A cura di Claudia Bianco
Per comprendere
la riflessione sull’arte condotta da Martin Heidegger (1889-1976) nel saggio L’origine
dell’opera d’arte (Der Ursprung des Kunstwerkes, 1935) , è necessario
collocare questo testo nel quadro del percorso speculativo intrapreso
dall’autore negli anni successivi alla pubblicazione di Essere e tempo
(1927) , quando emerge la necessità di abbandonare il progetto di un’analitica
dell’esistenza in favore dell’elaborazione di un nuovo pensiero dell’essere,
che prenda le mosse da una comprensione del senso e della storia della
metafisica. Già in Essere e tempo Heidegger aveva mostrato come il
pensiero filosofico elaborato dalla tradizione europea fosse caratterizzato
sostanzialmente da una comprensione dell’essere come semplice-presenza (Vorhandenheit)
e obiettività . Secondo questa tradizione- che nelle sue linee
essenziali sarebbe rimasta invariata da Parmenide a Nietzsche- è, in
senso pieno, ciò che sussiste, è incontrabile, si dà nella sua presenza
e visibilità. L’essere , in altre parole, sarebbe stato pensato come
analogo all’ente , alla cosa (res), rimuovendo e dimenticando la
fondamentale differenza ontologica che li separa. In correlazione con
questa concezione dell’essere come ente e come oggetto posto di fronte alla
coscienza (ob-jectum), il pensiero metafisico moderno avrebbe poi
prodotto la concezione di un soggetto concepito non più quale semplice
substrato (hypokeimenon,sub-stantia,sub-jectum) portatore di qualità e
accidenti, bensì quale io conoscente (ego cogitans) , soggetto
puro, trascendentale, puro occhio sul mondo, fondamento della verità in quanto
luogo del suo manifestarsi come presenza evidente. La correlazione conoscitiva
tra soggetto e oggetto avrebbe quindi dato luogo a una concezione della verità
come conformità o adeguazione tra linguaggio, pensiero ed ente, adaequatio
rei et intellectus.
Se il filo
conduttore dell’analitica esistenziale sviluppata in Essere e tempo era
stato il tentativo di ritematizzare il rapporto tra essere e temporalità e di
chiarire la dimensione concreta di quell’io pensato dalla filosofia neokantiana
e dalla fenomenologia come io puro e come soggettività trascendentale, negli
scritti degli anni Trenta Heidegger mette al centro della propria riflessione
il problema della metafisica e della sua storia, soffermandosi sulle figure
chiave di Cartesio, Leibniz e Nietzche. La tesi che sviluppa in questo periodo
è quella secondo cui la metafisica, nel suo insieme e nella pluralità di forme
che ha assunto storicamente, sarebbe caratterizzata da un oblio dell’essere
, ossia dalla tacita precomprensione dell’essere come nozione ovvia, che non ha
bisogno di ulteriori spiegazioni. Tale oblio della differenza ontologica tra
essere ed ente avrebbe trovato poi un pieno dispiegamento nell’avvento di un
mondo caratterizzato dal primato della tecnica , dove l’essere dell’ente
non è più neanche remotamente qualcosa che occorre cercare oltre l’ente stesso,
bensì il suo effettivo funzionamento all’interno di un sistema strumentale
subordinato alla volontà del soggetto. Nel mondo della tecnica il pensiero
diviene esso stesso strumento per la soluzione di problemi interni alla
totalità strumentale degli enti, ed è finalizzato al raggiungimento di una
razionalità sempre più perfetta ed efficiente.
Collocato sullo
sfondo di questa riflessione sul senso della metafisica, il saggio L’origine
dell’opera d’arte viene a occupare una posizione centrale nello sviluppo
del pensiero heideggeriano, in quanto scritto in un periodo nel quale alla
riflessione sulla storia e sul senso della metafisica si affianca il tentativo
di sviluppare un nuovo pensiero sull’essere e sulla verità, a partire dalla
rielaborazione di alcuni tempi centrale di Essere e tempo . Come è
noto, la stesura di questo testo era stata interrotta da Heidegger essendo
emersa la necessità di operare un radicale ripensamento del linguaggio
filosofico. Superare la metafisica, infatti, non poteva significare
semplicemente parlare di ciò che la metafisica ha sempre taciuto, ossia
dell’essere, per darne una nuova “definizione” o elaborarne un nuovo
“concetto”, più “adeguato”, più “vero” . L’elaborazione di un pensiero
dell’essere alternativo a quello della metafisica, secondo Heidegger, doveva
innanzitutto rifiutarne la terminologia e ripensarne radicalmente i concetti
fondanti, a partire da quelli di cosa, ente e verità. E
proprio a un tentativo di riformulazione del problema della verità è dedicato
il saggio sull’opera d’arte, in cui si annunciano inoltre alcuni temi che
saranno al centro della successiva riflessione heideggeriana: la concezione
dell’essere come evento e il ruolo ontologico del linguaggio, argomento
sviluppato in seguito da Heidegger in quel “dialogo storico-ontologico con i
poeti” che prende avvio proprio nel saggio del 1935 e nel testo della
conferenza intitolata Hoelderlin e l’essenza della poesia, del 1936.
In apertura del
saggio Heidegger chiarisce che riflettere sull’origine dell’opera d’arte
significa riflettere sulla sua essenza: “Origine significa,qui,ciò da
cui e per cui una cosa è ciò che è ed è come è. Ciò che qualcosa è essendo
così com’è, lo chiamiamo la sua essenza, L’origine di qualcosa è la
provenienza della sua essenza. Il problema dell’origine dell’opera d’arte
concerne la provenienza della sua essenza”. Intraprendere la ricerca
dell’essenza dell’opera d’arte secondo le opinioni comunemente
accettate,tuttavia, ci conduce subito in quello che appare un circolo vizioso
da cui non si può uscire: l’opera d’arte sembra essere take in virtù
dell’attività dell’artista che la crea e del nostro concetto di arte, mentre a
loro volta l’arte e l’attività artistica sembrano poter essere definite solo a
partire dalle opere d’arte. Tale circolo non deve però essere
rimosso:”dobbiamo muoverci nel circolo”, sostare nella contraddizione da esso
evidenziata, nella co-appartenenza di arte e opera. Per tentare di pervenire a
comprendere l’essenza dell’arte Heidegger decide allora di partire dal concetto
comune di cosa : le opere d’arte, nella loro materialità e
maneggiabilità, sembrano infatti appartenere al dominio delle cose, benché non
come “mere cose”, ma come cose a cui inerisce qualcosa d’altro . Ma
cos’è una cosa? Per giungere a una comprensione dell’esser-cosa dell’opera ,
Heidegger ripercorre le dottrine tradizionali intorno all’ente o alla cosa,
mostrandone l’insufficienza: l’opera non può essere compresa nella sua essenza
né rifacendosi ai concetti di cosa come sostrato o sostanza (hypokeimenon,sub-stantia),
né come sintesi di una molteplicità di percezioni sensibili (aistheton)
o come unione di materia (hyle) e forma (morphe). In particolare,
rinunciare alla coppia concettuale materia-forma significa, e Heidegger lo
sottolinea, rinunciare allo “schema concettuale classico di ogni teoria dell’arte
e di ogni estetica”, uno schema che ha costituito l’asse portante della
riflessione sull’arte da Platone a Hegel e oltre, e in base al quale sono stati
elaborati concetti chiave dell’estetica come quelli di creazione e imitazione.
Una volta
chiarita l’insufficienza delle concezioni della cosa che emergono da un’analisi
della tradizione filosofica, Heidegger, nell’intento di comprendere l’essenza
dell’opera a partire proprio dalla sua cosalità, si rivolge al concetto
di cosa come strumento, da lui stesso elaborato in Essere e tempo.
Già nell’analitica esistenziale di Essere e tempo aveva infatti
sviluppato una netta critica del concetto di cosa come res inerte e come
semplice-presenza , proponendo una concezione della cosa come strumento
caratterizzato dall’utilizzabilità (Zuhandenheit) e dal rimandare
ad altro: lo strumento è sempre strumento-per-qualcosa- e si rapporta a una
concezione dell’esistenza dell’uomo come essere-nel-mondo caratterizzato
dall’apertura verso il poter-essere e dalla progettualità. Nel saggio L’origine
dell’opera d’arte Heidegger riprende la concezione dell’opera come
strumento-per, come mezzo, ma con una sostanziale differenza rispetto a Essere
e tempo: il chiarimento dell’esser-mezzo del mezzo viene sviluppato non a
partire dall’attività progettante dell’uomo, bensì attraverso l’analisi di
un’opera d’arte, di una rappresentazione figurativa, un quadro di Van Gogh che
raffigura un paio di scarpe da contadino. E’ qui che viene in luce qualcosa
che la descrizione di un paio di scarpe effettivamente presenti non avrebbe
potuto attingere: l’esser-mezzo del mezzo, la sua essenza, risiede in qualcosa
di più profondo della semplice “utilizzabilità” di cui parlava Essere e
tempo , risiede nella sua “fidatezza” (Verlassigkeit) ; “In virtù sua
la contadina confida, attraverso il mezzo, nel tacito richiamo della terra; in
virtù della fidatezza del mezzo essa è certa del suo mondo. Mondo e terra ci
sono per lei, e per tutti coloro che sono con lei nel medesimo mondo (…) la
fidatezza del mezzo dà al mondo immediato la sua stabilità e garantisce alla
terra, la libertà del suo afflusso costante. L’esser-mezzo del mezzo, la
fidatezza, tiene unite tutte le cose secondo il loro modo e la loro ampiezza.
L’usabilità del mezzo non è che la conseguenza essenziale della fidatezza”.
La vera natura
della cosa come mezzo è stata dunque stabilita non attraverso l’analisi di un
ente concretamente esistente, ma ponendosi di fronte a un’opera d’arte, a un
quadro, e quindi a un’immagine. Ed è proprio in relazione a questa
capacità dell’opera di rivelare la verità del mezzo che Heidegger presenta la
tesi centrale del saggio “Ciò che abbiamo potuto stabili è l’esser-mezzo del
mezzo. Ma come? Non mediante la descrizione e l’analisi di un paio di scarpe
qui presenti. Non mediante l’osservazione dei procedimenti di fabbricazione
delle scarpe, e neppure mediante l’osservazione di qualche uso di calzature.
Ma semplicemente ponendoci innanzi a un quadro di Van Gogh. E’ il quadro che
ha parlato. Stando nella vicinanza dell’opera ci siamo trovati improvvisamente
in una dimensione diversa da quella in cui comunemente siamo. L’opera
dell’arte ci ha fatto conoscere che cosa le scarpe sono in verità (…) è
solo nell’opera e attraverso di essa che viene alla luce l’esser mezzo del
mezzo. Che significa ciò? Che cos’è in opera nell’opera? Il quadro di Van Gogh
è l’aprimento di ciò che il mezzo , il paio di scarpe, è (ist) in
verità. Questo ente si presenta nel non –nascondimento (Unverborgenheit)
del suo essere, il non-esser-nascosto dell’ente è ciò che i Greci chiamavano aletheia.
Noi diciamo:’verità? , e non riflettiamo sufficientemente su questa parola .
Se ciò che si realizza è l’aprimento dell’ente in ciò che esso è e nel come è, nell’opera
è in opera l’evento (Geschehen) della verità . Nell’opera d’arte la verità
dell’ente si è posta in opera. ‘Porre’ significa qui: portare a stare. In
virtù dell’opera, un ente, un paio di scarpe, viene a stare nella luce del suo
essere. L’essere dell’ente giunge alla stabilità del suo apparire. L’essenza
dell’arte consisterebbe quindi nel porsi in opera della verità dell’ente (das
Sich-ins-Werk-Setzen der Wahrheit des Seieden)”.
L’arte ha dunque
essenzialmente a che fare con la verità, e la riflessione sull’arte non
può non assumere i tratti di una speculazione ontologica che conduce a una
riformulazione del problema dell’essere dell’ente. Dire che l’arte consiste
nel porsi in opera della verità, tuttavia, non significa affatto riproporre una
concezione dell’arte come imitazione o riproduzione della realtà,
in base alla tesi secondo cui la verità è adeguazione tra pensiero e
ente, concetto e cosa, segno e designato, copia e modello. Il quadro di Van
Gogh non ci ha rilevato l’essenza del mezzo imitando un paio di scarpe
concretamente esistente, non si è posto come copia o ri-presentazione
di un modello esterno e precedentemente esistente. Come chiarisce Gadamer in Verità
e metodo parlando di “valenza ontologica dell’immagine”, nel testo
heideggeriano viene in luce il fatto che l’immagine come opera d’arte non deve
essere intesa come immagine-copia (Abbild) subordinata a un modello, ma
come immagine (Bild) capace di manifestare la presenza del
rappresentato e di porlo come originale (Ur-bild) . E’ infatti
nell’inseparabilità ontologica tra immagine e rappresentato che
quest’ultimo accede alla propria verità. Come scrive Heidegger, “ciò che è in
opera nell’opera è l’apertura (Eroffnung) dell’ente nel suo essere, il
farsi evento della verità (das Geschehnis der Wahrheit)”.
A partire da tali
asserzioni appare sempre più chiaramente che proprio sul concetto di verità
come non-nascondimento (Unverborgenheit) – termine con cui
Heidegger riprende il senso del greco aletheia , “verità” (composta da a-privativo
e letho o lanthano , “restare nascosto) – verte la riflessione
del filosofo tedesco sull’opera d’arte. Questa deve essere sottratta alla sua
precomprensione all’interno dell’estetica, della critica e della storia
dell’arte al fine di enucleare il farsi evento della verità che in essa ha luogo,
mostrando al tempo stesso come la verità sia intrinsecamente attraversata da
una dinamica di svelamento e nascondimento.
A questo
proposito Heidegger ricorre alla “descrizione” di un’altra opera, un tempio
greco. Questo, delimitando una regione sacrale e racchiudendo al suo
interno la statua del Dio, “dispone e raccoglie intorno a sé l’unità di quelle
vie e di quei rapporti in cui nascita e morte, infelicità e fortuna, vittoria e
sconfitta, sopravvivenza e ridona delineano la forma e il corso dell’essere
umano nel suo destino. L’ampiezza dell’apertura di questi rapporti è il mondo
di questo popolo storico”. Come scrive Heidegger , il tempio, “in quanto
opera, espone un Mondo (…) mantiene aperta l’apertura del Mondo”. Al tempo
stesso ,però, il tempio, come ogni opera, riconduce questo stesso Mondo alla
Terra da cui esso proviene, una Terra concepita come fondamento generatore e al
tempo stesso come chiusura e negazione: “La Terra è ciò in cui il sorgere riconduce, come tale, tutto ciò che sorge come nel proprio
nascondimento protettivo. In ciò che sorge è presente la Terra come la nascondente-proteggente (als das Bergende)”. Essere un’opera
significa,dunque, “esporre (auf-stellen) un Mondo”, aprire e rivelare un
insieme di relazioni istituenti la vita e la storia di una comunità , e al
tempo stesso “porre-qui (hier-stellen) la Terra”, ossia lasciar emergere ciò che fonda ritraendosi e chiudendosi in sé: Se però
“esporre un Mondo e porre qui la Terra sono due tratti essenziali dell’esser
opera dell’opera” e se nell’opera accade il porsi in opera della verità, è
evidente che i due termini correlativi di Mondo e Terra hanno un significato
che deve essere chiarito in relazione sia all’essenza dell’opera che a quella
della verità.
In base al
riferimento alla coppia Mondo-Terra, la verità non deve essere pensata né come
evidenza né come adeguazione, bensì come “il non-esser-nascosto dell’ente (die
Unverborgenheit des Seiendes), riprendendo il termine greco aletheia ,
ma non nel senso di semplice “svelamento” bensì come dinamica di nascondimento
e non-nascondimento, illuminazione (Lichtung) che si staglia sempre
sullo sfondo di un orizzonte di oscurità: “L’ente può essere come ente solo se
si immerge e emerge dal seno dell’illuminato di questa illuminazione. (…)Grazie
a questa luce, l’ente è non-nascosto in una misura particolare e mutevole. Lo
stesso esser-nascosto dell’ente è possibile solo nel dominio di questo
illuminato. Ogni ente che incontriamo e4 che ci accompagna sottostà a questa
singolare natura oppositoria dell’esser-presente, poiché nel contempo si ritira
nel nascondimento. L’illuminazione in cui l’ente si mantiene è parimenti un
nascondimento (Verbergung ) (…) Il luogo aperto nel mezzo dell’ente,
l’illuminazione, non è mai uno scenario immobile, a sipario costantemente
sollevato, in cui si svolge la rappresentazione dell’ente. L’illuminazione ha
invece luogo soltanto nell’ambito di questo duplice nascondimento”.
Riprendendo un
tema già affrontato nel saggio L’essenza della verità, del 1930 Heidegger
sostiene dunque che occorre pensare la verità come apertura e svelamento e, al
tempo stesso, come oscurità e nascondimento, ossia come “non –verità” :
“L’essenza della verità, cioè il non-esser-nascosto, è pervasa da un diniego.
Questo diniego non è affatto una mancanza o un difetto, come se la verità fosse
un semplice non-nascondimento liberatosi da ogni impaccio. Se ciò fosse
possibile, il non-esser-nascosto non sarebbe più se stesso. E’ all’essenza
stessa della verità come non-esser-nascosto che questo diniego appartiene nella
forma del duplice nascondimento. La verità, nella sua essenza stessa, è
non-verità”.
Se da un lato la
coppia Mondo-Terra può essere intesa come modo per contestare la concezione
metafisica della verità come presenza ed evidenza, mostrando la costitutiva
compresenza di svelamento e nascondimento, dall’altro la dinamica tra questi
due termini- dinamica descritta da Heidegger anche come “contrapposizione4” e
“lotta originaria” – mostra che ogni opera, nel momento stessi in cui apre un
mondo, offrendo una totalità comprensibile di significati e una nuova
prospettiva sull’ente, mantiene in sé una riserva di significato mai
definitivamente esplicitabile. L’opera è, costitutivamente, un darsi e
un ritrarsi, e il porsi in opera della verità che in essa accade deve
essere inteso come un’instaurazione (Stiftung) che è al tempo stesso
“fondazione” e “donazione” , dono libero e immotivato ma proveniente da
un orizzonte che rimane costitutivamente non esplicitato. A questa dinamica
dell’apparire e del nascondimento Heidegger riconduce poi la stessa nozione di
bellezza: “Ponendosi in opera, la verità appare. L’apparire, in quanto apparire
di questo essere-in-opera e in quanto opera, è la bellezza. Il bello rientra
pertanto nel farsi evento nella verità”.
Nell’ultima
sezione del saggio, intitolata “Verità e arte”, ai temi fin qui esaminati se ne
aggiunge un altro: il ruolo del linguaggio nel porsi in opera della verità.
Già in Essere e tempo il linguaggio occupava una posizione peculiare, in
quanto, come segno e come rimando, rendeva manifesta la stessa struttura
ontologica dell’essere-nel-mondo dell’uomo. Ora esso si presenta come il modo
stesso di aprirsi della verità dell’ente. Come scrive Heidegger,”La verità,
come illuminazione e nascondimento dell’ente, si storicizza se viene poetata (gedichtet).
Ogni arte, in quanto lascia che si storicizzi l’avvento della verità dell’ente
come tale, è nella sua essenza Poesia (Dichtung) , ossia creazione e
istituzione del nuovo, apertura di un mondo: E poichè l’apertura di un mondo
accade innanzitutto e fondamentalmente nel linguaggio, il linguaggio stesso,
nel suo “senso essenziale” , è Dichtung : “Abitualmente il linguaggio è
inteso come una specie di comunicazione . Serve alla conservazione e
all’accordo , cioè, in genere, alla comprensione interumana. Ma il linguaggio
non è soltanto e in primo luogo l’espressione orale e scritta di ciò che deve
essere comunicato. Esso non si limita a trasmettere in parole e frasi ciò che
è già rivelato o nascosto ,ma, per prima cosa, porta nell’Aperto l’ente in
quanto ente. Là dove non ha luogo linguaggio di sorta, come nell’essere della
pietra, della pianta e dell’animale, non ha neppur luogo alcun aprimento
dell’ente e quindi nessun aprimento del non-essente e del vuoto. Il
linguaggio,nominando l’ente, per la prima volta lo fa accedere alla parola e
all’apparizione”. Il tema della valenza ontologica del linguaggio e della
poesia come evento e come “istituzione in parola dell’essere”, “nominare
che istituisce l’essere e l’essenza di tutte le cose”, annunciato nell’ultima
parte del saggio sull’opera d’arte, diventerà sempre più centrale nella
riflessione heideggeriana successiva, a cominciare dal testo della conferenza
su Hoelderlin e l’essenza della poesia, per proseguire con i saggi
raccolti nel volume In cammino verso il linguaggio (1959).
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