LA DEMOCRAZIA NELLA "POLIS" GRECA
Realizzato da MenelaoGli è facil cosa a chi esamina con diligenza le cose passate, prevedere in ogni republica le future e farvi quegli rimedi che dagli antichi sono stati usati, o non ne trovando degli usati, pensare de' nuovi per la similitudine degli esempi. (Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, III, 43)
Nel Sesto secolo, in molte città greche, le aristocrazie scacciano i tiranni e ne assumono il controllo politico. Spesso ciò avviene grazie al sostegno anche delle armi di Sparta, che certamente fu centro e modello della aristocrazia greca. Il potere, in tale città, era detenuto dai liberi, cittadini a pieno titolo, dediti innanzitutto all’esercizio della guerra, gli Spartiati. Si trattava di una élite che si contrapponeva alla massa di ceti dipendenti, Perieci ed Iloti. Tale contrapposizione creava una costante tensione tra le due classi che talora sfociava in contrasti concreti vissuti come una vera e propria guerra. Il sistema spartano, pur suscitando ammirazione negli aristocratici ateniesi e pur essendo oggetto di chiara approvazione ne "La costituzione degli Ateniesi", primo testo in prosa attica, non è mai stato concretamente realizzato in Atene, tranne che nei due periodi del 411 a.C. e del 404/403 a.C. dopo le sconfitte militari subite nel conflitto con Sparta.
Jones, nell’esaminare i motivi di tale fatto, evidenzia come, in Atene, ben difficilmente gli aristocratici "si sarebbero adattati a una comunità così chiusa e spiritualmente sterile". In sostanza, in Atene, la nobilt6agrave; era riuscita ad adattarsi ad un "sistema politico aperto" - la democrazia assembleare- nel quale il popolo lasciava ai "signori" il diritto di dirigere lo Stato riconoscendo ad essi il possesso delle necessarie competenze e di determinati valori.
La città arcaica è molto piccola e la popolazione vive in grande parte nel contado interamente dedita ai lavori agricoli. Fino a quando la situazione si mantiene tale, la lotta per il potere è solamente tra i signori che portano le armi, e, a mezzo di esse, esercitano la loro egemonia. Le forme di governo che vengono attuate sono essenzialmente la tirannide o l’oligarchia, ben poco distinguibili tra di loro. Ma ,con l’andar del tempo, le attività dei campi si riducono decisamente e , nel Sesto secolo circa, una grande quantità di persone affluisce in città prevalendo sui nobili, ormai ridotti a miserabili, e avendo come effetto la nascita della vera e propria democrazia a seguito della spinta della popolazione alla gestione diretta della comunità. Quindi è da ritenersi che il nascere della democrazia greca non abbia avuto, come presupposto, una innata spinta dei greci verso la politica, ma il concreto verificarsi del fenomeno sopra descritto.
Erodoto sostiene , a tal proposito, che erano individuabili tentativi precedenti di organizzazione di stampo democratico nell’ambito delle comunità persiane. Né vi è motivo per non prestargli fede, considerato che fa riferimento ad eventi concreti ricordando le proposte in senso democratico al momento della morte di Cambise, nonché il fatto che, mentre Dario marciava contro la Grecia, Mardonio, il suo collaboratore, abbatteva i tiranni della Ionia ed instaurava democrazie nelle città. Di ciò non ci si deve stupire, perché i Greci, che sempre hanno sostenuto la propria superiorità ed autonomia ideologica, in realtà, furono spesso collegati o, per lo meno, vicini ai Persiani, anche nell’esperienza politica. Testimonianze di questi rapporti sono le facili relazioni di alcuni uomini politici come Alcibiade, Temistocle e Lisandro.
Il più antico regime democratico prevede la partecipazione all’Assemblea esclusivamente di coloro che godono della cittadinanza. Di fondamentale rilevanza è, quindi, l’accertare chi godesse di essa nella città antica. In Atene potevano essere cittadini i soli maschi adulti, figli di padre e madre ateniesi liberi dalla nascita, in grado di combattere e, quindi possidenti, poiché solo chi aveva ricchezza poteva sostenere i costi per l’acquisto delle armi. Di conseguenza una grande parte della popolazione, cioè i nullatenenti ed i figli di un solo genitore libero, erano esclusi dalle funzioni politiche cittadine. Quando, però, sorge in Atene l’esigenza di avere a disposizione una forte flotta e perciò di ricorrere a un gran numero di marinai, si attua una svolta fondamentale nell’individuazione degli aventi il diritto alla cittadinanza, poiché la stessa viene estesa anche ai marinai benchè nullatenenti e pertanto non in grado di armarsi : si può dunque fondatamente ritenere che l’ampliamento della cittadinanza e, quindi, per così dire, una maggiore democrazia, sia strettamente connessa con la nascita , in Atene, dall’impero marittimo.
Due sono i gruppi dirigenti principali che, a questo punto, si formano nell’ambito della città: da un lato una minoranza di signori, gli oligarchi, che si riuniscono in eterìe, che rifiutano l’apporto dei nullatenenti, che non accettano il sistema democratico e costituiscono per esso una minaccia costante; dall'altro coloro che accettano di dirigere un sistema di cui sono parte maggioritaria i non possidenti.
Da tutto ciò emerge la rilevanza fondamentale della cittadinanza, da un lato perché solo chi è cittadino partecipa al potere, dall’altro perché la prevalenza di un gruppo dirigenziale rispetto ad un altro è strettamente collegata ai componenti della cittadinanza, sia come numero che come qualità. Sintomatico è il fatto che gli oligarchi, conquistato il potere, abbiano immediatamente ridotto il numero di cittadini e che i democratici, riacquistato il potere, abbiano escluso dalla cittadinanza i cittadini sostenitori degli oligarchi.
Caratterizzante del regime politico di Atene è anche il fatto che i cittadini, non poche volte pronti a contendersi il bene della cittadinanza, si sono sempre trovati d’accordo, tranne che in situazioni eccezionali, nel non estendere la cittadinanza al di fuori della comunità.
Nell’ambito della società democratica era di rilevanza fondamentale una sorta di patto tra i non possidenti e i signori, per il quale questi ultimi potevano dirigere la città democratica, ma dovevano fornire un sostanzioso contributo economico per il funzionamento della comunità.
Il capitalista, dice Rosemberg usando una terminologia modernistica per rappresentare figurativamente questa realtà, è dunque come una mucca che viene munta fino in fondo e che occorre mantenere con abbondante foraggio affinché possa continuare a produrre latte: quanto più una persona guadagna, tanto più deve allo stato. Proprio per questo il proletariato ateniese nulla ha in contrario ed anzi desidera che il ricco guadagni, anche all’estero quanto più possibile ed è portato a sostenere una politica degli imprenditori imperialistica e volta all’espansione. Significativo, a questo proposito, è il fatto che, proprio dopo l’ascesa al potere del proletariato, Atene intraprese guerre espansionistiche sia contro i Persiani per la conquista dell’Egitto, sia, nella stessa Grecia, per la conquista delle repubbliche di Egina e di Corinto, sue concorrenti commerciali. I signori, naturalmente, per conquistare potere e prestigio, elargiscono, con generosità il proprio denaro anche direttamente al demo.
Tipico è il caso di Cimone, l’antagonista di Pericle e di quest’ultimo. Egli, ampiamente possidente, non esita ad aprire i suoi possedimenti al pubblico, lasciando ad ognuno la possibilità di raccogliere i frutti dei campi, offrendo pranzi per tutti i poveri, organizzando feste con possibilità di accesso al consumo della carne e così via, non trascurando di trattare con particolare favore i componenti del suo demo. Pericle, con minori disponibilità economiche, ricorre ad altri metodi per ottenere lo stesso risultato, non esitando ad usare, senza limiti e per fini personali, il denaro delle casse dello stato elargendolo, in vari modi, alla popolazione e superando gli attacchi politici degli avversari con mosse ed atteggiamenti ad effetto.
La concezione personale dello stato è quella per cui lo stato non ha una personalità giuridica autonoma al di sopra e al di fuori delle persone, ma coincide esattamente proprio con le persone, con i cittadini. Questa concezione di stato ha conseguenze precise quando la città è divisa da una guerra civile. Può allora accadere che la comunità si separi anche fisicamente in più parti e che una parte divenga anti-stato e si proclami unico e legittimo stato.
Ciò è quanto è accaduto ad Atene nel 411 a.C. quando gli oligarchi prendono il potere e la flotta di stanza a Samo reagisce a tale situazione e costituisce un contro-stato mossa dalla convinzione che lo stato sono le persone e che il " demo è tutto" in conformità alla ideologia democratica. Nel 404/ 403 a.C., nel corso della più grande guerra civile dell’Attica, si crea, sempre in relazione alla concezione personale dello stato, una divisione tripla della popolazione: si ha prima di tutto il predominio dei Trenta; poi i democratici costituiscono una contr’Atene democratica al Pireo, mentre gli oligarchi si stabiliscono, divisi in due tronconi, ad Atene e ad Eleusi. Infine, quando gli Spartani stabiliranno la pacificazione, verrà riconfermata la democrazia, pur rimanendo ad Eleusi la repubblica oligarchica .
Un’altra situazione, sempre connessa con la concezione personale dello stato, si può creare al momento della rottura del patto. In tale caso l’esule scacciato si coalizza con i nemici della città per poter ritornare. Ciò accade poiché egli ritiene di essere stato messo al bando non dallo Stato considerato come entità sovrapersonale, ma dai cittadini e, quindi, entra in guerra personale contro la propria città affinchè sia eliminata l’ingiustizia da lui subita.
Ma il popolo se è tutto, è al di sopra di ogni legge in quanto esso stesso fa la legge e questa non può considerarsi immutabile ed indipendente dalla volontà popolare, ma si adegua ad essa concretizzandosi nel "kinèin toùs nòmous"(nel mutare le leggi). Sia per i democratici, sia per i loro nemici, è utile rifarsi alla costituzione avita, la pàtrios politèia. Diodoro Siculo tramanda che, sia i Trenta, sia Trasibulo, loro fervido oppositore, davano un ruolo fondamentale a questa pàtrios politèia. Ciò benchè gli uni perseguissero l’abolizione della democrazia radicale e l’altro ne volesse il ripristino più completo.
Questa contrapposizione appare anche nell’oratoria politica, tanto che il sofista Trasimaco, sostenitore della tesi per cui la giustizia è il diritto del più forte, evidenziava che gli oratori "nella convinzione di sostenere gli uni argomenti contrari a quelli degli altri, non si accorgono di mirare a un identico risultato e che la tesi dell’avversario è compresa nel proprio discorso". Dal fatto che si fa riferimento ad una stessa parola programmatica , emerge un fondamentale carattere della democrazia: tende a modellarsi sempre sull’ideologia comune dominante. A questo proposito il Canfora afferma che il richiamo al passato come a un dato di per sé positivo, si coniuga con la connotazione negativa dell’alterazione delle leggi vigenti(kinèin).Ma una modificazione della legge avviene comunque con il passare del tempo, come afferma Aristotele, e il fine perseguito non è la tradizione, ma il bene. Kinèin indica sia l’alterazione sia lo sviluppo e viene a coincidere con l’epìdosis, progresso, per così dire, inevitabile. Aristotele in un excursus fornisce una sorta di archeologia del diritto giungendo alla conclusione che è proprio quella sintesi di innovazione e conservazione che rende il diritto una costruzione unica. Inoltre stabilisce una misura con la quale valutare quando innovare e quando rinunciare a qualsiasi cambiamento: "Quando il miglioramento previsto è modesto, in considerazione del fatto che abituare gli uomini a modificare alla leggera le leggi è un paradosso , è chiaro che conviene lasciare in vigore norme palesemente difettose: giacché non ci sarà vantaggio tale da compensare lo svantaggio dell’ingenerarsi di un’abitudine a disubbidire alle leggi".
Il Pericle tucidideo, descrivendo il sistema politico ateniese, pone una contrapposizione tra democrazia e libertà. La democrazia appare realizzare in realtà il prevalere anche violento del demo, cioè di una parte su un’altra, tanto da assumere le caratteristiche proprie della tirannide, prima fra tutte la rivendicazione da parte del popolo del diritto di essere al di sopra della legge, rivendicazione questa che è propria anche del tiranno. Per altro, nel linguaggio politico ateniese si afferma anche il ben diverso concetto che colloca, da un lato la democrazia e la libertà e, dall’altro, l’oligarchia e la tirannide. Lo stesso Tucidide, quando esamina il significato e le conseguenze del colpo di stato oligarchico del 411, evidenzia che gli oligarchi hanno "tolto al popolo di Atene la libertà cento anni dopo la cacciata dei tiranni". Il che significa contrapporre, alla libertà democratica, la non libertà della tirannide e dell’oligarchia. Verosimilmente tali contrastanti teorizzazioni della democrazia sono connesse con il fatto che, in concreto, la democrazia, nella Grecia classica, è sorta da un compromesso tra popolo e signori ai quali il popolo affida il governo della città democratica, signori che ritengono tale regime accettabile perché depurato da ogni residuo tirannico.
Altri pensatori greci, approfondendo il problema, si orientano nel suddividere ogni forma politica in due sottotipi, quello buono e quello cattivo e Aristotele, addirittura, usa due termini parlando di politeia per la democrazia buona e di demokratia per la democrazia irrispettosa della libertà. Emerge anche il concetto per il quale ogni forma politico/costituzionale degenera nella sua faccia deteriore e, in tal modo, da una costituzione si passa ad un’altra.
Dario, cui si deve l’intervento più importante a proposito di tale tesi, afferma che, nel dibattito sulle tre forme politiche, monarchia, democrazia e aristocrazia, ognuna di esse ottiene due opposte caratterizzazioni: Otane evidenzia i difetti della monarchia ed esalta la democrazia; Megabizo condivide le obiezioni alla monarchia, ma critica gli aspetti positivi della democrazia ed esalta l’aristocrazia; infine lo stesso Dario mette in luce gli aspetti negativi del governo aristocratico e ritorna al punto di partenza esprimendo l’elogio della monarchia. In relazione a tali contrastanti valutazioni dei tre sistemi, Dario evidenzia come, in realtà, "a parole", cioè in linea astratta, tutti e tre siano ugualmente validi, essendoci, in ognuno di essi, una variante positiva in cui operano allo stato puro i presupposti teorici su cui ciascuno si basa. I caratteri negativi delle tre forme di governo si evidenziano, però, quando si passa dalla teoria alla pratica.Dario, a tal proposito, osserva che quando vengono concretamente attuate, sia le democrazie che le aristocrazie pervengono ad una situazione di grave disordine sociale che provoca il passaggio alla monarchia. Il potere monarchico deriva, dunque, da una stasis, spesso sanguinosa, conseguente al fallimento di una delle due altre forme di governo. Ma, d’altra parte, anche la cattiva monarchia determina una stasis, con connesso mutamento del regime .Da tutto ciò emerge che ogni forma politico/istituzionale è sostituita da un’altra attraverso il doloroso passaggio dalla stasis, dalla guerra civile.
Quale correttivo altamente positivo di questo eterno ripetersi del ciclo viene, in linea teorica, proposto il sistema della costituzione "mista", che dovrebbe racchiudere in sé le forme migliori dei tre modelli unificandoli ed eliminando gli effetti distruttivi di ciascuno di essi. Questo tema domina la riflessione greca, soprattutto in epoca ellenistica e romana. Peraltro i sistemi concreti che vengono indicati come realizzanti, in Grecia, tale tipo di costituzione hanno ben poco di misto ed appaiono essere oligarchie, essendo caratterizzati dall’eliminazione della piena cittadinanza ai nullatenenti.
Polibio sostiene che, in Roma, si sarebbe realizzato concretamente e stabilmente il modello astratto della costituzione mista e ciò in relazione all’originale soluzione che era stata data al problema della cittadinanza e della sua combinazione con l’esigenza di un potere stabile e forte: Roma sarebbe sopravvissuta alla sconfitta di Canne proprio grazie a tale costituzione.
Alla base della società greca primitiva intorno all'800 a.C. si collocavano le famiglie riunite in clan e in tribù. Durante i sec. IX e X a.C. con l’espansione commerciale e coloniale un gran numero di Greci si erano resi indipendenti dai legami terrieri arcaici, segnando l’inizio del declino della classe aristocratica.
Nel 630 a.C. ad Atene venne suscitato un primo tentativo di tirannide da parte di Cilone che sfruttò una condizione di malcontento popolare.
In un passato mitico il primo sincretismo politico, di natura vagamente democratica, fu considerato attuato da Teseo. Costui, sette secoli prima di Clistene, si configurò come un basilèus a cui venne attribuita, in parte dalla tradizione, il ruolo di creatore di una prima democrazia, per aver ceduto almeno una parte dei poteri al démos. Il primo vero passo verso la democrazia può essere considerato l’opera attuata da Dracone (VII sec.a.C.) che mise per iscritto le leggi di una tradizione orale, per volere degli aristocratici. Quando però l’Attica fu scossa da una crisi agraria che causò disordini civili, venne nominato per la città di Atene un aisymnetes affinché regolasse la situazione politica e sociale.
Essendo stato nominato Solone (ca.594/3 o 592/1 a.C.) per questa carica, dunque, si avviò l'arché democratico, ovvero l'inizio evolutivo di questa forma di governo.
Dall’intermezzo costituito dalla tirannide di Pisistrato(561 a.C.) che donò splendore artistico alla città di Atene, si passò alla riforma di Clistene (508 a.C.) che rappresenta solo una forma più popolare (demotikoteria) rispetto a quella di Solone. Il momento della democrazia radicale venne contrassegnato dall'abbattimento dell'areopagocrazia, periodo centrale e di equilibrio politico nella concezione aristotelica.
L'avvento della democrazia radicale (462/1 a.C.) fu segnato dalle figure di Efialte (fautore della riforma del 462) e Pericle.
Circa mezzo secolo più tardi (nel 411 a.C.) si arrivò al secondo grande trauma della democrazia, di segno opposto al precedente: il governo dei Quattrocento, favorito dai sostenitori della pátrios politeía, una posizione moderata e centrista che proponeva l'accostamento Clistene/Solone, tipico di una concezione politica che voleva salvare i tratti più moderati e conservatori della costituzione democratica. In forme assai più aspre si presentò il colpo di Stato dei Trenta tiranni, che da un lato ripeté, dall'altro aggravò, in senso negativo, l'esperienza dei Quattrocento.
La teoria costituzionale della democrazia ateniese è molto semplice: il popolo è sovrano (kurios). Sieda nell’Assemblea o nei tribunali, è il sovrano assoluto di tutto ciò che concerne la città e i cittadini sono liberi e uguali sotto l’egida della legge.
Per far parte dell’Ecclesia erano necessari due requisiti:
1.essere cittadino ateniese: una legge del 450 a. C., voluta da Pericle, stabiliva che divenisse cittadino solo chi fosse nato da padre e madre ateniesi (mentre prima, e nella maggior parte delle altre poleis, bastava che fosse cittadino il padre);
2.essere maggiorenne. La maggiore età si acquisiva a diciotto anni, per via dell’iscrizione sui registri del demo (i demi erano le unità territoriali più piccole in cui era stata divisa l’Attica dalla riforma di Clistene –508 a. C.-, dotate di autonomia dal punto di vista amministrativo. Questa frammentazione del territorio statale di Atene era dovuta alla sua estensione -più di 2400 kmq, all’incirca come l’attuale Granducato di Lussemburgo-). Non sempre questi registri erano sicuri: infatti molti meteci (che erano gli stranieri che si stabilivano ad Atene ma erano privi dei diritti politici) riuscivano a farsi iscrivere e quindi a partecipare ai lavori dell’Assemblea che si tenevano sulla collina della Pnice. Questa, nonostante le sue modeste dimensioni, bastava largamente poiché molti Ateniesi spesso preferivano non assentarsi da casa, non rinunciando così a delle giornate lavorative.
In origine, l’Ecclesia si riuniva una volta per pritania, ovvero dieci volte all’anno; ma, col passare del tempo, vennero aggiunte tre sedute supplementari per pritania. Ogni assemblea aveva il proprio ordine del giorno, tuttavia, nel caso di una sventura pubblica o di un evento imprevisto che esigessero un provvedimento urgente, potevano essere indette assemblee straordinarie. La seduta incominciava di buon mattino quando un segnale era dato da una bandiera sventolante sulla Pnice. Così la polizia sbarrava le strade che conducevano all’Agorà e spingeva i cittadini verso la collinetta della Pnice, cui si accedeva per una ripida scalinata e che poteva raccogliere fino a 6000 persone. Presidente dell’Assemblea era l’epistate dei pritani (presidente anche della Bulè), designato dall’estrazione a sorte ogni giorno, che, dopo una cerimonia religiosa in onore di Zeus, dava inizio alla seduta. Si incominciava con la discussione delle proposte di legge della Bulè , i probuleumata: ogni cittadino poteva prendere la parola e proporne emendamenti, salendo su una tribuna e mettendosi sul capo una corona di mirto, simbolo d’inviolabilità. Dopo la discussione, i pritani indicevano le votazioni per alzata di mano (epicheirotonìa) e il presidente, proclamatone il risultato, poteva togliere la seduta.
All’Ecclesia competevano svariate funzioni:
In materia di politica estera l’Assemblea , sotto la direzione della Bulè, decideva della pace, della guerra e delle alleanze e nominava gli ambasciatori. Per quanto riguarda invece il potere legislativo, l’Ecclesia non si arrogava il diritto di abolire formalmente le leggi e votarne di nuove, ma trovava le forme necessarie per legiferare attraverso decreti. Il popolo era anche supremo giudice, ma delegava il potere giudiziario ai tribunali, intervenendo direttamente solo nelle questioni più delicate e importanti.
Nel V secolo, in circostanze di particolare importanza, si riuniva anche l’Assemblea plenaria, convocata nell’agorà, divisa per tribù e considerata come rappresentante l’intera città. Il minimo di unanimità era un voto espresso da seimila suffragi. L’Assemblea plenaria era convocata per designare chi dovesse essere bandito per ostracismo, per conferire l’adeia, cioè l’impunità o la grazia, o nel caso di collazione del diritto di cittadinanza. Il bando per ostracismo venne decretato per la prima volta nel 487 e, con gli anni più frequentemente, nelle circostanze gravi e nelle guerre perché non vi fossero continui dissensi in merito alla difesa nazionale e nella politica interna, e servì così alle fazioni opposte a decapitarsi a vicenda. L’operazione dell’ostracophorìa si effettuava in seduta plenaria durante la sesta pritania: il voto veniva espresso per mezzo di pezzi di coccio, ostraca, e il condannato doveva lasciare l’Attica entro dieci giorni e per dieci anni, salvo eventuali amnistie.
La Bulè, organizzata dalla riforma di Clistene (508 a. C.), era un organo composto da cinquecento membri detti buleuti, sorteggiati, come afferma Tucidide, "per mezzo della fava" tra i demoti aventi più di trent’anni che si presentassero come candidati. Questi solitamente non erano in grande numero dal momento che, nonostante venissero retribuiti, dovevano comunque sacrificare un’intera annata agli affari pubblici. Prima di entrare in carica i buleuti dovevano prestare giuramento e cingevano la corona di mirto, segno della loro inviolabilità, mentre, al termine dell’annata, il Consiglio intero doveva rendere conto al popolo del proprio operato. La Bulè era convocata dai pritani e si riuniva nel Buleuterio, situato a sud dell'agorà. Ma come l’Ecclesia, non poteva sedere in permanenza per un’intera annata; per il disbrigo degli affari ordinari aveva bisogno di una giunta direttiva controllata a turno da una delle dieci tribù per una decima parte dell’anno : essa era costituita da cinquanta pritani (ovvero 1/10 dei buleuti) e presieduta da un epistate (sorteggiato ogni giorno tra i pritani) che teneva per ventiquattro ore le chiavi dei templi dove si trovavano i tesori, gli archivi e i sigilli dello Stato. Questa giunta aveva il compito di mettersi in relazione con l’Ecclesia , con i magistrati, gli ambasciatori e gli araldi stranieri; convocava in caso di urgenza il Consiglio, l’Assemblea, gli strateghi e aveva a disposizione le forze di polizia. Nell’esercitare le sue molteplici funzioni la Bulè nominava poi diverse commissioni speciali: per controllare le entrate all’Assemblea, per sorvegliare l’amministrazione marittima o per la consacrazione e le celebrazioni dei misteri (commissioni di ieropi).
A un tempo organo preparatorio-esecutivo e magistratura suprema, aveva tre mezzi per esercitare i suoi diversi poteri:
La Bulè aveva attribuzioni importanti anche in campo finanziario, poiché sorvegliava l’impiego del denaro pubblico e si occupava degli appalti delle imposte, delle concessioni minerarie, delle locazioni dei terreni sacri, della costruzione e conservazione delle opere pubbliche (come si deduce dai conti sui lavori dell’Acropoli nell’età di Pericle). Infine, fra le sue molte funzioni giudiziarie, si occupava della procedura rapida per punire i reati contro la sicurezza dello Stato: l’eisangelìa. Un tempo chi giudicava i reati per
eisanghelìa contro la costituzione era l’Areopago: una legge di Solone gli riconosceva questo diritto. Ma, dopo la riforma di Efialte (462 a. C.), la competenza in materia di questi crimini passò al Consiglio, che divenne così un organo centrale della democrazia ateniese.
Anche con l’aiuto di un Consiglio permanente, il popolo non poteva fare eseguire le sue volontà che delegando parte della propria sovranità a certi magistrati: tra i pubblici uffici si distinguevano le magistrature propriamente dette, d’ordine governativo o politico (archai), e le funzioni puramente amministrative (epimeleiai), senza dire delle funzioni subalterne (huperesiai), le quali potevano essere affidate anche a meteci e schiavi. Qualsiasi cittadino poteva esercitare delle magistrature, che erano di breve durata, generalmente annuali, e non potevano essere accumulate. Le magistrature, cui si poteva accedere per sorteggio o elezione, erano tutte indipendenti le une dalle altre perché coordinate dal Consiglio, eccetto quelle militari, come la strategia, dov’era necessaria una gerarchia. Infatti gli strateghi, comandanti in capo, davano ordine ai tassiarchi, colonnelli di fanteria, e, per il tramite degli ipparchi, ai filarchi, colonnelli di cavalleria.
I magistrati prima di entrare in carica dovevano prestare giuramento e sottoporsi alla prova della "dokimasia", un primo esame davanti al Consiglio. Superata questa prova, essi erano persone inviolabili che godevano di molte prerogative e di una speciale protezione. Ma la loro responsabilità era duplice; anzitutto finanziaria, e poi morale e politica: ogni funzionario doveva presentare un rendiconto dei fondi pubblici di cui aveva avuto la gestione (logos), verificato da un altro collegio di magistrati, i loghistài. Otre alla resa dei conti in senso stretto e preciso della parola, c’era nel diritto pubblico ateniese un rendimento dei conti in senso largo, l’euthuna, davanti agli euthunoi. I magistrati erano pertanto sottoposti a una sorveglianza incessante e minuziosa e se commettevano atti illeciti potevano essere deposti dall’Assemblea, attraverso una votazione per alzata di mano, epicheirotonìa, e rinviati davanti al tribunale. Era lo stesso principio democratico a esigere questo rigido controllo sul potere esecutivo e a portare il popolo ateniese a una profonda diffidenza che non risparmiò nessuno, neppure Pericle.
Il più importante dei tribunali era l’Areopago, che sedeva sulla collina di Ares, vicino alla grotta delle Eumènidi
Il mito vuole che il nome derivi da Ares (Marte), che vi sarebbe stato giudicato per primo avendo ucciso Alirrozio, figlio di Poseidone (Nettuno), che aveva tentato di rapirne la figlia Aleippe. Secondo la versione eschilea (Eumenidi), l’Areopago avrebbe anche giudicato Oreste dopo che questi ebbe ucciso la madre Clitemnestra: Oreste fu assolto e Atena, per placare l’ira delle Erinni, i demoni che perseguitavano il giovane a seguito del matricidio, le rese divinità benefiche e protettrici della città di Atene, dette appunto Eumènidi.
Questo tribunale, probabilmente fondato da Solone e composto dagli ex-arconti, fu modificato nella sua costituzione già subito dopo la riforma di Clistene poiché ne venne abbassato il valore. Infatti, sempre più inferiore al compito affidatogli dalla tradizione, esso doveva apparire ben presto un’istituzione dell’altra età. Era tale non solo per l’inamovibilità dei suoi membri, appartenenti alle classi ricche e nobili, ma anche per i poteri per i poteri che aveva ereditato. Le sue attribuzioni, a un tempo giudiziarie e politiche, non erano ben definite; ma, poiché comprendevano la sorveglianza delle leggi, potevano diventare esorbitanti. In compenso, per i servizi resi nei momenti peggiori dell’invasione persiana, aveva acquistato maggiore prestigio. Era dunque inevitabile che il popolo attaccasse questa roccaforte dell’aristocrazia. Nel 462 a. C. a capo del partito democratico era Efialte. Da lui l’Areopago, già epurato per mezzo di provvedimenti giudiziari, ricevette il colpo di grazia. Fu privato delle funzioni sovraggiunte e mal definite che gli conferivano la custodia sulla costituzione e gli permettevano di esercitare un controllo sul governo ; perdette la giurisdizione dei reati di assassinio che interessavano la città, delle infrazioni commesse contro l’ordine pubblico dai privati o dai funzionari. Conservò soltanto attribuzioni di carattere religioso, del resto assai estese, poiché comprendevano, insieme con la sorveglianza dei luoghi consacrati, la giurisdizione sui reati di assassinio premeditato (phonos hekousios), di ferite inferte con intenzione omicida, di incendio di una casa abitata e di avvelenamento. La separazione dei beni accumulati dall’Areopago era resa necessaria dal progresso delle istituzione politiche in una grande città e, compiuta la democrazia, doveva andare a vantaggio di questa, anche se Efialte pagò poi con la vita la sua devozione alla causa popolare.
Al di sotto dell’Areopago stavano altri tribunali del sangue:
Tutta la procedura seguita nei processi di sangue era di un arcaismo singolare: se la vittima, prima di morire, perdonava l’uccisore, nessuno poteva far nulla contro di lui. Altrimenti i campioni della vittima erano il padre, i fratelli e i figli. Questi potevano venire a patti con l’uccisore o deferirlo al tribunale. In questo caso l’istruttoria avveniva in tre dibattimenti che venivano tenuti a un mese di intervallo, mentre il processo avveniva all’aperto, affinché i giudici e l’accusatore sfuggissero al contagio propagato dall’impurità dell’accusato. Quel giorno l’arconte re si toglieva la corona, simbolo d’inviolabilità, e offriva un sacrificio; ciascuna delle parti in causa aveva il diritto di parlare due volte. Se poi i voti si dividevano in eguale misura tra l’accusa e la difesa, l’accusato beneficiava del suffragio detto di Atena ( psephos Athenàs), in ricordo del voto espresso, secondo la tradizione, dalla dea a favore di Oreste. Infine, scendendo dalla collina di Ares, l’assolto si recava alla grotta delle Eumènidi e a ringraziare le dee con un sacrificio.
Tutti gli affari che non erano di competenza dei tribunali del sangue erano, in via di principio, di competenza del popolo. Questo era un compito enorme e, già dall’età di Pisistrato (tiranno dal 546 al 527 a. C.) , vennero creati dei giudici che si occupassero delle cause civili. I più importanti erano i dieteti , semplici arbitri pubblici, e gli eliasti , che dovevano avere almeno trent’anni compiuti e essere in pieno possesso dei diritti civici. Nel V secolo gli eliasti, i dikastài per eccellenza, erano seimila, numero che, nel diritto pubblico, rappresentava l’unanimità, come lo attesta la procedura dell’Assemblea plenaria (infatti non va dimenticato che, in molte città, il nome di Eliea designava l’assemblea del popolo). I giudici, eletti per sorteggio (seicento per tribù), dopo aver prestato giuramento, erano divisi fra i differenti tribunali civili e, di conseguenza, fra i magistrati che li presiedevano. La maggior parte di questi giudici era fornita dalle classi medie e inferiori della città, del porto e dei dintorni attratte da una retribuzione (misthophorìa)di due oboli al giorno e, dopo il 425, di tre oboli, che potevano compensare i loro redditi spesso esigui. Anche ai vecchi piaceva l'idea di guadagnare qualche soldo, attraverso cui costituirsi, con un'occupazione onorevole e poco faticosa, una modesta pensione; i ricchi, invece, che avevano altro da fare e non erano attratti dal diobolo o dal triobolo, si tenevano volentieri in disparte.
Il processo si divideva in due parti: l'istruttoria, che si svolgeva davanti all'arconte re, e il processo vero e proprio, che aveva luogo davanti ai giudici riuniti nel tribunale designato dall'arconte. In quest'ultima fase, le parti in causa pronunciavano personalmente i discorsi di difesa o di accusa; a ciascuna di esse era consentito pronunciare due discorsi, il primo della durata di venti-quaranta minuti, il secondo di una decina di minuti. I giudici dovevano infine procedere alla votazione; se l'imputato era assolto il processo era concluso; se risultava colpevole, si valutava quale sanzione era opportuno infliggere.
Pubblico e privato emergono come categorie determinanti nella democrazia così come Pericle la definisce e attorno ad esse si organizzano tutte le qualità della democrazia. Le qualità attinenti ai rapporti pubblici si possono definire primarie e riguardano i rapporti tra istituzioni e individui in quanto cittadini; le caratteristiche, invece, attinenti alle attività, agli atteggiamenti e alle attese del singolo individuo sono classificabili come secondarie.
Esattezza, quantificazione e possibilità di controllo sono caratteristiche di qualunque società: è necessario esaminarle in modo relativo, attraverso il confronto di contesti socio-politici diversi. Questi atteggiamenti si manifestano con particolare evidenza in tre aspetti: 1) l'uso della scrittura a carattere pubblico (leggi e rendicontazione); 2) il trattamento del bisogno, dell'indigenza; 3) l'espressione della decisione pubblica attraverso il voto (quantificazione, maggioranza, calcolo dei voti, rotazione delle cariche, ostracismo).
Pericle arrivò al potere nel 461a.C., dopo che fu ostracizzato Cimone e vi rimase fino al 429, anno della sua morte a causa della pestilenza che si era abbattuta su Atene. Con lui si può parlare di attivismo ed ottimismo, in una prospettiva edonistica: l'età periclea rappresenta un'eccezione nella storia greca, poichè la cultura greca è fondamentalmente pessimistica. Il divario esistente tra il livello dei principi promossi da Pericle e la situazione storica si rende manifesto nel terzo discorso da lui pronunciato nello scritto di Tucidide, autore che, nell'Epitafio, ci fornisce importanti informazioni anche riguardo all'efebia.
LA DEMOCRAZIA NEL PUBBLICO
Il primo punto tocca il tema della nomografia, la scrittura delle leggi. Questa non è stata creata dalla democrazia, nè è plausibile l'idea di alcuni studiosi che le aristocrazie siano radicalmente ostili alle leggi scritte; occorre, certo, sottolineare che la democrazia ha promosso grandemente lo sviluppo della scrittura. Non solo, ma la democrazia ha sviluppato un tipo di scrittura pubblica a contenuto legislativo in un modo che fa di questo tipo di nomografia una forma democratica per eccellenza. In un passo di Strabone si legge l'elogio che Eforo fa di Zaleuco di Locri, a suo parere il primo autore di una costituzione scritta: egli non si ferma a constatare la maggiore giustizia di questo tipo di legislazione, ma loda soprattutto il fatto che le leggi siano formulate in maniera semplice(nòmoi haplòi). Al contrario, i cittadini di Turii, che avevano voluto superare i Locresi in quanto a precisione di dettagli (nomoi akribei^s), sono giudicati negativamente da Eforo, perchè, secondo lui, "si governano bene coloro che si attengono alle leggi stabilite in maniera semplice", mentre le leggi eccessivamente complicate sono "a totale beneficio dei sicofanti". Leggendo passi di Isocrate e Senofonte, si individua l'esigenza di precisione, determinazione, specificazione che è tipica della democrazia; la stessa esigenza, però, si trova anche nel quadro di una concezione aristocratica o democratico-conservatrice o moderata. Lo studioso Buchner ha rilevato come l'atteggiamento democratico esiti tra una pratica, che è quella di attenersi puntualmente alle leggi, e una teoria, che è quella di rinunciare alle leggi, in favore delle norme dettate dai costumi (la formazione del carattere dell'individuo diventa, in questa situazione, il tratto determinante.). D'altra parte, Isocrate contrappone tra loro due prospettive opposte, quella della precisione e quella dell'onestà, che non ha bisogno di molte leggi scritte. La contraddizione, comunque, non esiste: essa esiste soltanto alla luce di un'interpretazione statica e assoluta di akrìbeia. Poco convincente è il rimedio proposto dal Buchner: la contraddizione risulterebbe inesistente in virtù del fatto che le due concezioni sarebbero entrambe oligarchiche. L'akrìbeia, però, non significa osservare solo puntualmente le leggi, ma ha a che fare più direttamente con la forma scritta; essa deriva dall'eccesso di precisione nel dare ascolto all'esigenza democratica di certezza e trasparenza del diritto. Particolarmente interessante è il frammento di Menandro che recita: "Gran bella cosa le leggi, ma chi le guarda con troppa puntualità si rivela un sicofante". E' evidente che l'akrìbeia è respinta come un pericolo da quest'autore. Essa è vista come un pericolo anche dai Trenta, che, stando all'aristotelica Costituzione degli Ateniesi, decisero di abolire le leggi di Solone, suscettibili di controversia: questo tipo di leggi lascia troppa materia alla discrezione dei giudici poichè è talmente akribei^s, talmente minuzioso, da fornire materia a dibattiti infiniti e a una decisione soggettiva da parte dei giudici. L'accusa mossa a Solone riguardo alle sue leggi "nè semplici nè chiare" viene da parte antidemocratica: la chiarezza e la trasparenza erano il fine della democrazia nella sua ricerca di esattezza, ma l'oscurità ne è il risultato storico. L'eccessiva quantità di leggi e l'eccessivo controllo sono inclusi nell'immagine negativa applicata storicamente alla democrazia del IV secolo.
All'interno della democrazia l'idea di eùthyna, "rendiconto", assume una posizione centrale. Per quanto riguarda il controllo sui magistrati, a Sparta essi non sono soggetti a rendiconto, per lo meno non periodicamente; il rendiconto ateniese, invece, ha scadenze regolari e, in teoria, risponde a esigenze di chiarezza e di quantificazione. L'oggetto dell'azione politica viene sottoposto al controllo generale, che deve fare astrazione dalla persona dei magistrati e giudicare obiettivamente le loro spese. Il cittadino è invitato a vedere i testi delle leggi e, se ne è in grado, a leggerli: questi testi, infatti, sono di dimensioni medie, non tanto lunghi come certi testi legislativi delle aristocrazie. Diversamente, i testi di contabilità sono fitti di sezioni e sottosezioni, dati aritmetici e finanziari, e non è casuale che proprio la cultura democratica propaghi l'enorme diffusione di questo tipo di epigrafia. La democrazia ateniese classica induce nell'uomo comune della città democratica abitudine a leggere e a contare: l'esposizione pura e semplice, affinché ognuno possa leggere, è un tratto tipico solo della democrazia. La trasparenza, caratteristica pubblica e primaria della democrazia classica, è messa in evidenza nel ritratto che Tucidide fa di Pericle, definendolo "trasparentemente incorruttibilissimo in fatto di denaro".
Pericle e Cimone sono due opposti esempi di elargizione. La novità radicale della politica sociale di Pericle è quella delle indennità pubbliche, cioè denaro pubblico distribuito come ricompensa per l'esercizio di una funzione pubblica (giurato, consigliere, magistrato, soldato). La liberalità di Cimone consiste nel lasciare i campi senza sorveglianza a disposizione di "coloro che lo vogliano": ciò che conta è la virtù dell'individuo Cimone, non la quantità di povertà e bisogno che è soddisfatta. Analogamente è indeterminato il numero di persone che godono della "mensa dei poveri" di Cimone, e così anche tutti quei poveri a cui Cimone, incontrandoli per strada, donò vestiti o spiccioli. Quelle qui illustrate sono forme di elargizione arcaica e aristocratica, mentre soltanto a partire dall'età periclea abbiamo cifre di assistiti o pagati dallo Stato ateniese.
Nelle votazioni, legge della maggioranza che prevale sulla minoranza, è evidente e facile da osservare la connessione tra democrazia e quantificazione; la quantificazione dei voti è la connotazione fondamentale della democrazia, come si deduce dalle
Supplici di Eschilo. A Sparta, i ghèrontes sono eletti con la procedura dell'acclamazione: i giudici vengono rinchiusi in un edificio e ascoltano e valutano le acclamazioni ricevute dai candidati, decidendo quale tra loro abbia ricevuto gli applausi più forti. Questa procedura, a cui manca quella completa quantificazione che la cheirotonìa democratica rende invece possibile, ha ricevuto un perfezionamento che consiste nel voto per diàstasis, "discessione". La cheirotonìa rende identificabili, al primo colpo d'occhio, maggioranza e minoranza, nel caso si tratti di due posizioni opposte, inoltre, la mano sollevata allontana l'occhio del giudice dal viso del semplice cittadino e lo porta a considerare solo la quantità che il cittadino rappresenta. Plutarco opera una distinzione tra analogia aritmetica e analogia geometrica: la prima si fonda sulla base del numero, mentre la seconda è basata sui meriti di ciascuno; nella prima l'ìson fonda il dìkaion, nella seconda il dìkaion decide dell'ìson. La teoria democratica non aveva bisogno della proporzione aritmetica, nè traeva da essa vantaggi, anche se la quantificazione democratica è una forma aritmetica molto pronunciata. Quantificazione, verificabilità, visibilità, trasparenza, astrazione della singola personalità, generalizzazione, bilanci sono tratti che si accordano bene con il razionalismo e l'intellettualismo avanzanti nel V secolo.Nell'Iliade, il desiderio di unanimità arriva quasi all'ossessione: bisogna che tutti siano coinvolti e approvino. In caso di disaccordo, nemmeno l'autorità può imporre la sua volonà. Il fatto che l'autorità possa avere difficoltà a far applicare la sua autorità rientra nella concezione greca, secondo cui le decisioni che riguardano una molteplicità di soggetti devono essere prese almeno con un minimo di partecipazione dei soggetti medesimi. Nel primo libro dell'Iliade, con l'episodio di Agamennone, si può notare come l'assemblea abbia un ruolo di convalida della decisione del capo: stenta ancora a vedersi una pluralità di soggetti che si possano democraticamente diversificare nella scelta. Già nell'Odissea si profila l'idea di una spaccatura del corpo civico e della vittoria della maggioranza: va emergendo una più articolata funzione politica del demos. Anche a Sparta si profila l'idea di una maggioranza, nell'elezione dei ghèrontes. Qualche secolo più tardi, Tucidide ci testimonia come l'assunzione di una decisione avvenga tramite il voto, dopo aver ascoltato e discusso una proposta: l'unanimità sarebbe l'ideale, però, per bloccare decisioni terribili, la maggioranza deve bastare. Ancora nella società del V secolo, le tendenze unanimistiche sono molto forti. Nelle democrazie moderne si vede il problema della reversibilità del rapporto tra maggioranza e minoranza, mentre nella polis c'è meno l'idea del succedersi, al governo, di un partito all'altro: ci sono ondate di uomini legati da amicizia che si succedono e i ruoli politici sono addirittura rotanti. Il conflitto è tra uomini, non tra raggruppamenti sociali, anche perchè alcuni gruppi, come donne, stranieri, schiavi e minorenni, sono già esclusi dalla polis: questo alimenta ulteriormente la vocazione quasi-unanimistica. I decreti di età ellenistica, contenenti dati numerici riguardo alle votazioni, che ci sono pervenuti, registrano risultati del tipo largamente maggioritario o quasi-unanimistico e ugualmente si riscontra in Asia Minore, dove maturò, sotto l'influenza attica e ionica, la generalizzazione dell'idea democratica, propria appunto dell'età ellenistica.
LA DEMOCRAZIA NEL PRIVATO
Pericle arrivò al potere nel 461a.C., dopo che fu ostracizzato Cimone e vi rimase fino al 429, anno della sua morte a causa della pestilenza che si era abbattuta su Atene. Con lui si può parlare di attivismo ed ottimismo, in una prospettiva edonistica: l'età periclea rappresenta un'eccezione nella storia greca, poichè la cultura greca è fondamentalmente pessimistica. Nell'Epitafio, Pericle fa un largo uso di parole indicanti gioia, soddisfazione, fiducia, mentre rifiuta gli aspetti di dolore e fatica; egli aggiunge anche la proclamazione del diritto al riposo, sottolineando la sua visione positiva e ottimista del lavoro. L'attivismo di Pericle nasce proprio dal fatto che la condizione economica contribuisce alla valutazione della persona, il lavoro produce quindi ricchezza ed equilibrio sociale e il non lavorare è fonte di vergogna per un cittadino. L'ottimismo pericleo è l'ottimismo dell'intelligenza: egli vede ottimisticamente la città e i suoi bisogni e individua la realizzazione fisica e intellettuale dell'uomo nel "vivere come si vuole", nella "vita rilassata, spensierata".
Questo ottimismo si ritrova nelle Supplici di Euripide (appartenenti approssimativamente al 423), riguardo agli dei: "Qualcuno ha detto che i mali sono per i mortali più numerosi dei beni, ma io ho un'opinione contraria a questa, e cioè che il bene per i mortali sia superiore al male; se così non fosse, non saremmo neppure in vita". Proseguendo, però, nella lettura, si rientra via via nel quadro di una concezione pessimistica, allontanandosi dalla concezione periclea: il bene offerto dagli dei è superiore al male, ma poi gli uomini si rovinano la vita con le proprie mani. La parte positiva della rappresentazione di Euripide ha molto in comune con il platonico Protagora: Protagora racconta come l'uomo, nato indifeso, abbia acquistato successivamente, come dono degli dei, l'intelligenza, la voce, la parola, poi avrebbe incominciato a onorare gli dei e solo in seguito avrebbe inventato abitazioni e vestiti e imparato a procurarsi da mangiare e da bere e a sfruttare gli alberi. Secondo Protagora, infine, gli uomini si sarebbero ritrovati a vivere in condizioni di rivalità e ostilità, finchè Zeus, visto qui in una luce positiva, non ha mandato sulla terra aidòs, pudore nel senso di rispetto reciproco, e dìke, giustizia. In Euripide, all'interno di una nozione positiva di natura e lavoro, il progresso consiste nell' abilità nel venire a capo delle difficoltà e il lavoro ha un effetto trascinante; l'idea protagorea è che la divinità collabori alla nascita della civiltà e della città.
Il sofista Prodico di Ceo, nel mito di Eracle al bivio, afferma che la virtù (areté) porta alla felicità, contrariamente al vizio (kakìa): l'idea di poter raggiungere una buona condizione sociale, economica, di rispetto, è ottimistica, ma allo stesso tempo sottolinea come sia necessario passare attraverso la fatica, poichè la via della virtù non è "piacevole e facile" come quella del vizio. Il nesso presentato tra eudaimonìa e areté è socratico ed è proprio per questo che è Senofonte, un socratico, a diffondere le teorie di Prodico; l'idea di Prodico è però permeata da un moralismo che evita di enfatizzare l'efficacia dell'intelligenza umana, della ragione, della capacità di scelta e che esalta invece il ruolo della virtù. In questo Prodico si differenzia da Pericle, il quale invece sottolinea il ruolo fondamentale dell'intelligenza umana dichiarando che l'uomo è intelligente, capace, la natura gli offre mezzi e occasioni, riuscire dipende solo da lui. Queste due differenti concezioni trovano un riscontro a livello lessicale, nelle parole che i Greci utilizzavano per indicare il lavoro: érgon è il lavoro inteso come opera, come realizzazione, mentre pònos è un termine che sottolinea la fatica, il rovescio della medaglia. Nella realtà, le due cose si combinano, tra le due nozioni c'è solamente una diversità d'accento: la concezione pessimistica è che i risultati si ottengono con fatica. Su questo versante è schierato anche Esiodo, che mette in luce la facilità con la quale si imbocca la strada della kakìa, facile e piana, e la fatica del perseguire la areté, la cui via è lunga, scoscesa e aspra. Esiodo rivela pessimismo anche per quanto riguarda la nozione del tempo, con le quattro età della decadenza dell'uomo; una concezione ottimistica, però, si intreccia con questa, ed è la prospettiva di poter utilizzare bene il tempo, per realizzazioni operose.
Questo modo di guardare al tempo è carico di attivismo, oltre che di ottimismo, e rappresenta uno dei due grandi filoni della storia greca, che si intrecciano con naturalezza fin dal patriarca del pessimismo greco, Esiodo: l'ottimismo che enfatizza la produttività di Euripide e Pericle e il pessimismo innato della sofistica, che mette l'accento sulla fatica, la rinuncia, la sofferenza. Queste concezioni colgono ciascuna un diverso aspetto della realtà; il dato fondamentale è, però, l'elaborazione di una teoria della vita, nel corso del V secolo, che emerge da una nuova situazione di ordine politico e culturale, quale la democrazia periclea e lo sviluppo della sofistica. Il punto di forza del pessimismo di Prodico (che ha ascendenze esiodee, ma assume una forma moralistica che è l'esito nobile del pessimismo) è il fatto che trova riscontro nella realtà; esso, però, si presenta anche come una scelta d'élite, poichè la via ripida e faticosa che conduce alla virtù non è percorribile da tutti e, di conseguenza, solo pochi possono giungere alla felicità.
Pericle difende lo stile di vita libero e il diritto alla felicità, che è conquistabile grazie alla politica della città: il suo è un edonismo libertario, egli anticipa le filosofie edonistiche cirenaica ed epicurea. Pericle è ottimista e fiducioso anche verso gli stranieri e non li allontana: le parole più ricorrenti su questo argomento indicano fiducia, spensieratezza e buona disposizione d'animo (pisteùein, eupsychìa, rathumìa). Il termine rathymìa, spensieratezza, si trova in un contesto che può destare qualche perplessità riguarda a saggezza di decisione dal punto di vista militare: Pericle difende la libertà del corpo, schierandosi apertamente contro la concezione spartana della formazione fisica a fini militari. Egli muove una critica alla mentalità e all'educazione oplitica, promuovendo l'idea di uno stile di vita libero e dichiarando: "Amiamo il bello senza sprechi, e ci dedichiamo alla cultura, senza che questo comporti mollezza". Pericle esalta il lavoro come fonte di ricchezza, contrapponendo l'attivismo alle ricchezze aristocratiche e evocando quei ceti nuovi che emergono nel V secolo.
Con Pericle, il politico è luogo di armonia, mentre il privato è sede delle differenze, ed è la polis stessa che autorizza e armonizza le differenza del privato. Lo stile di vita proposto da Pericle non è costrittivo nè repressivo, ma si basa sulla "vita rilassata" (aneiméne dìaita) e sulla "facilità dell'animo", spensieratezza (rathymìa), sull'ottimismo e sul gusto del bello senza sprechi. E' una filosofia di diritto alla felicità nella libertà, di uguaglianza formale per tutti, dove ciascuno può esplicare la propria personalità; si trova qui la teoria democratica della democrazia, in quanto Tucidide rende con obiettività di storico alcuni concetti che pur vanno contro il fondo comune e generalizzato del pensiero greco e, quindi, che lui non necessariamente condivide per intero. Pericle, nel suo discorso, fa riferimento alle "belle case private": grandi residenze aristocratiche si trovavano, a quell'epoca, in campagna, ma probabilmente non è da intendersi ad esse il riferimento di Pericle. E' improbabile, inoltre, che egli abbia suggerito una identica forma delle case, anche se alcuni scavi al Pireo hanno rilevato la presenza di case-tipo, popolari; più probabilmente, il suo accenno è basato su un apprezzamento del bello e della qualità della vita e sulla difesa della proprietà privata. Il suo elogio delle belle case sembra reggersi su un auspicio e un annuncio: "C'è una bella casa nel tuo futuro". Il privato delle case è, per Pericle, un compenso al lavoro, come lo sono il pubblico e il religioso. A pagare per il benessere che egli realizza, però, sono altri, in primo luogo quelli delle città dell'impero: "Da tutta la terra vengono ad Atene tutti i prodotti, per la grandezza della città".
Sul piano militare è esplicito il desiderio di Pericle di voler eliminare la fatica eccessiva, che si contrappone al pensiero di Prodico, secondo il quale è kakìa il vivere facilmente e secondo il piacere. Prodico esorta ad imparare la guerra per poter aiutare gli amici, Pericle invece ha una vocazione alla pace e un ideale antieroico, egli ha fatto della quotidianità un valore e si preoccupa che la vita non sia occupata da pensieri troppo gravi. Egli ha una concezione laica dell'esistenza e per lui la sofferenza non è un valore. Gli elementi della soddisfazione culminano, secondo la morale tradizionale, nella fama e nal prestigio; Pericle, prima ancora di parlare della fama, polemizza contro la diffamazione che un dissenziente può operare nei riguardi di chi vive "a modo proprio". Al di là di obblighi civili e militari, resta quindi per Pericle una rilevante quantità di spazio personale, ed è qui che si inserisce il tema edonistico: con Pericle è allargata la libertà individuale, con una grande considerazione per la dignità dell'individuo. Questo tema è rieccheggiato in Aristotele, nella Politica, dove egli afferma che la democrazia si basa sulla libertà ed è l'unica costituzione in cui gli uomini vivono in libertà: ne sono prova il governare e essere governati a turno e il vivere come si vuole.
Nelle guerre persiane si espresse compiutamente la profonda aspirazione alla libertà del popolo greco, che si coalizzò per far fronte alla comune minaccia di un'invasione persiana.
Ma questo stesso impulso verso la libertà grazie al quale i Greci riuscirono a difendersi dal dominio straniero, sul fronte interno si presentava come desiderio di ogni singola polis a preservare la propria libertà, la propria autonomia. Questo fu il motivo che impedì la formazione di un organismo statale.
In seguito alla vittoria greca nelle guerre persiane, per evitare una vendetta da parte del re, fu stretta un'alleanza fra gli Ateniesi e gli Ioni: un'alleanza che, inizialmente piuttosto elastica, si trasformò in predominio della città di Atene. Non fu possibile per Pericle istituire un diritto di cittadinanza comune perché fondamento della polis era l'esercizio personale del diritto di voto da parte di ogni cittadino, cosa possibile in territori limitati.
L'abbattimento, nel 404, delle Lunghe Mura di Atene, atto terminale della guerra del Peloponneso e fine dell'egemonia ateniese, fu salutato come "inizio della libertà" per la Grecia. Ma proprio la polis spartana, uscita vittoriosa da questa guerra, assunse il ruolo che la rivale era stata costretta ad abbandonare. L'avversione del popolo greco ad ogni legame e subordinazione provocò una reazione antispartana, che portò alla costituzione di una lega guidata da Atene, ma da allora le parole autonomia e eleutheria indicarono la piena parità fra gli aderenti ad un'alleanza.
Il senso greco di libertà si manifestò ancora una volta contro Filippo il Macedone, che però riuscì a vincere le forze elleniche e a costringere tutte le città ad associarsi in una confederazione sotto al suo dominio. Ma questa unificazione dell'intera Ellade realizzatasi nella lega di Corinto avvenne solo per pressioni esterne e il dominio della Macedonia, uno stato comunque affine alla Grecia, era interpretato come signoria straniera e privazione della libertà.
Il dualismo Sparta - Atene, manifestatosi dopo le guerre persiane, derivava da una sostanziale differenza etnica tra le due polis e non da una contesa per il predominio. Da un lato c'erano gli Spartani: conservatori, cauti, riflessivi, la loro forza risiedeva nella sophrosyne oltre che nel valore militare; dall'altro lato stavano gli Ateniesi: rapidi a decidere e a agire, desiderosi del nuovo, protesi verso il futuro. Questa contrapposizione aveva i suoi effetti anche nella vita politica interna. La preparazione bellica e l'esaltazione della virilità erano i supremi valori sia per il singolo sia per la comunità nell'ambito della polis spartana. Solo gli interessi della comunità avevano valore e solo in base ad essi fu rigidamente regolata dallo Stato la vita dell'individuo.
Ad Atene la situazione era diversa. Intorno al 507 Clistene aveva riordinato lo stato. Grazie alla politica navale di Temistocle la città era diventata la più forte potenza marittima greca; nel contempo, pur rimanendo la maggior parte della popolazione contadina, la vita si andava progressivamente spostando verso la città. Tra i cittadini poi, acquistò peso la classe sociale dei teti - i non possidenti - che si erano distinti come marinai e artigiani e potevano quindi avanzare diritti politici. Anche se già con Solone ai teti era stata concessa la partecipazione all'assemblea popolare e ai tribunali dei giurati, in realtà però essi non avevano interesse ad accedere alle cariche in quanto non retribuite. Erano comunque consapevoli di avere pari diritti rispetto agli altri cittadini e di poter far pesare il loro voto. L'isonomia, l'antico nome usato da Clistene per designare la legge comune che legava tutti i cittadini e conferiva loro gli stessi diritti, venne gradualmente sostituito da democrazia, termine coniato in origine dagli avversari aristocratici per indicare il governo del basso popolo e che in seguito assunse significato non dispregiativo riferendosi ad una forma statale in cui a governare è la collettività. Infatti in Atene il potere era direttamente esercitato dal popolo, perché magistrature e consigli vennero ridotti a organi dell'assemblea popolare e la giustizia era amministrata a sorte fra i cittadini.
Eguaglianza e libertà sono le basi della democrazia ateniese. Nell’epitafio di Pericle, dello storico Tucidide, lo statista ateniese spiega il suo ideale politico e lo fa con un costante raffronto fra la sua città e Sparta. Per tutte le stirpi greche bene supremo era la libertà; così era anche per Sparta, ma ai singoli abitanti bastava l’indipendenza della patria. Anche gli Ateniesi avevano una spiccata sensibilità statale e disposizione al sacrificio, ma per loro non era tollerabile trascorrere la vita soggetti alla coercizione dello stato.
Al totalitario stato spartano Pericle antepone la concezione statale ateniese. Ad Atene la sfera privata è separata dalla sfera statale e lo stato cerca di evitare ogni ingerenza e di lasciare ad ogni cittadino la possibilità di strutturare liberamente la propria vita. Il simbolo della democrazia per gli Ateniesi era l’invito dell’araldo, che chiedeva se qualcuno volesse prendere la parola. Secondo Pericle, poi, ogni cittadino è in grado sia di occuparsi degli affari privati sia di formulare il proprio giudizio in merito a quelli pubblici.
L’opposizione fra le forme statali in vigore a Sparta e a Atene deriva da una diversa volontà politica, alla quale contribuisce il diverso peso che viene dato nelle due polis alla personalità individuale. Anche a Sparta, come nelle altre città greche, si formarono uomini di notevole levatura, ma essi rappresentavano soltanto il loro mondo: non si ponevano come individui singoli e il loro valore non scaturiva da sorgenti interiori. Per primo fu l’ateniese Temistocle ad essere apprezzato come l’uomo che aveva salvato la Grecia con le sue doti personali. Per la prima volta Tucidide lo indica come individuo che ha messo il suo genio a servizio della collettività. Temistocle fu il primo ed altri seguirono e Pericle trasse le debite conseguenze dall’aumentata importanza del singolo, cercando di assicurargli il suo posto nella società.
E’ lo stesso Pericle a precisare che uguaglianza indica, nel diritto privato, l’essere tutti uguali davanti alla legge, mentre in ambito politico l’abolizione di privilegi di nascita e censo, ma non lo stesso grado di influenza sulla collettività. Unico parametro per quest’ultimo aspetto è l’aretè. All’uguaglianza meccanica, che ha compimento nell’assemblea popolare, è affiancata una differenziazione che apra la via ai più abili cosicchè anche i più poveri possano avere un’influenza politica. Pericle afferma che l’umanità accoppia adempimento dei compiti privati, sensibilità statale e intelligenza politica. Anziché l’educazione spartana alla guerra, è necessaria una formazione integrale dell’uomo, che può essere ottenuta solo se viene concesso all’individuo di poter sviluppare tutte le proprie inclinazioni.
Senza la concezione periclea di libertà e uguaglianza sarebbe inconcepibile il liberalismo moderno, che però nasce da una mentalità individualistica, mentre per Pericle l’individuo deve sì essere socialmente libero, ma sopra di lui è la polis che obbedisce a leggi proprie. Lo stato ha la priorità perché è la sola comunità di formazione naturale entro cui l’uomo può esistere e dal benessere della quale dipende quello del singolo. Di conseguenza l’individuo poteva usufruire della sua libertà subordinatamente agli interessi della società. La valutazione della persona, comunque, andava oltre al semplice concetto di democrazia e aprì un nuovo momento nel pensiero politico greco.
Se a Sparta trovava espressione l’idea politica di socialismo, perché dominanti sono i fini dello stato, la convinzione di Pericle è che la comunità, nonostante la sua preminenza, possa raggiungere il suo fine supremo solo se ogni cittadino può sviluppare la propria personalità liberamente.
La politeia, come stato democratico, era per i Greci non una costituzione scritta, ma la forma di vita creata da un popolo in base alla sua natura e alla sua indole. Gli avversatori di questa forma attaccavano in modo violento la parole uguaglianza e libertà: all’uguaglianza "aritmetica" veniva contrapposta un’uguaglianza "geometrica", che non concedesse uguali diritti a uomini non uguali ma che li graduasse in base ai meriti, e la libertà democratica diveniva sinonimo di sfrenatezza e arroganza e ad essa era opposta la sophrosune. In effetti sull’ideale democratico di libertà – per sfuggire al servilismo nei confronti di un despota – ricadeva il rischio della sfrenatezza assoluta, un rischio che lo stesso Pericle vide. Egli afferma che, se nella vita privata ognuno è totalmente libero di compiere ciò che più gli piace, in quella pubblica evita, per timore, di tenere una condotta illegale. Il timore di cui parla lo statista ateniese è un timore etico, è paura di violare i limiti che i doveri verso la società impongono alla libertà individuale. Pericle, rifiutando la coercizione spartana ma ritenendo che il timore etico sia innato in tutti popoli, sostiene che è necessaria l’ubbidienza volontaria, ma più che altro la intende come esigenza ideale.
Nello stesso periodo di Pericle si andava affermando la teoria che il giusto e l’immorale si fondano su convenzioni e non provengono dalla natura; anche lo stato fu investito da questa concezione. Il sofista Antifonte dichiara che le leggi sono una limitazione alla natura umana dalla quale l’individuo è spinto a perseguire i propri interessi: viene così abolito il limite posto dalle leggi sociali e dall’etica alla libertà individuale.
Contemporaneamente si fece largo la tendenza a considerare la stato un’associazione di deboli contro il diritto naturale dei più forti. Nella mentalità ci fu quindi un cambiamento che portò l’individuo a sentirsi parte non più di un tutto – lo stato – a cui fosse legato indissolubilmente, ma comprimario dei suoi diritti di fronte allo stato. Dato evidente è che l’ottimismo di Pericle, che vedeva il successo della democrazia nella libera dedizione dei cittadini, non aveva un efficace riscontro nella realtà perché l’egoismo individuale e di classe prese il sopravvento su una sensibilità politica che guardava soprattutto alla collettività.
L’uguaglianza divenne livellamento meccanico e la libertà venne intesa dalla massa nel senso che il popolo, che aveva la sovranità, non dovesse essere ostacolato nelle sue decisioni. La degenerazione e la decadenza dell’Atene democratica era stata causata dalla corruzione dell’idea statale nei cittadini.
Platone afferma che, nel IV secolo, i democratici sono suscettibili a qualsivoglia forma di costrizione e schiavitù. Nella forma più radicale di democrazia è lo stesso popolo che governa da despota, ma in questo caso non esiste più lo stato, perché esso c‘è dove le leggi hanno vigore. Il popolo ateniese provava avversione per qualsiasi guida, però l’assemblea popolare non era in grado di reggere la situazione politica, in particolare quella esterna. Fino a quando la polis ebbe a che fare con gli altri stati greci, la democrazia riuscì a reggersi, ma nello scontro con la rigida monarchia di Filippo ebbe la peggio.
A causa del particolarismo i Greci non erano riusciti a costruire una nazione; a causa dello scadimento dell’idea politica la forza della singola polis era stata annientata. L’impulso dei Greci alla libertà li portò alla distruzione.
Nonostante la degenerazione e l’esasperazione del concetto di libertà avesse portato ad un’evoluzione in negativo della politica greca, fu proprio la libertà che diede allo spirito greco lo slancio indispensabile per produrre opere di notevole valore.
Inizialmente lo spirito indipendente innato nell’uomo greco si innalzò al di sopra della massa quasi esclusivamente in personalità singole. Con le guerre persiane ci fu un notevole incremento della creazione personale in tutta la nazione e questo movimento vide il suo centro propulsore in Atene, dove fu lo stesso Pericle ad incitare i suoi concittadini nell’affinare le loro inclinazioni e a offrire loro la base su cui potessero cooperare. Atene diventava così anche centro culturale della Grecia. Ma Pericle non voleva che ciò valesse solo per un ristretto gruppo sociale: la sua democrazia doveva essere uno stato colto, all’interno del quale tutti i cittadini dovevano partecipare dei beni di un’umanità completa, si creandoli sia usufruendone. Per questo ebbe cura che ci fossero ricreazione dal lavoro, gare e conviti per la celebrazione di sacrifici e grandiosi edifici.
Agli Ateniesi Pericle attribuisce una gioia cosmica, che è ricettiva di tutto ciò che è bello e grande e che sia stimolo alla cooperazione.
Lo statista ateniese ritiene che le opere della poesia più alta dovevano essere accessibili a tutti i cittadini, come lo erano quelle dell’architettura e delle arti figurative: con il pagamento da parte dello stato del biglietto d’ingresso anche i più poveri potevano assistere alle rappresentazioni teatrali, che non erano semplicemente spettacolo, ma trasmettevano un messaggio ed erano investite dall’interesse di tutti. L’alto livello culturale complessivo faceva sì che nessun cittadino ateniese fosse analfabeta, nonostante non ci fossero né l’obbligo scolastico né scuole statali; comunque lo stato riteneva suo compito provvedere alla cultura per quanto riguardava le cose pubbliche e si faceva carico delle spese per gli edifici dell’Acropoli, per le opere scultoree, per i ginnasi e per le feste religiose. La consuetudine di commemorare pubblicamente i caduti in guerra fornì l’occasione di creare la letteratura in prosa, a cui contribuirono le discussioni dell’assemblea popolare, perché l’orecchio dei cittadini ateniesi si era tanto raffinato da esigere dagli oratori uno stile perfetto.
Su questa base culturale si svilupparono grandi personalità che aprirono nuove vie su tutti i fronti.
La libertà permise il progresso dell’indagine scientifica. La libertà spirituale di uomini come Eschilo, Sofocle e Euripide permise loro di creare opere ispirate alla loro personale concezione della vita.
Autonomia e libertà caratterizzano lo spirito di costoro, anche se ciò non implica soggettivo arbitrio perché per i Greci l’elemento creativo nell’arte non significa libera fantasia, bensì imitazione di una realtà oggettiva. Ciò era vero per le arti figurative come per la poesia drammatica, per l’indagine scientifica – che prestò attenzione al dato empirico – come per la storiografia – nella quale la libertà soggettiva trovava un limite nella legge dell’aletheia.
Libertà nell’assumere un atteggiamento soggettivo e obbedienza alla legge dell’aletheia avevano pari peso nella scienza greca, anche se presto si rafforzò l’individualismo, che in politica ebbe risultati eversivi e disgreganti mentre accadde diversamente per arti e scienze.
Nella tragedia quanto più scompare la divinità, tanto più si afferma l’uomo nella sua tragicità individuale. Nella scultura emerge lo sforzo di ritrarre la figura umana. Questo nuovo spirito non si prefigge di rinnegare gli antichi canoni: rappresenta non un declino ma uno sviluppo. La centralità dell’uomo espresso nell’arte si trasferì anche al pensiero. La sofistica nel suo soggettivismo si propone di affermare la libertà dell’atteggiamento personale di fronte alle cose. E anche l’opposizione filosofica di materialismo e idealismo si precisa nella libertà di atteggiamento dei Greci.
Per Pericle la libertà e la scienza dovevano avere piena libertà di sviluppo quanto la personalità individuale. Anche la libertà scientifica rientrava nella libertà democratica, anche se al di sopra di tutto stava l’interesse dello stato.
In uno studio sulla libertà di parola nell'antichità è quasi d'obbligo soffermarsi ad analizzare il mondo descritto da Omero; questa esigenza non ha solo ovvi motivi cronologici, ma deriva anche dal riconoscimento dell'importanza del ruolo didattico che ebbero i poemi omerici nei secoli successivi.
Occorre anzitutto notare che quella descritta da Omero è una "società stratificata", ovvero assimila elementi propri di epoche diverse. Sinteticamente, risulta che il potere di decidere spettava ai basileis (fra i quali vi era comunque un capo, Agamennone), affiancati da boulephoroi (consiglieri, anziani, indovini), con facoltà più che altro di persuadere. Il ruolo del demos (popolo) doveva essere piuttosto marginale: esso poteva tutt'al più condizionare uno scontro sorto tra i basileis. Esisteva comunque una certa tensione tra la sfera militare e quella civile: come rimarca Aristotele, "Agamennone poteva sostenere attacchi verbali nelle assemblee, ma quando uscivano in campo aperto aveva anche l'autorità di condannare a morte". Nonostante questa pregnanza dell'aspetto militare, il ruolo della parola viene esaltato in vari passi.
Sembra che il diritto di parola non fosse limitato da leggi particolari, ma piuttosto regolato da consuetudini e dalla necessità di parlare katà moiran o katà kosmon (secondo misura). Questo traspare chiaramente dal celebre episodio di Tersite: l'uomo del demos viene punito non per l'atto in sé di prendere la parola, ma per aver detto frasi sconvenienti, anche se accuse simili erano già state pronunciate, con esito diverso, dall'aristocratico Achille. Si ripropone quindi la tensione tra un diritto non regolamentato da criteri oggettivi e una rigida organizzazione gerarchica.
Ma forse l'episodio più significativo a questo proposito è quello in cui Agamennone sottrae Briseide ad Achille con queste parole: "sì che tu sappia che sono più forte di te ... e tremi anche un altro di parlarmi alla pari". Questa è l'aperta negazione di una reale possibilità di un uguale potere di parola in una società strutturata come quella omerica.
Nel mondo della polis quello della parola era il principale strumento di potere: è quindi ovvio che, soprattutto nell'età di Solone, gli strati emergenti lottassero per ottenere il diritto di esprimersi in assemblea, definito con i termini isegorìa e parrhesìa. Semplificando una questione molto dibattuta, si può tradurre il primo con "uguale potere di parola", attribuendogli un valore prevalentemente civile; il secondo come "libertà di parola", con carattere più etico. Tuttavia i due termini si sovrappongono spesso e assumono sfumature diverse a seconda dell'autore.
Nei testi del V secolo. il dibattito sul diritto di parola viene associato a quello sulle varie forme di governo (politeiai); tali riflessioni, pur mantenendo carattere prevalentemente teorico, nascono però da una realtà vissuta. L'anonimo autore della Costituzione degli Ateniesi, pur essendo di parte aristocratica, riconosce la coerenza dell’ordinamento preso in esame, in cui a uguali funzioni militari ed economiche corrisponde un uguale potere di parola. D'altra parte, è preoccupato che questa estensione dell'isegorìa possa determinare una "svalutazione" della qualità della parola, quindi ritiene che tale diritto dovrebbe essere riservato unicamente a quelli che egli definisce "i migliori" (cioè agli aristocratici), ignorando le importanti funzioni svolte dal resto della popolazione. Nel Protagora di Platone anche Socrate si mostra perplesso riguardo alla disomogeneità dell'assemblea, ma Protagora replica che Zeus ha distribuito a tutti l'arte politica, quindi è giusto che tutti partecipino alle decisioni. Erodoto invece, senza addentrarsi in disquisizioni teoriche, si limita a constatare un dato di fatto: che Atene, con l'introduzione dell'isegorìa, era diventata la polis più potente di tutte. Infine Euripide, in un passo delle Supplici, evidenzia la relazione che lega l'isegorìa alla libertà e all'uguaglianza, insieme a sottolineare un aspetto di questo diritto spesso dimenticato: la libertà di tacere.
Nel IV secolo la riflessione sul diritto di parola lascia il posto a riaffermazioni di questo principio e considerazioni di carattere deontologico riguardo a quanti di tale diritto avevano fatto una professione: i rhetores. Emblematica è l'affermazione di Eschine: "E' necessario che l'oratore e la legge parlino lo stesso linguaggio".
Ma contemporaneamente Senofonte attribuisce allo stoico Zenone questa significativa osservazione: "Non andrà in malora lo stolto, se si opporrà al saggio?". La stoltezza ha ormai preso il posto delle differenze gerarchiche o sociali.
Dall'orazione di Eschine Contro Timarco si possono ricavare diverse informazioni sulla procedura delle assemblee in Atene. Nella formula di apertura del dibattito veniva data la precedenza ai cittadini che avessero compiuto i 50 anni, secondo il modello gerontocratico già presente in Omero; tuttavia questa norma ai tempi di Eschine non doveva più essere ufficialmente operante, sebbene sentir parlare un giovane continuasse a sembrare sconveniente. Dopo questa notazione, Eschine illustra le categorie escluse dal diritto di parola: chi è venuto meno ai propri doveri verso i genitori, chi ha scialacquato il patrimonio, chi si è prostituito (è questa l'accusa rivolta a Timarco) e chi non ha preso parte alle spedizioni militari a lui prescritte o ha gettato lo scudo. Il principio di fondo della censura è chiaro: chi si mostra indegno, anche se nella vita privata, non può che nuocere all'assemblea; c'è quindi un'analogia tra l'ambito della colpa e quello in cui viene applicata la pena. Ma Demostene si spinge oltre, volendo applicare la censura agli avversari della democrazia, in quanto essa doveva difendersi anzitutto dai nemici interni. In effetti, l’affermazione del regime dei Quattrocento fu resa possibile dall’abolizione di alcune misure restrittive alla libertà di parola: sebbene un’assoluta isegorìa in teoria potesse garantire la possibilità di rovesciare sul nascere un tentativo oligarchico, di fatto i congiurati si assicurarono il totale controllo delle assemblee, senza che alcuna legge li potesse più ostacolare.
Comunque, l'esclusione dal diritto di parola diventò in breve strumento di lotta politica, specie in quella che si può considerare la sua forma più radicale, l'esilio, tramite l'
ostracismo.Resta da stabilire se nella pratica il diritto di parola fosse realmente uguale per tutti, come sancito in teoria, indipendentemente dal fatto che spesso pochi ne usufruivano. Tucidide e Plutarco narrano come Pericle, dopo la guerra del Peloponneso, avendo la popolazione contro, fece temporaneamente sospendere le assemblee; ma si tratta di un caso unico. Molte testimonianze sottolineano la varietà tra le parti in contrasto, sia a livello di fazioni, sia di singoli oratori. Erodoto, descrivendo un'assemblea riguardante l'interpretazione di un oracolo, contrappone prima i "più anziani" agli "altri", poi narra come l'intervento di Temistocle abbia confutato gli interpreti ufficiali; Plutarco descrive un diverbio tra il celebre Milziade e il giovane Sofane (sebbene biasimando quest'ultimo); lo stesso Plutarco, Tucidide e Senofonte parlano di oratori sconosciuti che contrastano grandi rhetores. Anche il teatro inoltre, con Aristofane ed Euripide, dipinge spesso scene di reale isegorìa.
Tuttavia, sebbene chiunque potesse parlare, lo scarto maggiore tra ideologia e pratica reale si può cogliere sul piano della "qualità" della parola espressa: il pieno esercizio della libertà di espressione poteva condurre a risultati drammatici. Da un lato, vi erano le limitazioni regolari alla parrhesìa, fondate sul principio che l’assenza di proposte sovvertitrici garantisce la democrazia, a cui si affiancavano restrizioni che riguardavano argomenti particolarmente delicati, per evitare pericolose tensioni. Tuttavia, l'isegorìa alla base del regime democratico doveva garantire che tali restrizioni non venissero percepite come arbitrarie, mentre il potere dispotico era visto come naturalmente associato all’arbitrio, come testimoniano le tragedie e le Storie di Erodoto.
D’altra parte, vi erano le reazioni spontanee della folla, che spaziavano dal semplice schiamazzo (thorybos) a minacce ben più gravi all’incolumità dell’oratore. Tuttavia le conseguenze, soprattutto psicologiche, del thorybos non vanno sottovalutate, specialmente quando a parlare era un oratore di scarsa esperienza: Demostene, reduce da una brutta esperienza di tal genere alla sua prima orazione, dipinge spesso lo schiamazzo assembleare come una forma di intolleranza, oltre a denunziare l’uso manovrato a cui questo fenomeno si prestava. Quanto a episodi più gravi, Erodoto ad esempio narra la tragica fine di un membro della boulè, Licida, morto lapidato insieme alla moglie e ai figli per aver proposto di accettare le offerte di Mardonio. Racconti simili sono stati descritti da Licurgo e Aristotele, ma accanto a essi ce n’è uno di Eschine che testimonia l’esistenza di intimidazioni alla libertà di espressione anche da parte di singoli: un tale Cleofonte avrebbe minacciato di "tagliare la gola col suo coltello a chiunque avesse parlato di pace".
Durante la guerra del Peloponneso si può constatare una notevole libertà di parola lungo l'intero periodo sia da parte dei commediografi, come Aristofane, che prendevano spunto dalla vicende a loro contemporanee per i testi delle opere sia da parte dei filosofi, come Socrate, che mettevano in discussione le certezze in un epoca di guerra. Il problema che verte sulla libertà di parola è sicuramente simboleggiato meglio da Aristofane che da Socrate perché gli ateniesi non temevano la critica in campo politico, avevano fiducia in loro stessi, nella loro autodisciplina, nel proprio giudizio e nei loro capi politici. Quindi gli Ateniesi non erano colpiti dalle
commedie, mentre lo erano dagli attacchi dei filosofi, questa caratteristica dipende anche dal demos incolto che è preda dei demagoghi: i filosofi infatti tendevano a condannare la democrazia e ad insegnare forme alternative di governo.D'altra parte Diopite aveva proposto una legge che condannasse coloro che insegnassero astronomia e che negassero l’esistenza degli dei, per cui dal 432 al 429 a.C. furono colpiti per lo più gli intellettuali per le loro idee in quanto era presente il timore di perdere il sistema democratico che era stato conquistato da Atene provocato da superstizioni religiose e dalla corruzione dei giovani, ricavata da un nuovo tipo di educazione prettamente sofistica.
Letto in quest’ordine di idee anche l'episodio della mutilazione delle erme acquista un risvolto ideologico-politico, poiché era stato provocato dagli esponenti delle classi aristocratiche di Atene per disturbare la spedizione in Sicilia, segno che non era ben accetto nessun cambiamento anche se il tentativo fallì e la spedizione si effettuò dando luogo a una perdita totale dell’esercito.
La mutilazione colpì l’emotività popolare in modo così brusco da dare inizio a una serie di condanne e processi tra cui la vittima più illustre fu Alcibiade e il clima in città era ricco di tensione si impediva una vendetta divina. L'obiettivo dei capi oligarchici era stato raggiunto con una combinazione di terrorismo e infine di propaganda per instaurare il loro regime, così nel 411 a.C. l'assemblea votò l'insediamento di un Consiglio composto da 400 membri a discapito della democrazia.
Alcibiade, ritornato in patria, ottenne il comando militare e la democrazia fu rinstaurata, ma il demos si mostrò tollerante e non perseguitò i responsabili del colpo di stato; con questa tolleranza firmò la sua condanna quando Sparta nel 404 a.C. vinse la guerra e instaurò in Atene il governo dei Trenta Tiranni.
Sul piano culturale Pericle incentrò la celebrazione della democrazia intorno al concetto di kleos, cioè la fama che si riverbera nel tempo, dando luogo ad una memoria. Mentre precedentemente il kleos era raggiungibile solo dagli aristocratici, o da chi avesse i mezzi necessari per far celebrare le proprie gesta attraverso canti, monumenti e operein suo ricordo, la democrazia offrì al cittadino comune la possibilità di consegnare il suo nome alla storia attraverso la partecipazione attiva all'assemblea.
Pericle sosteneva orgogliosamente: "Noi spieghiamo a tutti la nostra potenza con importanti testimonianze e molte prove e saremo ammirati dagli uomini di ora e dai posteri senza bisogno delle lodi di un Omero o di un altro"
Nell'ottica di Pericle democrazia ed economia di mercato rappresentavano le due facce di una stessa medaglia. Egli riteneva che gli Ateniesi sviluppando l'economia di mercato si erano svincolati dalle rigide norme precostituite dalla tradizione, rendendosi individui liberi e in grado di far funzionare la libera assemblea democratica. Attraverso la partecipazione all'assemblea popolare i cittadini ateniesi gestivano il governo della cità in ogni suo aspetto. Le funzioni svolte nella democrazia moderna dai vari apparati governativi, amministrativi, giudiziari e militari erano prerogative dirette dell'
Ecclesia, che sceglieva i cittadini destinati alle diverse mansioni, riservandosi il diritto di controllo permanente sulle loro attività e di revoca dalle loro cariche in qualsiasi momento.La funzione giurisdizionale aveva una enorme importanza nella democrazia ateniese, perché non si limitava a risolvere le controversie tra i cittadini, ma stabiliva anche se essi avevano adempiuto alle loro mansioni pubbliche e ai loro doveri religiosi, oltre che deliberare sulla conformità delle decisioni popolari rispetto alla costituzione di Atene. Nell'età di Pericle l'attività giuridica era svolta dall'insieme delle giurie popolari: l'Eliea.
Il passaggio da
Pericle al dopo-Pericle non si presentò con la semplicità di un lineare processo di involuzione della democrazia. Il processo passò attraverso soglie diverse, per assestarsi in forme che ad Aristotele appaiono sempre più radicali. Riguardo Pericle la visione di aristotelica rivela forti analogie con quella di Tucidide. Per entrambi egli rappresenta una soglia di equilibrio instabile dopo la felice parentesi dell'areopagocrazia.La figura di Pericle viene accostata da tutti e due gli autori, ed in particolare da Aristotele (cif. Costituzione degli Ateniesi cap.29), all'evoluzione, o meglio involuzione del significato di demagogo (dal greco demagogòs), originariamente semplicemente corrispondente a "capo del démos", che acquisì solo successivamente una accezione negativa. Pericle si trovò diviso tra una situazione di 'meglio relativo', favorito dalla sua posizione politica, e un 'peggio sicuro'.
Allo stesso modo, tra V e IV sec., considerando il clima di antidemagogia presente, il termine demagogo si distribuì equamente sul versante positivo e negativo: si avviòl già a diventare una parola negativa, ma mostrò pur sempre la sua neutralità originaria, la sua compatibilità con un senso positivo.
Secondo Aristotele la democrazia del V sec. è distinguibile da quella del IV sec. perché col 403 a.C. cominciò una nuova, e undicesima, fase costituzionale che, a suo giudizio, si protrasse fino ai suoi giorni; ma, per lui, questa fase non era diversa in quanto moderata. Egli sostiene che dal 403 a.C. in poi non ci fu uno strappo di tipo costituzionale, perchè anzi dice che si verificò una crescita del potere popolare: "Di tutto, infatti, il popolo ha fatto se stesso sovrano, e tutto è amministrato con decreti e con tribunali, in cui è il popolo a comandare" (42,2). Aristotele fa riferimento al rapporto tra
bulé e ecclesìa da un lato, e agli istituti giudiziari dall'altro: sotto questo profilo, la continuità tra V e IV sec. è evidente." Infatti anche i giudizi della bulé sono passati alla competenza del demos": persino nel passaggio di un passaggio di una competenza dal Consiglio dei Cinquecento all'assemblea egli vede il rafforzamento della exousía ("potere") popolare, anche se all'interno della struttura democratica, il Consiglio dei Cinquecento sembrò un momento un po' meno "popolare" dell'assemblea.Per i capi politici nel IV sec. era molto diffuso il termine rhétores, uomini politici che esprimevano - o cercavano di guadagnare - il loro potere, il loro prestigio, la loro influenza politica, sugli interventi in assemblea. Nel IV sec. la politica divenne professione. Il rhétor era, in definitiva, il politico professionale, che si formava nelle scuole di retorica , sia quelle formali, sia quella scuola "di fatto" che era la stessa partecipazione alle assemblee. Egli era il proponente di leggi e norme
nell'assemblea, nel consiglio, nei tribunali ecc. e colui che contrastava o sosteneva iniziative prese da altri. Spesso tra i politici del V sec. Era più comune l'accostamento di rhétores kaì strategoí. Gli strategoí presiedevano i tribunali nei casi in cui entrano in vigore leggi militari o nelle dispute tra trierarchi; hanno il diritto di assistere alle riunioni della boulé e di rivolgersi ad essa senza un'autorizzazione speciale.Nel cap. 28 della Costituzione degli Ateniesi i
demagogoí sono ordinati secondo coppie, a volte claudicanti, non omologhe tra loro. Lo schema della coppia ha in realtà una valenza diversa nei diversi casi: ora si tratta semplicemente di una coppia di demagogoí che si succedono nel tempo, ora di una coppia di antagonisti che individua un bipolarismo molto preciso nella tradizione della democrazia radicale, ora, infine, di una coppia di persone che hanno operato nello stesso campo e in qualche modo sono state anche rivali tra loro, ma appartengono alla stessa matrice.Dopo Pericle nell'opposizione tra Nicia e Cleone, emersero connotazioni di ordine sociologico e comportamentale nel modo della demegoría: Cleone faceva i suoi discorsi al popolo tra urla e insulti, vestiva e gesticolava in maniera incomposta.
Il profilarsi sulla scena politica di personaggi come
Teramene e Cleofonte fu il segno dell'emergere di nuovi ceti che ambivano alla leadership politica. Con ciò si assistette a un altro assestamento verso il basso, nel processo di declino già individuato da Aristotele, e al tempo stesso a un notevole cambiamento sociologico.Cleofonte fu il primo a creare la
diobelía . Da lui in poi, fu un susseguirsi di demagoghi che volevano thrasýnesthai (strafare) e charízesthai (guadagnarsi credito).Sembrerebbe, in sostanza, un continuo peggiorarsi della situazione fino al tempo di Aristotele. Pericle dunque rappresentò una soglia ancora largamente positiva: ma una nuova soglia, che segnò con sicurezza il declino, è rappresentata da Cleofonte. Dopo Pericle, e soprattutto da Cleofonte in poi, fu un acuirsi dei comportamenti demagogici, di prepotenza, corruzione e sobillazione della folla.Nella prima democrazia (da
Clistene ad Efialte) non era ancora presente una radicale divaricazione nelle prospettive politiche, interne ed esterne, di Atene. Clistene, infatti, non ebbe un vero e proprio antistasiótes (oppositore/antagonista) dopo il confronto con gli oligarchi raccolti intorno a Isagora. Clistene restò senza rivali: lo schema bipolare dei due partiti non era ancora emerso in maniera chiara. La democrazia nacque come forma generalizzata, che unificava intorno a prospettive comuni un'intera città. Semmai l'avversario era la tirannide, che porta totalmente fuori dal campo della democrazia.Solo con la coppia Santippo-Milziade l'unità "sociologica" di fondo della prima democrazia cominciò a incrinarsi ed articolarsi.
Altra coppia che si discosta dallo schema dicotomico/bipolare è quella formata da Temistocle e Aristide. In realtà, sul terreno della politica di impero, i due agirono nello stesso senso, Aristide con maggior rispetto per gli alleati, Temistocle facendo posto ad una certa aggressività: il loro, comunque si trattò di successione, più che di un vero e proprio antagonismo.
Poi, con l'evoluzione tipica dei processi organici si giunse al periodo della radicale contrapposizione, della classica divaricazione dei contrari. Il bipolarismo emerge con chiarezza nell’opposizione
Efialte-Cimone; con Pericle-Tucidide il bipolarismo si affermò in maniera più netta.Il personaggio che pose fine a questo processo fu Teramene. La storia del bipolarismo si concluse alla fine del V sec. quando si assistette al sorgere di un partito del centro che segnò la nascita di una nuova tradizione democratica.
Questo fu il segno dell'emergere di nuovi ceti che ambiscono alla leadership politica. Cleofonte, opposto a Teramene, era un esponente della nuova classe "borghese". Si assistette ad un altro assestamento verso il basso, nel processo già individuato da Aristotele, e al tempo stesso emersero, nuove connotazioni di ordine sociologico e comportamentali nel mondo della demagoría. Ad es. Cleone faceva i suoi discorsi tra urla e insulti. Teramene rappresenta quella posizione moderata intermedia che divenne, nella cultura politica del IV sec., la soluzione migliore. Cleofonte fu il primo a fornire la
diobelía , l'indennità dei due oboli. Iniziò poi una successione di demagoghi che volevano thrasýnesthai (strafare) e charízesthai (guadagnarsi credito).Nel 403 a.C. avvenne la restaurazione della democrazia dopo i
Trenta tiranni. Si diffuse una tripartizione in oligarchi, democratici, oligarchi democratici; questi ultimi finirono con l'identificarsi con i democratici moderati che vagheggiavano la pátrios politeía.L'idea di tripartizione era intrinseca alla storia politica di Atene. Originariamente infatti vigeva quella tripartizione su base regionale che sottintendeva interessi economici diversi all'epoca di
Solone: i Pediaci (della pianura), i Diacri ( della zona montuosa), i Paralii ( della costa).La tripartizione è individuata da Aristotele come un processo in cui i due opposti si risolvono nella forma media. La patrìos politeia divenne infatti un momento di sintesi , un recupero della tradizione democratica clistenica che fece i conti con la situazione reale del momento.
In questo periodo fu emessa una notevole quantità di leggi e decreti. La separazione tra queste norme non è del tutto rigida.
I decreti sono virtualmente norme individuali, o con un tempo limitato di validità, e quindi non possono essere estranei del tutto alla definizione di nòmoi. Inoltre un passo del IV libro della Politica di Aristotele ne dà una classificazione sociologica, ideologica e politica a seconda dei vari tipi di democrazia: dopo la seconda restaurazione democratica il problema della revisione delle leggi della "selva" legislativa è diventata fondamentale. Con l'esplosione legislativa del V sec., in piena corrispondenza con i caratteri della democrazia radicale, leggi e decreti si sono moltiplicati; quindi alla fine del medesimo secolo risulta necessario per la cultura dell'epoca una revisione delle norme.
Elementi della trasformazione democratica tra V e IV sec. consistettero nel cambiamento dei politici nell'estrazione sociale (che registra un notevole calo di livello), nella professione esercitata, nei comportamenti personali tenuti nella sfera delle attività pubbliche.
Nel testo di Aristotele viene indicato appunto un passaggio dall'antico al moderno. Gli archaîoi includono i politici fino a
Pericle compreso , ma costui pur essendo tra gli epierkeîs, è pure il primo dei béltistoi o nuovi politici. La linea divisoria passa più o meno tra Pericle e Cleone, anche se non li divide quella bathytáte tomé (taglio profondissimo) che secondo Plutarco intercorre invece tra Pericle e l'oligarchico Tucidide di Malesia.Cleone fu un personaggio nuovo nelle origini, nella professione, nei comportamenti, ma in sostanza, si differenzia di poco da Pericle in tema di iniziative politiche: egli continuò la politica bellicistica periclea anche se in toni più acuti e incrementa il sistema delle indennità dicastiche inventato da Pericle, usando non più solo i soldi della Stato, ma aggiungendo del suo.
Il cambiamento della struttura del conflitto politico si verificò anche nel modo diverso in cui si conseguì il potere. Alle coppie dei grandi rivali che si susseguirono per gran parte del V sec. segue la pletora, in parte anonima dell'epoca successiva; dai demogoghi si passò ai
rhétores, ai demagoroûntes, ai politeuómenoi (intesi come politicanti).Nel IV sec. si assistette, soprattutto per il grande ruolo dell'oratoria, a una specializzazione della politica.
Il V sec., sia da un punto di vista culturale sia politico, fu molto vivo per i grandi scontri di idee e di principi sottoposti ad una lacerante forza propulsiva. Nel IV sec. la fecondità del modello greco venne consolidata anche, se in forme più blande, attraverso la professionalizzazione.
In questo processo si affiancò alla coppia
rhétores e strategoí un'altra categoria di personaggi politici, sono le nuove cariche finanziarie che vennero rivestite con le elezioni forse per quattro anni (il che costituisce una forzatura del principio democratico della rotazione annuale).Tutto questo significa che la scienza delle finanze progredì nel pubblico e nel privato, poichè si fece strada l'idea del guadagno e dell'imprenditoria. Ad ogni cosa si accostarono le idee di capitale e di interesse. Accanto alla professionalizzazione si assistette ad una concentrazione del potere che si riscontrò nella tendenza a rieleggere più volte uno stesso individuo.Certamente nel IV sec. ci furono politici che si arricchirono e ricchi che presero parte alla vita politica. La struttura del conflitto politico cambiò, mentre si consolidò l'aspetto istituzionale: nuovi ceti in crescita economica raggiunsero il potere. La democrazia non si colorò di quella moderazione intesa come un ritorno indietro a livelli acquisiti di partecipazione a diritti e istituzioni.
D'altra parte però, si sviluppò l'idea di homónoia, cioè concordia che consistette nella rimozione di ostilità radicali, grazie all'assestarsi delle varie parti sociali in ruoli diversi; in tal senso si può parlare quindi di una democrazia in forma moderata in cui, però, il divario fra ceti abbienti e meno abbienti aumentò.
Nel IV sec. si registrò un crescente scontro e una marcata disomogeneità tra il gruppo dei ricchi, costituito dalla vecchia aristocrazia fondiaria e dagli esponenti del nuovo ceto borghese, e quello dei poveri invece piccoli contadini schiacciati dai debiti e artigiani, che in quasi tutta la Grecia portarono ad una forte crisi.
La democrazia ateniese offrì una soluzione a questo nuovo problema grazie allo sviluppo di ceti privi di proprietà che costituirono nuove situazioni economiche con l'affiorare di una mentalità imprenditoriale che risultò un prolungamento della mentalità periclea, ma che si presentò in forme talora degradate e con una non lieve sofferenza sociale.
Nel IV sec. si assistette alla crescita di una povertà non generalizzata, ma piuttosto ad una maggior lacerazione del tessuto sociale un maggior divario tra ricchi e poveri.
Il dikastés continuò ad essere pagato, ma la somma non era molto elevata. Si ebbe una sorta di divaricazione, di polarizzazione, per cui le forme assistenziali non vennero meno gli elementi meno abbienti accedettero con frequenza.
Una democrazia come quella dell'età di Pericle, che teneva continuamente occupati i cittadini nell'attività politica, doveva essere retribuita. La partecipazione all'
Ecclesia e alle altre assemblee era pagata con due oboli per ogni giorno di seduta (quanto bastava per acquistare il minimo cibo giornaliero); mentre i marinai erano pagati tre oboli per ogni giorno di servizio sulle navi.IL PENSIERO POLITICO GRECO
Un primo problema deriva dalla necessità di usare termini attuali per descrivere ed interpretare tale concetto, con il rischio di " modernizzare" quanto è oggetto di esame e, quindi, di non esprimere esattamente il relativo significato, attribuendone ad esso uno attuale. Un’altra difficoltà è quella connessa con l’esigenza di riuscire a cogliere l’ampiezza del contenuto e del significato di un concetto del passato, oltre che di riuscire a descriverlo ed esprimerlo, in tutta la sua portata, con parole adeguate.
Tali problemi e difficoltà emergono in misura notevole e, in particolare, quando si esamina il termine di democrazia, parola ampiamente presente nel linguaggio politico moderno il cui significato e portata sono, però, del tutto diversi da quelli ad essa attribuiti nel periodo della democrazia greca.
Nella Grecia del quinto e del quarto secolo,demokratia è una parola polemica e di "lotta" che esprime il carattere aggressivo di questa forma di governo che viene intesa come kràtos, cioè come dominio esclusivo ed anche violento di una parte (il popolo) sull’altra, sui propri avversari. Il significato attuale ha perso completamente ogni connotazione di tale genere ed esprime valori del tutto assenti dalla nozione greca ed, anzi, opposti ad essa.
Oggi con la parola democrazia, si intende far riferimento ad un sistema politico caratterizzato dalla tolleranza e cioè da una situazione in cui posizioni differenti si scontrano, ma senza violenza e prevaricazione e con reciproca accettazione. Sarebbe quindi errato, allorché si intende indicare la nozione greca di democrazia, il far riferimento al significato attualmente attribuito a tale espressione.L'antropologo Gernet, cercando di esprimere una connotazione sommaria della democrazia greca, evidenzia come, con riferimento alle nostre concezioni politiche, essa dovrebbe considerarsi una oligarchia, cioè una situazione di dominio e concentrazione di potere di una parte sull’altra, tanto che si deve ritenere che fossero più democratiche le città con il maggior numero di schiavi e cioè le città nelle quali vi era maggiore disparità tra il mondo dei liberi e il mondo degli schiavi: ciò perché, appunto, il carattere essenziale della democrazia era quello di appropriazione e di dominio esercitato dal popolo, tanto da poter affermare che "i diritti dell’uomo non sono propriamente a cuore alla democrazia".
Mentre nel quinto secolo la democrazia era innanzitutto "politica" e cioè si esplicava essenzialmente sul piano politico e non solo sul piano economico (ogni cittadino di ceto popolare aveva rilievo in quanto tale e la sua posizione non era contrapposta e di rivendicazione nei confronti di chi possedeva la ricchezza in quanto, appunto, possidente), nel quarto secolo emerse la contrapposizione tra il ceto popolare, in quanto privo di ricchezze e il ceto di chi aveva le proprietà e la ricchezza. Ciò tra l’altro è deducibile da parecchie orazioni di Demostene nelle quali si evidenzia la necessità di cessare i processi volti a colpire i ricchi e l’esigenza di un patto sociale attraverso il quale si garantiscano sovvenzioni pubbliche al popolo.
Nella seconda metà del quarto secolo la democrazia , oltre a colpire sul terreno dell’economia diviene "totalizzante" poiché coinvolge tutte le attività del cittadino che esercita il suo kràtos sia come uomo politico che come giudice e, comunque, in modo molto ampio addirittura utilizzando un’azione di censura e di intervento nell’elaborazione artistica, determinando ciò che i comici devono dire ed esprimere. Va evidenziato che non esiste una teoria della democrazia greca elaborata da chi sosteneva tale istituto e che le uniche teorie in proposito possono essere ricavate da ciò che ne hanno detto i suoi avversari.
Di fondamentale rilevanza è l’opera di Tucidide dalla quale, in sostanza, emerge la sussistenza di un nesso contemporaneamente di identità e di contraddizione tra
libertà e democrazia. Nell’epitafio di Pericle, riportato da Tucidide, il concetto di democrazia appare essere in antitesi con quello di libertà perché la democrazia si manifesta come la negazione della libertà di chiamare a far parte del demo.Il pensiero politico greco tenta di superare questo contrasto nella concezione di democrazia, introducendo un concetto correttivo valido per ciascuna forma costituzionale, prevedendo una forma buona ed una cattiva per ognuna di esse e, quindi, una buona ed una cattiva democrazia, un buona ed una cattiva oligarchia, una buona ed una attiva monarchia (tirannide). Ciò significa che ogni forma costituzionale presenta delle possibilità positive e delle possibilità negative che permettono di esprimere, in ogni situazione particolare, valutazione positiva o negativa a seconda che prevalgano le une o le altre. Questa elaborazione del pensiero greco è teorizzata esplicitamente da Aristotele che, addirittura, usa due termini diversi per indicare le due possibilità nell’ambito della democrazia, politeia per individuare quella buona e demokratìa per la cattiva, identificando la politeia con un regime in cui un consistente ceto medio attenua i conflitti di classe con un regime di scontro di classi e di prevalenza ed affermazione del kràtos del popolo. Quest’ultima situazione si realizza soprattutto nel quarto secolo ed è caratterizzata dal costante scontro, soprattutto sulla ricchezza connessa con l’iniziativa del popolo volta all’appropriazione di essa. La politeia per Aristotele è una forma ideale di costituzione mista, in cui convivono in armonia un po’ di monarchia, un po’ di oligarchia e un po’ di democrazia.
Inoltre va evidenziato il limite preciso della riflessione politica greca, costituito dal fatto che essa non ha approfondito a sufficienza e risolto il problema fondamentale sulla natura del regime che si instaura quando il demo esercita il kràtos :questo è un regime di democrazia e di libertà o di oligarchia e tirannide? Esemplare è il colloquio tra il giovane Alcibiade ed il vecchio Pericle. Pericle, che non esita ad affermare che è legge valida sia quella proposta dal tiranno sia quella proposta dagli oligarchi se trova il consenso degli altri membri della compagine sociale e che non è legge quella imposta con la violenza, evita di pronunciarsi in ugual modo quando Alcibiade gli chiede se sia legge valida quella imposta dal demo con la violenza.
La democrazia ateniese caratterizzata dall’esercizio del kràtos e, quindi, anche dalla legge imposta dal demo senza il consenso generale, è stata effetto di varie critiche. In particolare i sofisti hanno evidenziato la contrapposizione tra la legge così imposta e la natura, poiché quella è spesso in contrasto con i principi fondamentali della natura. Per natura tutti gli uomini sono uguali e devono essere trattati allo stesso modo: la legge, al contrario, introduce spesso situazioni di disuguaglianza e di prevaricazione, ad esempio prevedendo categorie di uomini liberi e di uomini schiavi in contrasto con l’uguaglianza naturale. Questa teoria è, evidentemente, critica verso il regime democratico di Atene, che è fondato proprio sulla disuguaglianza e sulla prevaricazione di chi fa parte del demo nei confronti di chi ne è escluso.