La stesura della
Critica della facoltà di giudizio (Kritik der Urteilskraft, 1790)
corona un intenso decennio di attività speculativa in cui Immanuel Kant
(1724-1804) pubblica le due edizioni della Critica della ragion pura
(1781 e 1787), i Prolegomeni a ogni futura metafisica che si presenterà come
scienza (1783), i Primi principi metafisici della scienza della natura
(1786) e, sul terreno della filosofia pratica, la Fondazione della metafisica dei costumi (1785) e la Critica della ragion pratica (1788). Come vedremo, per diverse ragioni la Critica della facoltà del giudizio non deve essere considerata soltanto come la
terza critica kantiana - che viene dopo le prime due e ne porta a
compimento il sistema - bensì come una riformulazione, un approfondimento
dell’intera filosofia critica e trascendentale, a partire da un asse teorico
che lega il sentimento di piacere e dispiacere con la facoltà del giudizio
e con il principio a priori della finalità.
Con quest’opera
Kant solo si confronta con tematiche, come quelle del bello e dell’arte,
assenti nelle due critiche precedenti, ma giunge a formulare tesi decisive
circa la struttura trascendentale del soggetto e il conciliarsi, nell’uomo, di
tensione conoscitiva e destinazione morale. A partire da una riflessione
trascendentale sulla natura del giudizio e del sentimento in quell’esperienza
particolare che è l’esperienza estetica, Kant approfondisce la propria
concezione dell’esperienza in generale, ossia del rapporto tra le
facoltà dell’animo umano e gli oggetti cui esse si applicano.
Nella Critica
della ragion pura Kant impiega il termine “estetica trascendentale” per
definire la “scienza di tutti i principi a priori della sensibilità”. In
quest’opera – che ha come obiettivo l’esposizione delle forme a priori della
conoscenza al fine di legittimare l’edificazione di un sapere necessario e
universalmente valido giudicando così le ambizioni della metafisica a
presentarsi come scienza - , l’estetica trascendentale, che tratta dello spazio
e del tempo in quanto forme a priori della sensibilità, viene completata
dalla “logica trascendentale”, scienza delle leggi dell’intelletto in generale.
Estetica e logica sono dunque due momenti complementari e interdipendenti nella
ricostruzione della struttura trascendentale, a priori, della conoscenza. Le
forme da esse analizzate – le forme a priori della sensibilità e i concetti
puri dell’intelletto – non possono infatti prescindere le une dalle altre: “I
pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche”.
In una celebre
nota dell’Estetica trascendentale, Kant critica Baumgarten per aver
usato il termine “estetica” per quella che in realtà non sarebbe altro che una
“critica del gusto”, manifestando così la speranza infondata di “ ridurre a
principi razionali il giudizio critico del bello, e elevarne le regole a
scienza”. Secondo il Kant della Critica della ragion pura, infatti, “le
regole e i criteri del gusto sono per le loro principali fonti empirici”, e una
critica del gusto può essere sviluppata solo su basi psicologiche e non secondo
principi a priori. L’errore di Baumgarten, quindi, sarebbe stato quello di
considerare l’estetica come gnoseologia inferiore, ossia come una
scienza avente per oggetto la sensibilità intesa come forma di conoscenza
autonoma ma analoga, sebbene oscura e confusa, alla conoscenza intellettuale,
mentre la filosofia trascendentale kantiana mostra, al contrario, che la
conoscenza è possibile solo a partire dall’attività congiunta e
interdipendente di sensibilità e intelletto intese come funzioni conoscitive
radicalmente diverse. La differenza tra sensibilità e intelletto, in altre
parole, non risiede secondo Kant nella minore o maggiore chiarezza delle
rispettive rappresentazioni, ma nella loro diversa funzione trascendentale
nell’edificazione della conoscenza.
La tesi esposta
nella Critica della ragion pura della netta distinzione tra estetica
trascendentale e critica del gusto, là dove si sostiene che quest’ultima non
può avere che un fondamento empirico e psicologico, sembra essere ribaltata da
Kant nella Critica della facoltà di giudizio, dove troviamo una vera e
propria critica del giudizio estetico, cioè del gusto, che ne individua i
presupposti trascendentali a priori. In realtà, ciò che cambia non è
l’approccio critico-trascendentale all’estetica, ma la concezione della
sua funzione nell’ambito del sapere: all’estetica quale analisi della
correlazione trascendentale tra giudizio di gusto e sentimenti di piacere e
dispiacere di fronte a prodotti dell’arte o a fenomeni naturali giudicati belli
o sublimi. In entrambi i casi, rimane invariato il carattere critico-trascendentale
dell’analisi kantiana, che ha per oggetto le strutture a priori, universali e
necessarie della soggettività nel tentativo di comprendere il costituirsi dell’esperienza:
criticismo significa infatti riflessione sulle condizioni a priori e sulla
legittimità e comunicabilità del conoscere e del sentire, mentre trascendentale
– come spiega Kant nell’Introduzione alla Critica della ragion pura
– è ogni indagine “che si occupa non di oggetti, ma del nostro modo di
conoscenza degli oggetti in quanto questa deve essere possibile a priori”.
Le tesi esposte
nella Prefazione e nell’introduzione alla Critica delle facoltà di giudizio
costituiscono un presupposto necessario per intendere il disegno complessivo
dell’opera. Qui Kant presenta la critica del giudizio come completamento del
disegno speculativo avviato con la Critica della ragion pura e la Critica della ragion pratica. L’indagine critica condotta da Kant in queste
due opere aveva infatti finito per isolare e contrapporre due ordini di realtà:
il mondo della natura da un lato, e il mondo della libertà dall’altro. Compito
dell’introduzione alla Critica della facoltà di giudizio è chiarire in
che modo possa essere raggiunta una mediazione tra questi due ordini, ossia tra
il determinismo riscontrabile nel mondo naturale, fenomenico, spiegabile
mediante rigorose leggi scientifiche, e la libertà che sta a fondamento delle
azioni umane, compreso lo stesso pensare; in altre parole, tra la dimensione
del conoscere e quella dell’agire. In questo complesso tentativo
di ridefinire la struttura della propria filosofia critico-trascendentale, Kant
attribuisce un ruolo di mediazione al sentimento di piacere e dispiacere, alla
facoltà di giudizio e al principio di finalità: l’indagine condotta nella Critica
della facoltà di giudizio consisterà allora nell’esame di quei sentimenti
che si accompagnano al ritrovamento di un armonizzarsi finalistico delle leggi
naturali e alla manifestazione di una corrispondenza finalistica tra le facoltà
conoscitive del soggetto e gli oggetti cui esso si rivolge, che di quei
sentimenti in cui emerge la superiore destinazione morale dell’uomo attraverso
l’idea di libertà. Al termine di questo percorso, i diversi momenti della
conoscenza e dell’agire, della scienza e della moralità, dovrebbero trovare un
momento di mediazione proprio nel sentimento e nel giudizio.
La facoltà di
giudicare, intesa genericamente come capacità di unificare un soggetto e un
predicato, era già stata al centro dell’analisi della Critica della ragion
pura, nella quale Kant aveva distinto tra
- giudizi analitici
e giudizi sintetici (a seconda che il predicato sia contenuto nel
soggetto o no);
- e giudizi a posteriori
e a priori (a seconda che dipendano dall’esperienza o no).
Il compito della
Critica della ragion pura era stato individuato nel tentativo di
chiarire la legittimità dei giudizi sintetici a priori, tramite cui la
conoscenza avrebbe potuto assumere un carattere necessario e universalmente
valido, e dalla classificazione logica dei giudizi Kant aveva derivato la
tavola delle categorie, i “concetti puri dell’intelletto” che operano a priori
la sintesi delle intuizioni sensibili. Nella Critica della facoltà di
giudizio, dopo aver definito il giudizio come facoltà di ricondurre un
particolare sotto un universale, Kant introduce una nuova distinzione, quella
tra giudizi determinanti e giudizi riflettenti:
- nel primo caso
il particolare e l’universale (la regola, il principio, la legge) sono
dati, e compiti del giudizio è semplicemente ricondurre il particolare
sotto l’universale;
- mentre nel
secondo è dato solo il particolare, e compito del giudizio è trovare
un universale sotto il quale sussumerlo.
Determinanti
sono sia i giudizi delle scienze esatte sia i giudizi pratici, i quali
riconducono l’azione singola sotto l’universalità della legge morale. I
giudizi riflettenti, invece, non hanno una funzione conoscitiva, né servono a
individuare direttive dell’agire o principi di valutazione morale di un’azione
compiuta: in essi la rappresentazione del particolare è riferita
riflessivamente alle facoltà del soggetto e al sentimento da esso provato.
Il giudizio
riflettente, secondo Kant, si esercita sui prodotti dell’arte e su quegli
aspetti in cui la natura mostra la presenza di una finalità: aspetti che non
sono sussumibili sotto le leggi necessarie dell’intelletto ma nei quali si
rivela un accordo finalistico tra le facoltà soggettive capace di venerare un
sentimento di piacere. In questo insistere sulla natura riflettente del
giudizio estetico emerge con chiarezza il fatto che l’esperienza estetica in
Kant non è un’esperienza conoscitiva né presuppone una concezione dell’arte e della
bellezza quale manifestazione del vero, come avverrà in Schelling e
Hegel, bensì ha un senso eminentemente riflessivo: in essa il soggetto
trascendentale perviene a una forma di autoaffezione, di sentimenti di sé con
cui viene esperita l’attività delle facoltà trascendentali dell’animo umano.
Le due parti in
cui si suddivide la Critica della facoltà di giudizio – “Critica
del giudizio estetico” e “ Critica del giudizio teleologico” - contengono
l’analisi di due forme diverse del giudizio riflettente:
- nel giudizio
estetico la facoltà di giudizio è chiamata a esprimersi su ciò che è
definito “bello” o “sublime”;
- mentre nel
giudizio teleologico essa si esplica in relazione a quegli aspetti del
mondo naturale e umano che possono avere una spiegazione finalistica.
Il giudizio
estetico è poi detto riflettente in quanto in esso il soggetto riflette sulla
“semplice apprensione della forma di un oggetto nell’intuizione”,
indipendentemente dal prodursi di una conoscenza. La sua analisi è condotta da
Kant in due sezioni, l’”Analitica del bello” e l”Analitica del sublime”, a cui
segue la “Deduzione dei giudizi estetici puri”.
Del giudizio sul
bello Kant propone un’analisi che si fonda sulla stessa suddivisione logica dei
giudizi utilizzata nella Critica della ragion pura, secondo la qualità,
la quantità, la relazione e la modalità. In base alle argomentazioni
sviluppate in questi quattro momenti dell’Analitica del bello, le tesi cui
giunte Kant sono, in ordine, le seguenti: bello è ciò che è oggetto di un piacere
disinteressato, che “piace universalmente senza concetto”, che
esprime una finalità “percepita senza la rappresentazione di uno scopo”,
e che suscita un piacere “necessario” . Con la prima tesi circa il
carattere disinteressato del piacere suscitato dal giudizio sul bello,
Kant intende distinguere nettamente tra bello, buono e piacevole:
i predicati del buono e del piacevole sono infatti legati all’interesse per
l’esistenza di ciò che è giudicato tale, mentre nel caso del bello siamo in
presenza di un giudizio puramente “contemplativo”, caratterizzato dall’assenza
di interesse per l’esistenza dell’oggetto bello.
La seconda e la
quarta tesi, che asseriscono il carattere universale e necessario
del piacere provato in concomitanza con il giudizio sul bello, contengono una
delle affermazioni più importanti della Critica della facoltà di giudizio:
i giudizi di gusto - sempre logicamente singolari, in quanto formulati secondo
lo schema “ x è bello” – devono poter ambire a una validità
universale, ossia devono poter essere condivisi intersoggettivamente pur senza
essere fondati su concetti. La ragione di questa pretesa è trascendentale, e
risiede nella natura del piacere provato in concomitanza con il giudizio
estetico, un piacere derivante da quello che Kant chiama “libero gioco” delle
facoltà conoscitive coinvolte nel giudizio sul bello: l’immaginazione e
l’intelletto. Questo armonico accordarsi delle facoltà soggettive produce
infatti uno stato d’animo soggettivo, non vincolato ad alcun concetto o regola
e tuttavia condivisibile intersoggettivamente, una sorta di senso
comune fondato sul sentimento che Kant chiama sensus communis
aestheticus. Dal luogo del variare soggettivo e imprevedibile delle
sensazioni, il giudizio di gusto diventa dunque in Kant il fondamento
trascendentale della possibilità di condividere intersoggettivamente il
sentimento, luogo in cui l’esperienza del gusto può essere comunicata e
assumere una valenza sociale.
Il terzo momento
dell’analitica del bello, infine, asserisce che bello è ciò che piace “senza la
rappresentazione di uno scopo”, distinguendo in tal modo
- una bellezza
“libera” (pulchritudo vaga), indipendente da qualsiasi
rappresentazione di un fine determinato,
- da una
bellezza “aderente” (pulchritudo adhaerens), subordinata al concetto
di ciò che l’oggetto deve essere.
In questo modo
Kant distingue nettamente tra bellezza e perfezione, criticando la
concezione baumgarteniana della bellezza come perfezione della conoscenza
sensitiva.
Nell’Analitica
del sublime il nesso tra bellezza e moralità – già evidente nell’insistenza da
parte di Kant sul tema della libertà in rapporto al bello, fonte di un
piacere libero e disinteressato, fondato sul libero gioco di
immaginazione e intelletto – diventa ancora più stringente. Tale nesso emerge
proprio a partire dall’individuazione delle differenze tra bello e sublime; se
il bello è connesso alle idee di limitazione e di forma, il
sublime rimanda alle idee di illimitatezza e informe; se il
sentimento di piacere che si accompagna al giudizio sul bello è tale da
suscitare un’intensificazione delle forze vitali del soggetto, il giudizio sul
sublime genera un’emozione in cui l’animo “è alternativamente attratto e
respinto” e preda di un “piacere negativo” accompagnato non da gioia ma da
meraviglia (Bewunderung) e rispetto (Achtung). L’esperienza del
sublime nelle sue due forme – sublime “dinamico” e sublime “matematico” – è per
Kant l’esperienza di una sproporzione tra le facoltà conoscitive del soggetto e
l’infinita grandezza o infinita potenza che esso si trova dinanzi. Ciò si
traduce da un lato nella consapevolezza del soggetto della sua insufficienza e
limitatezza; dall’altro, però, per il solo fatto di poter pensare questa
grandezza o infinita potenza che esso si trova dinanzi. Ciò si traduce da un
lato nella consapevolezza del soggetto della sua insufficienza e limitatezza;
dall’altro, però, per il solo fatto di poter pensare questa infinita grandezza
e infinita potenza nella sua totalità, il sublime finisce per attestare
l’esistenza di una facoltà dall’animo superiore a ogni misura dei sensi: la
ragione, intesa come facoltà dell’incondizionato e sede dell’idea di
libertà.
Al libero gioco
tra immaginazione e intelletto che caratterizzava il giudizio sul bello
subentra dunque, con il sublime, un confronto-scontro immaginazione e ragione,
nel quale la prima, nella sua inadeguatezza, apre dialetticamente all’avvento
della seconda, rivelando la superiore e soprasensibile destinazione morale
dell’uomo attraverso quel sentimento di rispetto che , nella Critica
della ragion pratica, era stato presentato come sentimento avente per
oggetto la legge morale nella sua assoluta universalità, formalità e
incondizionatezza. Il sublime descritto da Kant nella Critica della facoltà
di giudizio si rivela quindi profondamente diverso da quello descritto da
Burke e da Kant stesso nelle Osservazioni sul bello e sul sublime
scritte nel 1764. Alla prospettiva empirico-psicologica di Burke – che
presenta un’indagine empirica sulle qualità sensibili capaci di suscitare le
idee del bello e del sublime e pertanto di generare i sentimenti e le passioni
a esse corrispondenti- subentra ora una prospettiva rigorosamente
trascendentale con l’obiettivo di esibire un peculiare rapporto tra le
facoltà soggettive: il sublime non è un’idea suscitata da qualità
sensibili e accompagnata da un piacere misto a terrore ( il diletto, delight)
, bensì è il correlarsi trascendentale di un giudizio e di un sentimento che
finisce per rivelare l’esistenza di una facoltà dell’animo superiore a ogni
misura dei sensi, la ragione.
La “Deduzione
dei giudizi estetici puri”, oltre a riprendere i temi della pretesa dei giudizi
estetici alla validità universale e del gusto come senso comune
estetico, affronta un serie di argomenti: la natura dell’arte, la spontaneità e
la produttività del genio, la classificazione delle belle arti.
Nella
definizione di arte come “produzione mediante libertà, cioè mediante un
arbitrio che ponga la ragione a fondamento delle sue azioni “risuona l’eco
della definizione di techne esposta da Aristotele nell’Etica
nicomachea, secondo cui la techne è una produzione secondo ragione,
mentre la classificazione delle belle arti in arti della parola, arti
figurative e arti del gioco delle sensazioni visive o uditive a partire dal
concetto di espressione riprende direttamente le argomentazioni esposte
da Batteux nel trattato Le Belle Arti ridotte ad un unico principio. Il
tema dell’espressione ritorna poi nella definizione kantiana del genio
come “quel felice rapporto , che nessuna scienza può insegnare e nessuna
diligenza può far imparare, nel rinvenire idee per un concetto dato e per altro
verso nell’indovinare per esse l’espressione mediante la quale la
disposizione dell’animo così provocata, quale accompagnamento di un concetto,
possa essere comunicata ad altri”. Il genio artistico, nella sua esemplarità
che non può essere imitata ma solo presa come modello, è descritto da Kant come
capacità di esprimere idee estetiche, rappresentazioni che “danno molto
da pensare” ed estendono e vivificano le facoltà conoscitive senza essere
riconducibili ad alcun concetto. Speculari alle idee della ragione (concetti
soprasensibili dei quali non può mai essere fornita un’intuizione
corrispettiva), le idee estetiche sono rappresentazioni dell’immaginazione
rispetto alle quali nessun concetto è adeguato. La produttività
dell’immaginazione, che nella Critica della ragion pura esplicava la
propria funzione sintetica e conoscitiva generando gli schemi e quindi
mediando tra intelletto e sensibilità, si esplica qui come creatività capace di
pensare e comunicare l’inesprimibile.
Nella sezione
finale della critica del giudizio estetico Kant conclude la propria riflessione
sul giudizio estetico quale ponte tra dominio conoscitivo e dominio morale,
affermando la tesi secondo cui “la bellezza è simbolo della moralità”.
Preceduta da un’analisi sul ruolo del pensiero simbolico come capacità di
“esibire” le idee della ragione tramite intuizioni sensibili ad esse analoghe,
l’argomentazione di questa tesi sottolinea analogie e differenze tra bello e
bene: al carattere immediato e disinteressato del piacere
riferito al bello si oppone il carattere mediato e interessato
del giudizio morale, fondato su concetti della ragione che stabiliscono
imperativamente un dover essere; all’universalità solo soggettiva del
giudizio estetico si contrappone l’universalità oggettiva, conoscibile
mediante concetti, della moralità. Nonostante queste differenze, l’insistenza
di Kant sulla dimensione di libertà presente nel giudizio estetico sul
bello e sull’emergere dialettico della superiorità della ragione nel giudizio
sul sublime mostrano come, in generale, il gusto possa avere una funzione
propedeutica rispetto al rivelarsi della vera destinazione morale del soggetto.