LA GIUSTIZIA INTROVABILE |
Quando ci si pone il problema dei “principi di giustizia” si incappa nel “buco nero” della teoria politica della nostra tradizione. Abbiamo finora ragionato sull’esplosione del concetto di legge nel discorso giuridico contemporaneo, concetto che, come abbiamo visto, ha radicalmente mutato significato; abbiamo poi ragionato sul diritto, mettendo in luce come i diritti alberghino al loro interno numerosi conflitti. Dobbiamo ora ragionare sui principi di giustizia: ebbene, se ci concentriamo su questo oggetto, ci accorgiamo subito che lì i problemi sono ancora maggiori, giacché, se sul piano delle leggi e dei diritti abbiamo incontrato problemi concernenti l’evoluzione storica di essi (le leggi oggi esplodono, i diritti oggi sono affidati a istanze privatistiche, ecc), sul piano dei principi di giustizia siamo assaliti da sconforto, giacché su di essi l’Occidente non ha mai avuto le idee chiare e, parlando di giustizia, ha sempre messo (e mette ancora) insieme cose diversissime che difficilmente possono stare insieme.
Si dovrebbe allora provare ad affrontare la tematizzazione della giustizia chiedendosi come possano (posto che possano) essere ricondotte a una certa unitarietà cose così diverse. Si ha infatti a che fare con ambiti nei quali si parla di giustizia in più sensi: parlando di giustizia costituzionale, ci si riferisce alla “giustizia distributiva” di cui già diceva Aristotele ed è su di essa soltanto che ci si è soffermati nell’Età contemporanea, come se se ne fosse stati accecati.
Quando ci spostiamo sul terreno della “lex mercatoria”, soccorre un altro concetto aristotelico: la “giustizia commutativa”, che richiama l’idea di una giustizia basata sullo scambio e sul mercato. Qual è il giusto prezzo degli oggetti sul mercato, si chiedevano i Medievali? Con Adam Smith si dice che non spetta alla morale sancire cosa è giusto e cosa è ingiusto sul mercato: è il mercato stesso a decidere tramite la legge della domanda e dell’offerta. Cosa c’è dietro allo scambio? Quand’è che esso può dirsi uguale, leale, corretto?
Esiste poi una terza forma di giustizia: la giustizia penale internazionale, la quale non è né distributiva né commutativa. È una giustizia che abitualmente viene detta “retributiva”, nel senso che con essa si retribuisce con una sanzione un’azione malvagia.
Dunque, quando parliamo di giustizia, dobbiamo di necessità chiederci a quale tipo di giustizia stiamo alludendo: retributiva? Commutativa? O distributiva? Sono tre ambiti ben diversi, che i giusnaturalisti avevano tentato di tenere insieme nella nozione di “giusto secondo natura”, ma – come nota Hans Kelsen – si finisce in tal modo per parlare di principi vuoti di contenuto: che cosa vuol dire, infatti, “dare a ciascuno il suo”?
La grande teoria della giustizia elaborata da John Rawls è un tentativo molto sofisticato che resta sul piano della giustizia commutativa, tralasciando tutti gli altri piani e presentando un quadro della società cooperativo più che conflittuale.
La giustizia retributiva, che nel Novecento è diventata un tabù, è assolutamente centrale nelle opere di Michel Foucault sulla dimensione repressiva e punitiva: e ciò si inquadra in un passaggio dal diritto con funzione repressiva al diritto con funzione promozionale, come ha rilevato Norberto Bobbio. Infatti, nel Novecento il diritto ha mutato la sua natura di ordinamento coercitivo e s’è ridimensionato il ruolo delle sanzioni negative (che appartengono alla funzione repressiva): sempre più spazio s’è concesso alle sanzioni positive (promozionali), le quali sono veri e propri premi. E del resto “diritto sociale” significa esattamente questo, vale a dire che lo Stato eroga fondi per ovviare ai problemi della società. La funzione promozionale si riferisce anche a una quarta dimensione, che è, per così dire, il contraltare della funzione retributiva: è la “restorative justice”. Infatti, passare da una funzione repressiva del diritto a una funzione promozionale significa approdare ad attività di promozione e di sostegno rivolte alle vittime che hanno subito l’ingiustizia. Pensiamo ad esempio al Sudafrica dopo l’apartheid o al più grande genocidio del Novecento: il genocidio cambogiano. In entrambi questi casi, si rivela l’insensatezza della giustizia retributiva, la quale colpisce i colpevoli, che però sono tantissimi e non di rado (nel caso cambogiano è eclatante) sono le vittime stesse che, prima di diventare tali, erano carnefici. Il caso dell’Unione sovietica è altrettanto evidente: come può agire la giustizia retributiva dove i colpevoli delle morti nei gulag sono tantissimi e le vittime stesse erano spesso in precedenza state colpevoli?
Il caso della persecuzione nazista è più chiaro e più netto: qui, infatti, è più facile identificare i persecutori (i nazisti) e le vittime (gli ebrei); il problema è però capire se i criminali erano pochi folli (Hitler e i suoi seguaci) o l’intero popolo tedesco come carnefice volenteroso; in ogni caso, almeno nel caso della shoà, le vittime non sono colpevoli, anche se in realtà Hannah Arendt ha fatto notare come nei ghetti ebrei spesso c’era chi collaborava col regime nazista. Se ci spostiamo nella già citata Unione sovietica, la situazione è decisamente meno chiara: le numerosissime vittime di Stalin mandate in Siberia dopo processi farseschi erano spesso state attivi repressori dei dissidenti, come nel caso di Leon Trotsky, il quale, prima di essere efferatamente assassinato dai sicari di Stalin, aveva organizzato i primi campi di concentramento europei.
In situazioni di guerre civili e di genocidio, diventa ancora più difficile distinguere tra carnefici e vittime: pensiamo al caso del Ruanda. E poi che cosa viene in tasca alle vittime e ai loro parenti dalla giustizia retributiva, che è in fondo una vendetta legalizzata?
È alla luce di queste considerazioni che sono nate le “commissioni verità”, le quali cercano di fare luce su quanto accaduto e sui motivi che hanno portato a ciò.
Se volgiamo lo sguardo indietro ad Aristotele, notiamo che egli è il grande teorizzatore della giustizia nelle sue diverse forme: la trattazione più ampia e articolata di questo tema si trova nell’Etica nicomachea. Aristotele ha chiarissima la funzione giudiziaria, e lo si comprende quando egli parla del giudice come “giustizia vivente”. A lui, inoltre, si deve una grande acquisizione: quando distingue il “giusto legale” dal “giusto naturale”, egli ricava infatti una categoria (l’equità) che resterà centrale in tutta la tradizione giuridica dell’Occidente, fino al “diritto mite” di Gustavo Zagrebelsky, diritto che è mite proprio perché cerca di dare conto delle varie situazioni concrete. L’equità è qualcosa di ulteriore rispetto al giusto: è un correttivo del “giusto legale”, poiché cerca di adattarlo a situazioni specifiche e concrete.
Tuttavia, la stranezza che più colpisce in Aristotele è che egli, che pure ha scoperto il valore del “sapere pratico”, quando distingue la giustizia distributiva da quella correttiva, faccia ricorso all’ambito matematico: la giustizia distributiva è modellabile sulla proporzione geometrica, mentre la giustizia correttiva è modellabile su quella che noi chiamiamo proporzione numerica.
Introducendo l’elemento matematizzante nei rapporti sociali e giuridici, Aristotele inaugura una tradizione destinata a grande fortuna: e sorprende che Aristotele, il pilastro di quella che è stata definita la “filosofia pratica”, quando ragiona di giustizia, si riferisca all’ambito geometrico. La cosa sconcertante è la pletora di equivoci che sono stati fatti a partire dalla distinzione aristotelica tra “giustizia distributiva” e “giustizia correttiva”: quella commutativa, che è stata desunta da Aristotele, nel suo testo non compare mai, e anzi egli dice esplicitamente che lo scambio e il mercato non hanno nulla a che fare con la giustizia. La giustizia commutativa nasce in Età medievale e rispecchia il mondo della “lex mercatoria” di quell’epoca, la quale produce l’idea della giustizia commutativa e, per conferirle autorità, si richiama ad Aristotele. Del resto, la stessa idea di giustizia retributiva è estranea ad Aristotele.