Lo strutturalismo linguistico ha capito che il linguaggio, il discorso è fatto dalle differenze nel loro sistema di rapporti (che ha dei contenuti ma questo fatto è secondario in quanto i contenuti sono un aspetto del sistema, l'aspetto variabile: non ci sono discorsi sulla verità): per lo strutturalismo c'è il ripetersi infinito dei linguaggi e delle differenze non una verità delle frasi.
Heidegger ha capito che il linguaggio ed il discorso, soprattutto quello poetico, e la "casa" del destinarsi dell'essere all'uomo; essere che però decide se svelarsi o no nelle varie epoche.
Derrida sostiene invece che tra l'Essere e il linguaggio c'è, come abbiamo visto, un rapporto di "différance" (Derrida scrive differance: la scrittura corretta del termine francese è difference: la pronuncia dei due termini è la medesima, anche se si scrivono in modo diverso).
L'essere si "differanza" nel linguaggio, l'Essere si media nel linguaggio, si aliena però nel linguaggio, diventa altro da sé, si rende presente ma assente nello stesso tempo, diventa segno, diventa traccia. La verità si trasforma in traccia, si contamina, si intacca nel linguaggio che è segno, si dà nel linguaggio ma nega di essere quello che è il linguaggio stesso.
Non c'è dunque nessun linguaggio privilegiato; quello poetico è equivalente a quello filosofico concettuale anche se è più vivo e meno preciso.
In tutti e due i casi non si può dire che il linguaggio ti faccia "arrivare" alla verità e nemmeno che nel linguaggio ci sia il darsi delle verità e dell'essere; ci sono solo tracce della verità, c'è la "differance" dell'essere nelle tracce di sé.
La verità (essere) è differantesi-differente nel-dal linguaggio. Si sa ciò che il linguaggio dice ma la verità, l'essere è il non detto del linguaggio.
L'essere non si destina all'uomo nel linguaggio, ma si "differanza" nel linguaggio, e ciò di cui il linguaggio è "traccia" ; e solo traccia, traccia non è "niente" - come dice lo strutturalismo - ma non è nemmeno la cosa, l'Essere, la presenza.
Ma cosa esiste allora? Esiste il parlare, il creare rapporti tra gli uomini ed il comunicare con il sistema delle comunicazioni; questo parlare però non contiene l'Essere, solo le sue tracce.
La "grammatica" del testo scritto è il luogo dove "si aliena" l'Essere: non la "voce" in cui è meno evidente il "farsi differanza" dell'Essere: ma la "grafia", il "segno scritto", la "scrittura", dove questo "farsi altro" è più "evidente".
Derrida usa il termine "differance" perché privilegia la scrittura sulla parola e soltanto scrivendo questa parola si riesce a capire il suo significato.
La verità- l'essere non è nel "testo scritto" ma è "tra le righe", "nell'interlinea" del testo scritto, nel "non detto" del testo scritto di cui il testo è la "traccia".
Forse, dice Derrida con un altro paragone, noi abbiamo non l'Essere, ma il suo "simulacro", una statua dell'essere , una "parvenza" dell'essere. In questa situazione, il lavoro del filosofo è far capire che esiste questo "qualcosa" che è "fra le righe" del testo, capire che è "differance" non "Identità", che è traccia dell'Essere e non presenza.
Il compito del filosofo sarà quello allora di "decostruire" i testi, cioè smontarli, metterli in crisi, contraddirli.
Chi compie quest'opera permette al lettore di capire che in esso non c'è l'essere, ma l'essere è oltre il testo, che nel testo ci sono solo le sue "tracce".
In questo modo il filosofo giunge, attraverso il suo lavoro di decostruzione, anche a forme di potere che stanno sotto a certi discorsi fatti passare per veri: decostruire è anche chiedersi: chi dice una cosa del genere? Da chi è fatto il discorso che stiamo leggendo? Con che scopo fa questo discorso? A chi giova questo discorso?
Decostruire un discorso, "glossarlo", "scrivere nei suoi margini" un commento che lo demolisce, farne la "parodia" è mettere in crisi la sua pretesa di essere luogo della verità e nello stesso tempo smascherare chi usa questo testo per il suo potere: questo è per Derrida fare filosofia.
In questo modo si capisce che il vero modo in cui si aderisce alla verità è quello del " colpo di dadi "; quello in cui a caso scegli la tua opinione, decidi che in quel testo c'è l'essere (la verità): ma così facendo conferisci a quel testo un valore veritativo che esso non ha (e il filosofo ha il compito di dimostrartelo).
Il colpo di dadi, la decisione senza motivo, avviene perché non si è perfettamente coscienti che la verità è nello "spazio vuoto" che è in mezzo a "indecidibili" opposti. E' così o cosà? Dentro o fuori? Prima o dopo? La risposta è "né l'uno né l'altro", ma lo spazio che è tra l'uno e l'altro, la "sbarra" che divide l'opposizione (quando scrivo dentro/fuori metto tra la parola "dentro" e la parola "fuori" una "sbarra" trasversale: la risposta è in "quella sbarra"), l'interlinea, l'indecidibile , il qualcosa che non sopporta la decisione.
Derrida cerca una via media tra nichilismo e ontologia, fra strutturalismo e metafisica della presenza e lo fa nella direzione della decostruzione del discorso basato sul testo scritto.
E' in fondo una forma di "apofantismo" (posizione per cui la verità non può essere detta. Forse la verità si coglie ma non si può dire. E' una forma di "scetticismo", seppure molto "raffinato").
Per una confutazione ("decostruzione") di questo pensiero si può adoperare, "raffinandole", le consuete obiezioni per gli scetticismi: anche il dire che l'Essere "si aliena" ("si differanza") ed è "indecidibile", costituisce un'"affermazione" che implica un'istanza veritativa; anche tematizzare la "differanza" è un "colpo di dadi"? Anche affermare il "colpo di dadi" come il "vero" modo di tematizzare il venire-dell'-uomo-all'-essere (verità) è frutto di un "colpo di dadi"? Queste domande pongono lo scettico "post-heideggeriano" di fronte alla "necessità del pratico", che è l'istanza ultima anche del "paradosso" di Aristotele ("quando dici che non vuoi filosofare, stai filosofando"): è inevitabile "agire" (anche quando questo agire è costituito dal "decostruire" i discorsi che mascherano interessi di potere) e nel "volere" di questo "agire" è implicito un "affermarne" la "bontà-verità", è implicita - in altri termini - un'"istanza metafisica": a questo non si sottrae, nonostante non lo metta a tema, neppure il neo-scetticismo di Derrida.
Il "colpo di dadi" dice l'atto dell'uomo libero in ordine al verificarsi del "dire è": ma lo dice in corrispondenza a un non-cogliere l'Essere, a un non-darsi a sufficienza dell'Essere (e ciò è la sostanza della "differance"): siamo alla denuncia di una presunta persistente sopravvalutazione paradossale dell'atto del soggetto di fronte alla persistente mancanza di realtà del darsi-dell'-Essere: il soggetto "pretende" di colmare la "sufficienza" di un essere che "non-si-dà-sufficientemente". Ma questa concezione è presentata come "vera", e non come "non-sufficientemente-dantesi".
Anche il modo con cui Derrida mette in relazione concetto e metafora potrebbe essere ripreso e indagato, in direzione dell'enucleazione dello "statuto simbolico" del "darsi-della-verità" in Gesù Cristo: Gesù è un "simbolo", cioè una "storia" con un "nocciolo-profondità" da mettere a tema (ermeneuticamente) "concettualmente" ma che non esaurisce il concetto: l'incontro con la "res" (referenza, aspetto oggettivo, istanza metafisica) avviene anche nella "metafora", in modo più vivo e ricco, e viene irrigidita e cristallizzata nel concetto, che precisa ma impoverisce.
L'essere - secondo Derrida - è stato da sempre considerato come pienamente attingibile grazie al linguaggio, mediante il quale la verità viene trasmessa da soggettività individuale ad una comunità, il che equivale ad oggettivare la verità stessa. Tuttavia, se la verità è evidenza intuitiva - ossia presenza di qualcosa davanti ad una coscienza presente a se stessa - debbono essere ridiscussi sia la struttura dell'esistente che quella della verità stessa. Quel che ora è - nella sua finitezza - ovvero il presente, è, in ultima analisi, un nulla differito ed il nulla un essere differente. In opposizione alla tradizione filosofica, che ha fondato la propria attività speculativa sull'assunto che esistono coppie concettuali che si risolvono dialetticamente, Derrida propone un'inversione di tale logica: il divenire precede l'essere e il nulla, e solo grazie alla differenziazione possono ri-costruirsi nuove soggettività. La de-costruzione, staccate dalle mode che ne hanno fatto un metodo di interpretazione, diventa per Derrida il progetto di un " nuovo, nuovissimo illuminismo ", la costante preoccupazione per l'altro verso e per cui dobbiamo coltivareun' etica dell'ospitalità , ovvero l'apertura verso un avvenire che accade senza essere atteso, ad un dialogo che procede dal rispetto e che pone il tema della differenza come punto imprescindibile di partenza per un incontro fra gli uomini: " come se lo straniero fosse innanzi tutto colui che pone la prima domanda, o colui al quale si rivolge la prima domanda (...); pertanto lo straniero, ponendo la prima domanda, mi mette in questione ". Ecco il punto cruciale, secondo Derrida, del tema dello straniero, di "colui che viene da fuori", che "parla una strana lingua", che produce inquietudine e sospetto. " Lo straniero è in primo luogo straniero rispetto alla lingua giuridica nella quale sono formulati il dovere d'ospitalità, il diritto d'asilo, i limiti, le norme, i codici di polizia eccetera ". Il tema dello straniero per Derrida diventa, non solo metaforicamente, l'emblema di un'interrogazione che la società, ciascuna società, rivolge a se stessa: " come se lo straniero fosse la questione stessa dell'essere in questione ". Grazie allo straniero la società non può fare a meno di interrogarsi sulla propria cultura, sulla lingua e le istituzioni giuridiche in vigore, in definitiva sul modo con cui attua una legge dell'ospitalità, " coinvolgendo l'ethos in generale ". E del resto la parola latina "hostis" significa ospite ma anche nemico. La costellazione semantica, nel suo ambiguo oscillare tra termini opposti (oste, ostile, ospizio, osteggiare...), sembra costituire la trama della nostra identità. Ma c'è anche un secondo aspetto, non meno significativo: le ampie meditazioni di Derrida sulla sepoltura, sul nome, sulla memoria, sulla follia che abita il linguaggio, l'esilio e la soglia, " sono altrettanti segnali rivolti alla domanda del luogo, che invita il soggetto a riconoscere d'essere per prima cosa un ospite ". Svolgendo quella che chiama " il teatro invisibile dell'ospitalità ", il filosofo ripercorre alcuni tratti dell'elaborazione di Lèvinas, in particolare quelli in cui afferma che "il soggetto è un ospite" o che "il soggetto è un ostaggio". La tesi centrale di Derrida è che vi è un'impossibile convivenza, una sorta di lacerazione tra " l'ospitalità incondizionata che va al di là del diritto, del dovere o addirittura della politica " e " l'ospitalità circoscritta dal diritto e dal dovere ". In altri termini: " dando per buona l'ospitalità incondizionata, come dar luogo a un diritto, a un diritto determinato, limitato e delimitabile, in una parola calcolabile? ". Il problema dell'ospitalità, conclude l'autore, " è sovrapponibile al problema etico ".