DONALD DAVIDSON
A cura di Sergio Levi
Donald Davidson nasce a Springfield (Massachusetts) il 6 marzo 1917. Trascorre gli anni del liceo fra Staten Island e New York, ma compie gli studi universitari ad Harvard, dove segue i corsi di Whitehead. All’inizio la sua passione è per la letteratura, legge la Bibbia, Shakespeare, Omero e Goethe. Dopo la laurea va a Hollywood, dove si propone senza molto successo come autore radiofonico, finché durante l’estate lo chiamano da Harvard per offrirgli una borsa in letteratura e filosofia. Qui inizia a seguire un corso di logica e un seminario sul positivismo logico, tenuti entrambi da Quine. Questi nel 1933 era tornato dall’Europa dove aveva conosciuto Tarski e Carnap, di cui avrebbe diffuso e successivamente criticato le teorie. Nel 1947 riceve il primo incarico come insegnante al Queens College di New York, dove frequenta Carl Hempel, Sydney Morgenbesser e A.J. Ayer. Completa la tesi di dottorato sul Filebo di Platone. Alla fine del 1950 ha un contrasto con il nuovo presidente del Queens, e già nel gennaio del 1951 è in partenza per Stanford, dove è assunto come Assistant Professor. Qui rimarrà fino al 1970. Dal 1967 al 1968 insegna anche a Princeton, dove frequenta Gil Harman, Gregory Vlastos e Tom Nagel. Nel 1970 accetta un incarico alla Rockefeller University di New York, dove collabora con H.G. Frankfurt, Joel Feinberg e Saul Kripke. Nel 1975 lascia New York per andare a insegnare a Chicago. Nel 1981 entra all’Università della California a Berkeley, dove rimarrà fino alla fine. Nel 1991 la città di Stoccarda gli conferisce il Premio Hegel. Muore in California il 30 agosto 2003. L’influenza del pensiero davidsoniano sul dibattito contemporaneo abbraccia un’area che si estende dalla filosofia dell’azione (qual è la differenza fra un evento fisico e un’azione?) alla teoria della spiegazione razionale (che cosa rende un’azione o un pensiero razionale?), dalla questione del realismo intenzionale (esistono davvero gli stati mentali o sono meri concetti esplicativi?) al problema del significato (che cosa fa sì che le parole abbiano il significato che hanno?), dal problema del rapporto fra mente e corpo all’analisi dei comportamenti irrazionali (autoinganno e debolezza del volere). In filosofia della mente il nome di Davidson è legato alla dottrina del monismo anomalo, una concezione ontologica escogitata per far convivere tre principi comunemente accettati ma apparentemente incompatibili. (1) Principio dell’interazione causale fra mentale e fisico: eventi mentali come credenze e desideri causano le nostre azioni, che causano eventi fisici nel mondo esterno; questi ultimi causano in noi percezioni, credenze e altri stati mentali. (2) Principio nomologico della causalità: se fra due eventi si dà una relazione causale, allora esiste una legge rigorosa sotto la quale i due eventi possono essere sussunti. (3) Principio dell’anomalia del mentale: non esistono leggi psicofisiche rigorose. Proprio in virtù di tale principio, quegli eventi mentali che hanno relazioni causali con eventi fisici devono avere anche descrizioni fisiche, sotto le quali possano ricadere sotto leggi rigorose: dunque devono essere fisici. In altre parole, gli eventi mentali sono individualmente identici a eventi fisici (fisicalismo), ma non c’è modo di ridurre il vocabolario mentale a quello fisico (anti-riduzionismo). Una volta che separiamo il piano delle relazioni causali dal piano delle descrizioni sotto cui gli eventi possono esemplificare leggi rigorose, possiamo difendere l’irriducibilità del mentale senza ricorrere a barriere ontologiche o metodologiche fra scienze umane e scienze della natura. A impedire l’esistenza di leggi psicofisiche rigorose concorrono due ordini di fattori. Innanzitutto, (I) l’olismo del mentale, il fatto che gli stati intenzionali non possono esistere isolatamente. Un atteggiamento proposizionale (come, per esempio, la tua credenza che la terra non sia piatta) viene identificato dalla posizione che occupa all’interno di una rete di credenze, desideri, speranze e altri tuoi atteggiamenti. A ciò si deve aggiungere (II) l’imporsi di principi di carità che inducono un interprete a rendere i suoi informatori razionali e coerenti ogniqualvolta è possibile farlo. La carità, ha spiegato Davidson, "non è un’opzione", ma la condizione per interpretare gli altri. Se non accordassimo alle parole altrui i nostri standard di razionalità, non potremmo nemmeno avvicinarci a ciò che il parlante intendeva dire. Ma, al di qua degli standard di razionalità imposti dall’interprete, che cos’è che determina il significato delle mie parole o (che è lo stesso) il contenuto dei miei pensieri? Per rispondere a tale domanda è necessario riandare alle situazioni in cui le parole furono acquisite. Ciò che un individuo intende con ciò che dice dipende, infatti, sia da queste situazioni di apprendimento ("veri battesimi di senso") sia da come le altre persone parlano e si comprendono. È il tema wittgensteiniano della natura essenzialmente sociale del linguaggio e del pensiero, che Davidson riprende attraverso l’immagine del "triangolo di base" parlante-interprete-mondo, in cui ciascun individuo risponde contemporaneamente alle risposte di somiglianza dell’altro, e agli oggetti ed eventi del mondo a cui l’altro sta rispondendo. Il metodo dell’interpretazione radicale non fornisce una spiegazione del processo interpretativo, ma solleva una domanda sulle condizioni di possibilità del suo inizio. Lo scopo del filosofo, sembra dirci Davidson, non è più descrivere da un punto di vista scientifico le tappe che scandiscono la crescita del sapere, come voleva il naturalismo epistemologico di Quine. Tale ideale, essendosi rivelato incapace di porre un argine allo scetticismo, può passare in secondo piano, per fare spazio (sul terreno più generale della filosofia della mente) all’articolazione di un principio "esternalista" o anti-cartesiano, secondo cui i contenuti intenzionali non sono costitutivamente indipendenti dall’ambiente esterno alla mente.