ERNESTO DE MARTINO
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Lo “storicismo pigro”[2]
e “sermoneggiante”[3]
dei “Crociani”, dogmatico e intento a tramutare ogni verità in verità spirituale
e statica, è assolutamente incapace di guardare al di là della civiltà
occidentale, nei cui confini resta imprigionato.
Il mondo della magia, di cui le società "primitive" offrono imponenti
manifestazioni ch'egli assume a documento, ha per lui una sua realtà
precategoriale ed è visto come una primordiale rappresentazione del mondo,
funzionale al bisogno - per usare i termini da lui adottati - di
"garantire la presenza". Sensibile fin da quest'opera è l'influenza
dell’esistenzialismo di Martin Heidegger, da cui egli mutua alcuni
concetti-base e in parte il linguaggio (è heideggeriana la nozione di
“esserci”), introducendo nel campo dell'antropologia religiosa nozioni quali
quella di "crisi della presenza" e quella di "riscatto dalla
crisi": un riscatto attuato, secondo il de Martino, per il tramite del
rituale magico religioso, inteso come tecnica. di superamento della crisi e
della "angoscia della storia". In quell’epoca dai contorni ben
definiti che è il “mondo magico”, l’esserci nel mondo non è certo né garantito,
ma è piuttosto “una realtà condenda”[4],
sempre esposta al rischio della labilità e dell’annullamento, a cimenti
tremendi che “possono mettere a dura prova la resistenza del ‘ci sono’”[5],
al pericolo di perdere l’anima e di non esserci più. Esattamente in questo
risiede il “dramma storico” che caratterizza il mondo magico. E la volontà di
esserci come presenza davanti al rischio di non esserci è l’angoscia che
accompagna sempre e di nuovo l’uomo di quel mondo. A questa prospettiva erano
approdati anche i cosiddetti “irrazionalisti” (Lévy-Bruhl, Klages, Dacqué), che
però ad essa si erano arrestati, senza accorgersi che il mondo magico è anche
percorso dallo sforzo di sottrarsi al rischio di non esserci. In vista di ciò,
è la magia a elaborare sempre nuove strategie (guarentigie,
compromessi, compensi) per garantire la presenza umana nel mondo, per agire
in esso anziché essere agiti da esso. In particolare, sventare il
rischio della scomparsa della presenza è compito di quello che De Martino
chiama “l’eroe della presenza, il Cristo magico, cioè lo stregone”, il
quale vive la dissoluzione e il riscatto della sua
presenza anche per gli altri. Questa concezione della presenza è antitetica
rispetto a quella della cultura occidentale, per la quale l’“io” è un dato che
cade al di là di ogni possibile dubbio: dai Greci in poi, passando per il
Cristianesimo, siamo abituati a considerare la presenza come l’esserci
elementare, fondato e condizionato dal principio – tematizzato da Immanuel Kant
– dell’atto della funzione sintetica trascendentale: così intesa, la presenza
si mantiene in quanto capace di trascendere, attraverso l’atto, qualsiasi
contenuto esistenziale, qualsiasi accadimento emozionale della vita individuale
o collettiva. A differenza di noi, che riportiamo immediatamente tutte le
nostre percezioni a un “io” trascendentale e stabile, gli uomini del mondo
magico non operano tale sintesi e per loro, in forza di questo mancato
riferimento a un’unità, i contenuti esperienziali diventano pericolosi per la presenza,
in quanto caotici e disordinati, e devono dunque essere disciplinati attraverso
la magia. In particolare, la crisi è plasmata e controllata attraverso la
ripetizione di gesti e tecniche che costituiscono il patrimonio collettivo e
storico del “così si fa”.
Scrive de Martino:
“L’uomo magico è esposto al rischio della labilità nelle sue solitarie peregrinazioni, allorché la solitudine, la stanchezza connessa al lungo peregrinare, la fame e la sete, l’apparizione improvvisa di animali pericolosi, il prodursi di eventi inaspettati ecc., possono mettere a dura prova la resistenza del ‘ci sono’. L’anima andrebbe facilmente ‘perduta’ se attraverso una creazione culturale e utilizzando una tradizione accreditata non fosse possibile risalire la china che si inabissa nell’annientamento della presenza”[6].
Benedetto Croce sottopose a una
critica impietosa l’opera di de Martino, attaccando soprattutto
quell’ammissione demartiniana della storicità delle categorie che, di fatto,
segnava il punto di maggior rottura con l’ortodosso storicismo crociano[7].
L’errore imperdonabile commesso da de Martino è da Croce ravvisato in un
indebito capovolgimento della prospettiva del “vero” storicismo: dimenticandosi
che è lo spirito a creare la storia, de Martino ha ammesso l’esatto contrario,
facendo dello spirito un qualcosa di creato dalla storia nel suo incessante
avanzare. L’aspetto forse più interessante di questa querelle è che
Croce, nel formulare la sua condanna del metodo demartiniano, lo accosta alla
“prequarantottesca spiritosa invenzione”[8]
del marxismo, che, interessato a trasformare il mondo anziché a conoscerlo, ha
storicizzato le categorie interpretative.
Sviluppando la sua speculazione etnologico-religiosa, il de Martino si avvale
sempre più della psicologia e dell'ausilio offerto dalla sua conoscenza delle
scienze psichiatriche, secondo un criterio che sarà da lui stesso più tardi
ripreso con il massimo impegno, nell'ultimo periodo della sua attività di
studioso, cioè nell'opera cui attendeva prima della prematura morte e che
sarebbe stata pubblicata postuma, La fine del mondo. In ciò si rivela una
continuità di pensiero e di interessi che procede dai primissimi contributi
fino agli ultimi e più impegnativi, attraverso una fase intercalare, pur essa
di fondamentale importanza, ma relativamente autonoma e che abbraccia il
periodo delle opere "meridionalistiche.
Una svolta decisiva nell'esistenza e nell'attività del de Martino fu
determinata dalla sua esperienza di militante nei partiti della Sinistra e dal
proprio impegno ideologico-sociale.
Dal 1945 egli si trovò ad agire, come segretario di federazione del Partito
socialista (PSIUP poi PSI), nell'Italia meridionale: a Bari, Molfetta, poi
Lecce (qui in veste di commissario).
Dal 1950 egli aderiva al Partito comunista italiano. Il contatto diretto con i
contadini del Sud, e con i problemi del Meridione, impresse un marchio
originale sulla personalità dello studioso, che in quell'esperienza ricevette
lo stimolo a muoversi verso un'etnologia o antropologia fatta di ricerche sul
terreno. Da allora fu spinto ad assumere come problema centrale della propria
ricerca l'analisi del folklore religioso nella cultura contadina del Sud.
Se il Meridione d'Italia costituiva da tempo un problema nella coscienza di
storici, economisti, sociologi, nessuno aveva fin allora affrontato nella sua
autonomia il problema della "cultura" contadina del Sud, vista come
complessa e specifica concezione del mondo e collocata sul fondo di una società
storicamente determinata. lì de Martino sentì l'urgenza di colmare questo
vuoto.
Oltre che dall'esperienza della militanza politica, egli fu indotto a questa
scelta anche dalla convergenza di alcuni altri fattori o eventi: in particolare
l'uscita del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi nel 1945 e il
conseguente incontro con Levi; l'incontro con Rocco Scotellaro, poeta-contadino
lucano, e infine l'uscita dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci nel 1948.
Scoperta - anche attraverso Levi e Scotellaro - la drammatica umanità di quel
mondo subalterno, il de Martino si avviò al suo compito di analisi e
interpretazione, valendosi degli strumenti offertigli dalla sua consapevolezza
di storico, dalle tecniche della ricerca etnologica e dalla chiave
interpretativa - marxista e classista - che Gramsci gli offriva relativamente
alle forme di quel folklore meridionale che Gramsci stesso raccoglieva nella
categoria del "cattolicesimo popolare". Le origini, il significato,
il persistere di credenze e pratiche magico-religiose arcaiche tra i ceti
rurali del Sud sono infatti studiati dal de Martino nel contesto di una storia
sociale che ne costituisce la base determinante. Cosi, con una serie di
missioni etnografiche dai primi anni '50, egli raccolse una quantità di
documenti relativi a manifestazioni magico-religiose e ne studiò le origini
storiche, i rapporti con le condizioni storiche e sociali attraverso i secoli,
i motivi impliciti che ne giustificavano il persistere. Tutti i fenomeni posti
al centro della sua indagine avevano in effetti origini arcaiche, precristiane,
da un antico fondo di civiltà agrarie, ed erano stati a lungo oggetto di
polemiche, di repressioni, di interventi adattivi da parte della Chiesa
ufficiale. Oggetto della sua investigazione particolarmente furono: il
complesso mitico-rituale della fascinazione in Lucania (Sud e magia, Milano
1959); le persistenze del pianto funebre in Lucania (Morte e pianto rituale nel
mondo antico, Torino 1958); il tarantismo del Salento (La terra del rimorso,
Milano 1961).
Il perdurare di tali rituali e di tali credenze, con le varie manifestazioni
connesse di sincretismo pagano-cristiano, è interpretato come espressione di
una resistenza implicita, inconsapevole e disorganica alla cultura ufficiale
cristiana, rappresentata dalla Chiesa.
La storia delle varie polemiche del clero e dei sinodi ecclesiastici contro
tali manifestazioni è dallo studioso ripercorsa a prova della sua
interpretazione, che spiega anche gli adattamenti della politica culturale
ecclesiastica nell'assorbire e riplasmare culti e credenze d'origine arcaica.
D'altra parte il de Martino spiega il perdurare ditali arcaismi secondo ragione
storica, come espressione di una concezione del mondo propria di una società
rimasta per secoli nell'isolamento da parte dei poteri centrali e delle istituzioni
ufficiali che l'emarginarono e la sfruttarono. La "miseria
culturale", - egli afferma - è lo specchio di una miseria psicologica
determinata a sua volta da condizioni storico-sociali imposte all'intero
Mezzogiorno da un regime di subalternità plurisecolare e che pure in epoca
contemporanea in certa misura persiste o fa pesare le sue conseguenze a lungo
termine, il folklore religioso appare dunque come il riflesso della "non
storia" del Sud, e cioè della continua repressione subita.
Nel loro insieme le tre opere meridionalistiche costituiscono un nucleo
paradigmatico di studi di storia sociale, religiosa e culturale, condotti sulla
base di inchieste dirette e reiterate, operate da lui sul posto mediante
interviste, osservazione partecipante e con l'ausilio dei mezzi d'inchiesta
allora aggiornati, quali registratore, macchine da ripresa, ricostruzione di
momenti e sequenze di vita locale. Con queste opere s'inaugurò in Italia un
importante filone di ricerche di antropologia culturale, o etnologia della
società meridionale metropolitana, destinato ad avere sviluppi crescenti, dopo
la morte del de Martino, da parte di antropologi di più giovane generazione,
che in queste opere hanno trovato una fonte di stimoli e di sollecitazioni.
Infatti, anche se negli ultimi anni le tecniche e le metodologie della ricerca
antropologica dispongono di un apparato empirico più sofisticato e hanno
sviluppato problematiche via via più penetranti, gli studi pionieristici del de
Martino costituiscono un inevitabile punto di riferimento.
Particolare importanza come tecnica innovativa da lui inaugurata è quella
dell'indagine interdisciplinare, che egli adottò soprattutto nello studio del
tarantismo pugliese, con l'unione in un'unica èquipe di uno psichiatra, di una
psicologa, oltre allo storico delle religioni, a un'antropologa culturale,
all'etnomusicologo e al documentarista cinematografico. il criterio della
interdisciplinarietà sarebbe poi rimasto come un'acquisizione ed un'esigenza
definitiva negli studi etno-antropologici.
Divenuto professore di ruolo di storia delle religioni nella facoltà di lettere
dell'università di Cagliari dal dicembre 1959, al periodo meridionalista
successe un periodo di approfondimenti e sviluppi problematici.
Lì de Martino da un lato scoprì e pose in questione una serie di manifestazioni
religiose o parareligiose di tipo extraufficiale nel cuore della società
borghese occidentale: rigurgiti di magismo in Germania, feste carnevalesche a
carattere orgiastico-contestativo nella Svezia di fine anni '50 (il capodanno
di Stoccolma), insieme con altre manifestazioni rituali d'ambito ufficiale
nella società socialista dell'URSS, come il simbolismo cerimoniale sovietico (Furore, simbolo,
valore, Milano 1962).
D'altronde egli dette avvio ad una ricerca interdisciplinare intorno ad
una tematica nuova, quella dell'apocalisse e dei miti escatologici.
Per l'analisi di questo tema raccolse materiale non solo dal campo della storia
religiosa in un'accezione ampia che include accanto al giudeo-cristianesimo anche
le religioni "primitive", ma anche dalla letteratura moderna della
crisi – Sartre, Moravia, Camus, dalla filosofia e dai teorici del marxismo
classico, dalla psichiatria.
Alle prese con tale complessa tematica, la sua personalità poliedrica si
dispiegò interamente avvalendosi dell'apporto delle diverse discipline
suindicate, dimostrando la natura multiforme dei suoi interessi culturali, che
travalicavano le partizioni accademiche e le etichettature formali. Del resto
la poliedricità delle sue aperture speculative inducevano in lui una
particolare ambivalenza sul piano dell'impostazione epistemologica.
Infatti egli tendeva a unificare prospettive di per sé eterogenee come quella
storicista di derivazione crociana, ma riveduta in chiave marxista, con quella
fenomenologico-ontologica, volta tipicamente alla identificazione di
"universali" e di strutture invarianti d'ordine psicologico. Il
saggio Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche (in Nuovi Argomenti,
LXIX-LXXI [1964], pp. 105-141), introduceva la tematica a cui egli lavorava dai
primi anni '60 e che, interrotta dalla morte, doveva trovare una elaborazione,
sebbene incompiuta e frammentaria, nel libro postumo La fine del mondo.
Contributo all'analisi delle apocalissi culturali (Torino 1977).
Pur nella incompiutezza che la caratterizza e che ne fa, salvo per la parte
psichiatrica, piuttosto una silloge di appunti e di trascrizioni da testi e da
autori vari con note e riflessioni personali, quest'opera documenta la somma
degli interessi speculativi e culturali dell'ultimo de Martino.
Vi ritorna il tema della crisi e sua reintegrazione religiosa, visto però in
una sua autonomia ontologica e non più nel preciso rapporto di condizionamento
storico-sociale entro cui era collocato e interpretato nelle precedenti opere
meridionalistiche. Un riaccostamento all' impostazione fenomenologica prevalsa
ne lì mondo magico distacca quest'ultima fase della riflessione demartiniana da
quella più legata allo storicismo gramsciano che domina nei tre libri dedicati
al folklore del Sud: e ciò si dica anche se già nella seconda edizione de Il
mondo magico (1958) l'autore aveva ritrattato la precedente sua tesi che
poneva la magia in una fase precategoriale dello sviluppo del pensiero umano,
per riaderire ai fondamenti delle critiche mossegli dal Croce.
Ne La fine del mondo lo storicismo assoluto del primo de Martino -
secondo il quale il senso e le forme delle civiltà umane e delle religioni si
risolvono per intero e senza residui nella loro storia - sfuma, lasciando
notevole spazio ad una prospettiva fenomenologico-psicologistica. Nel contempo
è vigorosamente riaffermata la funzione liberante della visione del mondo laica
marxista. Pertanto l'apocalittica marxiana è contrapposta a quella alienante
delle religioni, mentre per la prima volta il de Martino prende atto del valore
innovativo e creativo che studi recenti hanno riconosciuto nei movimenti
profetici, millenaristi e apocalittici di liberazione delle popolazioni ex
coloniali del Terzo Mondo.
Anche nell'ultimo e incompiuto lavoro si rivelavano, da squarci di apertura
geniale, la ricchezza e la densità di riflessione tipiche del de Martino. In
questo lavoro, come nei precedenti, egli parte da esperienze dell'oggi e del
qui, da problemi, situazioni, crisi incombenti nella nostra civiltà
contemporanea, per risalire da qui - in uno sforzo di comprensione storica
universale - all' osservazione e all'analisi di mondi "altri" in
senso psicologico (il mondo della psicopatologia), ovvero in senso storico
cronologico (il mondo del cristianesimo primitivo), ed in senso
storico-culturale (il mondo delle culture extraoccidentali oggetti di studio
dell'etnologia). Precisamente di fronte all'arduo compito assuntosi di una
comprensione storica universale, il de Martino si pone metodicamente il
problema della giusta prospettiva spettante allo scienziato che guarda
all'"alieno" e alle culture "altre".
Di qui si sviluppa la sua riflessione intorno al tema degli etnocentrismi: una
riflessione che aveva impegnato l'autore, ma su un piano pratico-operativo
diretto, fin dall'epoca delle sue ricerche nel Mezzogiorno, nel sistematico
incontro-scontro con i portatori di modelli culturali fondamentalmente
"alieni" per uno scienziato cresciuto e formatosi nel seno della
società borghese ufficiale e colta.
Infatti già allora il de Martino non aveva perduto occasione per esprimere un
proprio "senso di colpa" di fronte alla miseria culturale e
psicologica delle plebi meridionali: un senso di colpa che intorno a quella
stessa epoca ispirava pagine e riflessioni di un altro illustre esponente del
pensiero antropologico in Europa, Claude
Lèvi-Strauss.
Nello sviluppare in forma riflessa e metodica la sua tesi sull'etnocentrismo,
il de Martino rifiutava come decisamente superata ogni forma di etnocentrismo
dogmatico, con i suoi condannevoli corollari del razzismo e del pregiudizio
sociale. Tuttavia egli respingeva altrettanto decisamente la prospettiva del
relativismo culturale d'origine americana, per il quale ciascuna
"cultura" vale per sé stessa né deve essere valutata dall'esterno se
non in riferimento ai parametri validi per i suoi diretti esponenti. Egli
infatti ravvisava la doppiezza e la contraddittorietà di questa posizione
teorica e speculativa, la quale, sotto la specie di un liberalismo teorico,
nascondeva ogni riserva di intervento pratico-politico sui portatori delle
culture aliene.
Il de Martino affermava e proponeva la validità di una posizione che egli
stesso aveva assunto nel confronto della cultura contadina meridionale nel
corso delle sue precedenti indagini: posizione definita da lui
"etnocentrismo critico". Questo è da intendersi come sforzo supremo
di allargamento della propria coscienza culturale di fronte ad ogni cultura
"altra", e come sofferto processo di presa di coscienza critica dei
limiti della propria storia culturale, sociale, politica. L'etnocentrismo
critico pone in questione "le stesse categorie di osservazione di cui lo
studioso dispone all'inizio della ricerca". … Con questa tensione
etico-speculativa si può realizzare, secondo il de Martino,
quell'"umanesimo etnografico" che implica un'opera di storicizzazione
di sè e della propria cultura, e di autocritica in base al confronto storico-culturale,
ma senza rinunziare - com'egli ribadisce - alla idea del primato della civiltà
occidentale. lì modello della civiltà europea più avanzata sul piano del sapere
scientifico, della tecnologia, dello sviluppo culturale, non può cedere, per il
de Martino, ai modelli di culture altre per le quali, pur nell'indispensabile
sforzo di conoscerle, capirle e giustificarle sul piano storico, logico e
psicosociale, la prospettiva di sviluppo proposta è pur quella di adeguarsi al
modello occidentale nelle sue espressioni socialmente più avanzate.
Questa visione eurocentrica, per quanto critica ed autocritica, avrebbe dato
avvio poi a discussioni e interventi variamente orientati, negli sviluppi
postdemartiniani del pensiero antropologico in Italia.
Per la complessità poliedrica dell'approccio del de Martino allo studio
dell'uomo, per la forte tensione etico-sociale-ideologica che permea i suoi
scritti, per l'efficacia scandagliatrice delle sue analisi, per la soggettività
fascinosa del suo linguaggio - per cui la sua opera si impone anche per il suo
valore letterario - la sua produzione si pone al di sopra delle
specializzazioni accademiche più o meno settoriali, e pare destinata a
riscuotere risonanze durevoli nell'ambito di molteplici discipline, dei più
vari orientamenti di studio che hanno a che fare con il problema dell'uomo e di
tutti coloro che a tale problema rivolgono un personale e sensibile interesse.
De Martino morì a Roma il 9 maggio 1965. Nel 1977 comparirà l’edizione postuma
de La fine del mondo, grazie ad Angelo Brelich e ad altri amici ed
allievi di de Martino: l’opera contiene brevi testi e frammenti provenienti da
cartelle di appunti. Il tema delle apocalissi culturali è senz’altro dominante,
ma porta con sé la tematizzazione di moltissimi altri concetti e la riflessione
critica su storici e filosofi a cui l’autore faceva riferimento. Il
procedimento seguito dal nostro autore nella ricerca storiografica è quello
comparativo, inteso nel senso peculiare del comparativismo differenziale
di Raffaele Pettazzoni. Necessaria alla vita non è soltanto la datità del mondo
e la sua ovvietà, ma la dialettica che si deve instaurare tra datità e ripresa,
tra fedeltà al passato e libera iniziativa personale, insomma tra l’ordine
della vita e del mondo dati, e l’ethos del trascendimento della vita
nell’azione che conferisce valore. Tale ethos non va frainteso con una
fuga dal mondo e dalla situazione in un campo di valori idealmente
eterni e sovrastorici, ma come trascendimento nel mondo, in cui
qualsiasi opera dell’uomo si inserisce testimoniando con la propria presenza
l’avvenuta valorizzazione: in questo senso si può dire che le azioni e le opere
compiute acquisiscano permanenza e autonomia, in quanto iscrizione nel mondo di
un’intenzione valorizzatrice, concrezione insieme di slancio e condizioni
ambientali. Il trascendimento della datità non si attua, come è chiaro, in
un’unica direzione, ma in molteplici e sempre diverse, per cui nessuna può
assolutizzarsi a danno delle altre. Obiettivo della vita culturale e della società
è quello di essere un “esorcismo solenne”, di scongiurare la “nuda crisi” senza
recupero attuando misure di controllo e prevenzione, di integrazione dei
momenti critici dell’esistenza, in cui più forte è il pericolo di smarrimento,
in un ordine stabilito e rassicurante: in altre parole, la fine del
mondo come rischio radicale del nulla della presenza viene trasformata nella
fine di un mondo, passando dal crollo esistenziale ad apocalissi
con escaton o palingenesi, o comunque a passaggi al nuovo. In particolare,
l’autore si sofferma sull’analisi della concezione apocalittica cristiana, come
si è sviluppata dall’originaria predicazione di Gesù fino a Giovanni in un vero
dramma storico di fondazione. Nel complesso, essa ha apportato due fondamentali
modifiche alla concezione della storia: in primo luogo, il progressivo
differimento della fine dall’imminenza alla indeterminazione e repentinità per
cui soltanto Dio decide il momento, allarga indefinitamente il tempo dedicato
all’operabilità umana, senza chiuderla in una passiva attesa ma anzi
incentivandola, con la descrizione del momento finale come tribunale delle
azioni compiute. in secondo luogo, la svolta principale del cristianesimo è
stata quella di spostare il punto decisivo della storia dalle origini al suo
centro, con l’inserimento della cristologia. L’interrogativo che De Martino si
pone rispetto alla modernità è se la religione cristiana, che ha svolto un
ruolo di primaria importanza in altre epoche storiche, sia ancora una
necessità: l’alternativa su cui riflettere è se l’angosciosità della vita possa
essere affrontata soltanto entro un piano di salvezza escatologica o se invece
non possa essere affrontata con valori e mezzi storici, e con la piena
consapevolezza dell’integrale umanità della storia. La soluzione si trova nella
costruzione di un umanesimo moderno che riconosca come punto di
partenza, e non di arrivo, la dispersione delle culture e degli etne, e
attraverso il confronto etnografico si ponga l’obiettivo dell’unificazione
culturale dell’umanità. Nell’ambito di tale compito, l’uomo moderno deve essere
capace di incontrare e raggiungere l’altro anche senza l’aiuto di Cristo come
mediatore, senza doverlo fare in nome di Dio o di qualsiasi suo surrogato,
percorrendo una via più breve e appellandosi alle immagini concrete dei volti
umani, e provando per essi un doveroso senso di responsabilità.
[1] E. de Martino, Naturalismo e storicismo nell’etnologia, Argo, 1997, p. 53.
[2] E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Bollati Boringhieri, Torino 1997, p. 4.
[3] Ibidem.
[4] Ivi, p. 97.
[5] Ivi, p. 105.
[6] Ivi, p. 82.
[7] B. Croce, Recensione al Mondo magico, in “Quaderni della Critica”, 1948, n. 10, pp. 79 e ss; anche presente in E. de Martino, Il mondo magico, Appendici, cit., p. 241.
[8] Ivi, p. 243.