Una sobria inquietudine ripercorre la vita intellettuale di uno tra i più autorevoli filosofi tedeschi del secolo scorso. È la prima biografia dedicatagli, e attinge a un vasto archivio inedito di documenti e corrispondenza con i massimi esponenti della filosofia europea del Novecento (Martin Heidegger, Karl Jaspers, Leo Strauss, Hannah Arendt, Hans-Georg Gadamer, Eric Voegelin, Leo Spitzer, Max Horkheimer, Herbert Marcuse, Arnold Gehlen, Jürgen Habermas e altri ancora). L’uso sistematico di documenti sparsi in diversi paesi (Germania, Italia, Francia, Usa, Giappone) ha consentito a Enrico Donaggio di ripercorrere la vicenda löwithiana (in particolare il suo rapporto con Heidegger, di cui Löwith fu prima allievo e poi critico accanito, l’esilio in Italia, Giappone e Stati Uniti) in una narrazione in cui la ricostruzione biografica si intreccia costantemente con le vicende filosofiche e politiche del secolo. Karl Löwith era nato a Monaco di Baviera nel 1897. Allievo di Husserl e Heidegger, nel 1934, in quanto ebreo, era stato costretto a lasciare la Germania a causa delle persecuzioni razziali. Visse gli anni seguenti in Italia, a Roma, dove strinse amicizia con Delio Cantimori e Guido Calogero ed ebbe modo di conoscere Giovanni Gentile e Benedetto Croce; in Giappone, dove si avvicinò alla filosofia zen e poté osservare da vicino il processo di appropriazione della scienza occidentale da parte dei paesi orientali; e negli Stati Uniti, dove lavorò all’Università di New York. Tornato nel 1952 in Germania, insegnò a Heidelberg fino all’anno della sua morte, nel 1973. Da questi pochi cenni si può ben comprendere come la biografia intellettuale di Löwith consenta una lettura in filigrana di gran parte della filosofia europea del Novecento, con il suo carico di interrogativi sul posto dell’uomo nella natura, sul senso della filosofia e sulle sue responsabilità verso il male che ha lacerato questo secolo. Scritto senza accademismi, in uno stile profondamente partecipe delle vicende umane che travolsero quella generazione, Una sobria inquietudine è un’opera rigorosa, ma fruibile da un pubblico colto di non specialisti.
Enrico Donaggio presenta il suo libro
Come nasce Una sobria inquietudine?
All’origine c’è la lettura dell’autobiografia di Karl Löwith, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933. Una vita interessante! Volontario nella prima guerra mondiale, con la prigionia in Italia, il paese che diverrà la sua patria elettiva. Quindi gli anni dell’università, dove Löwith dimostra un fiuto notevole nello scegliere i propri maestri: un premio Nobel per la biologia, la cerchia del poeta Stefan George, Max Weber. E quando la passione per la filosofia prende il sopravvento Löwith, che segue i corsi insieme a Gadamer, Hannah Arendt, Leo Strauss, si permette di snobbare Husserl per seguire, come suo primo allievo, un giovane assistente in procinto di diventare una celebrità, Martin Heidegger. Di questo curriculum fuori dal comune, come del seguito della vicenda – la rottura e il riavvicinamento con Heidegger, l’esilio imposto dal nazismo in Italia, Giappone e Stati Uniti, con il tentativo di comprendere culture tanto diverse, il rientro in Germania, e il fittissimo epistolario con personalità di spicco della cultura europea – traspariva ben poco negli studi su Löwith sin qui pubblicati.
Ha dunque scritto una biografia intellettuale di Löwith?
Questa era la prima intenzione. Mi sono messo in cerca del materiale – diari, lettere, pagine inedite – che, insieme alle opere pubblicate, consentisse di ricostruire il percorso di Löwith, la rete di relazioni umane e intellettuali di cui egli fu un nodo. Non esisteva ancora un luogo in cui questi scritti fossero raccolti, e ho dovuto perciò rintracciarli in varie parti del mondo, impiegando diversi anni. La conoscenza di questi testi mi ha però anche convinto del fatto che l’immagine sin qui consolidata di questo autore – quella di uno storico della filosofia olimpicamente distaccato dai fatti del proprio tempo – era inadeguata. La filosofia è infatti il filtro, il medium di cui Löwith si serve per formulare la sua critica della modernità. Interrogandosi sul senso della filosofia e sulle sue responsabilità verso il male che ha lacerato il Novecento, egli elabora una diagnosi epocale quanto mai suggestiva. Restituire anche questo aspetto della posizione di Löwith costituisce il secondo obiettivo del mio libro.
Di che tipo di libro si tratta?
C’erano due classici modelli che volevo evitare: la biografia di un migliaio di pagine che informa su ogni dettaglio dell’esistenza dell’autore, anche su quelli più irrilevanti ai fini di una comprensione del suo pensiero. E lo studio erudito che, sin dallo stile con cui è scritto, soffoca in una patina di noia il proprio oggetto. Spero di essere riuscito almeno in parte a trovare un’alternativa progettando un volume disposto su due livelli. Il testo vero e proprio che, in forma sintetica e – mi auguro – limpida, offre una ricostruzione essenziale e accessibile della vita e del pensiero di Löwith, collocandola sullo sfondo dell’epoca, dei paesi e dei dibattiti filosofici a cui si intrecciò. E una corposa sezione di “note e approfondimenti” in cui lo specialista o il lettore più curioso trovano le indicazioni per proseguire lungo le molteplici piste che il libro segnala ma, volutamente, non percorre.
Quale profilo di Löwith ne scaturisce?
Wittgenstein ha detto che esistono pensatori che sono come delle vette e altri che sono invece simili ad altipiani. Löwith appartiene senz’altro a questa seconda categoria: studiandolo non ci si inerpica su cime tempestose, ma si vedono molte cose da una prospettiva meno estrema e unilaterale di quella che si gode da un picco solitario. Leggendo i suoi libri si entra in contatto con quanto di meglio la filosofia europea ha prodotto nei due secoli che ci siamo lasciati alle spalle. E non lo si fa nel modo solipsistico, spesso arrogante, di chi si ritiene il depositario esclusivo di pensieri elevatissimi o abissali. Si apprende piuttosto un’arte dei toni sommessi, un approccio mimetico che mira a restituire una polifonia di voci alle quali, in modo discreto quanto deciso, Löwith aggiunge la propria. Questa trama di confronti – con Hegel e Nietzsche, Marx e Weber, Heidegger e Schmitt – nasconde infatti nella sua filigrana una critica alle responsabilità politiche della filosofia e una critica integralmente filosofica della modernità occidentale. Un tentativo, se si vuole, di sopravvivere filosoficamente al Novecento.
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