Sulla scia dell’opera
innovatrice della semiotica di Peirce, Charles Morris (1901-1979) è
considerato l’inventore della
semiologia o
semiotica, la disciplina che studia la natura dei
segni: studioso di George Herbert Mead presso l’università di Chicago, egli
rivestì un ruolo di gran rilievo nel tentativo di creare – negli anni Trenta –
una
“connessione Viennese” con il pragmatismo
americano, nel tentativo di spiegare e render più chiaro quest’ultimo
facendo ricorso al “fondazionalismo” promosso da Carnap e dagli altri neo-positivisti.
Morris è il filosofo americano che con maggior decisione e creatività si
impegna fin dagli anni trenta ad innestare le posizioni neo-positiviste
maturate a Vienna - nel famoso “Circolo” – sul tronco del pragmatismo
americano. In seguito alle persecuzioni perpetrate da Hitler, i maggiori
esponenti del “Circolo di Vienna” avevano trovato riparo negli Stati Uniti,
facendo per tal via entrare in dialogo il neo-positivismo con le filosofie
americane d’orientamento pragmatista. Nato a Denver – nel Colorado – nel 1901,
Morris si forma all’interno della Scuola di Chicago, che vantava tra i propri
membri pensatori del calibro di Dewey; nel 1931 Morris inizia ad insegnare a
Chicago, ma poi si trasferisce presso l’università di Harvard e del Texas. Il
suo grande contatto coi neo-positivisti europei avviene in occasione dei
congressi internazionali di filosofia della scienza tenutisi a Praga nel 1934 e
a Parigi nel 1935: qui egli collabora alla titanica impresa dell’
Enciclopedia
della scienza unificata promossa da Neurath e da Carnap, scrivendo nel 1938
un saggio,
Lineamenti di una teoria dei segni, che costituisce la prima
incisiva formulazione della semiotica della quale Morris avrebbe in seguito
offerto una più matura ed efficace sistemazione nell’opera
Segni, linguaggio
e comportamento del 1946. Già nel 1937, Morris aveva pubblicato una
raccolta di saggi,
Positivismo logico, pragmatismo ed empirismo scientifico,
nella quale aveva prospettato un empirismo scientifico risultante
dall’integrazione dell’orientamento logico/formalistico dei neo-positivisti con
quello biologico-sociale dei pragmatisti. Morris è convinto – e questa è
appunto la convinzione che sta alla base della sua indagine filosofica – che la
semiotica occupi un ruolo fondamentale nella scienza dell’uomo, giacchè – come
egli asserisce in uno scritto del 1948 (
The Open Self):
“L’uomo è l’unico essere
che vive nella misura in cui vive in un mondo di segni. Questo è il mare in cui
nuota il pesce umano, questo è il suo elemento naturale. Altri animali sono
indubbiamente sensibili a certe cose come segni di altre cose, ma ciò che per
essi è casuale ed episodico, per l’uomo è essenziale e costante. Mentre altri
organismi si muovono a seconda dei segni che il mondo procura, l’essere umano
si trasforma e trasforma il mondo per mezzo di segni che egli stesso produce
[…]. Nella capacità di plasmarsi attraverso i segni che produce, l’uomo è
unico. La misura dei suoi segni è la misura della sua libertà”.
Ben si capisce, allora,
perché Morris fondi la disciplina semiotica su una premessa
biologico-comportamentistica, per la quale le espressioni linguistiche non
devono essere considerate per se stesse, bensì ricondotte ai comportamenti
umani, valorizzandone così tutta la rilevanza pragmatica, come il neopositivismo
europeo non si era preoccupato di fare.
In sintonia
con questa prospettiva, l’indagine semiotica non deve ridursi – come aveva
voluto il neo-positivismo – all’analisi del linguaggio scientifico, ma
estendersi a tutti i diversi usi linguistici, al fine di classificare i vari
tipi di discorso a cui ricondurre i molteplici aspetti del comportamento umano.
Del resto, Morris va sostenendo che per “segno” non si devono intendere solo le
parole, ma ogni oggetto o evento che venga impiegato per richiamare un
qualsiasi altro oggetto o evento. Muovendo dalla comune constatazione che “un
segno si riferisce a qualcosa per qualcuno”, Morris distingue, all’interno
della semiosi, quattro componenti: 1) il veicolo
segnico (ciò che agisce come segno), 2) il designatum (ciò cui il
segno si riferisce) , 3) l’interpretante (l’effetto in forza del quale il segno agisce come segno
sull’interprete), 4) l’interprete (la persona per cui il segno ha funzione di segno).
Considerando il processo semiotico, Morris rileva che in esso v’è “un
qualcosa che si rende conto di un altro qualcosa in modo mediato, ossia per
mezzo di un terzo qualcosa. La semiosi, di conseguenza, è un
rendersi-conto-mediatamente-di-qualcosa. Mediatore è il veicolo segnico; il
rendersi-conto-di è l’interpretante; chi nel processo agisce è l’interprete;
ciò di cui ci si rende conto è il designante” (Lineamenti di una teoria
dei segni). Da una siffatta analisi, risulta chiaro come il linguaggio (il quale è un
particolare tipo di sistema segnico) non possa mai esaurirsi soltanto nella
dimensione sintattica della quale aveva detto Carnai, la quale si occupa
solamente delle combinazioni dei segni “a prescindere dalle loro specifiche
significazioni e delle loro relazioni col comportamento in cui hanno luogo”
(Lineamenti di una teoria dei segni). Accanto a questa dimensione e
intrecciate con essa, vi sono appunto anche la dimensione semantica (come
rapporto del segno al designatum) e la dimensione pragmatica o biologica
(come rapporto del segno con gli interpreti, con le loro aspettative e con le
loro esigenze). È proprio in riferimento a quest’ultima dimensione che il
linguaggio si rivela nella sua concretezza di comportamento vitale consistente
nel reagire dell’uomo agli stimoli per mezzo della mediazione di un segno. In
linea col behaviorismo (la scuola di psicologia moderna di orientamento
antisoggettivistico nata negli USA a partire dal 1913 con Watson -, Morris
tiene conto soltanto delle risposte alle provocazioni segniche che risultino
identificabili con modificazioni oggettive dell’organismo corporeo, escludendo
ogni riferimento a fatti interiori. Ciò gli permette di sposare il progetto
fisicalista (prospettato da Neurath e Carnap) di un comune linguaggio
scientifico con cui redigere l’enciclopedia del sapere unificato. Se dapprima
(ai tempi della pubblicazione dei Lineamenti di una teoria dei segni,
1938) Morris appariva orientato a fare della semiotica un organum della
filosofia, con la funzione di analizzare i diversi linguaggi, nel più maturo
scritto Segni, linguaggio, comportamento, finisce col prevalere in lui
la tendenza antifilosofica a concepire la semiotica come una scienza biologica,
del tutto disancorata dalla filosofia (“la semiotica non è una parte della
filosofia, ma della scienza, essendo il linguaggio della filosofia soltanto una
parte del suo campo d’indagine”). In quanto ricerca meramente scientifica,
“la semiotica né si fonda, né implica necessariamente una particolare
filosofia”. Del resto, la filosofia stessa “non è limitata alla
semiotica, poiché il suo discorso non si limita al discorso scientifico […].
Una filosofia è un’organizzazione sistematica che comprende le credenze
fondamentali: credenze sulla natura del mondo e dell’uomo, su ciò che è bene,
sui metodi da seguire per raggiungere la conoscenza, sul modo in cui la vita
dev’essere vissuta. Il filosofo si trova dinanzi asserzioni di fatto,
apprezzamenti di valore, prescrizioni di condotta propri del mondo della sua
cultura. E organizza criticamente queste asserzioni, apprezzamenti e
prescrizioni entro un ampio sistema di credenze”. Inoltre, Morris
attribuisce alla semiotica l’importante funzione di tutela della libertà dell’individuo in una società in cui questi è sempre più condizionato,
fino a subire un autentico assedio da parte dei messaggi della pubblicità e
della propaganda. Dotare l’individuo della conoscenza della natura, dell’uso e
dell’efficacia dei segni, può aiutare ad una giusta protezione della vita
individuale e sociale dalla sempre rinnovantesi pressione aggressiva,
massificante e mistificante dei linguaggi che la percorrono. Gli altri
individui – scrive Morris in Segni, linguaggio, comportamento - della
società cercano di raggiungere i loro scopi investendoci con una “continua
pressione di segni” volti ad indicarci come agire, a cosa credere, cosa
approvare, cosicché ciascuno di noi tende a diventare “un burattino mosso da
segni, passivo nei riguardi delle proprie credenze, valutazioni e attività”. In The open self (1948), Morris affronta la possibilità, da parte dell'uomo, di costruire una società in cui ognuno riesca a compiere e vedere in atto ogni sua facoltà. Ogni individuo ha determinate caratteristiche che lo differenziano dal resto dei suoi simili, e per questo necessita di libertà diverse, anche se ciò non vuol dire repressione dell'altro. Morris individua comunque, sulla base dell'antropologia fisica, delle costanti corporee che classificano l'umanità intera in tre gruppi principali: mesomorfi, endomorfi, ectomorfi. Il tipo mesomorfico è caratterizzato da un corpo forte e slanciato, quello endomorfico da un corpo morbido e tendente al pingue, mentre quello ectomorfico dalla gracilità. Tali caratteristiche fisiche per Morris influenzerebbero la sfera psichica. Analizzando un corpo sarebbe possibile conoscere anche l'atteggiamento che un qualcuno ha nei confronti del mondo. Così i mesomorfi sarebbero attirati dal potere, gli endomorfi alla concordia conviviale, gli ectomorfi dall'ascetismo e dalla chiusura. E' anche vero che i vari tipi si trovano per lo più mescolati nei vari individui e ciò complica le cose.
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