui. Perché in vero nisciuno è degno di contrastargli circa queste materie, che, si non vien contento di consentirgli a fatto, per non esser tanto capace, non gli sottoscriva almeno ne le cose molte, maggiori e principali, e confesse che quello, che non può conoscere per più vero, è certo che sii più verisimile.
PRUD. Sii come la si vuole, io non voglio discostarmi dal parer de gli antichi, perché, dice il saggio, nell'antiquità è la sapienza.
TEO. E soggionge: in molti anni la prudenza. Si voi intendeste bene quel che dite, vedreste, che dal vostro fondamento s'inferisce il contrario di quel che pensate: voglio dire, che noi siamo più vecchi ed abbiamo più lunga età, che i nostri predecessori: intendo, per quel che appartiene in certi giudizii, come in proposito. Non ha possuto essere sì maturo il giodicio d'Eudosso, che visse poco dopo la rinascente astronomia, se pur in esso non rinacque come quello di Calippo, che visse trent'anni dopo la morte d'Alessandro magno; il quale come giunse anni ad anni, possea giongere ancora osservanze ad osservanze. Ipparco, per la medesma raggione, dovea saperne più di Calippo, perché vedde la mutazione fatta sino a centononantasei anni dopo la morte d'Alessandro. Menelao, romano geometra, perché vedde la differenza de moto quatrocentosessantadui anni dopo Alessandro morto, è raggione che n'intendesse più ch'Ipparco. Più ne dovea vedere Macometto Aracense milleducento e dui anni dopo quella. Più n'ha veduto il Copernico quasi a nostri tempi appresso la medesma anni milleottocentoquarantanove. Ma che di questi alcuni, che son stati appresso, non siino però stati più accorti, che quei che furon prima, e che la moltitudine di que' che sono a nostri tempi, non ha però più sale, questo accade per ciò che quelli non vissero, e questi non vivono gli anni altrui, e, quel che è peggio, vissero morti quelli e questi ne gli anni proprii.
PRU. Dite quel che vi piace, tiratela a vostro bel piacer dove vi pare: io sono amico de l'antiquità; e quanto appartiene a le vostre opinioni o paradossi, non credo che sì molti e sì saggi sien stati ignoranti, come pensate voi ed altri amici di novità.
TEO. Bene, maestro Prudenzio; si questa volgare e vostra opinione per tanto è vera in quanto che è antica, certo era falsa quando la fu nova. Prima che fusse questa filosofia conforme al vostro cervello, fu quella degli caldei, egizii, maghi, orfici, pitagorici ed altri di prima memoria, conforme al nostro capo; da' quali prima si ribbellorno questi insensati e vani logici e matematici, nemici non tanto de la antiquità, quanto alieni da la verità. Poniamo dunque da canto la raggione de l'antico e novo, atteso che non è cosa nova che non possa esser vecchia, e non è cosa vecchia che non sii stata nova, come ben notò il vostro Aristotele.
FRU. S'io non parlo, scoppiarò, creparò certo. Avete detto il vostro Aristotele, parlando a mastro Prudenzio. Sapete, come intendo, che Aristotele sii suo, idest lui sii peripatetico? (Di grazia, facciamo questo poco di digressione per modo di parentesi). Come di dui ciechi mendichi a la porta de l'arcivescovato di Napoli l'uno se diceva guelfo e l'altro ghibellino; e con questo si cominciorno sì crudamente a toccar l'un l'altro con que' bastoni ch'aveano, che, si non fussero stati divisi, non so come sarebbe passato il negozio. In questo se gli accosta un uom da bene, e li disse: - Venite qua, tu e tu, orbo mascalzone: che cosa è guelfo? che cosa è ghibellino? che vuol dir esser guelfo ed esser ghibellino? - In verità, l'uno non seppe punto che rispondere, né che dire. L'altro si risolse dicendo: - Il signor Pietro Costanzo, che è mio padrone, ed al quale io voglio molto bene, è un ghibellino. - Cossì a punto molti sono peripatetici, che si adirano, se scaldano e s'imbraggiano per Aristotele, voglion defendere la dottrina d'Aristotele, son inimici de que' che non sono amici d'Aristotele, voglion vivere e morire per Aristotele; i quali non intendono né anche quel che significano i titoli de' libri d'Aristotele. Se volete ch'io ve ne dimostri uno, ecco costui, al quale avete detto il vostro Aristotele, e che a volte a volte ti sfodra un Aristoteles noster, Peripateticorum princeps, un Plato noster, et ultra.
PRU. Io fo poco conto del vostro conto, niente istimo la vostra stima.
TEO. Di grazia, non interrompete più il nostro discorso.
SMI. Seguite, signor Teofilo.
TEO. Notò, dico, il vostro Aristotele, che, come è la vicissitudine de l'altre cose, cossì non meno de le opinioni ed effetti diversi: però tanto è aver riguardo alle filosofie per le loro antiquità, quanto voler decidere se fu prima il giorno o la notte. Quello dunque, al che doviamo fissar l'occhio de la considerazione, è si noi siamo nel giorno, e la luce de la verità è sopra il nostro orizonte, overo in quello degli aversarii nostri antipodi; si siamo noi in tenebre, over essi: ed in conclusione, si noi, che damo principio a rinovar l'antica filosofia, siamo ne la mattina per dar fine a la notte, o pur ne la sera per donar fine al giorno. E questo certamente non è difficile a determinarsi, anco giudicando a la grossa da' frutti de l'una e l'altra specie di contemplazione.
Or veggiamo la differenza tra quelli e questi. Quelli nel viver temperati, ne la medicina esperti, ne la contemplazione giudiziosi, ne la divinazione singolari, ne la magia miracolosi, ne le superstizioni providi, ne le leggi osservanti, ne la moralità irreprensibili, ne la teologia divini, in tutti effetti eroici; come ne mostrano lor prolongate vite, i meno infermi corpi, l'invenzioni altissime, le adempite pronosticazioni, le sustanze per lor opra transformate, il convitto pacifico de que' popoli, gli lor sacramenti inviolabili, l'essecuzioni giustissime, la familiarità de buone e protettrici intelligenze ed i vestigii, ch'ancora durano, de lor maravigliose prodezze. Questi altri contrarii lascio essaminargli al giudizio de chi n'ha.
SMI. Or che direte, se la maggior parte di nostri tempi pensa tutto il contrario, e spezialmente quanto a la dottrìna?
TEO. Non mi maraviglio; perché, come è ordinario, quei che manco intendeno credono saper più, e quei che sono al tutto pazzi, pensano saper tutto.
SMI. Dimmi, in che modo si potran corregger questi?
FRU. Con toglierli via quel capo, e piantargliene un altro.
TEO. Con toglierli via in qualche modo d'argumentazìone quella esistimazion di sapere, e con argute persuasioni spogliarle, quanto si può, di quella stolta opinione, a fin che si rendano uditori; avendo prima avvertito quel che insegna, che siino ingegni capaci ed abili. Questi, secondo l'uso de la scuola pitagorica e nostra, non voglio ch'abbino facultà di esercitar atti de interrogatore o disputante prima ch'abbino udito tutto il corso de la filosofia; perché allora, se la dottrina è perfetta in sé, e da quelli è stata perfettamente intesa, purga tutti i dubii e toglie via tutte le contradizionì. Oltre, s'avviene che ritrove un più polito ingegno, allora quel potrà vedere il tanto, che vi si può aggiongere, togliere, correggere e mutare. Allora potrà conferire questi principìi e queste conclusioni a quelli altri contrarii principii e conclusioni; e cossì raggionevolmente consentire o dissentire, interrogare e rispondere; perché altrimente non è possibile saper, circa una arte o scienza, dubitar ed interrogar a proposito e co' gli ordini che si convengono, se non ha udito prima. Non potrà mai esser buono inquisitore e giodice del caso prima non s'è informato del negocio. Però, dove la dottrina va per i suoi gradi, procedendo da posti e confirmati pricipii e fondamenti a l'edificio e perfezione de cose, che per quella si possono ritrovare, l'auditore deve essere taciturno, e, prima d'aver tutto udito ed inteso, credere che con il progresso de la dottrina cessarranno tutte difficultadi. Altra consuetudine hanno gli Efettici e Pirroni, i quali, facendo professione che cosa alcuna non si possa sapere, sempre vanno dimandando e cercando per non ritrovar giamai. Non meno infelici ingegni son quei, che anco di cose chiarissime vogliono disputare, facendo la maggior perdita di tempo che imaginar si possa; e quei, che per parer dotti e per altre indegne occasioni, non vogliono insegnare, né imparare, ma solamente contendere ed oppugnar il vero.
SMI. Mi occorre un scrupolo circa quel ch'avete detto: che, essendo una innumerabil moltitudine di quei che presumeno di sapere e se stimano degni d'essere costantemente uditi, come vedete che per tutto le università e academie so' piene di questi Aristarchi, che non cederebbono uno zero a l'altitonante Giove; sotto i quali quei che studiano, non aranno al fine guadagnato altro, che esser promossi da non sapere, che è una privazione de la verità, a pensarsi e credersi di sapere, che è una pazzia ed abito di falsità; vedi dunque, che cosa han guadagnato questi uditori: tolti da la ignoranza di semplice negazione son messi in quella di mala disposizione, come la dicono. Ora, chi me farà sicuro, che, facendo io tanto dispendio di tempo e di fatica, e d'occasione di meglior studi ed occupazioni, non mi avvenga quel ch'a la massima parte suole accadere, che, in luogo d'aver comprata la dottrina, non m'abbi infettata la mente di perniziose pazzie? Come io, che non so nulla, potrò conoscere la differenza de dignità ed indignità, de la povertà e ricchezza di que' che si stimano e son stimati savi? Vedo bene, che tutti nascemo ignoranti, credemo facilmente d'essere ignoranti; crescemo, e siamo allevati co' la disciplina e consuetudine di nostra casa, e non meno noi udiamo biasimare le leggi, gli riti, le fede e gli costumi de' nostri adversari ed alieni da noi, che quelli de noi e di cose nostre. Non meno in noi si piantano per forza di certa naturale nutritura le radici del zelo di cose nostre, che in quelli altri molti e diversi de le sue. Quindi facilmente ha possuto porsi in consuetudine, che i nostri stimino far un sacrificio a gli dèi, quando arranno oppressi, uccisi, debellati e sassinati gli nemici de la fé nostra; non meno che quelli altri tutti, quando arran fatto il simile a noi. E non con minor fervore e persuasione di certezza quelli ringraziano Idio d'aver quel lume, per il quale si prometteno eterna vita, che noi rendiamo grazie di non essere in quella cecità e tenebre, ch'essi sono. A queste persuasioni di religione e fede s'aggiongono le persuasioni de scienze. Io, o per elezione di quei che me governaro, padri e pedagoghi, o per mio capriccio e fantasia, o per fama d'un dottore, non men con satisfazione de l'animo mio, mi stimarò aver guadagnato sotto l'arrogante e fortunata ignoranza d'un cavallo, che qualsivoglia altro sotto un meno ignorante o pur dotto. Non sai quanta forza abbia la consuetudine di credere, ed esser nodrito da fanciullezza in certe persuasioni, ad impedirne da l'intelligenza de cose manifestissime; non altrimente ch'accader suole a quei che sono avezzati a mangiar veleno, la complession de' quali al fine non solamente non ne sente oltraggio, ma ancora se l'ha convertito in nutrimento naturale, di sorte che l'antidoto istesso gli è dovenuto mortifero? Or dimmi, con quale arte ti conciliarai queste orecchie più tosto tu ch'un altro, essendo che ne l'animo di quello è forse meno inclinazione ad attendere le tue proposizioni, che quelle di mill'altri diverse?
TEO. Questo è dono de gli dèi, se ti guidano e dispensano le sorte da farte venir a l'incontro un uomo, che non tanto abbia l'esistimazion di vera guida, quanto in verità sii tale, ed illuminano l'interno tuo spirto al far elezione de quel ch'è megliore.
SMI. Però comunemente si va appresso al giudizio comone, a fin che, se si fa errore, quello non sarà senza gran favore e compagnia.
TEO. Pensiero indegnissimo d'un uomo! Per questo gli uomini savii e divini son assai pochi; e la volontà di dèi è questa, atteso che non è stimato né prezioso quel tanto ch'è comone e generale.
SMI. Credo bene, che la verità è conosciuta da pochi, e le cose preggiate son possedute da pochissimi; ma mi confonde che molte cose son, poche tra pochi, e forse appresso un solo, che non denno esser stimate, non vaglion nulla e possono esser maggior pazzie e vizii.
TEO. Bene, ma in fine è più sicuro cercar il vero e conveniente fuor de la moltitudine, perché questa mai apportò cosa preziosa e degna, e sempre tra pochi si trovorno le cose di perfezione e preggio. Le quali, se fusser solo ad esser rare ed appresso rari, ognuno, benché non le sapesse ritrovare, almeno le potrebbe conoscere; e cossì non sarebbono tanto preziose per via di cognizione, ma di possessione solamente.
SMI. Lasciamo dunque questi discorsi, e stiamo un poco ad udire ed osservare i pensieri del Nolano. È pure assai, che sin ora s'abbia conciliato tanta fede, ch'è stimato degno d'essere udito.
TEO. A lui basta ben questo. Or attendete quanto la sua filosofia sii forte a conservarsi, defendersi, scuoprir la vanità e far aperte le fallacie de' sofisti e cecità del volgo e volgar filosofia.
SMI. A questo fine, per essere ora notte, tornaremo domani qua a l'ora medesma, e faremo considerazione sopra gli rancontri e dottrina del Nolano.
PRU. Sat prata biberunt; nam iam nox humida caelo praecipitat.
FINE DEL PRIMO DIALOGO
DIALOGO SECONDO
TEO. Allora gli disse il signor Folco Grivello: - Di grazia, signor Nolano, fatemi intendere le raggíoni, per le quali stimate la terra muoversi. - A cui rispose, che lui non gli arebbe possuto donar raggione alcuna, non conoscendo la sua capacità; e non sapendo come potesse da lui essere inteso, temerebbe far come quei, che dicono le sue raggioni a le statue e andano a parlare cogli morti. Pertanto gli piaccia prima farsi conoscere con proponere quelle raggioni, che gli persuadeno il contrario; perché, secondo il lume e forza de l'ingegno, che lui dimostrarà apportando quelle, gli potranno esser date risoluzioni. Aggiunse a questo, che per desiderio, che tiene, di mostrar la imbecillità di contrari pareri per i medesmi principii, co' quali pensano esser confirmati, se gli farebbe non mediocre piacere di ritrovar persone, le quali fussero giudicate sufficiente a questa impresa; e lui sarebbe sempre apparecchiato e pronto al rispondere. Con questo modo si potesse veder la virtù de' fondamenti di questa sua filosofia contra la volgare tanto megliormente, quanto maggior occasione gli verrebe presentata di rispondere e dechiarare.
Molto piacque al signor Folco questa risposta. Disse: - Voi mi fate gratissimo officio; accetto la vostra proposta e voglio determinare un giorno, nel quale ve si opporranno persone, che forse non vi faran mancar materia di produr le vostre cose in campo. Mercoldì ad otto giorni, che sarà de le ceneri, sarete convitato con molti gentilomini e dotti personaggi, a fin che, dopo mangiare, si faccia discussione di belle e varie cose. Vi prometto - disse il Nolano - ch'io non mancarò d'esser presente allora e tutte volte che si presentarà simile occasione; perché non è gran cosa sotto la mia elezione, che mi ritarde dal studio di voler intendere e sapere. Ma, vi priego, che non mi fate venir innanzi persone ignobili, mal create e poco intendenti in simile speculazioni. (E certo ebbe raggione di dubitare, perché molti dottori di questa patria, coi quali ha raggionato di lettere, ha trovato nel modo di procedere aver più del bifolco, che d'altro che si potesse desiderare.) Rispose il signor Folco, che non dubitasse; perché quelli, che lui propone, son morigeratissimi e dottissimi. Cossì fu conchiuso. Or, essendo venuto il giorno determinato, aggiutatemi, Muse, a raccontare!
PRU. Apostrophe, pathos, invocatio, poetarum more.
SMI. Ascoltate, vi priego, maestro Prudenzìo.
PRU. Lubentissime.
TEO. Il Nolano, avendo aspettato sin dopo pranso e non avendo nuova alcuna, stimò quello gentiluomo per altre occupazioni aver posto in oblio, o men possuto proveder al negocio. E, sciolto da quel pensiero, andò a rimenarsi, e visitar alcuni amici italiani; e ritornando al tardi, dopo il tramontar del sole...
PRU. Già il rutilante Febo, avendo volto al nostro emisfero il tergo, con il radiante capo ad illustrar gli antipodi sen giva.
FRU. Di grazia, magister, raccontate voi, perché il vostro modo di recitare mi sodisfa mirabilmente.
PRU. Oh s'io sapessi l'istoria!
FRU. Or tacete dunque, in nome del vostro diavolo.
TEO. La sera al tardi, gionto a casa, ritrova avanti la porta messer Florìo e maestro Guin; i quali s'erano molto travagliati in cercarlo, e, quando il veddero venire: - O, di grazia, - dissero - presto, senza dimora andiamo, ché vi aspettano tanti cavallieri, gentilomini e dottori, e tra gli altri ve n'è un di quelli ch'hanno a disputare, il quale è di vostro cognome. Noi dunque - disse il Nolano - non ne potremo far male. Sin adesso una cosa m'è venuta in fallo, ch'io sperava di far questo negocio a lume di sole, e veggio che si disputarà a lume di candela. - Iscusò maestro Guin per alcuni cavallieri, che desideravano esser presenti: non han possuto essere al desinare, e son venuti a la cena. Orsù, - disse il Nolano - andiamo e preghiamo Dio, che ne faccia accompagnare in questa sera oscura, a sì lungo camino, per sì poco sicure strade.
Or, benché fussemo ne la strada diritta, pensando di far meglio, per accortar il camino, divertimmo verso il fiume Tamesi, per ritrovar un battello, che ne conducesse verso il palazzo. Giunsemo al ponte de palazzo del milord Beuckhurst; e quinci, cridando e chiamando oares (idest gondolieri), passammo tanto tempo, quanto arrebbe bastato a bell'agio di condurne per terra al loco determinato, ed avere spedito ancora qualche piccolo negozio. Risposero al fine da lungi dui barcaroli; e pian pianino, come venessero ad appiccarsi, giunsero a la riva; dove, dopo molte interrogazioni e risposte del donde, dove, e perché, e come, e quanto, approssimorno la proda a l'ultimo scalino del ponte. Ed ecco di dui, che v'erano, un, che pareva il nocchier antico del tartareo regno, porse la mano al Nolano, e un altro, che penso ch'era il figlio di quello, benché fusse uomo di sessantacinque anni in circa, accolse noi altri appresso. Ed ecco che, senza che qui fusse entrato un Ercole, un Enea, over un re di Sarza, Rodomonte,
gemuit sub pondere cymba
sutilis, et multam accepit limosa paludem.
Udendo questa musica, il Nolano: - Piaccia a Dio, - disse, - che questo non sii Caronte; credo, che questa è quella barca chiamata l'emula de la lux perpetua: questa può sicuramente competere in antiquità con l'arca di Noè e per mia fé, per certo, par una de le reliquie del diluvio. - Le parti di questa barca ti rispondevano ovonque la toccassi, e per ogni minimo moto risuonavano per tutto. - Or credo, - disse il Nolano, - non esser favola che le muraglia, si ben mi ricordo, di Tebe erano vocali, e che talvolta cantavano a raggion di musica. Si nol credete, ascoltate gli accenti di questa barca, che ne sembra tanti pifferi con que' fischi, che fanno udir le onde, quando entrano per le sue fessure e rime d'ogni canto. - Noi risemo, ma Dio sa come.
... Annibal, quando a l'imperio afflitto
vedde farsi fortuna sì molesta,
rise tra gente lacrimosa e mesta.
PRU. Risus Sardonicus.
TEO. Noi, invitati sì da quella dolce armonia, come da amor gli sdegni, i tempi e le staggioni, accompagnammo i suoni con i canti. Messer Florio, come ricordandosi de' suoi amori, cantava il "Dove, senza me, dolce mia vita". Il Nolano ripigliava: "Il Saracin dolente, o femenil ingegno", e va discorrendo. Cossì a poco a poco, per quanto ne permettea la barca, che (benché dalle tarle ed il tempo fusse ridutta a tale, ch'arrebe possuto servir per subero) parea col suo festina lente tutta di piombo, e le braccia di que' dua vecchi rotte; i quali, benché col rimenar de la persona mostrassero la misura lunga, nulla di meno coi remi faceano i passi corti.
PRU. Optime descriptum illud "festina" con il dorso frettoloso di marinai; "lente ' col profitto de' remi, qual mali operarii del dio de gli orti.
TEO. A questo modo, avanzando molto di tempo e poco di camino, non avendo già fatta la terza parte del viaggio, poco oltre il loco, che si chiama il Tempio, ecco che i nostri patrini, invece d'affrettarsi, accostano la proda verso il lido. Dimanda il Nolano: - Che voglion far costoro? voglion forse riprendere un po' di fiato? - E gli venne interpretato, che quei non erano per passar oltre; perché quivi era la lor stanza. Priega e ripriega, ma tanto peggio; perché questa è una specie de rustici, nel petto de' quali spunta tutti i sui strali il dio d'amor del popolo villano.
PRU. Principio omni rusticorum generi hoc est a natura tributum, ut nihil virtutis amore faciant, et vix quicquam formidine poenae.
FRU. È un altro proverbio anco in proposito di ciaschedun villano:
Rogatus tumet,
pulsatus rogat,
pugnis concisus adorat.
TEO. In conclusione, ne gittarono là; e dopo pagategli e resegli le grazie (perché in questo loco non si può far altro, quando se riceve un torto da simil canaglia), ne mostrorno il diritto camino per uscire a la strada. Or qua te voglio, dolce Mafelina, che sei la musa di Merlin Cocaio. Questo era un camino, che cominciò da una buazza, la quale né per ordinario, né per fortuna, avea divertiglio. Il Nolano, il quale ha studiato ed ha pratticato ne le scuole più che noi, disse: - Mi par veder un porco passaggio; però seguitate a me. - Ed ecco, non avea finito quel dire, che vien piantato lui in quella fanga di sorte, che non possea ritrarne fuora le gambe; e cossì, aggiutando l'un l'altro, vi dammo per mezzo, sperando che questo purgatorio durasse poco. Ma ecco che, per sorte iniqua e dura, lui e noi, noi e lui ne ritrovammo ingolfati dentro un limoso varco, il qual, come fusse l'orto de la gelosia, o il giardin de le delizie, era terminato quinci e quindi da buone muraglia; e perché non era luce alcuna che ne guidasse, non sapeamo far differenza dal camino ch'aveam fatto e quello che doveam fare, sperando ad ogni passo il fine: sempre spaccando il liquido limo, penetravamo sin alla misura delle ginocchia verso il profondo e tenebroso Averno. Qua l'uno non possea dar conseglio a l'altro; non sapevam che dire, ma con un muto silenzio chi sibilava per rabbia, chi faceva un bisbiglio, chi sbruffava co' le labbia, chi gittava un suspiro e si fermava un poco, chi sotto lengua bestemmiava; e perché gli occhi non ne serveano, i piedi faceano la scorta ai piedi, un cieco era confuso in far più guida a l'altro. Tanto che,
Qual uom, che giace e piange lungamente
sul duro letto il pigro andar de l'ore,
or pietre, or carme, or polve, ed or liquore
spera, ch'uccida il grave mal, che sente:
ma, poi ch'a lungo andar vede il dolente,
ch'ogni rimedio è vinto dal dolore,
disperando s'acqueta; e, se ben more,
sdegna ch'a sua salute altro si tente;
cossì noi, dopo aver tentato e ritentato, e non vedendo rimedio al nostro male, desperati, senza più studiar e beccarsi il cervello in vano, risoluti ne andavamo a guazzo a guazzo per l'alto mar di quella liquida bua, che col suo lento flusso andava del profondo Tamesi a le sponde.
PRU. O bella clausola!
TEO. Tolta ciascun di noi la risoluzione del tragico cieco d'Epicuro:
Dov'il fatal destin mi guida cieco,
lasciami andar, e dove il piè mi porta;
né per pietà di me venir più meco.
Trovarò forse un fosso, un speco, un sasso
piatoso a trarmi fuor di tanta guerra,
precipitando in loco cavo e basso;
ma, per la grazia degli Dei (perché, come dice Aristotele, non datur infinitum in actu), senza incorrer peggior male, ne ritrovammo al fine ad un pantano; il quale, benché ancor lui fusse avaro d'un poco di margine per darne la strada, pure ne relevò con trattarci più cortesemente, non inceppando oltre i nostri piedi; sin tanto che, montando noi più alto per il sentiero, ne rese a la cortesia d'una lava, la quale da un canto lasciava un sì petroso spazio per porre i piedi in secco, che passo passo ne fe' cespitar come ubriachi, non senza pericolo di romperne qualche testa o gamba.
PRU. Conclusio, conclusio!
TEO. In conclusione, tandem laeta arva tenemus: ne parve essere ai campi Elisii, essendo arrivati a la grande ed ordinaria strada; e quivi da la forma del sito, considerando dove ne avesse condotti quel maladetto divertiglio, ecco che ne ritrovammo poco più o meno di vintidui passi discosti da onde eravamo partiti per ritrovar gli barcaroli, e vicino a la stanza del Nolano. O varie dialettiche, o nodosi dubii, o importuni sofismi, o cavillose capzioni, o scuri enigmi, o intricati laberinti, o indiavolate sfinge, risolvetevi, o fatevi risolvere.
In questo bivio, in questo dubbio passo,
che debbo far, che debbo dir, ahi, lasso?
Da qua ne richiamava il nostro allogiamento; perché ne avea sì fattamente imbottati maestro Buazzo e maestro Pantano, ch'a pena posseamo movere le gambe. Oltre, la regola de la odomantia e l'ordinario de gli augurii importunamente ne consegliavano a non seguitar quel viaggio. Li astri, per esserno tutti ricoperti sotto l'oscuro e tenebroso manto, e lasciandoci l'aria caliginoso, ne forzavano al ritorno. Il tempo ne dissuadeva l'andar sì lungi avante, ed essortava a tornar quel pochettino a dietro. Il loco vicino applaudeva benignamente. L'occasione, la quale con una mano ci avea risospinti sin qua, adesso con dui più forti pulsi facea il maggior empito del mondo. La stanchezza alfine, non meno ch'una pietra da l'intrinseco principio e natura è mossa verso il centro, ne mostrava il medesmo camino e ne fea inchinar verso la destra.
Da l'altro canto ne chiamavano le tante fatiche, travagli e disaggi, i quali sarrebono stati spesi invano. Ma il vermine de la conscienza diceva: se questo poco di camino n'ha costato tanto, che non è vinticinque passi, che sarà di tanta strada che ne resta? Mejor es perder que mas perder. Da là ne invitava il desio comone, ch'aveamo, di non defraudar la espettazione di que' cavallieri e nobili personaggi; dall'altro canto rispondeva il crudo rimorso, che quelli, non avendo avuto cura, né pensiero di mandar cavallo o battello a gentiluomini in questo tempo, ora ed occasione, non farebbono ancora scrupolo del nostro non andare. Da là eravamo accusati per poco cortesi al fine, o per uomini che van troppo sul pontiglio, che misurano le cose dai meriti ed uffici, e fan professione più di ricever cortesia che di farne, e come villani ed ignobili voler più tosto esser vinti in quella che vencere; da qua eravamo iscusati, ché dove è forza non è raggione. Da là ne attraea il particolare interesse del Nolano, ch'avea promesso, e che gli arrebono possuto attaccar a dosso un non so che; oltre c'ha lui gran desio, che se gli offra occasione di veder costumi, conoscere gl'ingegni, accorgersi, si sia possibile, di qualche nova verità, confirmar il buono abito de la cognizione, accorgersi di cosa che gli manca. Da qua eramo ritardati dal tedio comone e da non so che spirto, che diceva certe raggioni più vere, che degne a referire. A chi tocca determinar questa contradizione? chi ha da trionfar di questo libero arbitrio? a chi consentisce la raggione? che ha determinato il fato? Ecco questo fato, per mezzo de la raggione, aprendo la porta de l'intelletto, si fa dentro, e comanda a l'elezione, che ispedisca il consentimento di continuar il viaggio. O passi graviora, ne vien detto, o pusillanimi, o leggeri, incostanti ed uomini di poco spirto....
PRU. Exaggeratio concinna!
TEO. …non è, non è impossibile, benché sii difficile, questa impresa. La difficoltà è quella, ch'è ordinata a far star a dietro gli poltroni. Le cose ordinarie e facili son per il volgo ed ordinaria gente; gli uomini rari, eroichi e divini passano per questo camino de la difficoltà, a fine che sii costretta la necessità a concedergli la palma de la immortalità. Giungesi a questo che, quantunque non sia possibile arrivar al termine di guadagnar il palio, correte pure e fate il vostro sforzo in una cosa de sì fatta importanza, e resistete sin a l'ultimo spirto. Non sol chi vence vien lodato, ma anco chi non muore da codardo e poltrone: questo rigetta la colpa de la sua perdita e morte in dosso de la sorte, e mostra al mondo che non per suo difetto, ma per torto di fortuna è gionto a termine tale. Non solo è degno di onore quell'uno ch'ha meritato il palio, ma ancor quello e quell'altro c'ha sì ben corso, ch'è giudicato anco degno e sufficiente de l'aver meritato, benché non l'abbia vinto. E son vituperosi quelli, ch'al mezzo de la carriera, desperati, si fermano, e non vanno, ancor che ultimi, a toccar il termine con quella lena e vigor che gli è possibile. Venca dunque la perseveranza, perché, se la fatica è tanta, il premio non sarà mediocre. Tutte cose preziose son poste nel difficile. Stretta e spinosa è la via de la beatitudine; gran cosa forse ne promette il cielo:
Pater ipse colendi
haud facilem esse viam voluit, primusque per artem
movit agros, curis acuens mortalia corda,
nec torpere gravi passus sua regna veterno.
PRU. Questo è un molto enfatico progresso, che converrebe a una materia di più grande importanza.
FRU. È lecito, ed è in potestà di principi, de essaltar le cose basse; le quali, se essi farran tali, saran giudicate degne, e veramente saran degne; e in questo gli atti loro son più illustri e notabili, che si aggrandissero i grandi, perché non è cosa, che non credeno meritar per la sua grandezza; overo che si mantenessero i superiori ne la sua superiorità, perché diranno, quello convenirgli non per grazia, cortesia e magnanimità di principe, ma per giusticia e raggione. Cossì non essaltano per ordinario degni e virtuosi, perché gli pare che quelli non hanno occasione di rendergli tante grazie, quante un aggrandito poltrone e feccia di forfanti. Oltre, hanno questa prudenza, per far conoscere che la fortuna, alla cui cieca maestà son obligati molto, è superiore a la virtù. Se tal volta esaltano un uom da bene ed onorato tra quelli, di rado li faran tener quel grado, nel quale non se gli prepona un tale, che gli faccia conoscere, quanto l'autorità vale sopra i meriti, e che i meriti non vagliono, se non quanto quella permette e dispensa. Or vedete con qual similitudine potrete intendere, perché Teofilo essaggere tanto questa materia: la qual, quantunque rozza vi paia, è pur altra cosa ch'esaltar la salza, l'orticello, il culice, la mosca, la noce e cose simili, con gli antichi scrittori; e con que' di nostri tempi, il palo, la stecca, il ventaglio, la radice, la gniffeguerra, la candela, il scaldaletto, il fico, la quintana, il circello, ed altre cose, che non solo son stimate ignobili, ma son anco molte di quelle stomacose. Ma si tratta dell'andar a ritrovar tra gli altri un par di suppositi, che portan seco tal significazione, che certo gran cosa ne promette il cielo. Non sapete che quando il figlio di Cis, chiamato Saul, andava cercando gli asini, fu in punto d'esser stimato degno ed esser ordinato re del popolo israelita? Andate, andate a leggere il primo libro di Samuele; e vi vedrete, che quel gentil personaggio tuttavia fea più conto di trovar gli asini, che d'esser onto re. Anzi par che non si contentava del regno, se non trovava gli asini. Onde, tutte volte che Samuele gli parlava di coronarlo, lui rispondeva: - E dove son gli asini? gli asini dove sono? Mio padre m'ha inviato a ritrovar gli asini, e non volete voi ch'io ritrove gli miei asini? - In conclusione, non si quietò mai, sin tanto che non gli disse il profeta, che gli asini eran trovati; volendo accennar forse ch'avea quel regno, per cui possea contentarsi, che valeva per gli suoi asini, e d'avantaggio ancora. Ecco dunque come alle volte tal cosa si è andata cercando, che quel cercare è stato presagio di regno.
Gran cosa dunque ne promette il cielo. Or séguita, Teofilo, il tuo discorso. Narra i successi di questo cercare, che facea il Nolano; fanne udire il restante dei casi di questo viaggio.
PRU. Bene est, pro bene est, prosequere, Theophile.
SMI Ispedite presto, perché s'accosta l'ora d'andar a cena. Dite brevemente quel che vi occorse dopo che vi risolveste di seguitar più tosto il lungo e fastidioso camino che ritornar a casa.
TEO. Alza i vanni, Teofilo, e ponti in ordine, e sappi ch'al presente non s'offre occasione di apportar de le più alte cose del mondo. Non hai qua materia di parlar di quel nume de la terra, di quella singolare e rarissima Dama, che da questo freddo cielo, vicino a l'artico parallelo, a tutto il terrestre globo rende sì chiaro lume: Elizabetta dico, che per titolo e dignità regia non è inferiore a qualsivoglia re, che sii nel mondo; per il giodicio, saggezza, conseglio e governo, non è facilmente seconda ad altro, che porti scettro in terra: ne la cognizione de le arti, notizia de le scienze, intelligenza e prattica de tutte lingue, che da persone popolari e dotte possono in Europa parlarsi, lascio al mondo tutto giudicare qual grado lei tenga tra tutti gli altri principi. Certo, se l'imperio de la fortuna corrispondesse e fusse agguagliato a l'imperio del generosissimo spirto ed ingegno, bisognerebbe che questa grande Amfitrite aprisse le sue fimbrie, ed allargasse tanto la sua circonferenza, che sì come gli comprende una Britannia ed Ibernia, gli desse un altro globo intiero, che venesse ad uguagliarsi a la mole universale, onde con più piena significazione la sua potente mano sustente il globo d'una generale ed intiera monarchia.
Non hai materia di parlar di tanto maturo, discreto e provido conseglio, con il quale quell'animo eroico, già vinticinque anni e più, col cenno de gli occhi suoi, nel centro de le borasche d'un mare d'adversità, ha fatto trionfar la pace e la quiete, mantenutasi salda in tanto gagliardi flutti e tumide onde di sì varie tempeste; con le quali a tutta possa gli ha fatto impeto quest'orgoglioso e pazzo Oceano, che da tutti contorni la circonda. Quivi, bench'io come particolare non le conosca, né abbia pensiero di conoscerli, odo tanto nominar gl'illustrissimi ed eccellentissimi cavallieri, un gran tesorier del regno, e Roberto Dudleo, Conte di Licestra; la generosissima umanità di quali è tanto conosciuta dal mondo, nominata insieme con la fama della Regina e regno, tanto predicata ne le vicine provinze, come quella ch'accoglie con particolar favore ogni sorte di forastiero, che non si rende al tutto incapace di grazia ed ossequio. Questi, insieme co' l'eccellentissimo signor Francesco Walsingame, gran secretario del Regio Conseglio, come quelli che siedono vicini al sole del regio splendore, con la luce de la lor gran civiltade son sufficienti a spengere ed annullar l'oscurità, e con il caldo de l'amorevol cortesia desrozzir e purgare qualsivoglia rudezza e rusticità, che ritrovar si possa non solo tra brittanni, ma anco tra sciti, arabi, tartari, canibali ed antropofagi. Non ti viene a proposito di referire l'onesta conversazione, civilità e buona creanza di molti cavallieri e molto nobili personaggi del regno, tra' quali è tanto conosciuto ed a noi particolarissimamente, per fama prima, quando eravamo in Milano ed in Francia, e poi per esperienza, or che siamo ne la sua patria, manifesto, il molto illustre ed eccellente cavalliero, signor Filippo Sidneo; di cui il tersissimo ingegno, oltre i lodatissimi costumi, è sì raro e singolare, che difficilmente tra' singolarissimi e rarissimi, tanto fuori quanto dentro Italia, ne trovarete un simile.
Ma, a proposito, importunissimamente ne si mette avanti gli occhi una gran parte de la plebe; la quale è una sì fatta sentina che, se non fusse ben ben suppressa da gli altri, mandarebbe tal puzza e sì mal fumo, che verrebbe ad offuscar tanto il nome di tutta la plebe intiera, che potrebe vantarsi l'Inghilterra d'aver una plebe, la quale in essere irrespettevole, incivile, rozza, rustica, salvatica e male allevata non cede ad altra, che pascer possa la terra nel suo seno. Or, messi da canto molti soggetti, che sono in quella degni di qualsivoglia onore, grado e nobiltà, eccovi proposta avanti gli occhi un'altra parte, che, quando vede un forastiero, sembra, per Dio, tanti lupi, tanti orsi, che con suo torvo aspetto gli fanno quel viso, che saprebe far un porco ad un che venesse a torgli il tinello d'avanti. Questa ignobilissima porzione, per quanto appartiene al proposito, è divisa in due specie;…
PRU. Omnis diviso debet esse bimembris, vel reducibilis ad bimembrem.
TEO. …de quali l'una è de arteggiani e bottegari, che, conoscendoti in qualche foggia forastiero, ti torceno il musso, ti ridono, ti ghignano, ti petteggiano co' la bocca, ti chiamano, in suo lenguaggio, cane, traditore, straniero; e questo appresso loro è un titolo ingiuriosissimo, e che rende il supposito capace a ricevere tutti i torti del mondo, sia pur quanto si voglia uomo giovane o vecchio, togato o armato, nobile o gentiluomo. Or qua, se per mala sorte ti vien fatto che prendi occasione di toccarne uno, o porre mano a l'armi, ecco in un punto ti vedrai, quanto è lunga la strada, in mezzo d'uno esercito di coteconi; i quali più di repente che, come fingono i poeti, da' denti del drago seminati per Iasone risorsero tanti uomini armati, par che sbuchino da la terra, ma certissimamente esceno da le botteghe; e facendo una onoratissima e gentilissima prospettiva de una selva de bastoni, pertiche lunghe, alebarde, partesane e forche rugginenti (le quali, benché ad ottimo uso gli siano state concesse dal prencipe, per questa e simili occasioni han sempre apparecchiate e pronte); cossì con una rustica furia te le vedrai avventar sopra, senza guardare a chi, perché, dove e come, senza ch'un se ne referisca a l'altro: ognuno sfogando quel sdegno naturale c'ha contra il forastiero, ti verrà di sua propria mano (se non sarà impedito da la calca de gli altri, che poneno in effetto simil pensiero) e con la sua propria verga, a prendere la misura del saio; e se non sarai cauto, a saldarti ancora il cappello in testa. E se per caso vi fusse presente qualch'uomo da bene, o gentiluomo, al quale simil villania dispiaccia, quello, ancor che fusse il conte o il duca, dubitando, con suo danno, senza tuo profitto, d'esserti compagno (perché questi non hanno rispetto a persona, quando si veggono in questa foggia armati), sarà forzato a rodersi dentro ed aspettar, stando discosto, il fine. Or, al tandem, quando pensi che ti sii lecito d'andar a trovar il barbiero, e riposar il stanco e mal trattato busto, ecco che trovarai quelli medesimi esser tanti birri e zaffi, i quali, se potran fengere che tu abbi tocco alcuno, potreste aver la schena e gambe quanto si voglia rotte, come avessi gli talari di Mercurio, o fussi montato sopra il cavallo Pegaseo, o premessi la schena al destrier di Perseo, o cavalcassi l'ippogrifo d'Astolfo, o ti menasse il dromedario di Madian, o ti trottasse sotto una delle ciraffe degli tre Magi, a forza di bussate ti faran correre, aggiutandoti ad andar avanti con que' fieri pugni, che meglio sarrebe per te fussero tanti calci di bue, d'asino o di mulo: non ti lasciaranno mai, sin tanto che non t'abbiano ficcato dentro una priggione; e qua, me tibi comendo.
PRU. A fulgure et tempestate, ab ira et indignatione, malitia, tentatione et furia rusticorum…
FRU. … libera nos, domine.
TEO. Oltre a questi s'aggionge l'ordine di servitori. Non parlo de quelli de la prima cotta, i quali son gentiluomini de' baroni, e per ordinario non portano impresa o marca, se non o per troppa ambizione de gli uni, o per soverchia adulazion de gli altri: tra questi se ritrova civilità.
PRU. Omnis regula exceptionem patitur.
TEO. Ma, eccettuando però di tutte specie alcuni, che vi posson essere men capaci di tal censura, parlo de le altre specie di servitori; de' quali altri sono de la seconda cotta; e questi tutti portano la marca affibbiata a dosso. Altri sono de la terza cotta, li padroni de' quali non son tanto grandi, che li convegna dar marca a' servitori, o pur essi son stimati indegni ed incapaci di portarla. Altri sono de la quarta cotta, e questi siegueno gli marcati e non marcati, e son servi de' servi.
PRU. Servus servorum non est malus titulus usquequaque.
TEO. Quelli de la prima cotta son i poveri e bisognosi gentiluomini, li quali, per dissegno di robba o di favore, se riducono sotto l'ali di maggiori; e questi per il più non son tolti da sua casa, e senza indignità seguitano i sui milordi, son stimati e fauriti da quelli. Quelli de la seconda cotta sono de' mercantuzzi falliti o arteggiani, o quelli che senza profitto han studiato a leggere scrivere, o altra arte; e questi son tolti o fuggiti da qualche scuola, fundaco o bottega. Quelli de la terza cotta son que' poltroni, che, per fuggir maggior fatica, han lasciato più libero mestiero; e questi o son poltroni acquatici, tolti da' battelli; o son poltroni terrestri, tolti dagli aratri. Gli ultimi, de la quarta cotta, sono una mescuglia di desperati, di disgraziati da' lor padroni, de fuorusciti da tempeste, de pelegrini, de disutili ed inerti, di que' che non han più comodità di rubbare, di que' che frescamente son scampati di priggione, di quelli che han disegno d'ingannar qualcuno, che le viene a tôrre da là. E questi son tolti da le colonne de la Borsa e da la porta di San Paolo. De simili, se ne vuoi a Parigi, ne trovarai quanti ti piace a la porta del Palazzo; in Napoli, a le grade di San Paolo; in Venezia, a Rialto; in Roma, al Campo di Flora. De le tre ultime specie sono quei, che, per mostrar quanto siino potenti in casa sua, e che sono persone di buon stomaco, son buoni soldati e hanno a dispreggio il mondo tutto: ad uno che non fa mina di volergli dar la piazza larga, gli donaranno con la spalla, come con un sprone di galera, una spinta, che lo faran voltar tutto ritondo, facendogli veder quanto siino forti, robusti e possenti, e ad un bisogno buoni per rompere un'armata. E se costui, che se farà incontro sarà un forastiero, dònigli pur quanto si voglia di piazza, che vuole per ogni modo che sappia quanto san far il Cesare, l'Anniballe, l'Ettore ed un bue che urta ancora. Non fanno solamente come l'asino, il quale, massimamente quando è carco, si contenta del suo dritto camino per il filo; d'onde, se tu non ti muovi, non si muoverà anco lui, e converrà che o tu a esso, o esso a te doni la scossa; ma fanno cossì questi che portan l'acqua, che se tu non stai in cervello, ti farran sentir la punta di quel naso di ferro che sta a la bocca de la giarra.
Cossì fanno ancora color che portan birra ed ala; i quali, facendo il corso suo, se per sua inavertenza te si avventaranno sopra, te faran sentire l'émpito de la carca che portano, e che non solamente son possenti a portar su le spalli, ma ancora a buttar una casa innante e tirar, se fusse un carro, ancora. Questi particolari per l'autorità, che tegnono in quel caso che portano la soma, son degni d'escusazione, perché hanno più del cavallo, mulo ed asino che de l'uomo; ma accuso tutti gli altri, li quali hanno un pochettino del razionale, e sono, più che gli predetti, ad imagine e similitudine de l'uomo: ed in luoco di donarte il buon giorno o buona sera, dopo averti fatto un grazioso volto, come ti conoscessero e ti volessero salutare, ti verranno a donar una scossa bestiale. Accuso, dico, quell'altri, i quali talvolta fingendo di fuggire, o voler perseguitare alcuno, o correre a qualche negocio necessario, se spiccano da dentro una bottega; e con quella furia ti verranno da dietro o da costa a donar quella spinta che può donar un toro quando è stizzato, come pochi mesi fa accadde ad un povero messer Alessandro Citolino; al quale, in cotal modo, con riso e piacer di tutta la piazza, fu rotto e fracassato un braccio, al che volendo poi provedere il magistrato, non trovò manco che tal cosa avesse possuto accadere in quella piazza. Sì che, quando ti piace uscir di casa, guarda prima di farlo senza urgente occasione, che non pensassi come di voler andar per la città a spasso. Poi sègnati col segno de la santa croce, àrmati di una corazza di pazienza, che possa stare a prova d'archibugio, e disponeti sempre a comportar il manco male liberamente, se non vuoi comportar il peggio per forza. Ma di che devi lamentarti, ahi lasso? Ti par ignobiltà l'essere un animale urtativo? Non ti ricordi, Nolano, di quel ch'è scritto nel tuo libro intitolato L'arca di Noè? Ivi, mentre si dovean disponere questi animali per ordine, e doveasi terminar la lite nata per le precedenze, in quanto pericolo è stato l'asino di perdere la preeminenza, che consistea nel seder in poppa de l'arca, per essere un animal più tosto di calci che di urti? Per quali animali si rapresenta la nobiltà del geno umano nell'orrido giorno del giudizio, eccetto che per gli agnelli e gli capretti? Or questi son que' virili, intrepidi ed animosi, de' quali gli uni da gli altri non saran divisi, come oves ab haedis; ma, qual più venerandi, feroci ed urtativi, saran distinti, come gli padri de gli agnelli da' padri di capretti. Di questi però i primi nella corte celestiale hanno quel favore, che non hanno gli secondi; e se non il credete, alzate un poco gli occhi, e guardate chi è stato posto per capo de la vanguardia di segni celesti: chi è quello, che con la sua cornipotente scossa ne apre l'anno?
PRU. Aries primo; post ipsum, Taurus.
TEO. Appresso a questo gran capitano e primiero prencipe de le mandre, chi è stato degno d'essergli prossimo e secondo, eccetto ch'il granduca de gli armenti, a cui s'aggiongono, come per doi paggi o doi Ganimedi, que' bei gemegli garzoni? Considerate dunque, quale e quanta sia cotal razza di persone, che tengono il primato altrove che dentro un'arca infracidita.
FRU. Certo, non saprei trovar differenza alcuna tra costoro e quel geno d'animali, eccetto che quelli urtano di testa ed essi urtano di spalla ancora. Ma, lasciate queste digressioni, e tornate al proposito di quel ch'avvenne in questo residuo del viaggio, in questa sera.
TEO. Or dopo ch'il Nolano ebbe riscosse da vinti in circa di queste spuntonate, particolarmente alla piramide vicina al palazzo in mezzo di tre strade, ne si ferno incontro sei galantuomini, de' quali uno gli ne dié una sì gentile e gorda, che sola possea passar per diece; e gli ne fe' donar un'altra al muro, che possea certo valer per altre dice. Il Nolano disse: - Tanchi, maester -. Credo che lo ringraziasse perché li dié di spalla, e non di quella punta ch'è posta per centro del brocchiero o per cimiero de la testa. Questa fu l'ultima borasca; perché poco oltre, per la grazia di San Fortunnio, dopo aver discorsi sì mal triti sentieri, passati sì dubbiosi divertigli, varcati sì rapidi fiumi, tralasciati sì arenosi lidi, superati sì limosi fanghi, spaccati sì turbidi pantani, vestigate sì pietrose lave, trascorse sì lubriche strade, intoppato in sì ruvidi sassi, urtato in sì perigliosi scogli, gionsemo per grazia del cielo vivi al porto, idest alla porta; la quale, subito toccata, ne fu apperta. Entrammo, trovammo a basso de molti e diversi personaggi, diversi e molti servitori i quali, senza cessar, senza chinar la testa e senza segno alcun di riverenza, mostrandone spreggiar co' la sua gesta, ne ferno questo favore de monstrarne la porta. Andiamo dentro, montamo su, trovamo che, dopo averci molto aspettato, desperatamente s'erano posti a tavola a sedere. Dopo fatti i saluti e i resaluti -
PRU. Vicissim.
TEO. …ed alcuni altri piccoli ceremoni (tra' quali vi fu questo da ridere, che ad un de' nostri essendo presentato l'ultimo loco, e lui pensando che là fusse il capo, per umiltà voleva andar a seder dove sedeva il primo; e qua si fu un picciol pezzo di tempo in contrasto tra quelli che per cortesia lo voleano far sedere ultimo, e colui che per umiltà volea seder il primo); in conclusione, messer Florio seddé a viso a viso d'un cavalliero, che sedeva al capo de la tavola; il signor Folco a destra de messer Florio; io e il Nolano a sinistra de messer Florio; il dottor Torquato a sinistra del Nolano; il dottor Nundinio a viso a viso del Nolano. Qua, per grazia di Dio, non viddi il ceremonio di quell'urciuolo o becchieri, che suole passar per la tavola a mano a mano, da alto a basso, da sinistra a destra, ed altri lati, senza altro ordine che di conoscenza e cortesia da montagne; il quale, dopo che quel, che mena il ballo, se l'ha tolto di bocca, e lasciatovi quella impannatura di pinguedine, che può ben servir per colla, appresso beve questo e vi lascia una mica di pane, beve quell'altro e v'affigge all'orlo un frisetto di carne, beve costui e vi scrolla un pelo de la barba; e cossì, con bel disordine, gustandosi da tutti la bevanda, nessuno è tanto malcreato, che non vi lasse qualche cortesia de le reliquie, che tiene circa il mustaccio. Or, se a qualcuno, o perché non abbia stomaco, o perché faccia del grande, non piacesse di bere, basta che solamente se l'accoste tanto a la bocca, che v'imprima un poco di vestigio de le sue labbra ancora. Questo si fa a fine, che sicome tutti son convenuti a farsi un carnivoro lupo col mangiar d'un medesmo corpo d'agnello, di capretto, di montone o di un Grunnio Corocotta; cossì, applicando tutti la bocca ad un medesimo bocale, venghino a farsi una sanguisuga medesima, in segno d'una urbanità, una fratellanza, un morbo, un cuore, un stomaco, una gola e una bocca. E ciò si pone in effetto con certe gentilezze e bagattelle, che è la più bella comedia del mondo a vederlo, e la più cruda e fastidiosa tragedia a trovarvisi un galantuomo in mezzo, quando stima esser ubligato a far, come fan gli altri, temendo esser tenuto incivile e discortese; perché qua consiste tutto il termine della civilità e cortesia. Ma, perché questa osservanza è rimasta nelle più basse tavole, e in queste altre non si trova oltre, se non con certa raggione più veniale, per tanto, senza guardare ad altro, lasciamoli cenare; e domani parlaremo di quel ch'occorse dopo cena.
SMI. A rivederci.
FRU. A Dio.
PRU. Valete.
FINE DEL SECONDO DIALOGO
DIALOGO TERZO
TEO. Or il dottor Nundinio, dopo essersi posto in punto de la persona, rimenato un poco la schena, poste le due mani su la tavola, riguardatosi un poco circum circa, accomodatosi alquanto la lingua in bocca, rasserenati gli occhi al cielo, spiccato dai denti un delicato risetto e sputato una volta, comincia in questo modo:
PRU. In haec verba, in hosce prorupit sensus.
prima proposta di nundinio.
TEO. - Intelligis, domine, quae diximus? - E gli dimanda, s'intendea la lingua inglesa. Il Nolano rispose che no, e disse il vero.
FRU. Meglio per lui, perché intenderebbe più cose dispiacevoli e indegne, che contrarie a queste. Molto giova esser sordo per necessità, dove la persona sarebbe sorda per elezione. Ma facilmente mi persuaderei che lui la intenda; ma per non togliere tutte l'occasioni, che se gli porgeno per la moltitudine de gli incivili rancontri, e per posser meglio filosofare circa i costumi di quei che gli se fanno innanzi, finga di non intendere.
PRU. Surdorum alii natura, alii physico accidente, alii rationali voluntate.
TEO. Questo non v'imaginate de lui; perché, benché sii appresso un anno, che ha pratticato in questo paese, non intende più che due o tre ordinariissime paroli; le quali sa che sono salutazioni, ma non già particolarmente quel che voglian dire: e di quelle, se lui ne volesse proferire una, non potrebbe.
SMI. Che vol dire, ch'ha sì poco pensiero d'intendere nostra lingua?
TEO. Non è cosa che lo costringa o che l'inclini a questo; perché coloro, che son onorati e gentiluomini, co' li quali lui suol conversare, tutti san parlare o latino o francese o spagnolo o italiano; i quali, sapendo che la lingua inglesa non viene in uso se non dentro quest'isola, se stimarebbono salvatici, non sapendo altra lingua che la propria naturale.
SMI. Questo è vero per tutto, ch'è cosa indegna non solo ad un ben nato inglese, ma ancora di qualsivoglia altra generazione, non saper parlare più che una lingua. Pure in Inghilterra, come son certo che anco in Italia e Francia, son molti gentilomini di questa condizione, coi quali chi non ha la lingua del paese, non può conversare senza quella angoscia che sente un che si fa, ed a cui è fatto interpretare.
TEO. È vero che ancora son molti, che non son gentilomini d'altro che di razza, i quali per più loro, e nostro espediente, è bene che non siano intesi, né visti ancora.
da la seconda proposta di nundinio.
SMI. Che soggionse il dottor Nundinio?
TEO. - Io dunque - disse in latino - voglio interpretarvi quello che noi dicevamo: che è da credere, il Copernico non esser stato d'opinione, che la terra si movesse, perché questa è una cosa inconveniente ed impossibile; ma che lui abbia attribuito il moto a quella, più tosto che al cielo ottavo, per la comodità de le supputazioni. - Il nolano disse, che, se Copernico per questa causa sola disse la terra moversi, e non ancora per quell'altra, lui ne intese poco e non assai. Ma è certo, che il Copernico la intese come la disse, e con tutto suo sforzo la provò.
SMI. Che vuol dir, che costoro sì vanamente buttorno quella sentenza su l'opinione di Copernico, se non la possono raccogliere da qualche sua proposizione?
TEO. Sappi che questo dire nacque dal dottor Torquato; il quale di tutto il Copernico (benché posso credere che l'avesse tutto voltato) ne avea retenuto il nome de l'autore, del libro, del stampatore, del loco ove fu impresso, de l'anno, il numero de' quinterni e de le carte; e per non essere ignorante in gramatica, avea intesa certa Epistola superliminare attaccata non so da chi asino ignorante e presuntuoso; il quale (come volesse iscusando faurir l'autore, o pur a fine che anco in questo libro gli altri asini, trovando ancora le sue lattuche e frutticelli, avessero occasione di non partirsene a fatto deggiuni), in questo modo le avvertisce, avanti che cominciano a leggere il libro e considerar le sue sentenze.
"Non dubito, che alcuni eruditi", (ben disse alcuni, de' quali lui può esser uno), "essendo già divolgata la fama de le nove supposizioni di questa opera, che vuole la terra esser mobile ed il sole starsi saldo e fisso in mezzo de l'universo, non si sentano fortemente offesi, stimando che questo sia un principio per ponere in confusione l'arte liberali già tanto bene e in tanto tempo poste in ordine. Ma, se costoro vogliono meglio considerar la cosa, trovaranno, che questo autore non è degno di riprensione; perché è proprio agli astronomi raccôrre diligente- e artificiosamente l'istoria di moti celesti; non possendo poi per raggione alcune trovar le vere cause di quelli, gli è lecito di fengersene e formarsene a sua posta per principii di geometria, mediante i quali tanto per il passato, quanto per avenire si possano calculare; onde non solamente non è necessario, che le supposizioni siino vere, ma né anco verisimili. Tali denno esser stimate l'ipotesi di questo uomo, eccetto se fusse qualcuno tanto ignorante de l'optica e geometria, che creda, che la distanza di quaranta gradi e più, la quale acquista Venere discostandosi dal sole or da l'una or da l'altra parte, sii caggionata dal movimento suo ne l'epiciclo. Il che se fusse vero, chi è sì cieco, che non veda quel che ne seguirebbe contra ogni esperienza: che il diametro de la stella apparirebbe quattro volte, ed il corpo de la stella più di sedici volte più grande quando è vicinissima, ne l'opposito de l'auge, che quando è lontanissima, dove se dice essere in auge? Vi sono ancora de altre supposizioni non meno inconvenienti che questa, quali non è necessario riferire." E conclude al fine: "Lasciamoci dunque prendere il tesoro di queste supposizioni, solamente per la facilità mirabile ed artificiosa del computo; perché, se alcuno queste cose fente prenderà per vere, uscirrà più stolto da questa disciplina, che non v'è entrato".
Or vedete, che bel portinaio! Considerate quanto bene v'apra la porta per farvi entrar alla participazion di quella onoratissima cognizione, senza la quale il saper computare e misurare e geometrare e perspettivare non è altro che un passatempo da pazzi ingeniosi. Considerate come fidelmente serve al padron di casa.
Al Copernico non ha bastato dire solamente, che la terra si move; ma ancora protesta e conferma quello scrivendo al Papa, e dicendo che le opinioni di filosofi son molto lontane da quelle del volgo, indegne d'essere seguitate, degnissime d'esser fugite, come contrarie al vero e dirittura. Ed altri molti espressi indizii porge de la sua sentenza; non ostante ch'alfine par, ch'in certo modo vuole a comun giudizio tanto di quelli che intendeno questa filosofia, quanto degli altri, che son puri matematici, che, se per gli apparenti inconvenienti non piacesse tal supposizione, conviene ch'anco a lui sii concessa libertà di ponere il moto de la terra, per far demostrazioni più ferme di quelle, ch'han fatte gli antichi, i quali furno liberi nel fengere tante sorte e modelli di circoli, per dimostrar gli fenomeni de gli astri. Da le quale paroli non si può raccôrre, che lui dubiti di quello che sì constantemente ha confessato, e provarà nel primo libro, sufficientemente respondendo ad alcuni argomenti di quei che stimano il contrario; dove non solo fa ufficio di matematico che suppone, ma anco de fisico che dimostra il moto de la terra.
Ma certamente al Nolano poco se aggionge, che il Copernico, Niceta Siracusano Pitagorico, Filolao, Eraclide di Ponto, Ecfanto Pitagorico, Platone nel Timeo, benché timida- ed inconstantemente, perché l'avea più per fede che per scienza, ed il divino Cusano nel secondo suo libro De la dotta ignoranza, ed altri in ogni modo rari soggetti l'abbino detto, insegnato e confirmato prima: perché lui lo tiene per altri proprii e più saldi principii, per i quali, non per autoritate ma per vivo senso e raggione, ha cossì certo questo come ogni altra cosa che possa aver per certa.
SMI. Questo è bene. Ma, di grazia, che argumento è quello, che apporta questo superliminario del Copernico, perché gli pare ch'abbia più che qualche verisimilitudine (se pur non è vero), che la stella di Venere debba aver tanta varietà di grandezza, quanta n'ha di distanza?
TEO. Questo pazzo, il quale teme ed ha zelo che alcuni impazzano con la dottrina del Copernico, non so se ad un bisogno avrebe possuto portar più inconvenienti di quello, che per aver apportato con tanta solennità, stima sufficiente a dimostrar, che pensar quello sii cosa da un troppo ignorante d'optica e geometria. Vorrei sapere de quale optica e geometria intende questa bestia, che mostra pur troppo quanto sii ignorante de la vera optica e geometria lui e quelli da' quali ave imparato. Vorrei sapere come da la grandezza de' corpi luminosi si può inferir la raggione de la propinquità e lontananza di quelli; e per il contrario, come da la distanza e propinquità di corpi simili si può inferire qualche proporzionale varietà di grandezza. Vorrei sapere con qual principio di prospettiva o di optica noi da ogni varietà di diametro possiamo definitamente conchiudere la giusta distanza o la maggior e minor differenza. Desiderarei intendere si noi facciamo errore, che poniamo questa conclusione: da l'apparenza de la quantità del corpo luminoso non possiamo inferire la verità de la sua grandezza né di sua distanza; perché, sì come non è medesma raggione del corpo opaco e corpo luminoso, cossì non è medesma raggione d'un corpo men luminoso ed altro più luminoso e altro luminosissimo, acciò possiamo giudicare la grandezza o ver la distanza loro. La mole d'una testa d'uomo a due miglia non si vede; quella molto più piccola de una lucerna, o altra cosa simile di fiamma, si vedrà senza molta differenza (se pur con differenza) discosta sessanta miglia; come da Otranto di Puglia si veggono al spesso le candele d'Avellona, tra' quai paesi tramezza gran tratto del mare Jonio. Ognuno, che ha senso e raggione, sa che, se le lucerne fussero di lume più perspicuo a doppia proporzione, come ora son viste ne la distanza di settanta miglia, senza variar grandezza, si vedrebbono ne la distanza di cento quaranta miglia; a tripla di ducento e diece; a quatrupla di ducento ottanta, medesmamente sempre giudicando ne l'altre addizioni di proporzioni e gradi; perché più presto da la qualità e intensa virtù de la luce, che da la quantità del corpo acceso, suole mantenersi la raggione del medesmo diametro e mole del corpo. Volete dunque, o saggi optici ed accorti perspettivi che, se io veggo un lume distante cento stadii, aver quattro dita di diametro, sarà raggione che, distante cinquanta stadii, debbia averne otto; a la distanza di vinticinque, sedeci; di dodici e mezzo, trentadue; e cossì va discorrendo, sin tanto che, vicinissimo, venghi ad essere di quella grandezza che pensate?
SMI. Tanto che secondo il vostro dire, benché sii falsa, non però potrà essere improbata, per le raggioni geometrice, la opinione di Eraclito Efesio, che disse il sole essere di quella grandezza, che s'offre agli occhi; al quale sottoscrisse Epicuro, come appare ne la sua Epistola a Sofocle; e ne l'undecimo libro De natura, come referisce Diogene Laerzio, dice che, per quanto lui può giudicare, la grandezza del sole, de la luna e d'altre stelle è tanta quanta a' nostri sensi appare; perché, dice, se per la distanza perdessero la grandezza, a più raggione perderebbono il colore; e certo, dice, non altrimente doviamo giudicare di que' lumi, che di questi, che sono appresso noi.
PRU. Illud quoque epicureus Lucretius testatur quinto De natura libro:
Nec nimio solis maior rota, nec minor ardor
esse potest, nostris quam sensibus esse videtur.
Nam quibus e spaciis cumque ignes lumina possunt
adiicere et calidum membris adflare vaporem,
illa ipsa intervalla nihil de corpore libant
flammarum, nihilo ad speciem est contractior ignis.
Lunaque sive Notho fertur loca lumine lustrans,
sive suam proprio iactat de corpore lucem.
quicquid id est, nihilo fertur maiore figura.
Postremo quoscumque vides hinc aetheris ignes,
dum tremor est clarus, dum cernitur ardor eorum,
scire licet perquam pauxillo posse minores
esse, vel exigua maiores parte brevique,
quandoquidem quoscumque in terris cernimus ignes,
perparvum quiddam interdum mutare videntur
alterutram in partem filum, cum longius absint.
TEO. Certo, voi dite bene, che con l'ordinarie e proprie raggioni invano verranno i perspettivi e geometri a disputar con Epicurei; non dico gli pazzi, qual è questo luminare del libro di Copernico, ma di quelli più saggi ancora; e veggiamo come potran concludere, che a tanta distanza, quanta è il diametro de l'epiciclo di Venere, si possa inferir raggione di tanto diametro del corpo del pianeta, ed altre cose simili.
Anzi, voglio avertirvi d'un'altra cosa. Vedete quanto è grande il corpo de la terra? Sapete, che di quello non possiamo veder se non quanto è l'orizonte artificiale?
SMI. Cossì è.
TEO. Or, credete voi che, se vi fusse possibile di retirarvi fuor de l'universo globo de la terra in qualche punto de l'eterea regione, sii dove si vuole, che mai avverrebbe che la terra vi paia più grande?
SMI. Penso di non; perché non è raggione alcuna, per la quale de la mia vista la linea visuale debba esser forte più ed allungar il semidiametro suo, che misura il diametro de l'orizonte.
TEO. Bene giudicate. Però è da credere, che, discostandosi più l'orizonte, sempre si disminuisca. Ma con questa diminuzione de l'orizonte notate che ne si viene ad aggiongere la confusa vista di quello che è oltre il già compreso orizonte; come si può mostrare nella presente figura [fig. 1] dove l'orizonte artificiale è 1-1, al quale risponde l'arco del globo A A; l'orizonte de la prima diminuzione è 2-2, al quale risponde l'arco del globo B B; l'orizonte de la terza diminuzione è 3-3, al quale risponde l'arco C C; l'orizonte de la quarta diminuzione è 4-4, al quale risponde l'arco D D. E cossì oltre, attenuandosi l'orizonte, sempre crescerà la comprensione de l'arco, insino alla linea emisferica ed oltre. Alla quale distanza, o circa quale posti, vedreimo la terra con quelli medesmi accidenti coi quali veggiamo la luna aver le parti lucide ed oscure, secondo che la sua superficie è aquea e terrestre. Tanto che, quanto più se strenge l'angolo visuale, tanto la base maggiore si comprende de l'arco emisferico, e tanto ancora in minor quantità appare l'orizonte; il qual vogliamo che tutta via perseveri a chiamarsi orizonte, benché, secondo la consuetudine, abbia una sola propria significazione. Allontanandoci dunque, cresce sempre la comprensione de l'emisfero ed il lume; il quale, quanto più il diametro si disminuisce, tanto d'avantaggio si viene a riunire; di sorte che, se noi fussemo più discosti da la luna, le sue macchie sarrebono sempre minori, sin alla vista d'un corpo piccolo e lucido solamente.
SMI. Mi par aver intesa cosa non volgare e non di poca importanza. Ma, di grazia, vengamo al proposito de l'opinion di Eraclito ed Epicuro; la qual dite che può star costante contra le raggioni perspettive, per il difetto de' principii già posti in questa scienza. Or, per scuoprir questi difetti, e veder qualche frutto de la vostra invenzione, vorrei intendere la risoluzione di quella raggione, co' la quale molto demostrativamente si prova ch'il sole non solo è grande, ma anco più grande che la terra. Il principio della qual raggione è, che il corpo luminoso maggiore, spargendo il suo lume in un corpo opaco minore, de l'ombra conoidale produce la base in esso corpo opaco, ed il cono, oltre quello, ne la parte opposita: come, ne la seguente figura [fig.2], M corpo lucido dalla base di C, la quale è terminata per H I, manda il cono de l'ombra ad N punto. Il corpo luminoso minore, avendo formato il cono nel corpo opaco maggiore, non conoscerà determinato loco, ove raggionevolmente possa designarsi la linea de la sua base; e par che vada a formar una conoidale infinita; come quella medesma figura A, corpo lucido, dal cono de l'ombra ch'è in C, corpo opaco, manda quelle due linee H D, I E, le quali, sempre più e più dilatando la ombrosa conoidale, più tosto correno in infinito, che possino trovar la base che le termini.La conclusione di questa raggione è, che il sole è corpo più grande che la terra, perché manda il cono de l'ombra di quella sin appresso alla sfera di Mercurio, e non passa oltre. Che se il sole fusse corpo lucido minore, bisognarebbe giudicare altrimente: onde seguitarebbe che, trovandosi questo luminoso corpo ne l'emisfero inferiore, verrebbe oscurato il nostro cielo in più gran parte che illustrato, essendo dato o concesso, che tutte le stelle prendeno lume da quello.
TEO. Or vedete, come un corpo luminoso minore può illuminare più della mittà d'un corpo opaco più grande. Dovete avvertire quello che veggiamo per esperienza. Posti dui corpi, de' quali l'uno è opaco e grande, come A, l'altro piccolo lucido, come N, se sarà messo il corpo lucido nella minima e prima distanza, come è notato nella seguente figura [fig.3], verrà ad illuminare secondo la raggione de l'arco piccolo C D, stendendo la linea B1. Se sarà messo nella seconda distanza maggiore, verrà ad illuminare secondo la raggione de l'arco maggiore E F, stendendo la linea B2; se sarà nella terza e maggior distanza, terminarà secondo la raggione de l'arco più grande G H, terminato dalla linea B3. Dal che si conchiude che può avvenire che il corpo lucido N, servando il vigore di tanta lucidezza che possa penetrare tanto spacio, quanto a simile effetto si richiede, potrà, col molto discostarsi, comprendere al fine arco maggior che il semicircolo; atteso che non è raggione che quella lontananza, ch'ha ridutto a tale il corpo lucido che comprenda il semicircolo, non possa oltre promoverlo a comprendere di vantaggio. Anzi vi dico de più, che, essendo ch'il corpo lucido non perde il suo diametro se non tardissima- e difficilissimamente, e il corpo opaco, per grande che sia, facilissimamente e improporzionalmente il perde; però, sì come per progresso de distanza dalla corda minore C D è andato a terminare la corda maggiore E F e poi la massima G H, la quale è diametro; cossì, crescendo più e più la distanza, terminarà l'altre corde minori oltre il diametro, sin tanto ch'il corpo opaco tramezzante non impedisca la reciproca vista de gli corpi diametralmente opposti. E la causa di questo è, che l'impedimento, che dal diametro procede, sempre con esso diametro si va disminuendo più e più, quanto l'angolo B si rende più acuto. Ed è necessario al fine, che l'angolo sii tanto acuto (perché nella fisica divisione d'un corpo finito è pazzo chi crede farsi progresso in infinito, o l'intenda in atto o in potenza) che non sii più angolo, ma una linea, per la quale dui corpi visibili oppositi possono essere alla vista l'un de l'altro, senza che in punto alcuno, quel ch'è in mezzo, vaglia impedire; essendo che questo ha persa ogni proporzionalità e differenza diametrale, la quale nei corpi lucidi persevera. Però si richiede che il corpo opaco, che tramezza, ritegna tanta distanza da l'un e l'altro, per quanta possa aver persa la detta proporzione e differenza del suo diametro: come si vede ed è osservato nella terra; il cui diametro non impedisce, che due stelle diametralmente opposte si veggano l'una l'altra, cossì come l'occhio, senza differenza alcuna, può veder l'una e l'altra dal centro emisferico N e dalli punti de la circonferenza A N O (avendoti imaginato in tal bisogno, che la terra per il centro sii divisa in due parte uguali a fin ch'ogni linea perspettivale abbia il loco). Questo si fa manifesto facilmente nella presente figura [fig.4]. Dove, per quella raggione che la linea A N, essendo diametro, fa l'angolo retto ne la circonferenza; dove è il secondo loco, lo fa acuto; nel terzo più acuto; bisogna ch'al fine dovenghi a l'acutissimo, ed al fine a quel termine che non appaia più angolo, ma linea; e per conseguenza è destrutta la relazione e differenze del semidiametro; e per medesma raggione la differenza del diametro intiera A O si destruggerà. Là onde al fine è necessario che dui corpi più luminosi, i quali non sì tosto perdeno il diametro, non saranno impediti per non vedersi reciprocamente; non essendo il lor diametro svanito, come quello di non lucido o men luminoso corpo tramezzante. Concludesi, dunque, che un corpo maggiore, il quale è più atto a perdere il suo diametro, benché stia per linea rettissima al mezzo, non impedirà la prospettiva di dui corpi quantosivoglia minori, pur che serbino il diametro della sua visibilità, il quale nel più gran corpo è perso. Qua, per disrozzir uno ingegno non troppo sullevato, a fin che possa facilmente introdurse a comprendere la apportata raggione e per ammollar al possibile la dura apprensione, fategli esperimentare ch'avendosi posto un stecco vicino a l'occhio, la sua vista sarà di tutto impedita a veder il lume de la candela posta in certa distanza: al qual lume quanto più si viene accostando il stecco, allontanandosi da l'occhio, tanto meno impedirà detta veduta, sin tanto che, essendo sì vicino e gionto al lume, come prima già era vicino e gionto a l'occhio, non impedirà forse tanto quanto il stecco è largo.Or giongi a questo, che ivi rimagna il stecco, ed il lume altrettanto si discoste: verrà il stecco ad impedir molto meno. Cossì, più e più aumentando l'equidistanza de l'occhio e del lume dal stecco, al fine, senza sensibilità alcuna del stecco, vedrai il lume solo. Considerato questo, facilmente quantosivoglia grosso intelletto potrà essere introdutto ad intendere quel che poco avanti è detto.
SMI. Mi par, quanto al proposito, mi debba molto essere satisfatto; ma mi rimane ancora una confusione nella mente, quanto a quel che prima dicesti: come noi, alzandoci da la terra e perdendo la vista de l'orizonte, di cui il diametro sempre più e più si va attenuando, vedreimo questo corpo essere una stella. Vorrei che a quel tanto ch'avete detto, aggiongessivo qualche cosa circa questo, essendo che stimate molte essere terre simili a questa, anzi innumerabili; e mi ricordo de aver visto il Cusano, di cui il giodizio so che non riprovate, il quale vuole che anco il sole abbia parti dissimilari, come la luna e la terra; per il che dice che, se attentamente fissaremo l'occhio al corpo di quello, vedremo in mezzo di quel splendore, più circonferenziale che altrimente, aver notabilissima opacità.
TEO. Da lui divinamente detto e inteso, e da voi assai lodabilmente applicato. Se mi recordo, io ancor poco fa dissi che, - per tanto che il corpo opaco perde facilmente il diametro, il lucido difficilmente, - avviene che per la lontananza s'annulla e svanisce l'apparenza de l'oscuro; e quella de l'illuminato diafano, o d'altra maniera lucido, si va come ad unire; e di quelle parti lucide disperse si forma una visibile continua luce. Però, se la luna fusse più lontana, non eclissarebbe il sole; e facilmente potrà ogni uomo che sa considerare in queste cose che quella più lontana sarebbe ancor più luminosa; nella quale se noi fussemo, non sarrebe più luminosa a gli occhi nostri; come, essendo in questa terra, non veggiamo quel suo lume che porge a quei che sono ne la luna, il quale forse è maggior di quello, che lei ne rende per i raggi del sole nel suo liquido cristallo diffusi. Della luce particolare del sole non so per il presente, se si debba giudicar secondo il medesmo modo, o altro. Or vedete sin quanto siamo trascorsi da quella occasione; mi par tempo di rivenire all'altre parti del nostro proposito.
SMI. Sarà bene de intendere l'altre pretensioni, le quali lui ha possute apportare.
la terza proposta del dottor nundinio.
TEO. Disse appresso Nundinio, che non può essere verisimile che la terra si muove, essendo quella il mezzo e centro de l'universo, al quale tocca essere fisso e costante fundamento d'ogni moto. Rispose il Nolano, che questo medesmo può dir colui che tiene il sole essere nel mezzo de l'universo, e per tanto inmobile e fisso, come intese il Copernico ed altri molti, che hanno donato termine circonferenziale a l'universo; di sorte che questa sua raggione (se pur è raggione) è nulla contra quelli, e suppone i proprii principii. È nulla anco contra il Nolano, il quale vuole il mondo essere infinito, e però non esser corpo alcuno in quello, al quale simplicemente convegna essere nel mezzo, o nell'estremo, o tra que' dua termini, ma per certe relazioni ad altri corpi e termini intenzionalmente appresi.
SMI. Che vi par di questo?
TEO. Altissimamente detto; perché, come di corpi naturali nessuno si è verificato semplicemente rotondo, e per conseguenza aver semplicemente centro, cossì anco de' moti, che noi veggiamo sensibile- e fisicamente ne' corpi naturali, non è alcuno, che di gran lunga non differisca dal semplicemente circulare e regolare circa qualche centro; fòrzensi quantosivoglia color, che fingono queste borre ed empiture de orbi disuguali, di diversità de diametri ed altri empiastri e recettarii per medicar la natura sin tanto che venga, al servizio di maestro Aristotele o d'altro, a conchiudere che ogni moto è continuo e regolare circa il centro. Ma noi, che guardamo non a le ombre fantastiche, ma a le cose medesme; noi che veggiamo un corpo aereo, etereo, spirituale, liquido, capace loco di moto e di quiete, sino immenso e infinito, - il che dovamo affermare almeno, perché non veggiamo fine alcuno sensibilmente né razionalmente, - sappiamo certo che, essendo effetto e principiato da una causa infinita e principio infinito, deve, secondo la capacità sua corporale e modo suo, essere infinitamente infinito. E son certo che non solamente a Nundinio, ma ancora a tutti i quali sono professori de l'intendere non è possibile giamai di trovar raggione semiprobabile, per la quale sia margine di questo universo corporale, e per conseguenza ancora li astri, che nel suo spacio si contengono, siino di numero finito; ed oltre, essere naturalmente determinato centro e mezzo di quello.
SMI. Or Nundinio aggiunse qualche cosa a questo? Apportò qualche argomento o verisimilitudine per inferire che l'universo prima sii finito; secondo, che abbia la terra per suo mezzo; terzo, che questo mezzo sii in tutto e per tutto inmobile di moto locale?
TEO. Nundinio, come colui che quello che dice, lo dice per una fede e per una consuetudine, e quello che niega, lo niega per una dissuetudine e novità, come è ordinario di que' che poco considerano e non sono superiori alle proprie azioni tanto razionali quanto naturali, rimase stupido e attonito, come quello a cui di repente appare nuovo fantasma. Come quello poi, che era alquanto più discreto e men borioso e maligno ch'il suo compagno, tacque; e non aggiunse paroli, ove non posseva aggiongere raggioni.
FRU. Non è cossì il dottor Torquato, il quale o a torto o a raggione, o per Dio o per il diavolo, la vuol sempre combattere; quando ha perso il scudo da defendersi e la spada da offendere; dico, quando non ha più risposta, né argumento, salta ne' calci de la rabbia, acuisce l'unghie de la detrazione, ghigna i denti delle ingiurie, spalanca la gorgia dei clamori, a fin che non lascie dire le raggioni contrarie e quelle non pervengano a l'orecchie de' circostanti, come ho udito dire.
SMI. Dunque non disse altro?
TEO. Non disse altro a questo proposito, ma entrò in un'altra proposta.
quarta proposta del nundinio.
Perché il Nolano, per modo di passaggio, disse essere terre innumerabili simile a questa, or il dottor Nundinio, come bon disputante, non avendo che cosa aggiongere al proposito, comincia a dimandar fuor di proposito; e da quel che diceamo della mobilità o immobilità di questo globo, interroga della qualità degli altri globi, e vuol sapere di che materia fusser que