L'UOMO NEL MEZZO DELLA STORIA



Baumgarten e Shaftesbury

 

Sia Burckhardt che Nietzsche dovettero avere a che a fare con la “ barbarie civilizzata “, intesa come appiattimento e disgregazione della vita culturale e spirituale, il giovane Burckhardt nelle modalità educative del suo tempo vide una forma di avidità della vita agiata, in una sua lettera a Kinkel fece uso dell’ espressione “ ostracismo dei filistei “ dicendo che la cultura moderna produce “ gonfiate mediocrità “, è curioso notare come il filisteo culturale per il suo tentativo di professarsi discepolo delle muse subirà la dura critica nietzscheana.

Burckhardt era conscio di come il Cristianesimo fosse giunto agli sgoccioli e la teologia fosse diventata terribilmente disgustosa, le epoche grandiose erano ormai terminate con la perdita dell’ autentico messaggio cristiano, se il XVIII secolo si poteva chiamare secolo illuminato, il nostro – scrive Burckhardt – è un secolo “ colto “, nella misura in cui come avrà modo di dire Nietzsche, produce “ culturalità “.

Nietzsche avvicinandosi alla prospettiva burckhardtiana ma nello stesso andando oltre [ questo in uno scritto del 1873 ], avverte la necessità in maniera aurorale di comprendere la crisi per creare un moto di superamento, che sarà reso manifesto nella critica tagliente delle opere successive, basti pensare al “ Crepuscolo degli idoli “.

Le tre forme di conoscenza storica in Nietzsche sono funzionali alla vita, la storia quindi – scrive Loewith – è vista da Nietzsche come “ danno “ e da “ Burckhardt come “ utilità “; in realtà questa interpretazione appare quanto mai discutibile, dato che ciò che Nietzsche bersaglia con i dardi della sua filosofia è tanto la storia bensì lo storicismo, un atteggiamento che toglie nichilizza l’ energia vitale dell’ individuo e di un popolo, memori del fatto che la cultura si è prodotta autenticamente all’ in fuori di una coscienza storica.

Burckhardt mette a nudo la radice cristiana della coscienza storica che passando per la lectio hegeliana è coscienza della fine, proprio perché la religione cristiana considera l’ ultima ora di vita dell’ uomo come fondamentale, questa posizione permette a Burckhardt di pervenire ad un sano scetticismo che demistifica l’ idea del progresso, dello sviluppo e della felicità.

Nietzsche definisce la storia come una teologia camuffata, bisogna quindi andare oltre l’ alessandrinismo inteso come retroterra della culturalità moderna produttrice di uomini teoretici asserviti ad una scienza storica contrapposta all’ educazione storica protesa alla formazione dell’ individuo ( che letteralmente significa ciò che non è scisso, quindi “ unità “ ), per cogliere il modello greco pregno di vita.

Loewith sostiene che nella prospettiva sovrastorica nietzscheana si troverebbero i germi di quella che sarà la teoria dell’ eterno ritorno, la scienza storica vede i suoi peggiori nemici nell’ oblio e nella visione sovrastorica che distoglie lo sguardo dal divenire per pervenire a ciò che è eterno.

Il fanciullo in questo senso incarna l’ innocenza e l’ oblio, la sovrastoricità di vedute; l’ uomo che invidia l’ animale ancorato al piuolo dell’ attimo è legato con le catene del passato, si trascina il fardello dell’“ era “, l’ esistenza è quindi contraddittoria in se stessa, un interrotto “ essere – stato “.

L’ uomo storico non potendosi mai fermare sulla soglia dell’ attimo non saprà mai che cos’è la felicità, il superuomo ci permette di compiere il passaggio dal “ così fu “ al “ così volli che fosse “, eliminando il peso del passato nell’ eterno ritorno dell’ uguale.

Burckhardt – a differenza di Nietzsche – non soffriva della coscienza storica come malattia, faceva proprio ma non incorporava ciò che gli sembrava degno di essere saputo, suo scopo era conservare la “ continuità “ storica senza nessun tipo di ansia e speranza verso il futuro, archetipo di un saggio del presente concepiva i singoli eventi del passato in riferimento agli effetti sul presente e sul futuro.

La fede nel sapere storico conservatore – aggiunge Loewith – lo rende più inattuale di Nietzsche, apparendo come un’ “ esistenza ironica “ vicina a Fritz nella veduta sovrastorica, eliminando però l’ idea del progresso e dello sviluppo, realizza la sua sovrastoricità nella storia cercando d cogliere i processi “ come eternizzazioni “, l’ uomo che soffre e patisce di forte sapore schopenhaueriano è meta – temporale e meta – storico, è interessante notare come lo stesso Schopenhauer dinanzi ad interpretazioni che vedevano nel suo pessimismo una normale reazione storica all’ ottimismo precedente, rispondesse come la sua posizione fosse radicale [ Burckhardt dopo aver avuto infatuazioni per i sostenitori del pessimismo universale, è portato una volta giunto ad una piena maturità a prendere la vita né troppo seriamente né troppo leggermente ].

In questo modo Burckhardt supera la distinzione nietzscheana tra primogeniti ed epigoni, noi moderni siamo quelli che vengono semplicemente dopo, per questo siamo più predisposti al conoscere storico.

Se Nietzsche pone in rilievo l’ importanza di dare un respiro esistenziale alla filosofia intesa come teoresi, “ La filosofia nell’ epoca tragica dei Greci “ in questo caso può servire d’ ausilio a comprendere la posizione nietzscheana, dove un autore risulta importante nella misura in cui nel suo sistema fa risplendere la propria vita, l’ unico elemento “ inconfutabile “, Burckhardt riprendendo l’ insegnamento greco ed aristotelico in particolare e con toni in un certo qual modo anacronistici, esalta la “ vita contemplativa “, un crocevia di cinismo ed ascesi all’ interno di una modernità dedica alla mercificazione della “ Kultur “ e per questo incapace di pensare autenticamente: Nietzsche – continua Loewith – mette a disagio l’ individuo, Burckhardt invece intende superare il disagio verso se stessi, il primo esalta Dioniso come dimensione prima ed autentica della grecità, il secondo si libera da tutte le pulsioni e desideri, mediante la figura dello Zeus omerico, connubio di una dura volontà, saggezza, dolcezza ed infine maestà.

Eccetto l’ esperienza dell’ eterno ritorno, la grande “ al di là dell’ uomo e del tempo “, Nietzsche fu sempre critico verso una la vita teoretica e la possibilità di farne scaturire una forma di felicità, come modello di un apollineo allontanatosi dal tragico e per questo sorgente di esiti altamente negativi.

L’ uomo – Burckhardt era consapevole dell’ impossibilità di raggiungere ad una piena felicità, e per questo scorgeva nella rassegnazione una vera e propria dote umana, essere in pace con il mondo ed utile agli altri evitando gli attacchi della misantropia erano suoi cardini esistenziali; scelse una vita lontana dal mondan rumore, fuggendo dalle illusioni e dalla pretese del suo secolo trovò i fondamenti del suo agire e pensare nell’ identificazione di bontà e felicità, quest’ ultima concepita come una pace interiore, di un’ anima che per quanto potesse prendere coscienza criticamente degli eventi del suo tempo, sempre si distaccò senza mai esporsi in pubblico come alfiere di posizioni politiche, questo in particolare modo in vecchiaia.

Nietzsche come ci riferisce Overbeck, era estremamente ambizioso, impossibilitato a godere della felicità, forse per questo Burckhardt rifiutò sempre l’ amicizia di Nietzsche e lo stesso Overbeck in quanto esponente di una teologia negativa, che racconta per poi porsi come par destruens.

In Burckhardt la strada che porta alla felicità [ nel senso burckhardtiano, pace e serenità interiore ] si dischiude nella storia dell’ arte, che indica una seconda esistenza dove l’ essenza è coordinata armonicamente con l’ apparenza, lo stesso Burckhardt nelle sue lettere dai viaggi in Italia, scrive di essere pervenuto a veri e propri momenti di inaspettata felicità, il “ Cicerone “ a questo punto non può essere considerato un testo di critica artistica, ma una guida al “ godimento estetico “.

Burckhardt esalta il linguaggio di Epicuro per la rinuncia alla retorica a vantaggio della semplicità, per giungere al livello di Epicuro è necessario superare la scrittura prolissa e giornalistica; lo storico di Basilea ha sempre usato nel corso della sua vita, all’ interno delle lettere e dei suoi scritti un linguaggio scarno e sobrio manifestando una notevole spontaneità d’ espressione, dominato da una gradevole armonia, fu maestro – scrive Loewith – del discorso improvvisato e della lettera racconto, mirando sempre alla leggibilità da parte dei lettori e a ciò che è interessante.

Nel “ Cicerone “ Burckhardt ha lottato contro il linguaggio per cadere nell’ oblio di espressioni estetiche raffinate relegate ad una cerchi austera di specialisti dell’ arte incapaci di considerare autenticamente il problema della bellezza, le parole di cui egli fa uso dipingono solo il contorno dell’ opera artistica, che poi deve essere vivificata con le impressioni del visitatore.

Il linguaggio diviene in questa accezione il materiale più durevole, ciò che godendo quasi di uno statuto di atemporalità si sottrae alla caducità degli eventi che di per se stessi sono transeunti, è quindi l’ espressione più autentica della spiritualità e della cultura di un popolo o di un’ epoca; l’ interesse burckhardtiano per il linguaggio scaturisce dai suoi studi sulla lingua greca, lingua peraltro – come sottolinea Burckhardt – che trova la sua massima espressione nella dimensione “ parlata “, estremamente flessibile e capace di rendersi fluida all’ interno di mille sfumature e distinzioni differenti, atte a porsi come orizzonti per una filosofia che, diviene la più autentica manifestazione dello Geist greco totalmente estraneo al dogmatismo dello Stato e della religione.

Solo la lingua degli Indiani e dei tedeschi avrebbe un respiro filosofico, questo è interessante in quanto Hegel ne “ La scienza della logica “, dice espressamente che solo il greco ed il tedesco sono lingue speculative, capaci quindi con una ricca terminologia teoretica di essere adatte alla ricerca concettuale.

Burckhardt fece uso delle incidentali laconiche, di locuzioni caratteristiche e bizzarre, il suo discorrere era scarno e sobrio ancorato ad espressioni “ pratico – economiche “ [ anche se disprezzava il mondo degli affari ] per designare le cose con un approccio più squisitamente umano [ “ affare “ ], inoltre all’ interno del suo bagaglio linguistico fanno la loro comparsa anche espressioni svizzere [ “ espertarsi “ ] e di neologismi [ “ valutazione del prezzo della vita “, “ noi gente venuta tardi “ ].

Burckhardt sia nel dominio storico che artistico compie descrizioni prive di enfasi e pathos conservando al tempo stesso la capacità di trasfigurare all’ interno di un’ atmosfera di disincanto.

Michelangelo è per Burckhardt l’ ” uomo del destino “ che rappresenta la soggettività del moderno che fa approdare alla crisi la scultura e l’ architettura, alfiere di una creazione illimitata ed assoluta, manca nella sua arte di spontaneità; Raffaello agli antipodi di Michelangelo, è uno spirito forte e sano, una normale personalità capace di non avvertire il peso del successo, egli dipinge “ il “ bambino e “ la “ vergine, cogliendo l’ eterno ed l’ universale dal transeunto e dal contingente [ nelle sue analisi storiche artistiche farà uso del binomio ermeneutico “ essere “ – “ esistere “ ].

Rivolgendosi alla storia del mondo ed all’ arte, Burckhardt supera ciò che è terreno per una schietta visione della vita, pensando per immagini si sottrae alla dimensione speculativa dei concetti della filosofia della storia e dei grandi pensatori sistematici, quest’ ultimi erano dominati dal “ diavolo della superbia “.

In una lettera a Kinkel ironizza su Schelling in maniera notevolmente negative, questo peraltro lo aveva già fatto Kierkegaard nel “ Diaro “, dove si prendeva gioco di Schelling, del suo modo di insegnare e del totale naufragio della sua opera, anche se è bene tenere presente come l’ ultimo Schelling, quello “ nebuloso e oscuro “ influenzò l’ autore danese.

Burckhardt per combattere l’ impostazione della filosofia della storia, compie considerazioni trasversali e longitudinali per scorgere ciò che si ripete ed è tipico, il sapere hegeliano travalica l’ umano; l’ autentica filosofia doveva essere per Burckhardt esente da residui teologici e dalle impronte del centauro ed interessarsi alla questione relativa all’ esistenza.

Schopenhauer rappresenta il vero ed unico filosofo nella misura in cui si oppone tenacemente ad ogni forma di ottimismo e demistificate le illusioni del tempo, Hartmann invece, presenta un’ insufficienza di buona dose di autonoma osservazione.

Burckhardt dal canto suo cerca di dare un quadro vivo dove descrive i “ rapporti di vita “, egli scrive [ durante la composizione del suo scritto su Costantino il Grande ] che oltre all’ approvazione dell’ asilo, la sua opera è indirizzata a coloro che pensano di tutte classi sociali, ciò che lo studioso di Basilea rifiuta la sedentaria degli specialisti storici e la sistematicità dei filosofi della storia.

Al giovane Burckhardt la filologia appare come una scienza di secondo ordine, i numerosi studi classici non hanno offerto ancora una storia sulla Grecia, per realizzare una tale opera è necessario respirare l’ atmosfera e la spiritualità antica, egli si definisce un dilettante amando ciò che fa, Ranke ha sacrificato moltissimo alla sua “ magistrale rappresentazione “ producendo un senso di illusione.

Gli specialisti di storia dell’ arte perdono il reale valore della bellezza con i loro ragionamenti astrusi, Burckhardt lancia i suoi dardi velenosi contro certi scienziati intesi come burocrati dello Stato, sono inoltre altrettanto riprovevoli i filosofi dell’ arte che parlano dell’ Idea dell’ opera artistica.

Si pone sempre criticamente dinanzi all’ industriosità della scienza, senza voler mai incappare in noi editoriale e recensioni, essere un autore erudito sarebbe nocivo a differenza che insegnare all’ università.

Dinanzi alle oscillazioni ed alla crisi della cultura della storia e del mondo accademico, si orienta verso i Greci e la loro energia spirituale, in “ Sul merito scientifico dei Greci “ esaltala modalità con la quale i Greci sapevano, in quanto presupponeva uno spirito libero nei confronti di sé e degli altri ed una partecipazione globale al sapere [ questo non avveniva in Oriente a causa della presenza delle caste ]: ognuno, quindi aveva libero accesso alla filosofia, con la possibilità di scontri tra le varie scuole di pensiero.

La scienza non aveva nessun sostegno governativo e la ricerca era finalizzata non al guadagno essendo fine a se stessa, vi era un numero elevato di persone felici; tutte le funzioni nello Stato erano mutabili, senza essere soggiogate a nessun sistema dogmatico – religioso, furono capaci di fondare tutte le scienze successive.

Il loro sguardo era panoramico che permetteva sani confronti oggettive esenti dai pregiudizi razziali, in Grecia non sussisteva una storiografia tout court, essa era mescolate a facoltà artistiche.

La storia greca faceva riferimento al tipico cui espressione era l’ aneddoto, inoltre non nutriva il ben che minimo interesse dei moderni per l’ esattezza amando invece il simbolismo in cui il greco si muoveva con naturalezza.

Burckhardt dice che i greci avevano un differente rapporto ( quasi dialettico ) sulla verità e sulla menzogna, il loro studio era frutto del volere e della libertà; gli antichi filosofi non essendo ancorati a dimensioni statali e religiose, potevano condurre una vera ricerca spirituale all’ insegna di una notevole personalità.

Solo nel Rinascimento italiano, con Pico della Mirandola e di suo “ De dignitate hominis “ si ebbe il risveglio del mondo e dell’ uomo; la coscienza storica del XIX secolo era l’ ultima manifestazione dell’ onnivoro interesse greco grazie alla sua recettività universale poteva quindi comprendere l’ estraneo ed il passato.

Due sono le condizioni fondamentali per Burckhardt oltre alla Rivoluzione francese: da un lato il disinteresse degli Stati per gli studi storici, dall’ altro l’ ormai impotente religione.

Occorre quindi abbandonare e prescindere la proprio punto di vista, dalla dimensione della patria e dall’ ondata pubblicitaria, in uno studio della storia che è reclamato dall’ Ottocento, secolo che con la sua volontà di novità ha creato una tabula rasa, proprio per questo lo studio del passato ci dà la misura per comprendere il presente.

L’ uomo burckhardtiano che “ soffre e patisce “ nel mondo si pone in un particolare rapporti con la posizione hegeliana e quella di Kierkegaard; se Hegel coinvolge l’ individuo in un processo storico – universale, Kierkegaard riscopre l’ istanza del “ Singolo “ come unica ed autentica dimensione esistenziale.

Burckhardt pone l’ essere umano al centro della storia proprio perché porta in sé misura e medietà, nella riflessione hegeliana l’ uomo è importante storicamente solo come “ individuo storico – universale “ che si differenzia quindi dai semplici “ conservatori “ incarnando in una determinata epoca lo spirito del mondo, Kierkegaard opponendosi a questa prospettiva fa riferimento alla singola esistenza cristiana, se per Hegel Napoleone “ è lo spirito del mondo seduto a cavallo, che lo domina e lo sormonta “, la figura cristologica è per l’ autore danese l’ unica vera individualità.

Burckhardt è assai prossimo alla posizione kierkegaardiana nella misura in cui scorge l’ uomo che “ soffre e patisce “ senza nessun tipo di pathos ed enfasi metafisica, il giovane studioso di storia svizzero afferma in una lettere di essere inadatto alla riflessione speculativa e neanche per un minuto all’ anno è disposto a percorrere i sentieri del pensiero astratto, in questo egli non è in grado di parlare in “ hegeliano “ corretto nota Loewith; nonostante ciò Burckhardt si interessa alla filosofia della storia hegeliana, studiandola attentamente e con spirito critico.

Come in Hegel vede inizialmente lo sviluppo dello spirito verso la libertà come un tratto essenziale dell’ umanità; in una lettera a Kinkel afferma con toni hegeliani di concepire la storia come un grande dramma senza alcune considerazione di tipo morale; a Schauenburg confessa di avere un’ estrema sensibilità non tanto per la caducità dei singoli individui, bensì per il piano generale, per il respiro dei popoli e dei secoli.

La conoscenza è per Burckhardt una libera e felice contemplazione della nostra miseria, serve quindi un coraggio per conoscere e comprendere gli eventi storici; il XIX secolo è il secolo più consono per conoscere il passato ed il presente, se Hegel si professa “ sacerdote dell’ Assoluto “, Burckhardt – può essere definito secondo Loewith – “ sacerdote del bello “, assoluto e bellezza accomunati dall’ eternità.

Burckhardt oltre alla dimensione sistematica, contesta la filosofia hegeliana in quanto concepisce una necessità nell’ accadere storico, è calata nell’ alveolo di un ottimo figlio del superamento dialettico del negativo e di un’ ottica incentrata sul continuo progresso.

Hegel ha di mira lo spirito del tempo che si manifesta attraverso i soggetti universali, Burckhardt invece vede negli spiriti dei popoli, “ nature umane a più elevata potenza “; nella filosofia della storia hegeliana la ragione è il generale e l’ intero, gli individui particolari chiamati ” conservatori “sono funzione al télos della totalità, all’ interno dei popoli e degli Stati si vela la ragione e l’ ethos.

A differenza di Hegel, in Burckhardt lo Stato non è espressione dell’ eticità, bensì di un diritto convenzionale, l’ eticità hegeliana era pedagogia in funzione dell’ universale, presso gli antichi – sostiene Hegel – non sussisteva la persona privata moderna.

Questa diversità tra l’ uomo antico e quello moderno, spinge Burckhardt a sostenere che la comprensione del passato da parte nostra non risulta immediato e presenta una profonda problematicità: se l’ individuo colto burckhardtiano si contrappone allo Stato, per Hegel il singolo è un mero accidente dinanzi alla totalità.

Loewith nota acutamente come in Hegel l’ analisi dell’ individuo sia preceduta dalla considerazione sulla dimensione in cui di volta in volta si trova, dalla ristretta cerchia famigliare, alla categoria professionale del popolo, al figlio del popolo, ed infine allo spirito universale, concludendo non esiste “ in sé “ l’ individuo.

Nella prospettiva burckhardtiana ciò che risulta sempre presente è l’ elemento umano, Hegel produce invece una storia delle idee che si manifestano nella necessità del tutto.

Se Hegel si chiede come possa lo spirito del mondo servirsi di un singolo individuo, l’ autore del “ Rubens “ si domanda come un individuo riesca a raggiungere un’ importanza storico – universale, in Burckhardt l’ individuo ha la possibilità di trascendere il mondo, Temistocle stava libero dinanzi ad Atene.

L’ interesse storico hegeliano gravita nella fusione tra l’ idea e la passione, gli uomini agendo producono qualcos’altro rispetto alle loro intenzioni, Hegel fa l’ esempio di G. Cesare che quando consolidò il potere a Roma, realizzò marginalmente un suo interesse personale, ma nello stesso tempo fu l’ “ astuzia della ragione “ che facendo uso di G. Cesare portò la storia ad un livello più alto verso la libertà.

Burckhardt – distaccandosi dalla visuale hegeliana – scorgeva la grandezza di Cesare non solo nella sua genialità e nella volontà di potere, ma nel disprezzo per la morte non essendo privo di bontà.

In Hegel il problema si gioca sul rapporto che intercorre tra il libero arbitrio e la necessità perseguita involontariamente, un rapporto quindi tra libertà e necessità, dove il giudizio morale non può tangere l’ operare dell’ individuo storico – universale.

Libertà e necessità si fondano se l’ uomo agisce spinto dalla passione, in questo modo l’ individuo sacrifica tutto se stesso alla scopo oggettivo che si è prefisso, lo spirito nella sua particolare soggettività si identifica con l’ idea universale: la libertà diventa autenticamente libera quando vuole ciò che necessariamente deve essere.

Burckhardt nella conferenza su Napoleone, distingue ciò che è stato voluto intimamente da ciò che è stato prodotto da cose esterne, si tratta quindi di una sorta di analisi psicologica che non appartiene al modo di comprendere hegeliano: la grandezza non è presa in considerazione da un punto di vista storico – universale, ma in base alla grandezza d’ animo umana; inoltre Burckhardt mostra come la grandezza non coincida con la potenza, e la prima risente della prospettiva assunta da chi analizza.

Burckhardt colloca i grandi uomini del movimento storico dopo le personalità spirituali e morali; i generali delle rivoluzionari e gli individui che rappresentano la continuità storica ed il nuovo, non sono autenticamente grandi; Cesare ed Alessandro sono grandi per la forza d’ animo, ma è raro trovare in tali individui “ grandezza d’ animo “ intesa come coscienza morale e bontà.

La considerazione storica burckhardtiana non è una mera prospettiva sentimentale, né uno scorcio panoramico sotto la visuale del concetto.

Se Hegel sosteneva che la felicità duratura appartiene al borghese e non all’ individuo storico – universale, Burckhardt mantiene solo il concetto di infelicità, proprio perché la felicità non ha avuto mai dimora in nessuno luogo, le cose umane sono sempre minacciate ed insicure.

Burckhardt critica apertamente tutte le prospettive fondate su una forma di egocentrismo, l’ uomo che agisce è anche colui che patisce, il male non è tale quindi per un nostro giudizio a posteriori, è tale in sé perché porta mostra e distruzione, e non avendo una radice teologico – religiosa, fa parte dell’ economia della storia universale.

Lo sguardo burckhardtiano va oltre il mito del progressivo sviluppo, tiene una posizione di malismo secondo la quale gli attimi di felicità sono risucchiati dalla catena degli eventi nefasti, ogni vita lesa rimane tale e non è sostituibile.

Loewith dice che quella di Burckhardt non è una prospettiva qualsiasi sul mondo, ma è una “ Weltanschauung “ che vede nell’ uomo che soffre e patisce, lotta e soccomba, il fulcro della storia.

La prospettiva di Burckhardt prende in considerazione il fluttuare terreno al di  là di ogni giudizio di valore, in termini filosofici nel suo complesso, mediante una ferrea oggettività riferita al tutto; l’ autore de “ La storia della civiltà greca “ è lontano dallo storicismo nato da Hegel e dalla storiografia di tendenza, Burckhardt rivendica per sé una saggezza capace di rischiarare la totalità degli eventi umani, senza costruire vane illusioni.

Se Nietzsche voleva recuperare la dimensione del tragico greco e Kierkegaard la prima esperienza cristiana mediante il rapporto assoluto del “ Singolo “ con l’ “ Assoluto “, Burckhardt era conscio di come lo spirito dell’ antichità non sia più il nostro spirito, nell’ atto di riappropriarsi del passato lo storico di Basilea l’ ho conservato estraneo, ciò a differenza di Nietzsche e Kierkegaard.

Sia Burckhardt che Kierkegaard avvertirono come problematico l’ entusiasmo progressista, Burckhardt non essendo né un agitatore né un rivoluzionario divenne “ un uomo privato “ che vive in disparte secondo il modello antico, Kierkegaard che di per se stesso era riformatore seguendo l’ archetipo del martire cristiano ha offerto testimonianze della sua singolarità: entrambi vedono nel loro secolo un processo di livellamento, Kierkegaard dicendo che tutta la sua epoca è soggetta ad un impoverimento morale, Burckhardt dinanzi agli aggiornamenti giornalistici rivendica l’ importanza ed il bisogno di eternizzazioni, il pensatore danese mostra come l’ infelicità sia frutto di una semplice e banale temporalità, serve quindi un’ eternità pensata cristianamente.

Il XIX secolo è nell’ ottica burckhardtiana è inadatto per la venuta dei grandi uomini [ domina becero ottimismo di massa da festa collettiva, gli uomini si mettono a piangere se non saranno riuniti almeno cento di loro ] un, per Kierkegaard è finito il tempo degli eroi in quanto domina l’ anonimo pubblico, dinanzi ad una dimensione di livello e massificazione, l’ autore di “ Aut – Aut “, esalta il primo eremiti cristiani, i pensatori greci si contrappongono all’ astratto filosofo hegeliano, Burckhardt invece pone in rilievo l’ importanza della libera personalità del pensatore greco.

La cultura moderna porta ad un illusorio ottimismo, ad una forza livellatrice, ad un’ ideologizzazione del progresso connesso ad uno sfruttamento industriale del mondo, ciò è oggetto del più feroci critiche di Burckhardt e Kierkegaard, quest’ ultimo essendo un rivoluzionario storicamente che voleva dissolvere la modernità a favore di un ritorno del Cristianesimo autentico si differenzia da Burckhardt [ che non vuole cambiare il mondo ] che si interessava alle rivoluzioni nella misura in cui è possibile conservare una continuità storica.

Burckhardt si fa alfiere di una posizione moderata rispetto ad Hegel e Kierkegaard, Hegel dopo una parentesi di critica finisce per giungere ad una prospettiva di conciliazione con il mondo [ “ essere diventato identico a sé nell’ essere altro “ ] e nello stesso tempo critica le soggettività romantiche proprio in quanto si sono poste in contrapposizione con il mondo a causa della loro interiorità.

Hegel interpreta Socrate all’ interno del momento storico universale in cui compare, la decisione socratica di occuparsi della propria moralità proviene da una sorta di voce della coscienza, è presente in lui la pura individualità deliberante, come autodeterminazione; il Romanticismo è una vanità che si fa seria, una delusione consapevole dell’ oggettivo, tisi dello spirito incapace di manifestarsi esteriormente che va riempito con contenuti sostanziali, infine la libertà dell’ ironia è una liberazione da ogni forma di contenuto sostanziale.

L’ ironia è per Kierkegaard una libertà negativa che si pone al di fuori dell’ esistente [ differenziandosi da Hegel ] e non racchiudibile in un alveolo speculativo, il filosofo danese non critica l’ ironia per un deficit relativo ad una dimensione universale, ma per non essere giunta ad un piano di soggettività totalmente radicale: l’ ironia socratica s’ inscrive all’ interno del mondo ateniese e quella romantica è invece una malattia mortale.

L’ uomo burckhardtiano non è né un universale né un singolo, risulta bensì essere un individuo in mezzo alla dipendenza degli avvenimenti ma nello stesso tempo, “ in – dipendente “, libero da vincoli: Burckhardt osserva teoreticamente e si tiene in disparte a livello pratico, Loewith dice infatti che se Hegel agli albori dell’ Ottocento si concilia con la propria epoca, Burckhardt nel 1846 si astiene dalla propria epoca per conservare un senso storico del proprio tempo contro di esso.

All’ età di 28 anni Burckhardt decide di allontanarsi definitivamente dalla dimensione politica, nei confronti della quale aveva sempre nutrito una forma di elevata sfiducia, l’ uomo inoltre nulla guadagna nell’ immischiarsi nel movimento delle grandi masse; l’ ideale burckhardtiano è di avere un posto sicuro in Biblioteca, con possibilità economicamente moderate, e con la possibilità di educare quelle facoltà funzionali alla formazione di buon uomo privato.

Il suo disinteresse diretto pratico – teoretico verso gli avvenimenti del presente, lo porta ad interessarsi della storia e le cause dei grandi Stati; la fuga burckhardtiana verso il sud e il ristorarsi presso le rovine romane, si esplica con la sua esigenza di oltrepassare il presente mediante e verso la storia.

Quella di Burckhardt è un’ esigenza interiore, finalizzata a pervenire ad una dimensione di armonia in questo marasma di eventi, immergersi nella storia è un modo indiretto per avere uno sguardo critico verso il presente, Burckhardt rifiutò sempre il termine “ pessimismo “ preferendo un’ ottica malista, intesa come un benefico strumento di demistificazione delle certezze dell’ ottimismo, il mondo così com’è, è stupendo e terribile al tempo stesso, l’ uomo deve comprenderlo ed accettarlo.

Nella decadenza dell’ Impero romano sorge la fuga cristiana dal mondo, l’ ascesi era una decisione estrema in un’ epoca dove gli uomini avevano smarrito se stessi, una reazione per sottrarsi da coinvolgimento: proprio in tal guisa Burckhardt conduce un’ esistenza solitaria essendo indipendente dal marciume della società in cui viveva, egli aveva una particolare predilezione per gli ultimi pagani di Roma che condussero un’ esistenza sana, normale e serena.

Nel quarto volume de “ La storia della civiltà greca “, Burckhardt analizza tra le tante tematiche, l’ uomo del IV secolo che allontanandosi dallo Stato diventa uomo privato, in Grecia – sostiene Burckhardt – vi sarebbe stata una convinzione teorica di fondo secondo la quale vi sarebbe stata una piena sfiducia ad uscire dalla dimensione della patria; soprattutto i filosofi si allontanarono dalla Stato, non occupandosi più della polis, Platone si distinse per la sua utopia, Aristotele giunse ad una considerazione teoretica dello Stato.

Proprio in quanto liberi da mansione statali, i filosofi greci poterono dedicarsi interamente alla contemplazione [ Socrate è esaltato da Burckhardt per essere un libero pensatore alfiere di una vera libertà teorica ], l’ ironia socratica incontrò l’ odio di molti, una libertà apolitica si manifestò presso i cinici, ed in particolare modo in Diogene, che libero dalle illusioni era la “ sentinella avanzata della filosofia greca “ proprio per il suo disprezzo pratico verso il mondo e le opinioni degli uomini.

Diogene si era accorto della salute, della moderatezza e della libertà, la sua ascesi a differenza di quella cristiana non sacrificava il corpo, sia la Stoà che Epicuro rappresentano modelli eccelsi: lo scopo superiore di Epicuro [ a cui manca positivamente quel pathos che riecheggia nell’ insegnamento stoico ] fu lo stato sereno dell’ animo, la libertà dai dolori dell’ anima [ ataraxia ] e del corpo [ aponia ], il suo vivere in disparte era quindi funzionale per fuggire alla notorietà, alla cattiveria umana, lo stesso Burckhardt – scrive Loewith – si tenne in disparte dalla polis Basilea.

I filosofi greci seppero molto spesso rinunciare alle donne e ai figli, il celibato di Burckhardt si spiega con il fatto che non volle “ consegnare una famiglia nelle grinfie di quest’ epoca infame “, inoltre un altro aspetto importante sottolineato da Burckhardt è la difficoltà a condurre un’ esistenza a – politica.

Si crea un parallelismo tra la via crucis della polis e la crisi dello Stato moderno, nella polis greca l’ uomo era in tutto e per tutto “ polites “, la rottura con la dimensione statale politica fu sempre vista come una tragedia, Burckhardt dinanzi all’ ottica greca, hegeliana e marxista ha mostrato come l’ individuo voglia una propria e particolare esistenza, nello stesso tempo “ nell’ odierno egoismo dell’ uomo privato “ è presente la distruzione del rapporto tra il singolo e la generalità.

L’ individuo apolitico burckhardtiano ha quindi un interesse autentico verso la cultura intesa come elemento libero e multiforme, per Burckhardt l’ ellenizzazione è un fatto fondamentale per la storia in termini culturali, egli fa divenire la storia in un certo senso “ storia della cultura “, Tucidide è il padre del giudizio “ storico – culturale “, dove l’ espressione “ storico – culturale “ non significa rinuncia ad un complessivo giudizio politico, “ le concezioni di vita “, “ gli eventi esistenziali “ rientrano nell’ alveolo della cultura è in questo senso possiamo capire come Burckhardt poté intendere il “ Contratto sociale “ di Rousseau un evento più grande ed importante della Guerra dei sette anni.

La storia culturale dà rilievo ai fatti secondo un parametro proporzionale, analizzandoli nella misura in cui trovano un legame interiore con il nostro spirito e giungendo ad un grado massimo di certezza: lo studio storico pur non essendo una scienza [ la storia intesa come scienza rappresenta una forma della religione di oggi ], possiede molte cose degne di essere sapute, Burckhardt sottolinea l’ importanza di leggere direttamente le fonti, come nella storia cerca ciò è duraturo, così nell’ arte l’ estrema bellezza, grazie ad una particolare visione per immagini.

Burckhardt ammira il mito greco come fondamento culturale del mondo greco, inoltre tale mito non mirava ad un’ esattezza storica; nella storia e nella storia dell’ arte cerca di cogliere la grandezza storica ed il raro esteticamente, il bello si manifesta dove i legami con gli accadimenti storici vengono recisi, lo storico dell’ arte deve quindi imparare a vedere, infine l’ interesse per l’ arte non è una scappatoia estetica dagli eventi concreti, ma una via privilegiata per gli eventi stessi.

Come l’ arte ci fa presagire una seconda esistenza, così la considerazione storica ci riesce ad elevare dall’ irretimento degli eventi, per farci approdare ad una libera considerazione sugli enigmi della vita, egli – scrive Loewith – è capace di riunire il grande storico con la sete del bello.

Secondo Burckhardt noi vediamo con gli occhi dei Greci e parliamo tramite le loro espressioni, i Greci erano uomini che avevano il coraggio di desiderare veramente la bellezza artistica; nella valutazione estetica Burckhardt non segue i canoni classici, predilige Rubens avendo un notevole rispetto per il Barocco: la celebrazione del tempo della pittura storica esatta come del dramma storico, sono espressioni caduche dell’ arte, la pittura di Rubens [ il saggio su Rubens è del 1897 ] invece con i suoi “ quadri inesatti “ sopravvive al tempo, egli è un creatore del regno ideale di immagini.

Burckhardt dotato di un alto senso figurativo considera il mondo della storia artisticamente, con fantasia, questo – nota Loewith – lo distingue dalla scienza dell’ arte e della scienza storica: la storia della cultura ha come conseguenza una svalutazione dei singoli fatti.

Lo storico di Basilea amava i periodi sospesi a cavallo della linea di confine tra due epoche, mondo pagano – mondo cristiano, Medioevo – epoca moderna, le epoche delle rivoluzioni; il suo interesse per le crisi storiche era connesso al tema della sicurezza: crisi e sicurezza rientrano nella categoria della continuità storica, la teoria delle crisi è simile a quella delle tempeste storiche.

Le grandi crisi sono rare, l’ autentico insegnamento della storia, tra fratture e sconvolgimenti, consiste nel mostrarci come ciò che è stato perdura e ritorna in modo similare, il passato – continua Loewith [ opponendo in questo punto radicalmente Nietzsche a Burckhardt ] – non è una catena a cui siamo legati, ma una continuità mediante la cui conservazione libera e cosciente , l’ uomo storico si distingue dai barbari [ che sono tali per la loro mancanza di storicità ] antichi e da quelli moderni [ gli americani ].

Burckhardt alla fine de “ La storia della civiltà greca “ dice che proprio per la visione del passato e del futuro in una dimensione di continuità storica, nonostante i timori e le speranze, ci distacchiamo dagli animali.

L’ ottica continuativa storica rivela la storia della vita e della sofferenza dell’ umanità come totalità, in questo modo l’ uomo si libera dalla follia di sopravalutare le epoche passate e di disperare per il presente, la storia della cultura diviene in Burckhardt una saggezza sulla natura umana.

Lo spirito umano è eternamente uguale nelle sue poliedriche manifestazioni spazio – temporali, solo nel permanente si manifesta ciò che è transeunto e nell’ identico ciò che cambia, lo spirito umano riconosce la propria essenza in ciò che è stato e quindi nella propria storia, Burckhardt in questo senso scorge un punto d’ Archimede proprio nell’ uomo che soffre e patisce, recidendo la considerazione meramente storica della storia, il filo - conduttore del tempo progressivo è ciò che si ripete e perdura riecheggiando in noi e divenendo comprensibile.

Loewith può giustamente dire che Burckhardt si libera dell’ Historismus, dello storicismo e della storiografia di tendenza che interpreta il passato alla luce da una forma di intenzionalità nel presente; nella prospettiva burckhardtiana il passato è chiaramente connesso con il presente ed il futuro [ senza nessuno impianto di carattere teologico – metafisico, una considerazione quindi potremo dire “ debole “ ]; la cultura consiste nel fatto che l’ uomo storico vive contemporaneamente nel presente e nel passato e li confronta, mettendo in rilievo paralleli effettivi.

Burckhardt a differenza di Nietzsche non vede discrepanza ed opposizione tra vita e scienza, la storia è vicina alla vita nella misura in cui ogni cosa nella storia è presente a se stessa, ed in secondo luogo per il passato e per il futuro, la storicità è il cosciente continuum mediante il quale il passato sfocia nel presente, ricordando ciò che era si ricorda ciò che è, la concezione storica di Burckhardt – dice Loewith – è piena di vita senza essere di tendenza.

Le grandi causalità o connessioni per effetto delle quali l’ Europa divenne unita: in primis l’ ellenizzazione dell’ Oriente e il diffondersi del Cristianesimo nella decadenza dell’ Impero romano [ è interessante notare come Burckhardt difenda il Medioevo in quanto c’era più libertà ed autentica ricchezza spirituale rispetto all’ epoca moderna ]; in secundis il dissolversi dell’ unità cristiana nella Riforma ed il Rinascimento come inizio del mondo moderno [ le analisi sul Rinascimento di Burckhardt tendono a mostrare come lo Stato sia una forme d’ arte, all’ interno del periodo rinascimentale avviene una fusione tra la cristianità ed una ritrovata antichità ]; ed infine la Rivoluzione francese e le crisi.

Nel Rinascimento italiano sorge l’ uomo singolare che fa affidamento solo su se stesso e solo in questo modo diventa cosmopolita [ anche la donna acquista un ruolo importante all’ interno della società ], proprio le tirannidi rinascimentali permisero la nascita di individui nel senso pieno del termine: principi, condottieri, poeti e uomini di società.

Non è più l’ albero genealogico, ma l’ abilità e la nobiltà che rendono grande l’ uomo, tipici esempi sono per Burckhardt, Leon Battista Alberti e Cellini.

La riscoperta della Grecia, porta alla formazione dell’ individualità, Pico della Mirandola pone l’ uomo come plasmatore libero e superatore di se stesso al centro del mondo.

L’ individualismo è un pregio ed un difetto al tempo stesso, noi moderni non possiamo prescindere dal Rinascimento, ciò non conduce Burckhardt ad idealizzarlo sotto visioni ottimistiche, si limita a contemplare le punte di grandezza di quel tempo.

Per gli Umanisti l’ antichità era una norma inviolabile, essi assunsero la cultura antica sul versante scettico – negativo distruggendo la tradizione universale del Medioevo cristiano oltre ad a pervenire ad un alto concetto di sé; il Rinascimento pur non volendo sottrarsi alla Chiesa, portò – insieme alla Riforma – alla disgregazione del Medioevo.

Dopo queste breve excursus sul Rinascimento, Loewith passa in rassegna alla trattazione burckhardtiana relativa alla Rivoluzione francese e la crisi contemporanea.

La letteratura del XVIII secolo è un affare di cuore e un’ esigenza interiore, la crisi dell’ antichità sfocia nell’ Ottimismo della Rivoluzione di fine secolo; i primi decenni anteriori a questo evento, presentarono uno Stato assoggettato alla riflessione filosofica, l’ idea della sovranità popolare e di scambi e guadagni incondizionati con una Chiesa ridotta a elemento irrazionale.

Proprio in questo periodo sorge la crisi dello Stato, che poggia sulla contraddizione tra Stato e società, tra nazionale e sociale, la grande esperienza di fine secolo mostra come l’ opinione possa creare e modificare il mondo, se la stampa era stata per la Rivoluzione un’ influenza immediata, oggi – aggiunge Burckhardt – porta ad un livellamento.

Lo Stato nato dalla grande esperienza del 1789 tende ad una forma di autorità e centralizzazione illegittima, le sue caratteristiche essenziali sono il militarismo, il nazionalismo ed i debiti contratti.

Nel 1839 si tocca il vertice dell’ ottimismo, ossia l’ illusione di poter governare con lo Stato sorto dalla Rivoluzione, con qualche “ ulteriore modifica “; Burckhardt è propenso a vedere dopo il 1789 la morte dell’ autentico organismo sociale, con il successivo avvento di forme elevate di dispotismo e barbarie.

Ciò che Burckhardt ammira in Bismarck è il modo in cui gioca le carte d’ autorità nei confronti del movimenti del tempo [ con una punta di sottile ironia come nota Loewith ], il dispotismo bismarckiano che domina le masse porta ad una semplificazione, un processo che rende uniforme e monotona la vita [ già presente in Rousseau ]; Loewith afferma che lo sguardo burckhardtiano verso il futuro non si fonda come per Baudelaire e Dostoevskij su un’ intuizione poetico – profetica, ma su un sapere storico concatenato, negli eventi del suo tempo Burckhardt vedeva – i segni di un’ epoca iniziata con la Rivoluzione francese intesa come fine del Medioevo.

Burckhardt dice inoltre che in un tempo prossimo sia i democratici che i proletari consegneranno il mondo ad un dispotismo brutale sorretto da manipoli di militari presunti repubblicani: il carattere fondamentale dell’ Europa è la multiforme ricchezza del suo spirito, salverà l’ Europa chi allontanerà una forzata unità politico – religiosa ed quel processo di livellamento.

Nell’ ottica burckhardtiana sono tre le forze spirituali che hanno determinato l’ Europa: il mito antico in primis, il dogma cristiano in secundis ed infine lo spirito rinascimentale da esso liberatosi.

Noi moderni non possiamo comprendere il mito né per via allegorica né per via razionale, all’ interno del mito rientra la fantasia legata alla figura, una poesia intesa come sapere sul mondo, gli dei nella loro umanizzazione non negano la libertà dell’ agire e non sono fenomeni spiegabili in termini naturalistici, infine la lingua greca è inesauribile nel produrre sostantivi astratti e nomi di ciò che è veduto.

In “ Il paese dei Feaci di Omero “ ( 1876 ), Burckhardt descrive la superiore esistenza degli uomini omerici [ Odisseo è un modello assoluto ] che non furono tormentati dagli ideali, ma goderono di un felicità relativa [ Loewith scrive che Burckhardt conosceva molto bene lo sfondo notturno ed oscuro della serenità greca ]; la Moira posta al di là del bene e del male aveva la meglio pure sugli dei, ciò che caratterizza in modo peculiare questa civiltà è la mancanza di una teologia valida universalmente, di una sacra scrittura e di una casta sacerdotale [ i sacerdoti dovevano solo compiere rituali e sacrifici.

Il politeismo greco fu sempre libero da ogni sistematizzazione teologica, le stesse teogonie avevano una origine popolare, nemmeno Delfi pronunciò  mai una verità religiosa di valore universale; la religione frutto spontaneo dei Greci non imponeva nessuna ascesi, la moralità e la santità erano dunque estraneo a tale religione.

Era comunemente creduto che l’ infelicità umana dipendesse dall’ invidia degli dei, erano gli uomini stessi a giudicare il carattere dei loro dei nonostante la presenza dei sacrifici; solo con la Stoà si credette che il mondo fosse opera degli dei, nel II secolo d.C. nacque la superstizione e si fece avanti l’ ateismo di Luciano, connessa all’ angoscia per morte, proprio su questo punto il Cristianesimo con la sua potente immagine dell’ eternità prenderà il posto del paganesimo.

Dalla ceneri del paganesimo sorge e prende piede un Cristianesimo [ queste analisi compaiono nel  “ Costantino “ di Burckhardt ], che farà leva sulla demonizzazione [ e di de – nazionalizzazione ] dello stesso paganesimo, su un processo di misticizzazione [ i sacrifici sono ora legati ad elementi astrologici e demonici ]: le esigenza dell’ al di là sono semplificate dalla nascente escatologia cristiana, si passa dall’ eroe dell’ antichità al martire cristiano.

Il cristianesimo originario non apparteneva a questo mondo terreno, ma risultava essere una dottrina del superamento del mondo in attesa del ritorno del Signore, ma ben presto divenne religione di Stato, che restaurò il decadente Impero romano.

La Chiesa con la gerarchia, il potere sacerdotale, la teologia e l’ ortodossia diventa una potenza politica [ anche mediante le varie donazioni ], il monoteismo cristiano si ricollega all’ unità dell’ Impero romano; proprio con Costantino il cristianesimo è riconosciuta come religione di Stato e vengono riconosciute le corporazioni ecclesiastiche.

In questo modo la politica mondana assume una forma di supplemento e giustificazione religiosa, il Cristianesimo per mille anni tiene unita differenti nazionalità.

Nell’ arte bizantina – scrive Burckhardt – manca la multiforme libertà della fantasia greca, ciò a causa del prevalere del contenuto sulla forma fa sì che il Cristianesimo sostituisca alla scultura la pittura ed il bassorilievo.

Nonostante Burckhardt critichi la teologia negativa e dica che i tempi migliori della Chiesa siano passati, sostiene che il punto di vista della Chiesa è ancora profondamente legittimo [ il Cristianesimo originario è in contrasto con quello “ più capzioso dei nostri giorni “ ], ma ormai la morale è altra cosa rispetto alla religione, la filantropia domina la scena, giungendo a prospettive ottimistiche.

Burckhardt era conscio del fatto che la moralità rappresentasse un momento di scissione, inoltre i moderni non potrebbero mai vivere nella polis greca o in una confessione cristiana, ci è impossibile credere agli dei greci ed in Cristo.

Se la teologia storica appare agli occhi di Burckhardt poco allettante in quanto sono stati sondati tutti i punti di vista, non si può ripristinare il Cristianesimo originario, di esso è rimasto solo una morale difficilmente chiamabile religione.

Nella Grecia antica dominava una libera spiritualità che si fondava sulla multiformità della vita; la fama degli antichi era qualitativo – spirituale e l’ invidia esplodeva in pubblici attacchi, la fama odierna è legata al denaro, solo nella Firenze rinascimentale si trovava una pari sete di fama come quella antica.

L’ uomo rinascimentale mediante lo studio degli autori classici fa divenire il suo animo colmo di desiderio di fama e di notorietà personale, un’ esigenza di farsi valere all’ esterno connessa all’ adorazione per gli uomini celebri che eccelsero in virtù.

I poeti – filologi hanno coscienza di essere arbitri della fama altrui, Aretino è il primo giornalista nella misura in cui avverte un bisogno continuo di pubblicare; ciò che è interessante notare è il passaggio dal Santo all’ uomo celebre rinascimentale, dall’ ideale di vita cristiano alla grandezza storica, una mondanizzazione dell’ uomo connessa al calcolo di fortuna e sfortuna [ sorge anche il sentimento dell’ onore ].

Il sentimento dell’ onore nasce dalla riscoperta della soggettività operata dai moderni e a precise limitazioni, la fantasia inoltre conferisce alla vendetta un carattere particolare, ciascuno difende se stesso alla luce di ciò che vuole.

Burckhardt lungi dall’ offrire un’ idealizzazione del Rinascimento, era perfettamente conscio della presenza di egoismo ed infedeltà, di immoralismi evidenti, la Chiesa in questa situazione aveva la maggior parte delle colpe.

I ceti alti e medi avevano un’ avversione antigerarchica, ciò non impedì la nascita dei grandi predicatori, primo far tutti il noto Savonarola che operò a Firenze: peggiore fu la situazione politica italiana migliore e più luminosa divenne la figura del predicatore.

Il Rinascimento italiano riscopre i classici con una forza ed un’ energia spirituali unici, ricomincia a pensare e a scrivere come gli antichi, già Dante aveva fatto una trattazione parallela del mondo pagano e di quello cristiano: l’ antichità non più considerata pericolosa come un tempo, è fonte di un grande entusiasmo irripetibile nella storia.

Luca della Robbia nel famoso fregio di marmo della balaustra dell’ organo del duomo di Firenze, è stato in grado di riprodurre l’ armonia della grecità; la Chiesa si servì dei più importanti talenti dell’ epoca per onorare le storie dei suoi personaggi, senza alcun riguardo per gli stili del passato.

Ormai nel XIX secolo non compaiono più individui singolari – universali del Rinascimento, l’ uomo della cultura generica legato alla sicurezza ha sostituito una dimensione di competizione tra i migliori; la soggettività degli uomini rinascimentali li rendeva del tutto mondani, capaci di distinguere il bene dal male, speravano di ricostruire l’ armonia con la propria forza, non conoscevano il peccato ed il pentimento, non avendo bisogno di nessuna redenzione.

Il dogmatismo medioevale non può più avere nessun effetto sul libero studio rinascimentale dei classici e verso un’ indifferenza religiosa prossima all’ ateismo [ senza mai svilupparlo ], si realizza quindi una paganizzazione del Cristianesimo con l’ avvento di superstizioni astrologiche, e sconvolgimenti nella fede nell’ immortalità dell’ anima: come direbbe Hegel per la Modernità, il Rinascimento è per Burckhardt un passaggio dai cieli della metafisica ad una dimensione prettamente terrena.

Dinanzi alla miscredenza la Chiesa cercò con Leone X nel 1513 di porvi rimedi, il libro di Pomponazzi in cui si mostra l’ impossibilità filosofica di dimostrare l’ immortalità dell’ anima ebbe notevoli conseguenze; la riscoperta dello scritto ciceroniano “ Il sogno di Scipione “ con le sue “ idee liberali “ sull’ al di là sortì un’ influenza sullo stesso Tetrarca.

La religiosità assunse la forma di un teismo, suo centro fu l’ Accademia neo – platonica di Firenze ed in particolare Lorenzo il Magnifico svolse un ruolo chiave per la cultura del tempo: il mondo è considerato come un grande cosmo morale e fisico, sorgono una serie di uomini superiori che pensano che il mondo sensibile sia stato creato per amore di Dio.

L’ arte pur nutrendosi di compiti e di temi ecclesiastici [ pur non essendo seriamente credente ] offrì un’ immagine del mondo reale, l’ uomo moderno invece – scrive Burckhardt – non ha sensibilità per ciò che è simbolico; ogni epoca artistica ha bisogno di un ciclo di pensieri significativi.

La nostra epoca proprio perché fondata sul progresso tecnico, pensa, agisce e costruisce solo “ fino alla prossima volta “, Loewith mostra che l’ eternità come la intende Burckhardt sia – come lo stesso autore di Basilea afferma: “ una durata del tempo che di volta in volta si verifica “.

Solo la civiltà greca e romana era in grado di pensare per immagini immediatamente e chiaramente eloquenti, dando così una forma ai cosiddetti abstracta; Burckhardt limita l’ espressione “ allegoria “ al linguaggio dell’ arte [ la Pace con aspetto di dama imponente in Rubens ], ed intende la rappresentazione di qualcosa di generale sotto forma umana ( forza, qualità, situazioni ), le attività che condussero gli uomini alla potenza culturale – storica ebbero bisogno di allegorie.

I Greci in questo furono allegorici notevolmente zelanti dando forma a cose astratte, allegorie di tipo religioso, politico, e naturale; le doti fondamentali di tale civiltà furono l’ astrazione e la visione figurativa.

Rubens – dice Burckhardt – è l’ ultimo grande narratore dopo Omero, egli seppe rappresentare la totalità del mondo umano e naturale in tutte le sue manifestazioni [ nei quadri di Rubens la splendente temporalità rappresentata spiritualmente e fisicamente conchiusa in sé è priva di interventi esterni ], nello stesso tempo la sua epoca era diversa dalla nostra, in quanto dominata da un’ unità universale condizionata storicamente dalla tradizione cristiano – cattolica e dall’ unità del mondo antico, la sua trasfigurazione gli permise di coglierne l’ essenza spirituale.

L’ ammirazione Burckhardt per Rubens, si comprende alla luce della stessa tesi secondo la quale la storia non consiste di un insieme di fatti rigidi, gli avvenimenti avevano per lui un valore storico nella misura in cui potevano interessare all’ uomo.

Burckhardt rinuncia alla vita pratica per il vero godimento, gode – aggiunge Loewith – nella sua stessa rinuncia rispetto ad una situazione storico – culturale corrotta ed insignificante, fu un pessimista pratico ed un ottimista teoretico, sottraendosi alla prassi politica: l’ ascesi era come per Diogene, un modo per pervenire all’ indipendenza ed alla libertà nel mezzo del mondo, il piacere di cui Burckhardt è fruitore è quindi un giocoso stato d’animo con il quale l’ uomo sta in pace con se stesso.

Seguendo questo modello “ tardo antico “, la rinuncia diviene la reale possibilità di godersi la ricchezza del mondo, e non risulta problematica la sua ammirazione per la forma e la pienezza di vita di Rubens con l’ astensione dalla prassi: il vero poeta ed artista non dovette scrivere per aver successo, bensì pratico una spartana rinuncia.

A differenza dell’ uomo moderno che guarda solo al mondo stampato, Burckhardt gioiva per tutto il mondo visibile dotato di fascino, anche delle più piccole cose quotidiane [ gli utensili della vita quotidiana in Grecia, la rete del pescatore offerta a Poseidone o il bastone del pastore a Pan ].

Burckhardt [ da vero moderno ] – ha modo di dire Loewith – non era né un operaio intellettuale dell’ azienda scientifica né si crogiolava in una cultura di lusso, egli vedeva il suo lavoro come “ un’ occupazione “ e un’ attività dilettantesca senza nessun interesse per il guadagno, spinta solo dall’ amore, in una dimensione di fruizione intellettuale: l’ intellettuale non deve svendersi, ma mantenere nella crisi una libertà spirituale.

La sua decisione di astenersi dalla prassi va analizzata alla luce di un tentativo di autodeterminazione, l’ epoca storica in cui vive lo influenza, ma non lo determina; Burckhardt incarna il modello dell’ autarchia greco, autosufficienza e misuratezza.

Lo storico di Basilea apprezzava la virtù greca della moderazione e della misura [ presente in Raffaello ma non in Michelangelo ], anche in Rubens nonostante la ricchezza e la pienezza vitale, era possibile scorgere una certa moderazione.

Il sobrio pessimismo burckhardtiano, il suo essere riservato, lo portarono a intrecciare legami “ intimi e convenzionali “, nonostante ciò racchiuse sempre una profonda fermezza interiore, un coraggio ed autarchia – che come scrive Loewith – Nietzsche non conobbe mai.

Se da un lato i Greci per Burckhardt tenevano in gran conto la salute non ponendo divario tra l’ interiorità e l’ esteriorità, nei confronti del Cristianesimo, come afferma lo stesso Overbeck, tenne una posizione “ disinvolta “.

L’ autobiografia burckhardtiana è l’ opposto di quella dell’ “ Ecce homo “ di Nietzsche; i prototipi di coloro che soffrono sono secondo Burckhardt, Ercole e Ulisse.

Soffermandosi sul rapporto tra Cristianesimo e mondo classico, Loewith nota come la preoccupazione di godere di buona fama presso i posteri sia interiorizzata mediante l’ influenza cristiana.

Burckhardt vedeva la sua vita rispecchiata nell’ opera di Plutarco, nelle sue teorie sulla vita, secondo le quali la cosa più viva ed importante è la cultura, proprio in questo senso Loewith può affermare che Burckhardt sia un promotore della paideia, all’ interno di un’ epoca ormai prossima al trionfo della materia, una posizione conservatrice fu la sua unica scelta.

L’ arte non sostituisce la realtà ma la trasfigura in rari attimi nel modo più alto, nel rifiuto dell’ impostazione hegeliana, del purus philosophus, Burckhardt giunse ad una chiara considerazione delle domande esistenziali: il problema fondamentale burckhardtiano era il rapporto tra la libertà umana e la necessità dell’ accadere storico, analisi che non acquistò mai una dimensione concettuale ed una soluzione filosofica tout court, ma nello stesso tempo fu sempre lungi dall’ accettare le soluzioni proposte dalla filosofia greca, dalla teologia cristiana, dalla cultura rinascimentale e dalla riflessione hegeliana.

La filosofia greca non ha – secondo Burckhardt – prodotto nessun risultato di rilievo, in quanto è legata ad una forma di fatalismo; gli italiani del Rinascimento si dedicarono alla riflessione sulla dialettica libertà – necessità, superando i limiti del modo greco di pensare, grazie alla riscoperta dell’ individualità connessa alle capacità umane ed al libero arbitrio.

Nella considerazione storica, Burckhardt [ legata ad una scelta di libero e contemplante scetticismo ] è in grado di superare spiritualmente i ceppi della necessità, solo mediante la contemplazione si può assurgere ad una prospettiva oggettiva come unica espressione di libertà [ in questo è stato influenzato da Pico della Mirandola ], Loewith può giustamente dire che Burckhardt oltre a demistificare le tesi relativa all’ idealità della Grecia, condivise il pessimismo greco [ unito all’ ottimismo intellettuale e creativo ], quella valutazione prettamente negativa dell’ esistenza, vedendo in Erodoto il massimo alfiere antico che si scagliò contro la futilità del mondo [ verso Agostino invece nutrì una forte antipatia ].

 

 

 


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