SENECA

CONSOLAZIONE ALLA MADRE ELVIA




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I

(1) Molte volte, mia ottima madre, ho sentito l'impulso di consolarti e molte volte me ne sono astenuto. Parecchie ragioni mi spingevano a farlo; prima di tutto mi sembrava che io mi sarei liberato di tutti i miei mali, se avessi potuto, non dico, porre fine alle tue lacrime, ma per lo meno asciugarle per un momento; poi capivo che, con più efficacia, ti avrei rincuorato se mi fossi risollevato io per primo; infine temevo che la sorte, sconfitta da me, si rivalesse su qualcuno dei miei. Perciò mi sforzavo in tutti i modi, tenendo una mano sulla mia piaga, di trascinarmi fino a voi per curare le vostre ferite. (2) Ma ecco che sorgevano ulteriori ragioni a ritardare il mio proposito. Sapevo che non potevo contrastare il tuo dolore nella sua iniziale intensità senza il rischio che le mie parole di conforto lo irritassero ulteriormente; infatti anche nelle malattie non v'è nulla di più dannoso che una medicina data prima del tempo. Cosi aspettavo che esso si calmasse da sé e, disposto a ricevere le cure, si lasciasse toccare e trattare. D'altra parte, benché consultassi tutte le opere degli scrittori più famosi composte per contenere e mitigare i dolori, non trovavo l'esempio di nessuno che avesse consoIato i suoi di un dolore per il quale egli stesso era compianto. Esitavo, quindi, di fronte alla novità della situazione e temevo che, invece di consolarti, avrei esacerbato il tuo dolore. (3) E poi, non occorrevano parole nuove, e non già uno stile banale e quotidiano, a chi, per consolare i suoi, doveva sollevare il capo dal suo stesso rogo? Ma l'intensità di un dolore che eccede ogni misura è inevitabile che ci tolga il piacere della parola dal momento che, talvolta, ci toglie anche la voce. (4) Io, comunque, mi proverò, non perché abbia fiducia nel mio ingegno, ma perché la più efficace delle consolazioni può essere il consolatore stesso. E tu che non mi negheresti nulla, spero non mi negherai neanche questo e accetterai che io metta un argine al tuo rimpianto benché ogni dolore sia ostinato.

II

(1) Vedi quanto io mi riprometto dalla tua indulgenza; non dubito di essere, nei tuoi confronti, più forte del tuo dolore anche se per gli sventurati il dolore è tutto. Per questo non mi scontrerò subito con lui. Prima lo asseconderò e gli darò di che ravvivarsi: voglio mettere a nudo le ferite e riaprire quelle che sono già cicatrizzate. (2) Qualcuno dirà: «Che modo di consolare è questo, rievocando mali già dimenticati e mettendo l'animo di fronte a tutti i suoi affanni quando a mala pena riesce a sopportarne uno solo?». Ma sappia costui che i mali, quando sono così perniciosi da aggravarsi nonostante i rimedi, spesso si curano alla maniera contraria. Perciò io radunerò per costei tutti i suoi lutti, tutte le sue disgrazie: questo sarà un metodo di cura non delicato ma tutto un bruciare e un tagliare. Che cosa otterrò? Che l'animo, che è già riuscito a superare tante sventure, si vergognerà di non sopportare una ferita sola in un corpo tutto coperto di cicatrici. (3) Piangano, dunque, lungamente e si lamentino gli animi deboli di coloro che una lunga felicità ha reso fiacchi e che crollano all'urto della minima offesa; ma quelli che hanno trascorso gli anni in mezzo alle disgrazie sapranno sopportare con virile e tranquilla fermezza anche i colpi più gravi. L'infelicità ostinata ha un solo vantajgio, che finisce per rendere forti coloro che continuamente colpisce. (4) La sorte non ti ha concesso nessuna pausa ai gravissimi lutti. Non ti ha nemmeno risparmiato nel giorno della tua nascita: appena nata, anzi mentre nascevi, hai perso tua madre e, in un certo qual senso, fosti lasciata in balia della vita. Sei cresciuta con una matrigna che, però, spingesti ad esserti madre per tutto il rispetto e l'affetto di cui può essere capace solo una figlia: d'altronde anche una buona matrigna non può aversi che a caro prezzo. Avevi uno zio affezionatissimo, un ottimo uomo e di gran coraggio, lo perdesti mentre aspettavi il suo arrivo e, come se la cattiva sorte temesse di mostrarsi meno crudele con te distanziando i suoi colpi, meno di trenta giorni dopo, tu portasti alla tomba il tuo sposo adorato1 che ti aveva reso madre di tre figli. In pieno lutto ti fu annunziata questa nuova disgrazia mentre tutti i figli erano lontani, come se i mali si industriassero a caderti addosso tutti insieme e in uno stesso tempo e tu non avessi dove trovare un sostegno al tuo dolore. (5) Tralascio i tanti pericoli, i tanti timori di cui tu sopportasti gli assalti senza una tregua. Or ora, in quello stesso seno dal quale tre nipoti si erano allontanati, tu ne raccogliesti le ossa. Venti giorni dopo aver seppellito mio figlio, morto fra le tue braccia e fra i tuoi baci, avesti la notizia che anche io ti ero stato tolto. Ti mancava soltanto questo: piangere i vivi.

III

(1) Quest'ultima è la più grave di tutte le ferite che hanno colpito il tuo corpo, lo riconosco. Non ha strappato in superficie la pelle ma ti ha spaccato il cuore e le viscere. Ma come le reclute urlano anche se sono appena ferite e temono le mani dei medici più delle spade nemiche, mentre i veterani, anche se trapassati da parte a parte, con calma e senza un gemito, si lasciano curare come se non si trattasse del loro corpo, così anche tu ora devi prestarti con coraggio alla mia cura. (2) Metti da parte i lamenti e le grida e tutti gli altri atteggiamenti con cui nelle donne, abitualmente, si manifesta il dolore. Tante disgrazie sono state inutili se non hai ancora imparato ad essere infelice. E che, non ti pare che ti abbia trattato con poco riguardo? Non ti ho nascosto nessuno dei tuoi mali, ma te li ho ammucchiati tutti davanti.

IV

(1) Ho fatto questo con molto coraggio: perché ho deciso di debellare il tuo dolore, non di circoscriverlo. E lo vincerò, penso, se dimostrerò, innanzi tutto, che niente di quel che mi capita è tale da farmi ritenere infelice e tanto meno fa essere tali, per causa mia, i miei familiari; poi, venendo a te, dimostrerò che anche la tua sorte, che dipende tutta dalla mia, non è insopportabile. (2) E comincerò, prima di tutto, con ciò che il tuo affetto desidera sentire, cioè che io non provo alcun male. Se potrò ti dimostrerò che le cose da cui tu mi ritieni oppresso non sono poi intollerabili. E, se non riuscirò a convincerti, almeno avrò la soddisfazione di sentirmi contento in circostanze che, di solito, rendono infelici. (3) Non credere agli altri su quel che mi riguarda: e perché tu non debba turbarti per voci infondate, sono io stesso ad assicurarti che non sono infelice. Ti aggiungerò, perché tu sia ancor più tranquilla, che non è neppure possibile che io lo diventi.

V

(1) Noi siamo nati con la disposizione alla felicità, sempre che non ce ne allontaniamo. La natura ha fatto in modo che non ci fosse bisogno di gran che per vivere bene: ciascuno è in grado di essere felice da sé. Le circostanze esterne hanno poca importanza e non hanno molta influenza né in un senso né in un altro: le cose favorevoli non esaltano il saggio, né quelle sfavorevoli lo abbattono. Egli, infatti, si è sempre sforzato di fare affidamento solo su se stesso e di cercare in se stesso ogni gioia. (2) E allora? Dirò di essere saggio? Neanche per sogno. Perché se potessi dichiarare una cosa del genere, non solo negherei di essere infelice, ma sosterrei di essere il più fortunato degli uomini, giunto vicino a dio.Tuttavia, e questo basta a lenire tutti i mali, mi sono affidato agli uomini saggi e, non ancora capace di aiutarmi da solo, mi sono rifugiato nel campo altrui, di quelli, cioè, che sanno con facilità difendere se stessi e i loro cari. (3) Ed essi mi hanno ordinato di essere sempre vigile, come a un posto di guardia, e di prevedere tutte le mosse e tutti gli assalti della sorte prima che caschino addosso. Essa è dura soltanto per quelli cui giunge improvvisa, mentre la sopporta facilmente chi l'ha sempre aspettata. Cosi l'assalto dei nemici travolge quelli che si lasciano sorprendere, ma quelli che con anticipo si sono preparati alla guerra, ben equipaggiati e ordinati, facilmente ne sostengono il primo urto che è sempre il più impetuoso. (4) Io non mi sono mai fidato della fortuna anche quando sembrava promettere pace. Tutti quei beni che generosamente mi concedeva: ricchezze, onori, favori, io li ho tenuti in tale considerazione che essa avrebbe potuto riprenderseli senza che io me ne scomponessi. Ho sempre mantenuto una grande distanza fra loro e me; così essa se li è ripresi, non è che me li ha strappati. La cattiva sorte spezza soltanto colui che si lascia ingannare da quella buona. (5) Quelli che hanno amato i doni della fortuna come beni personali ed eterni, quelli che per quei doni vogliono farsi ammirare, si abbattono e si disperano quando il loro animo vuoto e puerile, ignaro di ogni gioia duratura, si sente privato di quei falsi ed effimeri diletti. Invece chi non insuperbisce nelle liete circostanze, non si deprime nelle avverse. Mantiene l'animo saldo nell'uno e nell'altro caso con la sua già provata fermezza, in quanto nella sua stessa felicità ha già sperimentato ciò che occorre per opporsi alla cattiva sorte. (6) Perciò io ho sempre ritenuto che non vi fosse nulla di buono in quelle cose che tutti desiderano e che io ho sempre trovato vuote e rivestite di colori appariscenti e ingannevoli senza nulla al di dentro che corrispondesse all'apparenza; ora in quelle cose che sono chiamate mali, non trovo nulla di così terribile e insopportabile come fa temere la credenza popolare. La stessa parola, per un certo convincimento e consenso generale, giunge troppo aspra alle orecchie e colpisce chi la ode come qualcosa di sinistro e di odioso; così afferma la gente, ma i saggi, in genere, non badano a ciò che la gente dice.

VI

(1) Tralasciando, dunque, il giudizio dei più, che, privo com'è di analisi critica, si lascia ingannare dalla prima apparenza delle cose, vediamo cos'è l'esilio. Chiaramente è un cambiamento di luogo. E perché non sembri che io voglia diminuirne l'importanza e sottrargli ciò che ha in sé di svantaggioso, dirò che questo cambiamento di luogo comporta dei disagi: povertà, infamia, disprezzo. Ma con questo mi confronterò dopo; per ora voglio, in primo luogo, esaminare che cosa vi è di sgradevole in questo cambiamento di luogo. (2) "È una cosa insopportabile vivere lontani dalla patria." Suvvia, guarda un po' tutta questa gran folla cui appena bastano le case di questa città immensa: la maggior parte di questa gente è lontana dalla sua patria. Sono confluiti qui dai loro municipi, dalle loro colonie, da ogni parte del mondo. Alcuni li ha spinti qui l'ambizione,  altri la necessità di un incarico pubblico, altri l'incombenza di un'ambasceria, altri la ricerca di un luogo adatto alla loro lussuria e ricco di vizi, altri il desiderio degli studi liberali, altri quello di assistere agli spettacoli, alcuni ancora sono stati attirati dall'amicizia, altri dalla ricerca di maggiori possibilità per esprimere il proprio talento; qualcuno è venuto per mettere in vendita la propria bellezza, qualcun altro la propria eloquenza. (3) Non c'è razza umana che non sia venuta in questa città che paga a caro prezzo le virtù come i vizi. Chiamali per nome tutti costoro e chiedigli di che paese siano: vedrai che la maggior parte è tutta gente che ha lasciato la terra natale ed è venuta in questa città grandissima e bellissima e, comunque, non sua. (4) E ora lascia questa città che può dirsi di tutti e fa' il giro delle altre: non ce n'è una i cui abitanti, per la maggior parte, non siano stranieri. Lascia perdere quelle che richiamano molte persone per la loro posizione amena e la dolcezza del clima, ma considera i luoghi desertici e le isole più selvagge, Sciato, Serifo, Giaro, Cossira, non troverai nessuna terra d'esilio in cui qualcuno risieda per suo desiderio. (5) Che cosa si può trovare di più squallido e, ovunque ti volgi, di più dirupato di questo scoglio2? Che cosa al semplice sguardo più sterile di risorse? Quale luogo più inospitale per gli uomini? Quale in posizione peggiore? Quale più inclemente per clima? Eppure qui vivono più stranieri che indigeni. Quindi il cambiamento di luogo in sé non è una cosa gravosa se perfino questa terra ha strappato alcuni alla loro patria. (6) Io so che alcuni sostengono che il cambiar residenza e trasferire il proprio domicilio è un naturale bisogno dell'animo; l'uomo, infatti, ha un'indole mutevole e inquieta, non sta mai fermo, va di qua e di là, rivolge i suoi pensieri a tutto ciò che è ignoto e noto, è incostante, insofferente della quiete e sempre lieto di ogni novità. (7) Non ti meraviglierai di questo se prenderai in considerazione la sua origine prima. Essa non è composta di materia terrena e pesante, ma discende dallo stesso spirito celeste e la natura dei corpi celesti sta nel continuo movimento: essi sono sempre in fuga, sempre in corsa vertiginosa. Guarda le stelle che illuminano il mondo: nessuna di esse è ferma. Il sole si sposta continuamente e passa da un luogo a un altro e, benché ruoti con l'universo, pure, gira in senso contrario al moto generale dei cieli; attraversa tutte le costellazioni e non si ferma mai, il suo moto, come la sua migrazione da un luogo all'altro, è perpetuo. (8) Tutti gli astri girano sempre e sono sempre in movimento; si spostano da un luogo all'altro come la legge ineluttabile della natura ha stabilito: quando dopo un certo numero di anni avranno compiuto la loro orbita, di nuovo ripercorreranno il cammino già percorso. Va' ora a sostenere che l'animo umano, composto della stessa sostanza di quei corpi celesti, possa mal sopportare i cambiamenti e gli spostamenti, quando anche la natura divina si rallegra di questo eterno e rapidissimo movimento e, grazie ad esso, si conserva intatta!

VII

(1) Ma dalle cose celesti ora torniamo a quelle umane: vedrai che han cambiato sede genti e popolazioni intere. Che significano le città greche sorte in mezzo a paesi barbari? E la lingua macedone tra i Persi e gli Indi? La Scizia e tutta quella regione abitata da popolazioni selvagge e indomite mostra città greche fondate sui lidi del Ponto; né il rigore del lungo inverno, né l'indole degli abitanti, aspra come il loro clima, hanno scoraggiato quanti trasferivano li le loro dimore. (2) L'Asia è piena di Ateniesi; Mileto ha popolato settantacinque città sparse un po' dappertutto; tutta questa costa dell'Italia bagnata dal Mare Inferiore divenne Magna Grecia. L'Asia si attribuisce gli Etruschi, i Tiri abitano l'Africa, i Cartaginesi la Spagna, i Greci si sono introdotti in Gallia e i Galli in Grecia, i Pirenei non hanno ostacolato il passaggio dei Germani. (3) La volubilità umana si è riversata su vie impraticabili e ignote. Si portano dietro i figli, le mogli, i genitori appesantiti dalla vecchiaia. Alcuni, dopo un lungo errare, non si scelsero deliberatamente una sede, ma per la stanchezza occuparono quella più prossima; altri, con le armi, si conquistarono il diritto di una terra straniera. Alcune popolazioni, avventurandosi verso terre sconosciute, furono inghiottite dal mare, altre si stabilirono là dove la mancanza di tutto le aveva fatte fermare. (4) Non tutti hanno avuto gli stessi motivi per abbandonare la loro patria e cercarne un'altra: alcuni, sfuggiti alla distruzione della loro città e alle armi nemiche e spogliati dei loro beni, si volsero ai territori altrui; altri furono cacciati da lotte intestine; altri furono costretti a emigrare per alleggerire il peso di un'eccessiva densità di popolazione; altri ancora sono stati cacciati dalla pestilenza o dai frequenti terremoti o da altri intollerabili flagelli di una terra infelice, altri, infine, si sono lasciati attirare dalla notizia di una terra fertile e fin troppo decantata. (5) Ognuno ha lasciato la sua casa per una ragione o per l'altra. Questo, però, è certo: che nessuno è rimasto nel luogo dove è nato. Incessante è il peregrinare dell'uomo. In un mondo così grande ogni giorno qualcosa cambia: si gettano le fondamenta di nuove città, nascono popolazioni con nuovi nomi,via via che si estinguono quelle che c'erano prima o si incorporano con altre più forti. Ma tutti questi spostamenti di popoli che cosa sono se non esili in massa? (6) Ma perché ti faccio un così lungo giro di parole? Che giova citarti Antenore, fondatore di Padova, o Evandro che portò sui lidi del Tevere il regno degli Arcadi? O Diomede e gli altri, vincitori e vinti, che la guerra di Troia disperse per terre straniere? (7) Appunto in un esule3 ha il suo fondatore l'impero romano, in un profugo che, dopo la conquista della sua patria, portandosi dietro poche reliquie e spinto dalla necessità e dalla paura del vincitore a cercare terre lontane, giunse in Italia. E, in seguito, questo popolo quante colonie non ha fondato in ogni provincia! Dovunque ha vinto il Romano si stabilisce. E per questi cambiamenti di sede si arruolavano volontari e anche il vecchio, lasciati i suoi altari, seguiva i coloni di là dai mari. (8) L'argomento non richiede altri esempi. Tuttavia ne aggiungerò un altro soltanto che mi balza davanti. Quest'isola dove mi trovo ha spesso cambiato i suoi abitanti. Tralasciando le età più antiche, ormai oscurate dal tempo, i Greci che ora abitano Marsiglia, abbandonata la Focide, si fermarono prima in quest'isola dalla quale non si conosce il motivo che li abbia spinti ad andarsene, se il clima insalubre o la vicinanza minacciosa dell'Italia o la natura delle coste prive di porti; che non fosse certo un motivo lo stato selvaggio degli abitanti lo si ricava dal fatto che essi andarono a stabilirsi tra le fiere e rozze popolazioni della Gallia. (9) Successivamente passarono nell'isola i Liguri e poi gli Ispani, come appare dalla somiglianza di certi usi: portano, infatti, lo stesso copricapo e lo stesso tipo di calzature dei Cantabrici e anche alcune parole si somigliano (ma sotto l'influenza dei Greci e dei Liguri la loro lingua è molto mutata da quella originaria). In seguito vi furono fondate due colonie romane, una da Mario e l'altra da Silla. Tante volte è cambiata la popolazione di questo scoglio arido e tutto sterpi. (10) Insomma tu non troverai una terra che sia ancora oggi abitata dalla popolazione indigena. Tutte si sono mescolate e incrociate; gli uni si sono succeduti agli altri; questi desiderano ciò che gli altri disprezzano; l'uno è cacciato via da dove aveva cacciato, a sua volta, un altro. Così vuole il destino: che nessuna cosa resti sempre in uno stesso luogo.

VIII

(1) Contro il cambiamento di luogo, a prescindere dagli altri svantaggi che vi sono connessi, Varrone, il più dotto dei Romani, ritiene che rimedio sufficiente sia il fatto che dovunque noi andiamo abbiamo a che fare con la medesima natura; M. Bruto4, invece, pensa che basti, per chi va in esilio, portare con sé le proprie virtù. (2) Anche se qualcuno giudica di scarsa efficacia per un esule questi rimedi se presi singolarmente, bisogna dire che, messi insieme, essi sono efficacissimi. Quanto poco è, infatti, quello che perdiamo! Due cose ci seguono dovunque noi andiamo e sono le più belle che esistono: la natura, che è comune a tutti, e la nostra virtù personale. (3) Questo è voluto, credimi, dal creatore dell'universo, chiunque egli sia, un Dio signore di tutte le cose o una mente incorporea artefice di opere meravigliose, o uno spirito divino uniformemente diffuso in tutte le cose, le più grandi come le più piccole, o il destino e la successione immutabile di cause connesse fra loro; questo, ripeto, è voluto perché soltanto le cose infime fossero soggette all'arbitrio altrui. (4) Ciò che vi è di meglio nell'uomo è sottratto al potere umano e non può essere né dato né tolto. Questo universo che di tutte le creazioni della natura è la più grande e la più bella, il nostro animo che questo universo contempla e ammira e del quale è parte splendidissima, appartengono a noi per sempre e resteranno con noi tanto più a lungo quanto noi stessi più a lungo esisteremo. (5) Perciò, di buon animo e fieri, affrettiamoci con passo fermo dovunque la sorte ci spinga. Percorriamo tutta la terra, non vi sarà nessun esilio; infatti al mondo non c'è luogo che sia straniero all'uomo. Da ogni parte, egualmente, si può volgere lo sguardo al cielo; la distanza che separa l'uomo da Dio è sempre la stessa. (6) Per questo, purché i miei occhi non siano privati di quello spettacolo di cui sono insaziabili, purché mi sia consentito di guardare il sole e la luna, purché io possa fissare gli altri astri e studiarne il sorgere e il tramontare, le loro distanze e le cause del loro moto, ora più veloce ora più lento, e ammirare le tante stelle che brillano nella notte, alcune immobili altre che si spostano, non però nello spazio infinito ma in un'orbita che si sono tracciata, altre ancora che spuntano all'improvviso, altre che quasi abbagliano in un guizzo di fiamma e sembra che cadano o che, per un lungo tratto di cielo, passano oltre con una gran luce, purché io possa contemplare tutto questo e, per quanto sia lecito a un uomo, partecipare alla vita del cielo, purché l'animo mio che tende alle cose a lui affini sia sempre rivolto al cielo, che cosa mi importa quale terra io calpesti?

IX

(1) "Ma questa terra non è fertile d'alberi da frutto o da fiore; non è bagnata da fiumi né grandi né navigabili; non produce nulla che sia richiesto da altre popolazioni e appena appena provvede alla sopravvivenza dei suoi abitanti; non vi si cava marmo pregiato, non ha miniere d'oro o d'argento." (2) Meschino è l'animo che si compiace dei beni terreni; bisogna volgerlo verso quelle cose che appaiono dappertutto uguali e uguali dappertutto risplendono. E bisogna anche pensare che i beni terreni, per gli errori e per i pregiudizi che comportano, sono di ostacolo ai veri beni. Quanto più lunghi gli uomini costruiranno i loro portici, quanto più alte innalzeranno le loro torri, quanto più vasti edificheranno i loro caseggiati, quanto più profonde scaveranno le loro grotte per l'estate, quanto più sovraccarichi saranno i soffitti delle loro sale da pranzo, tanto più, tutto questo, nasconderà loro il cielo. (3) Il destino ti ha gettato in una regione dove l'abitazione più sontuosa è una capanna; ma tu hai un animo meschino che si appaga di misere consolazioni se sopporti tutto questo con fermezza soltanto perché pensi alla capanna di Romolo. Di', piuttosto, così: "Questo umile tugurio non accoglie forse le virtù? Sarà più bello di ogni tempio se vi si potrà scorgere la giustizia, la continenza, la prudenza, la pietà, un giusto criterio nella distribuzione di tutti i doveri, la conoscenza delle cose umane e divine. Non è angusto il luogo che contiene una quantità di così grandi virtù, nessun esilio è gravoso quando vi si può andare con una tale scorta". (4) Bruto nel suo libro Sulla virtù dice di aver visto Marcello5, esule a Mitilene, che viveva felice, per quanto è concesso alla natura umana, e che si dedicava con passione, mai come allora, alle belle arti. E aggiunge che, accingendosi a ripartire senza l'amico, gli parve di andare lui in esilio, piuttosto che di lasciare in esilio Marcello. (5) O ben più fortunato Marcello quando per il suo esilio s'ebbe le lodi di Bruto che non quando per il suo consolato s'ebbe quelle della repubblica! Quanto grande quell'uomo per il quale qualcuno credette di essere egli stesso un esule nel momento in cui si congedava dall'esule. E quanto grande quell'uomo che suscitò l'ammirazione di chi, a sua volta, era ammirato da Catone!4 (6) E Bruto dice ancora che Cesare non si fermò a Mitilene perché non sopportava di vedere un tal uomo così umiliato. E quando il senato, con pubbliche suppliche, impetrò il suo ritorno, tutti erano così ansiosi e tristi, quel giorno, che sembravano essere nello stato d'animo di Bruto e pregavano non per Marcello ma per se stessi, per non continuare ad essere come esuli per l'assenza di lui. Ma il giorno in cui egli ottenne di più fu di gran lunga quello in cui Bruto non se la sentì di lasciarlo esule e Cesare non osò vederlo. Egli, infatti, s'ebbe questa doppia attestazione: Bruto si dolse di dover tornare senza Marcello, Cesare se ne vergognò. (7) Non si può dubitare che un tal uomo si sia esortato così per sopportare con animo sereno l'esilio: "Essere senza una patria non è cosa miserevole. Gli studi di cui ti sei nutrito ti hanno insegnato che l'uomo saggio ha una sua patria in ogni luogo. E allora? Quello che ti ha esiliato non è stato anche lui lontano dalla patria per dieci anni di seguito? Senza dubbio fu per estendere i confini dell'impero, ma egualmentene è stato lontano. (8) E anche ora lo chiama a sé l'Africa, così minacciata dalla ripresa della guerra, lo chiama la Spagna dove riprende forza il partito vinto e umiliato, lo chiama l'infido Egitto e, infine, tutto il mondo spia un momento di debolezza del nostro potere. Che cosa affronterà per primo? Contro chi si opporrà? La sua vittoria lo porterà di terra in terra. I popoli lo ammirino pure e lo onorino: tu vivi contento dell'ammirazione di Bruto!".

X

(1) Marcello, dunque, sopportò coraggiosamente l'esilio e il cambiamento di luogo non mutò minimamente il suo animo, benché la povertà gli fosse compagna. E che questa non sia per nulla un male lo comprende chiunque purché non sia giunto a una tale smania di avarizia e di dissolutezza da stravolgere ogni cosa. Quanto poco, infatti, occorre a un uomo per il suo sostentamento! E come può mancare questo poco a chi solo abbia qualche virtù? (2) Per quel che mi riguarda, non le ricchezze sento di aver perduto, ma le preoccupazioni. Le necessità del corpo sono minime: esso chiede che sia allontanato il freddo, che sia placata, con gli alimenti, la fame e la sete; tutto quello che desidera in più è per vizio e non per necessità. Non è necessario scandagliare tutte le profondità del mare, né appesantire lo stomaco con una strage di selvaggina, né strappare a una spiaggia ignota le conchiglie dell'oceano. Che gli dèi e le dèe confondano quelli la cui dissolutezza valica i confini di un così invidiabile impero. (3) Pretendono che sia preso di là dal Fasi ciò che serve alla loro fastosa cucina e non si vergognano di chiedere uccelli ai Parti, con i quali non abbiamo ancora saldato i conti. Da tutto il mondo fanno venire per il loro palato schizzinoso i cibi più prelibati; dal lontanissimo oceano vengono portate vivande che il loro stomaco, rovinato dalle raffinatezze, a mala pena riesce a tollerare. Vomitano per mangiare, mangiano per vomitare e non si degnano nemmeno di digerire quei cibi che fanno cercare per tutto il mondo. Ma a chi disprezza tutto questo, che danno può portare la povertà? A chi, invece, desidera queste cose la povertà giova ugualmente: infatti lo guarisce suo malgrado perché anche se egli non accetta il rimedio, benché vi sia costretto, non potendo, è simile a quello che non vuole. (4) Caligola che la natura, mi pare, ha voluto far nascere proprio per mostrare a che cosa possono giungere i grandi vizi accompagnati a una grande fortuna, per una cena, in un sol giorno, spese dieci milioni di sesterzi e, aiutato in questo dalla fantasia di tutti, trovò la maniera, anche se a fatica, di spendere per una sola cenale entrate di tre province. (5) O miserabili quelli il cui palato non è stuzzicato che dai cibi più costosi! Costosi non già per il sapore straordinario o per una qualche particolare dolcezza del gusto, ma per la loro rarità e per la difficoltà di procurarseli. Ma se tutta questa gente volesse tornare alla ragione, che bisogno c'è di tante arti al servizio del ventre? Perché tanti scambi commerciali? Perché devastare tante foreste? Perché scandagliare il fondo del mare? Dappertutto si trovano cibi che la natura ha distribuito in tutti i luoghi; ma costoro passano oltre come ciechi e percorrono tutte le regioni e attraversano i mari e mentre con poco potrebbero placare la fame, la stuzzicano a caro prezzo. (6) Vien voglia di dire: "Perché mettete in mare le navi? Perché vi armate contro le fiere e contro gli uomini? Perché correte così inquieti di qua e di là? Perché accumulate ricchezze su ricchezze? Non volete considerare quanto piccolo è il vostro corpo? Non è una pazzia, non è delirio estremo desiderare tanto, quando può contenere così poco? Voi potrete accrescere il vostro censo, potrete allargare i vostri confini, ma giammai ingrandire i vostri corpi. Quand'anche i vostri commerci siano andati bene e la guerra vi abbia reso molto, quand'anche abbiate ammucchiati i cibi venuti da ogni parte, voi non avrete dove mettere tutte queste provviste. (7) Perché, dunque, raccogliete tante cose? Certamente, allora, i nostri antenati, la cui virtù è ancor oggi il sostegno dei nostri vizi, erano ben infelici, dal momento che si preparavano il cibo con le loro mani e avevano per letto la terra e le cui dimore non splendevano di ori e non avevano templi sfolgoranti di gemme. Allora si giurava su divinità di argilla e chi le invocava tornava dal nemico disposto a morire pur di non tradirle. (8) Certo quel nostro dittatore6 che ascoltò gli ambasciatori sanniti mentre cuoceva sul fuoco un poverissimo cibo con le sue mani, con quelle stesse mani con cui spesso aveva colpito il nemico e aveva deposto una corona nel grembo di Giove Capitolino, certo, doveva vivere meno beato di quanto, a quel che noi ricordiamo, visse Apicio, che in quella città dalla quale, un tempo, i filosofi furono costretti ad andarsene perché corruttori della gioventù, fu maestro di scienza culinaria e col suo insegnamento corruppe tutta un'epoca!". (9) Vale la pena di conoscere la sua fine: dopo aver sperperato in cucina un milione di sesterzi e dopo aver divorato in una gozzoviglia dopo l'altra tante elargizioni di principi e l'enorme tributo del Campidoglio, oberato dai debiti, fu costretto per la prima volta a fare i suoi conti e così calcolò che gli restavano soltanto dieci milioni di sesterzi, e, come se vivere con dieci milioni di sesterzi volesse dire patir la fame, si avvelenò. (10) Quanta dissolutezza in quell'uomo che considerava miseria dieci milioni di sesterzi! Vieni, dunque, ora a dirmi che la ricchezza sta nelle cose e non nell'animo. Un tizio ha avuto paura di dieci milioni di sesterzi e fuggì col veleno ciò che gli altri desiderano con tutti i loro voti. Per quell'uomo, dal cervello così malato, l'ultima bevanda fu la più salutare; ma i veleni li mangiava e li beveva, quando dei suoi smisurati banchetti non soltanto godeva ma si gloriava, quando ostentava i suoi vizi, quando trascinava tutta la città nella sua dissolutezza, quando spingeva i giovani, già così inclini anche senza cattivi esempi, ad imitarlo. (11) Questo capita a chi delle sue ricchezze non fa un uso ragionevole ponendosi dei limiti ben precisi e invece si lascia andare ad abitudini viziose il cui potere è insaziabile e illimitato. Alla cupidigia non basta mai nulla, alla natura, invece, anche il poco è sufficiente. La povertà, dunque, non dà alcun fastidio all'esule, e, infatti, non v'è luogo d'esilio tanto sterile che non sia abbastanza fertile da non poter nutrire un uomo.

XI

(1) È di un abito e di una casa che l'esule sente la mancanza? Se queste cose le desidera soltanto perché gli servono, né un tetto né una coperta gli mancheranno, perché un corpo si copre con poco e con poco si nutre. La natura non ha reso faticoso per l'uomo ciò che gli è necessario. (2) Ma se uno desidera una veste sovraccarica di porpora o tessuta d'oro o ricamata a vari colori e con arte, non è colpa della sorte se egli è povero, ma sua. Anche se gli restituirai tutto quello che ha perduto, non servirà a niente; infatti egli avrà nuovi desideri che lo faranno ancora più povero rispetto a ciò che aveva quando era un esule. (3) E se uno desidera una suppellettile splendente di vasi d'oro, un'argenteria firmata dai più famosi artisti dell'antichità, bronzi resi preziosi per la mania di pochi e una folla di schiavi che renderebbe angusta la casa più grande, bestie da soma piene zeppe di cibo e costrette a ingrassare, e marmi provenienti da tutte le parti del mondo, anche se accumulerà tutto questo, mai e poi mai riuscirà a saziare l'animo insaziabile, come non ci sarà acqua a sufficienza per soddisfare colui la cui sete non deriva dal bisogno di bere ma da un fuoco ardente che gli brucia le viscere: quella, infatti, non è sete, è malattia. (4) E questo non succede soltanto per le ricchezze e per gli alimenti. È la peculiarità di ogni desiderio che nasce non dal bisogno ma dal vizio; in qualunque modo tu cercherai di soddisfarlo, non riuscirai a por fine all'avidità, ma lo farai progredire. Chi, invece, saprà contenersi nei limiti della natura non sentirà la povertà; chi oltrepasserà questi limiti avrà la povertà al suo fianco anche in mezzo alle più grandi ricchezze. Alle cose necessarie è in grado di provvedere anche l'esilio, ma a quelle superflue non basta un regno. (5) È l'animo che ci fa ricchi. Esso ci segue nell'esilio e nella solitudine più desolata, quando trova quanto basta a sostentare il corpo, si sente ricco dei suoi beni e ne gode; la ricchezza non riguarda l'animo come non riguarda gli dei immortali. (6) Tutte queste cose che gli spiriti ignoranti e troppo legati ai loro corpi ammirano, e cioè i monumenti, l'oro, l'argento, le grandi tavole rotonde e ben levigate, sono pesi terreni che un animo puro e memore della sua natura non può amare, privo com'è di macchia e pronto a slanciarsi verso l'alto appena sarà libero; nel frattempo, per quanto glielo consentono l'ingombro delle membra e questa grave soma che lo circonda, esplora le cose divine con pensiero agile e alato. (7) Pertanto non può mai sentirsi in esilio l'animo libero e parente degli dei, partecipe dello spazio infinito e dell'eterno. Infatti il suo pensiero penetra tutto il cielo e tutto il tempo presente e futuro. Questo povero corpo, invece, carcere e catena dell'anima, è sbattuto di qua e di là: su di lui si accaniscono le torture, le violenze, le malattie; l'animo, invece, è sacro ed eterno e al riparo da ogni violenza.

XII

(1) E perché tu non creda che per ridurre gli inconvenienti della povertà che, del resto, nessuno sente gravosa se non chi la ritiene tale, io mi serva soltanto dei precetti dei saggi, guarda in primo luogo la gran parte dei poveri che, se osservi bene, non sono per nulla più infelici e preoccupati dei ricchi. Anzi, non so se non siano forse più allegri dal momento che il loro animo è meno turbato dalle preoccupazioni. (2) Lasciamo i poveri e veniamo ai ricchi: quante sono le circostanze in cui essi sono simili ai poveri! Quando viaggiano sono costretti a dimezzare i loro bagagli e, ogni qual volta per necessità di viaggio sono costretti ad affrettarsi, licenziano la schiera dei portatori. Sotto le armi quanta parte dei loro beni portano con sé dal momento che la disciplina militare vieta ogni cosa superflua? (3) Non sono soltanto le circostanze dei tempi e l'aridità dei territori a renderli uguali ai poveri; in certi giorni, quando li prende la noia di tante ricchezze, decidono di mangiare per terra e, sdegnando l'oro e l'argento, adoperano recipienti di argilla. Pazzi! Hanno sempre il terrore di quello che, di quando in quando, desiderano. O quanta nebbia nelle loro menti, quanta ignoranza li acceca della verità, che essi imitano per divertirsi! (4) Io, ogni volta che ripenso agli esempi antichi, provo vergogna di consolare chi è povero, perché il lusso dei nostri tempi è giunto a tal punto che il viatico di un esule è maggiore di quanto non fosse una volta il patrimonio di un principe. È abbastanza risaputo che Omero aveva un solo schiavo, Platone tre e neanche uno Zenone, il fondatore della rigorosa e virile filosofia stoica. Che, forse, qualcuno potrebbe dire che essi siano vissuti miseramente, senza, per questo, sembrare a tutti egli stesso l'ultimo dei miserabili? (5) Menenio Agrippa, che fu l'intermediario di pace tra il senato e la plebe, fu sepolto col denaro di una sottoscrizione. Attilio Regolo, mentre era in Africa e sconfiggeva i Cartaginesi, scrisse al senato che il suo lavorante se n'era andato e aveva lasciato il suo podere in abbandono; al che il senato dispose che sarebbe stato coltivato a spese dello Stato finché Regolo fosse stato assente. Era poi tanto grave non avere uno schiavo quando fu suo colono il popolo romano? (6) Le figlie di Scipione s'ebbero la dote dal pubblico erario perché il padre non aveva lasciato nulla: era giusto, per Ercole, che il popolo romano pagasse, per una volta, un tributo a Scipione quando lo riscuoteva costantemente dai Cartaginesi. Fortunati gli sposi di quelle ragazze che s'ebbero per suocero il popolo romano! O credi che siano più felici questi le cui danzatrici si sposano con un milione di sesterzi, anziché Scipione le cui figlie ricevettero per dote, dal Senato, loro tutore, una moneta di rame? (7) E qualcuno disdegna ancora la povertà che ha esempi così fulgidi? Come può sdegnarsi un esule se gli manca qualcosa quando a Scipione mancava la dote per le figlie, a Regolo il bracciante per il suo podere, a Menenio i soldi per il funerale, quando a tutti costoro fu dato onorevolmente ciò che a loro mancava, proprio perché ne erano privi? Con questi esempi la povertà non solo è al sicuro, ma è anche gradita. 

XIII

(1) Si potrebbe rispondere: "Perché separi artificiosamente delle cose che, singolarmente, sono sopportabili, ma che, riunite, non lo sono più? Il cambiamento di luogo è sopportabile se si tratta solo di cambiamento; la povertà è tollerabile se è disgiunta dal disonore che, da solo, basta per deprimere l'animo". (2) A chiunque vorrà atterrirmi con questa quantità di mali ci sarà da dir questo: se hai abbastanza forza da resistere a una qualunque forma di sventura, tu l'avrai anche contro tutte le altre: una volta che la virtù ha reso forte l'animo esso sarà invulnerabile sempre. (3) Se ti sei liberato dalla cupidigia, la piaga più terribile del genere umano, l'ambizione non farà presa su di te. Se guardi al tuo ultimo giorno non come a un castigo ma come a una legge di natura, nel tuo cuore, dal quale avrai scacciato il timore della morte, non entrerà nessun'altra paura. Se tu consideri che lo stimolo sessuale non è stato dato all'uomo per il semplice piacere ma per la propagazione della specie e se questo flagello insidioso che si annida fin nelle stesse viscere non ti avrà corrotto, allora ogni altra passione ti lascerà intatto. La ragione non doma i vizi uno alla volta, ma tutti contemporaneamente, e la sua vittoria è completa una volta per tutte. (4) Tu credi che il disonore possa turbare il saggio che ha riposto tutto in se stesso e che si è allontanato dalle opinioni del volgo? Una morte disonorevole è ben peggiore del disonore. Tuttavia Socrate con lo stesso volto col quale, poco prima, aveva da solo riportato all'ordine i trenta tiranni, entrò in carcere e tolse ogni disonore a quel luogo. Infatti non poteva sembrare più un carcere quel luogo dove c'era Socrate. (5) E chi mai è tanto cieco di fronte alla verità da considerare un disonore la duplice sconfitta di Marco Catone nella candidatura per la pretura e per il consolato? Il disonore fu per la pretura e per il consolato ai quali Catone aveva fatto l'onore di candidarsi. (6) Nessuno è disprezzato dagli altri se non è prima lui stesso che si disprezza. Soltanto un animo mediocre e vile sia esposto a questa offesa: ma chi si erge contro i più crudeli eventi e atterra quei mali sotto i quali gli altri restano schiacciati, considera le sue stesse miserie come qualcosa di sacro, dal momento che noi siamo così fatti che niente muove di più la nostra ammirazione di un uomo forte nelle sventure. (7) Ad Atene Aristide veniva condotto a morte e tutti quelli che lo incontravano abbassavano gli occhi e piangevano come se si stesse condannando non già un uomo giusto, ma la stessa giustizia. Eppure ci fu un tale che gli sputò in faccia. Egli avrebbe potuto indignarsi poiché sapeva che nessuna bocca leale avrebbe osato questo; invece si pulì il viso e sorridendo disse al magistrato che lo accompagnava: "Avverti costui che, un'altra volta, non sbadigli così sgarbatamente". E questa fu la sua offesa a chi gli faceva offesa. (8) So che alcuni dicono che niente è più grave del disprezzo e che trovano preferibile la morte. A costoro io risponderò che, spesso, anche l'esilio non comporta alcun disprezzo: se un uomo grande cade, è grande anche quando è caduto; non è disprezzato più di quelle rovine di templi sulle quali si cammina, ma che i fedeli venerano ugualmente come se ancora stessero in piedi.

XIV

(1) Poiché, madre carissima, non v'è motivo alcuno che tu per me debba versare tante lacrime, allora vuol dire che tu hai delle ragioni personali per farlo e che possono essere due: o ti angoscia il pensiero di aver perduto un appoggio o non puoi sopportare la mia lontananza. (2) Affronterò solo di sfuggita il primo caso: infatti io conosco il tuo animo e so che ami i tuoi cari solo per quello che sono. Ci penseranno quelle madri che con dispotismo tutto femminile sfruttano il potere dei figli, che, non potendo, perché donne, ricoprire cariche pubbliche, sono ambiziose per loro, che si impossessano e consumano il patrimonio dei figli e che non danno riposo alla loro eloquenza offrendola a tutti. (3) Tu ti sei sempre rallegrata della fortuna dei tuoi figli, ma non te ne sei affatto servita; tu hai sempre imposto un limite alla nostra liberalità, ma non hai mai limitato la tua; anche se figlia di famiglia, tu hai contribuito a far ricchi i tuoi figli; tu hai amministrato i nostri patrimoni con lo stesso impegno con cui avresti amministrato i tuoi e con lo stesso scrupolo come se fossero di estranei; tu non hai mai approfittato del nostro successo come se si trattasse di cosa d'altri e dai nostri onori non hai avuto che piacere e spese; il tuo affetto non ha mai tenuto presente l'utilità. Non puoi, dunque, rimpiangere, ora che ti è stato tolto un figlio, quei vantaggi che non hai mai pensato che ti riguardassero quando egli ti era vicino.

XV

(1) Tutti i miei sforzi per consolarti devo indirizzarli là dove nasce con tanta violenza il tuo dolore di madre: "Eccomi, dunque, priva dell'abbraccio del mio carissimo figlio! Non posso godere più della sua vista, né della sua conversazione! Dov'è colui alla cui presenza il mio volto si rasserenava e nel quale io deponevo tutti i miei affanni? Dove le nostreconversazioni di cui io ero insaziabile? Dove i suoi studi ai quali partecipavo più volentieri di qualunque donna e più familiarmente di qualunque madre? Dove i nostri incontri? Dove quella sua gaiezza infantile alla vista della madre?". (2) A questi pensieri tu aggiungi i luoghi della nostra gioia e dei nostri incontri e, come è inevitabile, i particolari della recente intimità, efficacissimi a tormentare l'animo. La sorte, infatti, crudelmente ha macchinato anche questo contro di te: ha voluto che tu partissi tranquilla e senza sospetto alcuno due giorni prima che io fossi colpito dalla condanna. (3) È stato un bene che noi siamo vissuti lontani, un bene che l'assenza di qualche anno ti abbia preparato a questa disgrazia. Tu sei tornata non per godere della presenza di tuo figlio ma per perdere l'abitudine alla sua assenza. Se tu fossi partita molto prima avresti sopportato la sventura con animo più forte, perché col tempo il rimpianto si sarebbe affievolito; se tu, invece, non fossi partita avresti avuto certamente quest'ultimo conforto di vedere per altri due giorni tuo figlio; ora il destino crudele ha, invece, deciso che tu non fossi presente al momento della mia disgrazia e, per un altro verso, che tu non fossi abituata alla mia lontananza. (4) Ma quanto più dolorose sono queste vicende, tanto più coraggio tu devi avere e con altrettanto vigore devi combattere, come contro un nemico già noto e altre volte sconfitto. Il tuo sangue non sgorga da un corpo incolume: sei stata colpita sulle stesse cicatrici.

XVI

(1) Non ti valere della scusa di essere donna a cui è concesso quasi il diritto di piangere senza discrezione, ma non senza limiti; per questo i nostri padri dettero un tempo di dieci mesi alle donne per piangere i loro uomini e questo per definire, con una disposizione ufficiale, l'ostinazione del dolore femminile: non vietarono il lutto ma gli diedero un termine. Infatti, lasciarsi andare a un dolore senza fine, quando si perdono i propri cari, è una sciocca debolezza, il non provarne alcuno è inumana durezza: la giusta via di mezzo tra la pietà e la ragione è sentire rimpianto ma soffocarlo. (2) Non devi guardare a quelle donne la cui disperazione, una volta che ne furono prese, cessò con la morte; tu ne conosci alcune che, perduti i figli, non si tolsero più l'abito da lutto; da te la vita, dal momento che ti sei dimostrata più forte fin dall'inizio, pretende di più. Non può invocare la scusa di essere donna chi è sempre stata immune dalle debolezze femminili. (3) Il peggior male del secolo, l'impudicizia, non ti ha indotto a seguire la maggioranza, né gemme, né perle ti hanno sedotto, né le ricchezze ti hanno mai abbagliato come il più gran bene del genere umano, né tu, che fosti educata in una casa all'antica e austera, sei mai stata traviata dall'imitazione dei peggiori, pericolosa anche per le persone oneste, né ti sei mai vergognata della tua fecondità come se ti rinfacciasse la tua età, né mai, come fanno le altre, il cui solo vanto è la bellezza, hai nascosto il ventre gonfio, come se fosse un peso vergognoso, né ti sei liberata della speranza dei figli già in te concepiti; (4) né ti sei mai imbrattata il viso con colori e belletti, né ti sono mai piaciute quelle vesti che, quando si tolgono, non lasciano più nulla da scoprire; unico tuo ornamento, bellezza somma non soggetta all'ingiuria del tempo, tuo grande titolo d'onore, ti è sempre sembrata la pudicizia. (5) Non puoi, dunque, per difendere il tuo dolore, allegare la tua condizione di donna, dalla quale ti hanno allontanata le tue virtù; devi tenerti lontana dalle lacrime femminili come ti sei tenuta lontana dai difetti. Nemmeno le donne ti permetteranno di consumarti nel tuo dolore, ma dopo che ti sarai concesso un breve e necessario cordoglio, ti inviteranno a risorgere, sempre che tu voglia guardare a quelle che una riconosciuta virtù ha posto fra gli uomini grandi. (6) Dei dodici figli che aveva Cornelia, la sorte gliene lasciò due. Se vuoi contare i lutti di Cornelia, sono dieci; ma prova a valutarli: erano i Gracchi. Tuttavia a quanti le piangevano intorno e maledicevano il suo destino, ella proibì che imprecassero contro la sorte che per figli le aveva dato i Gracchi. Da una tal donna doveva nascere chi gridò in assemblea: "Tu insulti mia madre che ha partorito me!". Ma a me sembra molto più coraggiosa la frase della madre: il figlio faceva gran conto della nascita dei Gracchi, la madre anche della loro morte. (7) Rutilia seguì il figlio Cotta in esilio, e tanto era legata a lui da tenerezza, che preferì sopportare l'esilio anziché la sua lontananza e non rientrò in patria che con lui. Ma, una volta rientrato e divenuto personaggio importante nella vita pubblica, ella lo perse con lo stesso coraggio col quale lo aveva seguito e nessuno la vide piangere dopo il funerale del figlio. Quando fu bandito, ella mostrò coraggio; quando lo perse, saggezza. Infatti nulla l'aveva distolta dal suo affetto e nulla la fece indugiare in un'inutile e sciocca tristezza. Tra queste donne voglio annoverare anche te. Avendone sempre imitata la vita, seguirai bene il loro esempio nel contenere e reprimere il dolore.

XVII

(1) Io so che la cosa non è in nostro potere come non lo è nessun sentimento e tanto meno quello che nasce dal dolore: esso è, infatti, spietato e ostinato a qualsiasi rimedio. Talvolta noi cerchiamo di soffocarlo e di inghiottire i nostri singhiozzi; tuttavia, anche se il volto resta composto e impassibile, le lacrime scorrono lo stesso. Talvolta ci distraiamo ai giuochi, ai combattimenti dei gladiatori e, tuttavia, proprio durante gli spettacoli, che pure dovrebbero divagarci, ecco che basta un minimo ricordo a sconvolgerci. (2) Quindi è meglio vincere il dolore piuttosto che ingannarlo. Infatti, se è distratto e sviato dai piaceri e dalle occupazioni, esso risorge e riprende vigore dal suo assopimento e torna a infierire; se invece ha ceduto alla ragione, si è calmato per sempre. Non ti indicherò, dunque, quei rimedi ai quali, a quanto so, ricorrono in molti, come un viaggio che ti tenga a lungo lontano e ti distragga piacevolmente, o come occupare il tempo a rivedere attentamente i tuoi conti e ad amministrare il tuo patrimonio, o come lasciarti prendere da sempre nuove attività; tutte queste cose giovano per poco tempo, ma non sono un rimedio al dolore, sono solo un ostacolo. Io, invece, desidero farlo cessare anziché ingannarlo. (3) Così io ti conduco là dove si rifugiano tutti quelli che vogliono evitare la cattiva sorte, negli studi liberali: essi guariranno le tue ferite e scacceranno da te ogni tristezza. Anche se tu non vi fossi mai stata abituata, ora dovresti ricorrervi; ma per quanto te lo abbia concesso la severità d'antico stampo di mio padre, tu hai avuto dimestichezza con tutti gli studi, anche se non li hai approfonditi. (4) Magari mio padre, il migliore degli uomini, fosse stato meno legato alle consuetudini del passato e ti avesse permesso di approfondire i precetti della filosofia, anziché averne solo una conoscenza superficiale! Non dovresti ora preparartelo questo rimedio contro la sorte, ma lo avresti già pronto. Fu proprio per colpa di queste donne che ricorrono alle lettere non per acquistar saggezza ma per introdursi nella vita mondana, che egli non permise che tu ti dedicassi allo studio. Tu hai tratto, dunque, profitto più dalla vivacità del tuo ingegno che dal tempo disponibile e, quindi, hai le basi di tutte le discipline. (5) Torna ora ad esse. Ti renderanno sicura, ti daranno conforto e diletto; se, francamente, darai un posto ad esse nell'animo tuo, non vi entrerà più il dolore, né l'angoscia, né l'inutile tormento di una vana afflizione. L'animo tuo non sarà più esposto a nessuno di questi mali. A ogni altra debolezza, infatti, è già chiuso da tempo.

XVIII

(1) Queste, certamente, sono le difese più valide, le uniche che possono sottrarti alla cattiva sorte. Ma poiché, fino a quando tu non giungi a quel porto che gli studi ti promettono, hai bisogno di appoggiarti ad altri sostegni, voglio mostrarti di quali consolazioni tu puoi, nel frattempo, disporre. Guarda ai miei fratelli: finché essi stan bene, non è giusto che tu te la prenda con il destino. (2) In entrambi, ciascuno per i suoi meriti, puoi trovare motivo per rallegrarti; uno, con la sua attività, ha raggiunto cariche importanti, l'altro, saggiamente, le ha disprezzate. Sii soddisfatta dell'autorità del primo, della vita tranquilla del secondo e dell'affetto di entrambi. Io conosco gli intimi sentimenti dei miei fratelli7: uno pratica la vita pubblica per darti lustro, l'altro si raccoglie in una vita serena e calma per dedicarsi a te. (3) Bene ha disposto il destino che i tuoi figli ti fossero d'aiuto e di sollievo: tu puoi essere protetta dall'autorità del primo e rallegrarti della vita tranquilla dell'altro. Essi gareggeranno in premure nei tuoi riguardi e il rimpianto che hai per uno sarà ripagato dall'affetto degli altri due. Posso senz'altro assicurarti che non ti mancherà nulla, tranne il numero. (4) Guarda poi i nipoti: Marco8, un bambino graziosissimo, alla cui presenza non c'è tristezza che possa durare. Non c'è dolore così grande o così recente che ci tormenti l'animo che egli non sappia lenire con le sue carezze. (5) Quali lacrime non asciuga la sua allegria? Quale animo stretto dall'angoscia non rasserena la sua vivacità? Chi non è spinto al buonumore dalla sua spensieratezza? Chi, per quanto preso dai suoi pensieri, non si lascerebbe sedurre e distrarre dalla sua loquacità instancabile? (6) Io supplico gli dèi che questo bambino ci sopravviva. Che tutta la crudeltà del destino si sfoghi su di me, che tutto il dolore riservato alla madre si concentri in me, su di me quello riservato alla nonna e che il resto della famiglia viva in prosperità. Non mi lamento della perdita di mio figlio, né della mia condizione se con il sacrificio potrò impedire altri dolori alla mia famiglia. (7) Stringiti tra le braccia Novatilla, che presto ti darà dei pronipoti; l'avevo così accolta in me, me la sentivo così mia, che ora che mi ha perduto può sembrare orfana anche se il padre è vivo. Amala, dunque, anche per me. Da poco la sorte le ha tolto la madre. Il tuo affetto può fare in modo che ella senta certamente il dolore per la perdita della madre ma non ne soffra. (8) Educala, formala alla svelta: gli insegnamenti impartiti in tenera età si radicano più profondamente. Si abitui alle tue osservazioni, impari ad obbedirti, le darai molto anche se non le darai altro che il tuo esempio. Intanto questo compito così impegnativo sarà per te anche un rimedio: perché un animo così teneramente afflitto non può essere distolto dal suo dolore se non dalla ragione o da una nobile occupazione. (9) Fra i validi motivi di conforto vorrei ricordare anche tuo padre, se non fosse lontano. Dal tuo affetto per lui, pensa ora quale può essere il suo per te; potrai capire quanto sia più giusto che tu ti conservi per lui invece che sacrificarti per me. Tutte le volte che il dolore ti prenderà con forza e oltre misura e vorrà trascinarti, pensa a tuo padre. Certo dandogli tanti nipoti e tanti pronipoti, tu per lui non sei più l'unica, tuttavia da te dipende che egli possa giungere felicemente al compimento della sua vita. Finché egli vive non ti è lecito lamentarti di essere viva.

XIX

(1) E finora non ti ho parlato del tuo grande conforto, di tua sorella, cuore a te fedelissimo, che condivide in egual misura tutte le tue pene, animo per tutti noi materno. Tu hai mescolate alle sue le tue lacrime e, tra le sue braccia, sei di nuovo tornata a vivere. (2) Ella partecipa sempre ai tuoi sentimenti; tuttavia quando si tratta di me non si addolora soltanto per te. Fra le sue braccia io fui portato a Roma; per le sue cure affettuose e materne io, dopo una lunga malattia, mi ristabilii; ella adoperò tutta la sua influenza per farmi ottenere l'incarico di questore, vincendo la sua timidezza per amor mio, lei che non ha nemmeno il coraggio di parlare o di salutare a voce alta. Né il tipo di vita ritirata, né la sua riservatezza, che fra tanta sfacciataggine femminile sembra sgarberia, né il suo desiderio di pace, né le sue abitudini a una vita tranquilla le impedirono che diventasse, per me, perfino intrigante. (3) Madre carissima, è questa la consolazione che ti risolleverà; stalle vicino quanto più puoi, tientela stretta fra le braccia. Di solito, chi soffre, suole fuggire le persone che più ama, per dare così uno sfogo al proprio dolore: tu, invece, va' da lei, quali che siano i tuoi propositi; sia che tu voglia perseverare in questo tuo comportamento, sia che tu voglia desistervi, sempre troverai in lei chi saprà liberarti dal tuo dolore o condividerlo. (4) Ma se conosco bene il senno di questa donna straordinaria, ella non ti lascerà consumare in un dolore inutile e ti porterà il suo esempio di cui io fui testimone. Ella aveva perduto, durante un viaggio per mare, il suo carissimo sposo, un mio zio, che aveva sposato quando era ancora una ragazza. Vinse, in quel frangente, il dolore e la paura e, superata la tempesta, strappò al naufragio il corpo del marito. (5) O quante valorose azioni di donne restano sconosciute! Se costei fosse vissuta in quei tempi antichi quando senza malizia si ammiravano le virtù, con quale gara di ingegni si sarebbe celebrata questa moglie che, dimenticando la sua debolezza, dimenticando il mare, tremendo anche per i più impavidi, mette a repentaglio la propria vita per dare sepoltura al marito e mentre si dà pensiero del suo funerale, non teme il proprio. È celebrata da tutti i poeti colei che si offrì al posto del marito9, ma è ancora più mirabile cercare una sepoltura per lo sposo a rischio della vita; più grande è quell'amore che, a parità di rischio, trae un vantaggio minore. (6) Dopo di ciò nessuno si meraviglierà che per tutti i sedici anni durante i quali suo marito rimase in Egitto, ella non si fece mai vedere in pubblico, non ricevette a casa mai nessun abitante della provincia, non chiese mai nulla al marito e non consentì che si richiedesse a lei qualcosa. E, quindi, la provincia pettegola e solo capace di denigrare i suoi governatori, nella quale anche coloro che non si macchiarono di nessuna colpa non sfuggirono alla calunnia, la considerò come un raro esempio di virtù, e, cosa molto difficile per chi ama le facezie anche pericolose, frenò ogni licenza verbale e, ancor oggi, per quanto più non lo speri, desidererebbe una simile donna. Sarebbe già tanto essere stata lodata da questa provincia per sedici anni, ma ancor più è l'essere stata ignorata. (7) Ma io non racconto tutto questo per fare le sue lodi, che, oltretutto, accennandovi così brevemente, sarebbe un limitarle, ma perché tu comprenda che animo nobile ha questa donna, che non si lasciò vincere né dall'ambizione, né dalla cupidigia, compagne e flagelli di ogni potere, e neppure dal timore della morte, quando, con la nave alla deriva, consapevole ormai di far naufragio, non si allontanò dal cadavere di suo marito, cercando non tanto di mettere in salvo se stessa ma lui nella tomba. Mostra un coraggio pari al suo, risolleva il tuo animo dal dolore e comportati in modo che nessuno creda che tu ti sia pentita di essere madre.

XX

(1) D'altro canto, perché è inevitabile che, qualunque cosa tu faccia, i tuoi pensieri ricorrano sempre a me e che nessun altro dei tuoi figli ti torni così spesso alla mente, non perché ti siano meno cari ma perché è naturale che si porti spesso la mano là dove si sente il male, ecco come devi immaginarmi: lieto e sereno come se tutto andasse per il meglio. E, infatti, ogni cosa va per il suo verso, dal momento che l'animo, libero da ogni impegno, attende alle sue attività più congeniali e si diletta ora in studi poco impegnativi, ora si innalza, avido di verità, a contemplare la natura sua e quella dell'universo (2) Studia prima le terre e la loro posizione, poi il regime dei mari che le circondano e il loro alterno flusso e riflusso; poi osserva lo spazio esistente fra la terra e il cielo, pieno di fenomeni spaventosi, lo spazio turbolento di tuoni, di fulmini, di raffiche di vento, di scrosci di piogge, di neve e di grandine. Poi, dopo aver esplorato le zone inferiori, si slancia verso le più eccelse e gode del meraviglioso spettacolo delle cose divine; memore della sua eternità, percorre il passato e il futuro attraverso tutti i secoli.

 

(Traduzione di Nino Marziano).

Nota 1: Seneca detto "il Vecchio".

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Nota 2: per quanto possa sembrare strano, si tratta della Corsica, in cui Seneca si trovava in esilio. È davvero incredibile sentir parlare in questi termini di uno dei luoghi di vacanza attualmente più rinomati!

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Nota 3: Enea, naturalmente.

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Nota 4: Marco Giunio Bruto, il cesaricida, nonché figlio adottivo di Giulio Cesare. Era un filosofo stoico, assai stimato dagli esponenti latini dello stoicismo tardo .

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Nota 6: Manio Curio Dentato (che in verità non era dittatore, ma console).

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Nota 7: Novato (padre di Novatilla, nominata in seguito) e Mela .

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Nota 8: Si tratta del piccolo Marco Anneo Lucano, figlio di Anneo Mela e futuro grande poeta.

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Nota 9: Alcesti, che diede la vita per il marito Admeto (cfr. l'Alcesti di Euripide e il Simposio di Platone).

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