Giordano Bruno

De gli eroici furori

A cura di

Argomento

ARGOMENTO DEL NOLANO SOPRA GLI EROICI FURORI: SCRITTO AL MOLTO ILLUSTRE SIGNOR FILIPPO SIDNEO.

1 È cosa veramente, o generosissimo Cavalliero, da basso, bruto e sporco ingegno d'essersi fatto constantemente studioso, ed aver affisso un curioso pensiero circa o sopra la bellezza d'un corpo femenile. Che spettacolo, o Dio buono!, più vile ed ignobile può presentarsi ad un occhio di terso sentimento, che un uomo cogitabundo, afflitto, tormentato, triste, maninconioso, per dovenir or freddo, or caldo, or fervente, or tremante, or pallido, or rosso, or in mina di perplesso, or in atto di risoluto; un che spende il meglior intervallo di tempo e gli più scelti frutti di sua vita corrente, destillando l'elixir del cervello con mettere in concetto, scritto e sigillar in publichi monumenti quelle continue torture, que' gravi tormenti, que' razionali discorsi, que' faticosi pensieri e quelli amarissimi studi destinati sotto la tirannide d'una indegna, imbecille, stolta e sozza sporcaria?
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Che tragicomedia? che atto, dico, degno più di compassione e riso può esserne ripresentato in questo teatro del mondo, in questa scena delle nostre conscienze, che di tali e tanto numerosi suppositi fatti penserosi, contemplativi, constanti, fermi, fideli, amanti, coltori, adoratori e servi di cosa senza fede, priva d'ogni costanza, destituta d'ogni ingegno, vacua d'ogni merito, senza riconoscenza e gratitudine alcuna, dove non può capir più senso, intelletto e bontade, che trovarsi possa in una statua o imagine depinta al muro? e dove è più superbia, arroganza, protervia, orgoglio, ira, sdegno, falsitade, libidine, avarizia, ingratitudine ed altri crimi exiziali, che avessero possuto uscir veneni ed instrumenti di morte dal vascello di Pandora, per aver pur troppo largo ricetto dentro il cervello di mostro tale? Ecco vergato in carte, rinchiuso in libri, messo avanti gli occhi ed intonato a gli orecchi un rumore, un strepito, un fracasso d'insegne, d'imprese, de motti, d'epistole, de sonetti, d'epigrammi, de libri, de prolissi scartafazzi, de sudori estremi, de vite consumate, con strida ch'assordiscon gli astri, lamenti che fanno ribombar gli antri infernali, doglie che fanno stupefar l'anime viventi, suspiri da far exinanire e compatir gli dei, per quegli occhi, per quelle guance, per quel busto, per quel bianco, per quel vermiglio, per quella lingua, per quel dente, per quel labro, quel crine, quella veste, quel manto, quel guanto, quella scarpetta, quella pianella, quella parsimonia, quel risetto, quel sdegnosetto, quella vedova fenestra, quell'eclissato sole, quel martello, quel schifo, quel puzzo, quel sepolcro, quel cesso, quel mestruo, quella carogna, quella febre quartana, quella estrema ingiuria e torto di natura, che con una superficie, un'ombra, un fantasma, un sogno, un Circeo incantesimo ordinato al serviggio della generazione, ne inganna in specie di bellezza. La quale insieme insieme viene e passa, nasce e muore, fiorisce e marcisce; ed è bella cossì un pochettino a l'esterno, che nel suo intrinseco vera- e stabilmente è contenuto un navilio, una bottega, una dogana, un mercato de quante sporcarie, tossichi e veneni abbia possuti produrre la nostra madrigna natura: la quale dopo aver riscosso quel seme di cui la si serva, ne viene sovente a pagar d'un lezzo, d'un pentimento, d'una tristizia, d'una fiacchezza, d'un dolor di capo, d'una lassitudine, d'altri ed altri malanni che son manifesti a tutto il mondo, a fin che amaramente dolga, dove suavemente proriva.
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Ma che fo io? che penso? Son forse nemico della generazione? Ho forse in odio il sole? Rincrescemi forse il mio ed altrui essere messo al mondo? Voglio forse ridur gli uomini a non raccôrre quel più dolce pomo che può produr l'orto del nostro terrestre paradiso? Son forse io per impedir l'instituto santo della natura? Debbo tentare di suttrarmi io o altro dal dolce amato giogo che n'ha messo al collo la divina providenza? Ho forse da persuader a me e ad altri, che gli nostri predecessori sieno nati per noi, e noi non siamo nati per gli nostri successori? Non voglia, non voglia Dio che questo giamai abbia possuto cadermi nel pensiero! Anzi aggiongo che per quanti regni e beatitudini mi s'abbiano possuti proporre e nominare, mai fui tanto savio o buono che mi potesse venir voglia de castrarmi o dovenir eunuco. Anzi mi vergognarei, se cossì come mi trovo in apparenza, volesse cedere pur un pelo a qualsivoglia che mangia degnamente il pane per servire alla natura e Dio benedetto. E se alla buona volontà soccorrer possano o soccorrano gl'instrumenti e gli lavori, lo lascio considerar solo a chi ne può far giudicio e donar sentenza. Io non credo d'esser legato; perché son certo che non bastarebbono tutte le stringhe e tutti gli lacci che abbian saputo e sappian mai intessere ed annodare quanti fûro e sono stringari e lacciaiuoli, (non so se posso dir) se fusse con essi la morte istessa, che volessero maleficiarmi. Né credo d'esser freddo, se a refrigerar il mio caldo non penso che bastarebbono le nevi del monte Caucaso o Rifeo. Or vedete dunque se è la raggione o qualche difetto che mi fa parlare.
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Che dunque voglio dire? che voglio conchiudere? che voglio determinare? Quel che voglio conchiudere e dire, o Cavalliero illustre, è che quel ch'è di Cesare, sia donato a Cesare, e quel ch'è de Dio, sia renduto a Dio. Voglio dire che a le donne, benché talvolta non bastino gli onori ed ossequi divini, non perciò se gli denno onori ed ossequii divini. Voglio che le donne siano cossì onorate ed amate, come denno essere amate ed onorate le donne: per tal causa dico, e per tanto, per quanto si deve a quel poco, a quel tempo e quella occasione, se non hanno altra virtù che naturale, cioè di quella bellezza, di quel splendore, di quel serviggio, senza il quale denno esser stimate più vanamente nate al mondo che un morboso fungo, qual con pregiudicio de meglior piante occupa la terra; e più noiosamente che qualsivoglia napello o vipera che caccia il capo fuor di quella. Voglio dire che tutte le cose de l'universo, perché possano aver fermezza e consistenza, hanno gli suoi pondi, numeri, ordini e misure, a fin che siano dispensate e governate con ogni giustizia e raggione. Là onde Sileno, Bacco, Pomona, Vertunno, il dio di Lampsaco ed altri simili che son dei da tinello, da cervosa forte e vino rinversato, come non siedeno in cielo a bever nettare e gustar ambrosia nella mensa di Giove, Saturno, Pallade, Febo ed altri simili; cossì gli lor fani, tempii, sacrificii e culti denno essere differenti da quelli de costoro.
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Voglio finalmente dire, che questi Furori eroici ottegnono suggetto ed oggetto eroico, e però non ponno più cadere in stima d'amori volgari e naturaleschi, che veder si possano delfini su gli alberi de le selve, e porci cinghiali sotto gli marini scogli. Però per liberare tutti da tal suspizione, avevo pensato prima di donar a questo libro un titolo simile a quello di Salomone, il quale sotto la scorza d'amori ed affetti ordinarii contiene similmente divini ed eroici furori, come interpretano gli mistici e cabalisti dottori; volevo, per dirla, chiamarlo Cantica. Ma per più caggioni mi sono astenuto al fine: de le quali ne voglio referir due sole. L'una per il timor ch'ho conceputo dal rigoroso supercilio de certi farisei, che cossì mi stimarebono profano per usurpar in mio naturale e fisico discorso titoli sacri e sopranaturali, come essi, sceleratissimi e ministri d'ogni ribaldaria, si usurpano più altamente, che dir si possa, gli titoli de sacri, de santi, de divini oratori, de figli de Dio, de sacerdoti, de regi; stante che stiamo aspettando quel giudicio divino che farà manifesta la lor maligna ignoranza ed altrui dottrina, la nostra simplice libertà e l'altrui maliciose regole, censure ed instituzioni. L'altra per la grande dissimilitudine che si vede fra il volto di questa opra e quella, quantunque medesimo misterio e sustanza d'anima sia compreso sotto l'ombra dell'una e l'altra: stante che là nessuno dubita che il primo instituto del sapiente fusse più tosto di figurar cose divine che di presentar altro: perché ivi le figure sono aperta- e manifestamente figure, ed il senso metaforico è conosciuto di sorte che non può esser negato per metaforico: dove odi quelli occhi di colombe, quel collo di torre, quella lingua di latte, quella fragranzia d'incenso, que' denti che paiono greggi de pecore che descendono dal lavatoio, que' capelli che sembrano le capre che vegnono giù da la montagna di Galaad; ma in questo poema non si scorge volto, che cossì al vivo ti spinga a cercar latente ed occolto sentimento; atteso che per l'ordinario modo di parlare e de similitudini più accomodate a gli sensi communi, che ordinariamente fanno gli accorti amanti, e soglion mettere in versi e rime gli usati poeti, son simili ai sentimenti de coloro che parlarono a Citereida, o Licori, a Dori, a Cintia, a Lesbia, a Corinna, a Laura ed altre simili. Onde facilmente ognuno potrebbe esser persuaso che la fondamentale e prima intenzion mia sia stata addirizzata da ordinario amore, che m'abbia dettati concetti tali; il quale appresso, per forza de sdegno, s'abbia improntate l'ali e dovenuto eroico; come è possibile di convertir qualsivoglia fola, romanzo, sogno e profetico enigma, e transferirle, in virtù di metafora e pretesto d'allegoria, a significar tutto quello che piace a chi più comodamente è atto a stiracchiar gli sentimenti, e far cossì tutto di tutto, come tutto essere in tutto disse il profondo Anaxagora. Ma pensi chi vuol quel che gli pare e piace, ch'alfine, o voglia o non, per giustizia la deve ognuno intendere e definire come l'intendo e definisco io, non io come l'intende e definisce lui: perché come gli furori di quel sapiente Ebreo hanno gli proprii modi, ordini e titolo che nessuno ha possuto intendere e potrebbe meglio dechiarar che lui, se fusse presente; cossì questi Cantici hanno il proprio titolo, ordine e modo che nessun può meglio dechiarar ed intendere che io medesimo, quando non sono absente.
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D'una cosa voglio che sia certo il mondo: che quello, per il che io mi essagito in questo proemiale argomento, dove singularmente parlo a voi, eccellente Signore, e ne gli Dialogi formati sopra gli seguenti articoli, sonetti e stanze, è ch'io voglio ch'ognun sappia, ch'io mi stimarei molto vituperoso e bestialaccio, se con molto pensiero, studio e fatica mi fusse mai delettato o delettasse de imitar, come dicono, un Orfeo circa il culto d'una donna in vita, e dopo morte, se possibil fia, ricovrarla da l'inferno: se a pena la stimarei degna, senza arrossir il volto, d'amarla sul naturale di quell'istante del fiore della sua beltade e facultà di far figlioli alla natura e Dio. Tanto manca, che vorrei parer simile a certi poeti e versificanti in far trionfo d'una perpetua perseveranza di tale amore, come d'una cossì pertinace pazzia, la qual sicuramente può competere con tutte l'altre specie che possano far residenza in un cervello umano: tanto, dico, son lontano da quella vanissima, vilissima e vituperosissima gloria, che non posso credere ch'un uomo, che si trova un granello di senso e spirito, possa spendere più amore in cosa simile che io abbia speso al passato e possa spendere al presente. E per mia fede, se io voglio adattarmi a defendere per nobile l'ingegno di quel tosco poeta, che si mostrò tanto spasimare alle rive di Sorga per una di Valclusa, e non voglio dire che sia stato un pazzo da catene, donarommi a credere, e forzarommi di persuader ad altri, che lui per non aver ingegno atto a cose megliori, volse studiosamente nodrir quella melancolia, per celebrar non meno il proprio ingegno su quella matassa, con esplicar gli affetti d'un ostinato amor volgare, animale e bestiale, ch'abbiano fatto gli altri ch'han parlato delle lodi della mosca, del scarafone, de l'asino, de Sileno, de Priapo, scimie de quali son coloro ch'han poetato a' nostri tempi delle lodi de gli orinali, de la piva, della fava, del letto, delle bugie, del disonore, del forno, del martello, della caristia, de la peste; le quali non meno forse sen denno gir altere e superbe per la celebre bocca de canzonieri suoi, che debbano e possano le prefate ed altre dame per gli suoi.
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Or (perché non si faccia errore) qua non voglio che sia tassata la dignità di quelle che son state e sono degnamente lodate e lodabili: non quelle che possono essere e sono particolarmente in questo paese Britannico, a cui doviamo la fideltà ed amore ospitale: perché dove si biasimasse tutto l'orbe, non si biasima questo, che in tal proposito non è orbe, né parte d'orbe, ma diviso da quello in tutto, come sapete: dove si raggionasse de tutto il sesso femenile, non si deve né può intendere de alcune vostre, che non denno esser stimate parte di quel sesso; perché non son femine, non son donne, ma, in similitudine di quelle, son nimfe, son dive, son di sustanza celeste, tra le quali è lecito di contemplar quell'unica Diana, che in questo numero e proposito non voglio nominare. Comprendasi, dunque, il geno ordinario. E di quello ancora indegna- ed ingiustamente perseguitarei le persone: perciò che a nessuna particulare deve essere improperato l'imbecillità e condizion del sesso, come né il difetto e vizio di complessione; atteso che, se in ciò è fallo ed errore, deve essere attribuito per la specie alla natura, e non per particolare a gl'individui. Certamente quello che circa tai supposti abomino, è quel studioso e disordinato amor venereo che sogliono alcuni spendervi de maniera che se gli fanno servi con l'ingegno, e vi vegnono a cattivar le potenze ed atti più nobili de l'anima intellettiva. Il qual intento essendo considerato, non sarà donna casta ed onesta che voglia per nostro naturale e veridico discorso contristarsi e farmisi più tosto irata, che sottoscrivendomi amarmi di vantaggio, vituperando passivamente quell'amor nelle donne verso gli uomini, che io attivamente riprovo ne gli uomini verso le donne. Tal dunque essendo il mio animo, ingegno, parere e determinazione, mi protesto che il mio primo e principale, mezzano ed accessorio, ultimo e finale intento in questa tessitura fu ed è d'apportare contemplazion divina, e metter avanti a gli occhi ed orecchie altrui furori non de volgari, ma eroici amori, ispiegati in due parti; de le quali ciascuna è divisa in cinque dialogi.
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Argomento de' cinque dialogi de la prima parte. Nel Primo dialogo della prima parte son cinque articoli, dove per ordine: nel primo si mostrano le cause e principii motivi intrinseci sotto nome e figura del monte e del fiume e de muse, che si dechiarano presenti, non perché chiamate, invocate e cercate, ma più tosto come quelle che più volte importunamente si sono offerte: onde vegna significato che la divina luce è sempre presente; s'offre sempre, sempre chiama e batte a le porte de nostri sensi ed altre potenze cognoscitive ed apprensive: come pure è significato nella Cantica di Salomone dove si dice: En ipse stat post parietem nostrum, respiciens per cancellos, et prospiciens per fenestras. La qual spesso per varie occasioni ed impedimenti avvien che rimangna esclusa fuori e trattenuta. Nel secondo articolo si mostra quali sieno que' suggetti, oggetti, affetti, instrumenti ed effetti per li quali s'introduce, si mostra e prende il possesso nell'anima questa divina luce, perché la inalze e la converta in Dio. Nel terzo il proponimento, definizione e determinazione che fa l'anima ben informata circa l'uno, perfetto ed ultimo fine. Nel quarto la guerra civile che séguita e si discuopre contra il spirito dopo tal proponimento; onde disse la Cantica: Noli mirari, quia nigra sum: decoloravit enim me sol, quia fratres mei pugnaverunt contra me, quam posuerunt custodem in vineis. Là sono esplicati solamente come quattro antesignani l'Affetto, l'Appulso fatale, la Specie del bene ed il Rimorso, che son seguitati da tante coorte militari de tante, contrarie, varie e diverse potenze con gli lor ministri, mezzi ed organi che sono in questo composto. Nel quinto s'ispiega una naturale contemplazione in cui si mostra che ogni contrarietà si riduce a l'amicizia o per vittoria de l'uno de' contrarii o per armonia e contemperamento o per qualch'altra raggione di vicissitudine, ogni lite alla concordia, ogni diversità a l'unità: la qual dottrina è stata da noi distesa ne gli discorsi d'altri dialogi.
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Nel Secondo dialogo viene più esplicatamente descritto l'ordine ed atto della milizia che si ritrova nella sustanza di questa composizione del furioso; ed ivi: nel primo articolo si mostrano tre sorte di contrarietà: la prima d'un affetto ed atto contra l'altro, come dove son le speranze fredde e gli desiderii caldi; la seconda de medesimi affetti ed atti in se stessi, non solo in diversi, ma ed in medesimi tempi; come quando ciascuno non si contenta di sé, ma attende ad altro, ed insieme insieme ama ed odia; la terza tra la potenza che séguita ed aspira, e l'oggetto che fugge e si suttrae. Nel secondo articolo si manifesta la contrarietà ch'è come di doi contrarii appulsi in generale; alli quali si rapportano tutte le particolari e subalternate contrarietadi, mentre come a doi luoghi e sedie contrarie si monta o scende: anzi il composto tutto per la diversità de le inclinazioni che son nelle diverse parti, e varietà de disposizioni che accade nelle medesime, viene insieme insieme a salire ed abbassare, a farsi avanti ed adietro, ad allontanarsi da sé e tenersi ristretto in sé. Nel terzo articolo si discorre circa la conseguenza da tal contrarietade.
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Nel Terzo dialogo si fa aperto quanta forza abbia la volontade in questa milizia, come quella a cui sola appartiene ordinare, cominciare, exeguire e compire; cui vien intonato nella Cantica: Surge, propera, columba mea, et veni: iam enim hiems transiit, imber abiit, flores apparuerunt in terra nostra; tempus putationis advenit. Questa sumministra forza ad altri in molte maniere, ed a se medesima specialmente, quando si reflette in se stessa e si radoppia; allor che vuol volere, e gli piace che voglia quel che vuole; o si ritratta, allor che non vuol quel che vuole, e gli dispiace che voglia quel che vuole: cossì in tutto e per tutto approva quel ch'è bene e quel tanto che la natural legge e giustizia gli definisce: e mai affatto approva quel che è altrimente. E questo è quanto si esplica nel primo e secondo articolo. Nel terzo si vede il gemino frutto di tal efficacia, secondo che (per consequenza de l'affetto che le attira e rapisce) le cose alte si fanno basse, e le basse dovegnono alte; come per forza de vertiginoso appulso e vicissitudini successo dicono che la fiamma s'inspessa in aere, vapore ed acqua, e l'acqua s'assottiglia in vapore, aere e fiamma.
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In sette articoli del Quarto dialogo si contempla l'impeto e vigor de l'intelletto, che rapisce l'affetto seco, ed il progresso de pensieri del furioso composto, e delle passioni de l'anima che si trova al governo di questa republica cossì turbulenta. Là non è oscuro chi sia il cacciatore, l'ucellatore, la fiera, gli cagnuoli, gli pulcini, la tana, il nido, la rocca, la preda, il compimento de tante fatiche, la pace, riposo e bramato fine de sì travaglioso conflitto.
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Nel Quinto dialogo si descrive il stato del furioso in questo mentre, ed è mostro l'ordine, raggione e condizion de studii e fortune. Nel primo articolo per quanto appartiene a perseguitar l'oggetto che si fa scarso di sé; nel secondo quanto al continuo e non remittente concorso de gli affetti; nel terzo quanto a gli alti e caldi, benché vani proponimenti; nel quarto quanto al volontario volere; nel quinto quanto a gli pronti e forti ripari e soccorsi. Ne gli seguenti si mostra variamente la condizion di sua fortuna, studio e stato, con la raggione e convenienza di quelli, per le antitesi, similitudini e comparazioni espresse in ciascuno di essi articoli.
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Argomento de' cinque dialogi della seconda parte. Nel Primo dialogo della seconda parte s'adduce un seminario delle maniere e raggioni del stato dell'eroico furioso. Ove nel primo sonetto vien descritto il stato di quello sotto la ruota del tempo; nel secondo viene ad iscusarsi dalla stima d'ignobile occupazione ed indegna iattura della angustia e brevità del tempo; nel terzo accusa l'impotenza de suoi studi, gli quali, quantunque all'interno sieno illustrati dall'eccellenza de l'oggetto, questo per l'incontro viene ad essere offoscato ed annuvolato da quelli; nel quarto è il compianto del sforzo senza profitto delle facultadi de l'anima, mentre cerca risorgere con l'imparità de le potenze a quel stato che pretende e mira; nel quinto vien rammentata la contrarietà e domestico conflitto che si trova in un suggetto, onde non possa intieramente appigliarsi ad un termine o fine; nel sesto vien espresso l'affetto aspirante; nel settimo vien messa in considerazione la mala corrispondenza che si trova tra colui ch'aspira, e quello a cui s'aspira; nell'ottavo è messa avanti gli occhi la distrazion dell'anima, conseguente della contrarietà de cose esterne ed interne tra loro, e de le cose interne in se stesse, e de le cose esterne in se medesime; nel nono è ispiegata l'etate ed il tempo del corso de la vita ordinarii all'atto de l'alta e profonda contemplazione: per quel che non vi conturba il flusso o reflusso della complessione vegetante, ma l'anima si trova in condizione stazionaria e come quieta; nel decimo l'ordine e maniera in cui l'eroico amore talor ne assale, fere e sveglia; nell'undecimo la moltitudine delle specie ed idee particolari che mostrano l'eccellenza della marca dell'unico fonte di quelle, mediante le quali vien incitato l'affetto verso alto; nel duodecimo s'esprime la condizion del studio umano verso le divine imprese, perché molto si presume prima che vi s'entri, e nell'entrare istesso: ma quando poi s'ingolfa e vassi più verso il profondo, viene ad essere smorzato il fervido spirito di presunzione, vegnono relassati i nervi, dismessi gli ordegni, inviliti gli pensieri, svaniti tutti dissegni, e riman l'animo confuso, vinto ed exinanito. Al qual proposito fu detto dal sapiente: qui scrutator est maiestatis, opprimetur a gloria. Nell'ultimo è più manifestamente espresso quello che nel duodecimo è mostrato in similitudine e figura.
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Nel Secondo dialogo è in un sonetto ed un discorso dialogale sopra di quello specificato il primo motivo che domò il forte, ramollò il duro ed il rese sotto l'amoroso imperio di Cupidine superiore, con celebrar tal vigilanza, studio, elezione e scopo.
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Nel Terzo dialogo in quattro proposte e quattro risposte del core a gli occhi, e de gli occhi al core, è dechiarato l'essere e modo delle potenze cognoscitive ed appetitive. Là si manifesta qualmente la volontà è risvegliata, addirizzata, mossa e condotta dalla cognizione; e reciprocamente la cognizione è suscitata, formata e ravvivata dalla volontade, procedendo or l'una da l'altra, or l'altra da l'una. Là si fa dubio, se l'intelletto o generalmente la potenza conoscitiva, o pur l'atto della cognizione sia maggior de la volontà o generalmente della potenza appetitiva, o pur de l'affetto: se non si può amare più che intendere, e tutto quello ch'in certo modo si desidera, in certo modo ancora si conosce, e per il roverso; onde è consueto di chiamar l'appetito cognizione, perché veggiamo che gli peripatetici, nella dottrina de quali siamo allievati e nodriti in gioventù, sin a l'appetito in potenza ed atto naturale chiamano cognizione; onde tutti effetti, fini e mezzi, principii, cause ed elementi distingueno in prima-, media- ed ultimamente noti secondo la natura, nella quale fanno in conclusione concorrere l'appetito e la cognizione. Là si propone infinita la potenza della materia ed il soccorso dell'atto che non fa essere la potenza vana. Laonde cossì non è terminato l'atto della volontà circa il bene, come è infinito ed interminabile l'atto della cognizione circa il vero: onde ente, vero e buono son presi per medesimo significante circa medesima cosa significata.
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Nel Quarto dialogo son figurate ed alcunamente ispiegate le nove raggioni della inabilità, improporzionalità e difetto dell'umano sguardo e potenza apprensiva de cose divine. Dove nel primo cieco, che è da natività, è notata la raggione ch'è per la natura che ne umilia ed abbassa. Nel secondo, cieco per il tossico della gelosia, è notata quella ch'è per l'irascibile e concupiscibile che ne diverte e desvia. Nel terzo, cieco per repentino apparimento d'intensa luce, si mostra quella che procede dalla chiarezza de l'oggetto che ne abbaglia. Nel quarto, allievato e nodrito a lungo a l'aspetto del sole, quella che da troppo alta contemplazione de l'unità che ne fura alla moltitudine. Nel quinto, che sempre mai ha gli occhi colmi de spesse lacrime, è designata.l'improporzionalità de mezzi tra la potenza ed oggetto che ne impedisce. Nel sesto, che per molto lacrimar ave svanito l'umor organico visivo, è figurato il mancamento de la vera pastura intellettuale che ne indebolisce. Nel settimo, cui gli occhi sono inceneriti da l'ardor del core, è notato l'ardente affetto che disperge, attenua e divora tal volta la potenza discretiva. Nell'ottavo, orbo per la ferita d'una punta di strale, quello che proviene dall'istesso atto dell'unione della specie de l'oggetto; la qual vince, altera e corrompe la potenza apprensiva, che è suppressa dal peso e cade sotto l'impeto de la presenza di quello; onde non senza raggion talvolta la sua vista è figurata per l'aspetto di folgore penetrativo. Nel nono, che per esser mutolo non può ispiegar la causa della sua cecitade, vien significata la raggion de le raggioni, la quale è l'occolto giudicio divino che a gli uomini ha donato questo studio e pensiero d'investigare, de sorte che non possa mai gionger più alto che alla cognizione della sua cecità ed ignoranza, e stimar più degno il silenzio ch'il parlare. Dal che non vien iscusata né favorita l'ordinaria ignoranza; perché è doppiamente cieco chi non vede la sua cecità: e questa è la differenza tra gli profettivamente studiosi e gli ociosi insipienti: che questi son sepolti nel letargo della privazion del giudicio di suo non vedere, e quelli sono accorti, svegliati e prudenti giudici della sua cecità, e però son nell'inquisizione e nelle porte de l'acquisizione della luce, delle quali son lungamente banditi gli altri.
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Argomento ed allegoria del quinto dialogo. Nel Quinto dialogo, perché vi sono introdotte due donne, alle quali (secondo la consuetudine del mio paese) non sta bene di commentare, argumentare, desciferare, saper molto ed esser dottoresse, per usurparsi ufficio d'insegnare e donar instituzione, regola e dottrina a gli uomini, ma ben de divinar e profetar qualche volta che si trovano il spirito in corpo; però gli ha bastato de farsi solamente recitatrici della figura, lasciando a qualche maschio ingegno il pensiero e negocio di chiarir la cosa significata. Al quale (per alleviar overamente tôrgli la fatica) fo intendere, qualmente questi nove ciechi, come in forma d'ufficio e cause esterne, cossì con molte altre differenze suggettive correno con altra significazione, che gli nove del dialogo precedente; atteso che, secondo la volgare imaginazione delle nove sfere, mostrano il numero, ordine e diversità de tutte le cose che sono subsistenti infra unità absoluta, nelle quali e sopra le quali tutte sono ordinate le proprie intelligenze che, secondo certa similitudine analogale, dependono dalla prima ed unica. Queste da cabalisti, da caldei, da maghi, da platonici e da cristiani teologi son distinte in nove ordini per la perfezione del numero che domina nell'università de le cose ed in certa maniera formaliza il tutto; e però con semplice raggione fanno che si significhe la divinità, e secondo la reflessione e quadratura in se stesso, il numero e la sustanza de tutte le cose dependenti. Tutti gli contemplatori più illustri, o sieno filosofi, o siano teologi, o parlino per raggione e proprio lume, o parlino per fede e lume superiore, intendeno in queste intelligenze il circolo di ascenso e descenso. Quindi dicono gli platonici, che per certa conversione accade che quelle, che son sopra il fato, si facciano sotto il fato del tempo e mutazione, e da qua montano altre al luogo di quelle. Medesima conversione è significata dal pitagorico poeta, dove dice: Has omnes, ubi mille rotam volvere per annos Lethaeum ad fluvium deus evocat agmine magno, Rursus ut incipiant in corpora velle reverti.
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Questo, dicono alcuni, è significato dove è detto in revelazione che il drago starà avvinto nelle catene per mille anni, e passati quelli, sarà disciolto. A cotal significazione voglion che mirino molti altri luoghi, dove il millenario ora è espresso, ora è significato per uno anno, ora per una etade, ora per un cubito, ora per una ed un'altra maniera. Oltre che certo il millenario istesso non si prende secondo le revoluzioni definite da gli anni del sole, ma secondo le diverse raggioni delle diverse misure ed ordini con li quali son dispensate diverse cose: perché cossì son differenti gli anni de gli astri, come le specie de particolari non son medesime. Or quanto al fatto della revoluzione, è divolgato appresso gli cristiani teologi, che da ciascuno de' nove ordini de spiriti sieno trabalzate le moltitudini de legioni a queste basse ed oscure regioni; e che per non esser quelle sedie vacanti, vuole la divina providenza che di queste anime, che vivono in corpi umani, siano assumpte a quella eminenza. Ma tra' filosofi Plotino solo ho visto dire espressamente, come tutti teologi grandi, che cotal revoluzione non è de tutti, né sempre, ma una volta. E tra teologi Origene solamente, come tutti filosofi grandi, dopo gli Saduchini ed altri molti riprovati, ave ardito de dire che la revoluzione è vicissitudinale e sempiterna; e che tutto quel medesimo che ascende, ha da ricalar a basso; come si vede in tutti gli elementi e cose che sono nella superficie, grembo e ventre de la natura. Ed io per mia fede dico e confermo per convenientissimo, con gli teologi e color che versano su le leggi ed instituzioni de popoli, quel senso loro: come non manco d'affirmare ed accettar questo senso di quei che parlano secondo la raggion naturale tra' pochi, buoni e sapienti. L'opinion de' quali degnamente è stata riprovata, per esser divolgata a gli occhi della moltitudine; la quale se a gran pena può essere refrenata da vizii e spronata ad atti virtuosi per la fede de pene sempiterne, che sarrebe se la si persuadesse qualche più leggiera condizione in premiar gli eroici ed umani gesti, e castigare gli delitti e sceleragini? Ma per venire alla conclusione di questo mio progresso, dico che da qua si prende la raggione e discorso della cecità e luce di questi nove, or vedenti, or ciechi, or illuminati; quali son rivali ora nell'ombre e vestigii della divina beltade, or sono al tutto orbi, ora nella più aperta luce pacificamente si godeno. Allor che sono nella prima condizione, son ridutti alla stanza di Circe, la qual significa la omniparente materia. Ed è detta figlia del sole, perché da quel padre de le forme ha l'eredità e possesso di tutte quelle le quali, con l'aspersion de le acqui, cioè con l'atto della generazione, per forza d'incanto, cioè d'occolta armonica raggione, cangia il tutto, facendo dovenir ciechi quelli che vedeno. Perché la generazione e corrozione è causa d'oblio e cecità, come esplicano gli antichi con la figura de le anime che si bagnano ed inebriano di Lete.
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Quindi dove gli ciechi si lamentano, dicendo: Figlia e madre di tenebre ed orrore, è significata la conturbazion e contristazion de l'anima che ha perse l'ali, la quale se gli mitiga allor che è messa in speranza di ricovrarle. Dove Circe dice: Prendete un altro mio vase fatale, è significato che seco portano il decreto e destino del suo cangiamento; il qual però è detto essergli porgiuto dalla medesima Circe; perché un contrario è originalmente nell'altro, quantunque non vi sia effettualmente: onde disse lei, che sua medesima mano non vale aprirlo, ma commetterlo. Significa ancora che son due sorte d'acqui: inferiori, sotto il firmamento che acciecano; e superiori, sopra il firmamento che illuminano: quelle che sono significate da pitagorici e platonici nel descenso da un tropico ed ascenso da un altro. Là dove dice: Per largo e per profondo peregrinate il mondo, cercate tutti gli numerosi regni, significa che non è progresso immediato da una forma contraria a l'altra, né regresso immediato da una forma a la medesima; però bisogna trascorrere, se non tutte le forme che sono nella ruota delle specie naturali, certamente molte e molte di quelle. Là s'intendeno illuminati da la vista de l'oggetto, in cui concorre il ternario delle perfezioni, che sono beltà, sapienza e verità, per l'aspersion de l'acqui, che negli sacri libri son dette acqui di sapienza, fiumi d'acqua di vita eterna. Queste non si trovano nel continente del mondo, ma penitus toto divisim ab orbe, nel seno dell'Oceano, dell'Anfitrite, della divinità, dove è quel fiume che apparve revelato procedente dalla sedia divina, che ave altro flusso che ordinario naturale. Ivi son le Ninfe, cioè le beate e divine intelligenze che assisteno ed amministrano alla prima intelligenza, la quale è come la Diana tra le nimfe de gli deserti. Quella sola tra tutte l'altre è per la triplicata virtude potente ad aprir ogni sigillo, a sciorre ogni nodo, a discuoprir ogni secreto, e disserrar qualsivoglia cosa rinchiusa. Quella con la sua sola presenza e gemino splendore del bene e vero, di bontà e bellezza appaga le volontadi e gl'intelletti tutti, aspergendoli con l'acqui salutifere di ripurgazione. Qua è conseguente il canto e suono, dove son nove intelligenze, nove muse, secondo l'ordine de nove sfere; dove prima si contempla l'armonia di ciascuna, che è continuata con l'armonia de l'altra; perché il fine ed ultimo della superiore è principio e capo dell'inferiore, perché non sia mezzo e vacuo tra l'una ed altra: e l'ultimo de l'ultima, per via de circolazione, concorre con il principio della prima. Perché medesimo è più chiaro e più occolto, principio e fine, altissima luce e profondissimo abisso, infinita potenza ed infinito atto, secondo le raggioni e modi esplicati da noi in altri luoghi. Appresso si contempla l'armonia e consonanza de tutte le sfere, intelligenze, muse ed instrumenti insieme; dove il cielo, il moto de' mondi, l'opre della natura, il discorso de gl'intelletti, la contemplazion della mente, il decreto della divina providenza, tutti d'accordo celebrano l'alta e magnifica vicissitudine che agguaglia l'acqui inferiori alle superiori, cangia la notte col giorno, ed il giorno con la notte, a fin che la divinità sia in tutto, nel modo con cui tutto è capace di tutto, e l'infinita bontà infinitamente si communiche secondo tutta la capacità de le cose.
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Questi son que' discorsi, gli quali a nessuno son parsi più convenevoli ad essere addirizzati e raccomandati, che a voi, Signor eccellente, a fin ch'io non vegna a fare, come penso aver fatto alcuna volta per poca advertenza, e molti altri fanno quasi per ordinario, come colui che presenta la lira ad un sordo ed il specchio ad un cieco. A voi dunque si presentano, perché l'Italiano raggioni con chi l'intende; gli versi sien sotto la censura e protezion d'un poeta; la filosofia si mostre ignuda ad un sì terso ingegno come il vostro; le cose eroiche siano addirizzate ad un eroico e generoso animo, di qual vi mostrate dotato; gli officii s'offrano ad un suggetto sì grato, e gli ossequi ad un signor talmente degno, qualmente vi siete manifestato per sempre. E nel mio particolare vi scorgo quello che con maggior magnanimità m'avete prevenuto ne gli officii, che alcuni altri con riconoscenza m'abbiano seguitato. Vale.

Avvertimento

1Amico lettore, m'occorre al fine da obviare al rigore d'alcuno a cui piacesse che tre de' sonetti, che si trovano nel primo dialogo della seconda parte de' Furori eroici, siano in forma simili a gli altri, che sono nel medesimo dialogo; voglio che vi piaccia d'aggiongere a tutti tre gli suoi tornelli. A quello che comincia: Quel ch'il mio cor, giongete in fine:
Onde di me si diche:
Costui or ch'av'affissi gli occhi al sole,
Che fu rival d'Endimion, si duole.

2
A quello che comincia: Se dagli eroi, giongete in fine:
Ciel, terra, orco s'opponi;
S'ella mi splend'e accende ed èmmi a lato,
Farammi illustre, potente e beato.

3
A quello che comincia: Avida di trovar, giongete al fine:
Lasso, que' giorni lieti
Troncommi l'efficacia d'un instante,
Che fêmmi a lungo infortunato amante.

Iscusazione

ISCUSAZION DEL NOLANO ALLE PIÙ VIRTUOSE E LEGGIADRE DAME.

1 De l'Inghilterra o vaghe Ninfe e belle,
2
Non voi ha nostro spirto in schifo, e sdegna,
3
Né per mettervi giù suo stil s'ingegna,
4
Se non convien che femine v'appelle.
5
Né computar, né eccettuar da quelle
6
Son certo che voi dive mi convegna,
7
Se l'influsso commun in voi non regna,
8
E siete in terra quel ch'in ciel le stelle.
9
De voi, o Dame, la beltà sovrana
10
Nostro rigor né morder può, né vuole,
11
Che non fa mira a specie soprumana.
12
Lungi arsenico tal quindi s'invole,
13
Dove si scorge l'unica Diana,
14
Qual'è tra voi quel che tra gli astri il sole.
15
L'ingegno, le parole
16
E 'l mio (qualunque sia) vergar di carte
17
Faranvi ossequios'il studio e l'arte.

Parte 1, dial.1

Interlocutori: Tansillo, Cicada.

1 \ TANS.\ Gli furori, dunque, atti più ad esser qua primieramente locati e considerati, son questi che ti pono avanti secondo l'ordine a me parso più conveniente.
2
\ CIC.\ Cominciate pur a leggerli.
3
\ TANS.\ Muse, che tante volte ributtai,
Importune correte a' miei dolori,
Per consolarmi sole ne' miei guai
Con tai versi, tai rime e tai furori,
Con quali ad altri vi mostraste mai,
Che de mirti si vantan ed allori;
Or sia appo voi mia aura, àncora e porto,
Se non mi lice altrov'ir a diporto.
O monte, o dive, o fonte
Ov'abito, converso e mi nodrisco;
Dove quieto imparo ed imbellisco;
Alzo, avvivo, orno il cor, il spirto e fronte,
Morte, cipressi, inferni
Cangiate in vita, in lauri, in astri eterni.

4
È da credere che più volte e per più caggioni le ributtasse, tra le quali possono esser queste. Prima, perché, come deve il sacerdote de le muse, non ha possut'esser ocioso; perché l'ocio non può trovarsi là dove si combatte contra gli ministri e servi de l'invidia, ignoranza e malignitade. Secondo, per non assistergli degni protectori e defensori che l'assicurassero, iuxta quello:
Non mancaranno, o Flacco, gli Maroni,
Se penuria non è de Mecenati.

5
Appresso, per trovarsi ubligato alla contemplazion e studi de filosofia, li quali, se non son più maturi, denno però, come parenti de le Muse, esser predecessori a quelle. Oltre, perché, traendolo da un canto la tragica Melpomene con più materia che vena, e la comica Talia con più vena che materia da l'altro, accadeva che l'una suffurandolo a l'altra, lui rimanesse in mezzo più tosto neutrale e sfacendato, che comunmente negocioso. Finalmente, per l'autorità de censori che, ritenendolo da cose più degne ed alte, alle quali era naturalmente inchinato, cattivavano il suo ingegno, perché da libero sotto la virtù; o rendesser cattivo sott'una vilissima e stolta ipocrisia; al fine, nel maggior fervor de fastidi nelli quali incorse, è avvenuto che non avend'altronde da consolarsi, accettasse l'invito di costoro, che son dette inebriarlo de tai furori, versi e rime, con quali non si mostrâro ad altri; perché in quest'opra più riluce d'invenzione che d'imitazione.
6
\ CIC.\ Dite: che intende per quei che si vantano de mirti ed allori?
7
\ TANS.\ Si vantano e possono vantarsi de mirto quei che cantano d'amori; alli quali, se nobilmente si portano, tocca la corona di tal pianta consecrata a Venere, dalla quale riconoscono il furore. Possono vantarsi d'allori quei che degnamente cantano cose eroiche, instituendo gli animi eroici per la filosofia speculativa e morale, overamente celebrandoli e mettendoli per specchio exemplare a gli gesti politici e civili.
8
\ CIC.\ Dunque, son più specie de poeti e de corone?
9
\ TANS.\ Non solamente quante son le muse, ma e di gran numero di vantaggio: perché, quantunque sieno certi geni, non possono però esser determinate certe specie e modi d'ingegni umani.
10
\ CIC.\ Son certi regolisti de poesia che a gran pena passano per poeta Omero, riponendo Vergilio, Ovidio, Marziale, Exiodo, Lucrezio, ed altri molti in numero de versificatori, examinandoli per le regole de la Poetica d'Aristotele.
11
\ TANS.\ Sappi certo, fratel mio, che questi son vere bestie; perché non considerano quelle regole principalmente servir per pittura dell'omerica poesia o altra simile in particolare, e son per mostrar tal volta un poeta eroico tal qual fu Omero, e non per instistuir altri che potrebbero essere, con altre vene, arti e furori, equali, simili e maggiori de diversi geni.
12
\ CIC.\ Sì che, come Omero nel suo geno non fu poeta che pendesse da regole, ma è causa delle regole che serveno a coloro che son più atti ad imitare che ad inventare; e son state raccolte da colui che non era poeta di sorte alcuna, ma che seppe raccogliere le regole di quell'una sorte, cioè dell'omerica poesia, in serviggio di qualch'uno che volesse doventar non un altro poeta, ma un come Omero, non di propria musa, ma scimia de la musa altrui.
-13
\ TANS.\ Conchiudi bene, che la poesia non nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le regole derivano da le poesie: e però tanti son geni e specie de vere regole, quanti son geni e specie de veri poeti.
14
\ CIC.\ Or come dunque saranno conosciuti gli veramente poeti?
15
\ TANS.\ Dal cantar de versi; con questo che cantando o vegnano a delettare, o vegnano a giovare, o a giovare e delettare insieme.
16
\ CIC.\ A chi dunque servono le regole d'Aristotele?
17
\ TANS.\ A chi non potesse, come Omero, Exiodo, Orfeo ed altri, poetare senza le regole d'Aristotele; e che per non aver propria musa, vuolesse far l'amore con quella d'Omero.
18
\ CIC.\ Dunque, han torto certi pedantacci de tempi nostri, che excludeno dal numero de poeti alcuni, o perché non apportino favole e metafore conformi, o perché non hanno principii de libri e canti conformi a quei d'Omero e Vergilio, o perché non osservano la consuetudine di far l'invocazione, o perché intesseno una istoria o favola con l'altra, o perché finiscono gli canti epilogando di quel ch'è detto, e proponendo per quel ch'è da dire; e per mille altre maniere d'examine, per censure e regole in virtù di quel testo. Onde par che vogliano conchiudere ch'essi loro a un proposito (se gli venesse de fantasia) sarrebono gli veri poeti, ed arrivarebbono là, dove questi si forzano: e poi in fatto non son altro che vermi, che non san far cosa di buono, ma son nati solamente per rodere, insporcare e stercorar gli altrui studi e fatiche; e non possendosi render celebri per propria virtude ed ingegno, cercano di mettersi avanti o a dritto o a torto, per altrui vizio ed errore.
19
\ TANS.\ Or per non tornar là donde l'affezione n'ha fatto al quanto a lungo digredire, dico che sono e possono essere tante sorte de poeti, quante possono essere e sono maniere de sentimenti ed invenzioni umane, alli quali son possibili d'adattarsi ghirlande non solo da tutti geni e specie de piante, ma ed oltre d'altri geni e specie di materie. Però corone a' poeti non si fanno solamente de mirti e lauri, ma anco de pampino per versi fescennini, d'edera per baccanali, d'oliva per sacrifici e leggi, di pioppa, olmo e spighe per l'agricoltura, de cipresso per funerali, e d'altre innumerabili per altre tante occasioni; e, se vi piacesse, anco di quella materia che mostrò un galant'uomo, quando disse: O fra Porro, poeta da scazzate,
Ch'a Milano t'affibbi la ghirlanda
Di boldoni, busecche e cervellate.

20
\ CIC.\ Or dunque, sicuramente costui per diverse vene che mostra in diversi propositi e sensi, potrà infrascarsi de rami de diverse piante, e potrà degnamente parlar con le muse, perché sia appo loro sua aura con cui si conforte, àncora in cui si sustegna, e porto al qual si retire nel tempo de fatiche, exagitazioni e tempeste. Onde dice: O monte Parnaso dove abito, Muse con le quali converso, fonte eliconio o altro dove mi nodrisco, monte che mi doni quieto alloggiamento, Muse che m'inspirate profonda dottrina, fonte che mi fai ripolito e terso, monte dove ascendendo inalzo il core, Muse con le quali versando avvivo il spirito, fonte sotto li cui arbori poggiando adorno la fronte, cangiate la mia morte in vita, gli miei cipressi in lauri e gli miei inferni in cieli: cioè destinatemi immortale, fatemi poeta, rendetemi illustre, mentre canto di morte, cipressi ed inferni.
21
\ TANS.\ Bene; perché a color che son favoriti dal cielo, gli più gran mali si converteno in beni tanto maggiori: perché le necessitadi parturiscono le fatiche e studi, e questi per il più de le volte la gloria d'immortal splendore.
22
\ CIC.\ E la morte d'un secolo fa vivo in tutti gli altri. Séguita.
23
\ TANS.\ Dice appresso:
In luogo e forma di Parnaso ho 'l core,
Dove per scampo mio convien ch'io monte,
Son mie muse i pensier ch'a tutte l'ore
Mi fan presenti le bellezze conte;
Onde sovente versan gli occhi fore
Lacrime molte, ho l'Eliconio fonte:
Per tai montagne, per tai ninfe ed acqui,
Com'ha piaciuto al ciel poeta nacqui.
Or non alcun de reggi,
Non favorevol man d'imperatore,
Non sommo sacerdote e gran pastore
Mi dien tai grazie, onori e privileggi;
Ma di lauro m'infronde
Mio cor, gli miei pensieri e le mie onde.

24
Qua dechiara prima qual sia il suo monte, dicendo esser l'alto affetto del suo core; secondo, quai sieno le sue muse, dicendo esser le bellezze e prorogative del suo oggetto; terzo, quai sieno gli fonti, e questi dice esser le lacrime. In quel monte s'accende l'affetto, da quelle bellezze si concepe il furore, e da quelle lacrime il furioso affetto si dimostra. Cossì se stima di non posser essere meno illustremente coronato per via del suo core, pensieri e lacrime, che altri per man de regi, imperadori e papi.
25
\ CIC.\ Dechiarami quel ch'intende per ciò che dice: il core in forma di Parnaso.
26
\ TANS.\ Perché cossì il cuor umano ha doi capi, che vanno a terminarsi a una radice, e spiritualmente da uno affetto del core procede l'odio ed amore di doi contrarii, come ave sotto due teste una base il monte Parnaso.
27
\ CIC.\ A l'altro.
28
\ TANS.\ Dice:
Chiama per suon di tromba il capitano
Tutti gli suoi guerrier sott'un'insegna;
Dove s'avvien che per alcun in vano
Udir si faccia, perché pronto vegna,
Qual nemico l'uccide, o a qual insano
Gli dona bando dal suo campo e 'l sdegna:
Cossì l'alma i dissegni non accolti
Sott'un stendardo o gli vuol morti, o tolti.
Un oggetto riguardo;
Chi la mente m'ingombra, è un sol viso.
Ad una beltà sola io resto affiso,
Chi sì m'ha punto il cor, è un sol dardo,
Per un sol fuoco m'ardo,
E non conosco più ch'un paradiso.

29
Questo capitano è la voluntade umana, che siede in poppa de l'anima, con un picciol temone de la raggione governando gli affetti d'alcune potenze interiori contra l'onde degli émpiti naturali. Egli con il suono de la tromba, cioè della determinata elezione, chiama tutti gli guerrieri, cioè provoca tutte le potenze (le quali s'appellano guerriere per esserno in continua ripugnanza e contrasto), o pur gli effetti di quelle, che sono gli contrarii pensieri, de quali altri verso l'una, altri verso l'altra parte inchinano; e cerca constituirgli tutti sott'un'insegna d'un determinato fine. Dove s'accade ch'alcun d'essi vegna chiamato in vano a farsi prontamente vedere ossequioso (massime quei che procedeno dalle potenze naturali, quali o nullamente o poco ubediscono alla raggione), al meno, forzandosi d'impedir gli loro atti e dannar quei che non possono essere impediti, viene a mostrarsi come uccidesse quelli e donasse bando a questi, procedendo contra gli altri con la spada de l'ira, ed altri con la sferza del sdegno.
30
Qua un oggetto riguarda, a cui è volto con l'intenzione; per un viso, con cui s'appaga, ingombra la mente; in una sola beltade si diletta e compiace, e dicesi restarvi affiso, perché l'opra d'intelligenza non è operazion di moto, ma di quiete. E da là solamente concepe quel dardo che l'uccide, cioè che gli constituisce l'ultimo fine di perfezione. Arde per un sol fuoco, cioè dolcemente si consuma in uno amore.
31
\ CIC.\ Perché l'amore è significato per il fuoco?
32
\ TANS.\ Lascio molte altre caggioni, bastiti per ora questa: perché cossì la cosa amata l'amore converte ne l'amante, come il fuoco, tra tutti gli elementi attivissimo, è potente a convertere tutti quell'altri semplici e composti in se stesso.
33
\ CIC.\ Or séguita.
34
\ TANS.\ Conosce un paradiso, cioè un fine principale; perché paradiso comunmente significa il fine, il qual si distingue in quello ch'è absoluto, in verità ed essenza, e l'altro ch'è in similitudine, ombra e participazione. Del primo modo non può essere più che uno, come non è più che uno l'ultimo ed il primo bene; del secondo modo sono infiniti.
Amor, sorte, l'oggetto e gelosia
M'appaga, affanna, contenta e sconsola.
Il putto irrazional, la cieca e ria,
L'alta bellezza, la mia morte sola,
Mi mostra il paradiso, il toglie via, Ogni ben mi presenta, me l'invola;
Tanto ch'il cor, la mente, il spirto, l'alma
Ha gioia, ha noia, ha refrigerio, ha salma.
Chi mi torrà di guerra?
Chi mi farà fruir mio ben in pace?
Chi quel ch'annoia e quel che sì mi piace,
........................................
Farà lungi disgionti,
Per gradir le mie fiamme e gli miei fonti?

35
Mostra la caggion ed origine onde si concepe il furore e nasce l'entusiasmo, per solcar il campo de le muse, spargendo il seme de suoi pensieri, aspirando a l'amorosa messe, scorgendo in sé il fervor de gli affetti in vece del sole, e l'umor de gli occhi in luogo de le piogge. Mette quattro cose avanti: l'amore, la sorte, l'oggetto, la gelosia. Dove l'amore non è un basso, ignobile ed indegno motore, ma un eroico signor e duce de lui; la sorte non è altro che la disposizion fatale ed ordine d'accidenti, alli quali è suggetto per il suo destino; l'oggetto è la cosa amabile ed il correlativo de l'amante; la gelosia è chiaro che sia un zelo de l'amante circa la cosa amata, il quale non bisogna donarlo a intendere a chi ha gustato amore, ed in vano ne forzaremo dechiararlo ad altri. L'amore appaga, perché a chi ama, piace l'amare; e colui che veramente ama, non vorrebbe non amare. Onde non voglio lasciar de referire quel che ne mostrai in questo mio sonetto:
Cara, suave ed onorata piaga
Del più bel dardo, che mai scelse Amore,
Alto, leggiadro e precioso ardore,
Che gir fai l'alma di sempr'arder vaga;
Qual forza d'erba e virtù d'arte maga
Ti torrà mai dal centro del mio core;
Se chi vi porge ognor fresco vigore,
Quanto più mi tormenta, più m'appaga?
Dolce mio duol, novo nel mondo e raro,
Quando del peso tuo girò mai scarco,
S'il rimedio m'è noia, e 'l mal diletto?
Occhi, del mio signor facelle ed arco,
Doppiate fiamme a l'alma e strali al petto,
Poich'il languir m'è dolce e l'ardor caro.

36
La sorte affanna per non felici e non bramati successi, o perché faccia stimar il suggetto men degno de la fruizion de l'oggetto, e men proporzionato a la dignità di quello; o perché non faccia reciproca correlazione; o per altre caggioni ed impedimenti che s'attraversano. L'oggetto contenta il suggetto, che non si pasce d'altro, altro non cerca, non s'occupa in altro e per quello bandisce ogni altro pensiero. La gelosia sconsola, perché, quantunque sia figlia dell'amore da cui deriva, compagna di quello con cui va sempre insieme, segno del medesimo, perché quello s'intende per necessaria consequenza dove lei si dimostra (come sen può far esperienza nelle generazioni intiere, che per freddezza di regione e tardezza d'ingegno meno apprendono, poco amano e niente hanno di gelosia), tutta volta con la sua figliolanza, compagnia e significazione vien a perturbar ed attossicare tutto quel che si trova di bello e buono nell'amore. Là onde dissi in un altro mio sonetto:
O d'invidia ed amor figlia sì ria,
Che le gioie del padre volgi in pene,
Caut'Argo al male, e cieca talpa al bene,
Ministra di tormento, Gelosia,
Tisifone infernal fetid'Arpia,
Che l'altrui dolce rapi ed avvelene;
Austro crudel, per cui languir conviene
Il più bel fior de la speranza mia;
Fiera da te medesma disamata,
Augel di duol, non d'altro mai, presago,
Pena, ch'entri nel cor per mille porte:
Se si potesse a te chiuder l'entrata,
Tant'il regno d'amor saria più vago,
Quant'il mondo senz'odio e senza morte.

37
Giongi a quel ch'è detto, che la Gelosia non sol tal volta è la morte e ruina de l'amante, ma per le spesse volte uccide l'istesso amore, massime quando parturisce il sdegno: percioché viene ad essere talmente dal suo figlio affetta, che spinge l'amore e mette in dispreggio l'oggetto, anzi non lo fa più essere oggetto.
38
\ CIC.\ Dechiara ora l'altre particole che siegueno, cioè perché l'amore si dice putto irrazionale?
39
\ TANS.\ Dirò tutto. Putto irrazionale si dice l'amore, non perché egli per sé sia tale; ma per ciò, che per il più fa tali suggetti, ed è in suggetti tali: atteso che, in qualunque è più intellettuale e speculativo, inalza più l'ingegno e più purifica l'intelletto, facendolo svegliato, studioso e circonspetto, promovendolo ad un'animositate eroica ed emulazion di virtudi e grandezza per il desìo di piacere e farsi degno della cosa amata; in altri poi (che son la massima parte) s'intende pazzo e stolto, perché le fa uscir de proprii sentimenti, e le precipita a far delle extravaganze, perché ritrova il spirito, anima e corpo mal complessionati ed inetti a considerar e distinguere quel che gli è decente, da quel che le rende più sconci, facendoli suggetti di dispreggio, riso e vituperio.
40
\ CIC.\ Dicono volgarmente e per proverbio, che l'amor fa dovenir gli vecchi pazzi, e gli giovani savii.
41
\ TANS.\ Questo inconveniente non accade a tutti vecchi, né quel conveniente a tutti giovani; ma è vero de quelli ben complessionati, e de mal complessionati quest'altri. E con questo è certo, che chi è avezzo nella gioventù d'amar circonspettamente, amarà vecchio senza straviare. Ma il spasso e riso è di quelli alli quali nella matura etade l'amor mette l'alfabeto in mano.
42
\ CIC.\ Ditemi adesso, perché cieca e ria se dice la sorte o fato?
43
\ TANS.\ Cieca e ria si dice la sorte ancora, non per sé, perché è l'istesso ordine de numeri e misure de l'universo; ma per raggion de suggetti si dice ed è cieca, perché le rende ciechi al suo riguardo, per esser ella incertissima. E detta similmente ria, perché nullo de mortali è che in qualche maniera lamentandosi e querelandosi di lei, non la incolpe. Onde disse il pugliese poeta:
Che vuol dir, Mecenate, che nessuno
Al mondo appar contento de la sorte,
Che gli ha porgiuta la raggion o cielo?

44
Cossì chiama l'oggetto alta bellezza, perché a lui è unico e più eminente ed efficace per tirarlo a sé; e però lo stima più degno, più nobile; e però sel sente predominante e superiore; come lui gli vien fatto suddito e cattivo. La mia morte sola dice de la gelosia; perché come l'amore non ha più stretta compagna che costei, cossì anco non ha senso di maggior nemica; come nessuna cosa è più nemica al ferro che la ruggine, che nasce da lui medesimo.
45
\ CIC.\ Or poi ch'hai cominciato a far cossì, séguita a mostrar parte per parte quel che resta.
46
\ TANS.\ Cossì farò. Dice a presso de l'amore: Mi mostra il paradiso; onde fa veder che l'amore non è cieco in sé, e per sé non rende ciechi alcuni amanti, ma per l'ignobili disposizioni del suggetto; qualmente avviene che gli ucelli notturni dovegnon ciechi per la presenza del sole. Quanto a sé, dunque, l'amore illustra, chiarisce, apre l'intelletto e fa penetrar il tutto e suscita miracolosi effetti.
47
\ CIC.\ Molto mi par che questo il Nolano lo dimostre in un altro suo sonetto:
Amor, per cui tant'alto il ver discerno,
Ch'apre le porte di diamante nere,
Per gli occhi entra il mio nume, e per vedere
Nasce, vive, si nutre, ha regno eterno;
Fa scorger quanto ha 'l ciel, terra ed inferno,
Fa presenti d'absenti effiggie vere,
Repiglia forze, e col trar dritto, fere,
E impiaga sempr'il cor, scuopre l'interno.
O dunque, volgo vile, al vero attendi,
Porgi l'orecchio al mio dir non fallace,
Apri, apri, se puoi, gli occhi, insano e bieco:
Fanciullo il credi, perché poco intendi;
Perché ratto ti cangi, ei par fugace;
Per esser orbo tu, lo chiami cieco.

48
Mostra dunque il paradiso amore, per far intendere, capire ed effettuar cose altissime; o perché fa grandi, almeno in apparenza le cose amate. Il toglie via, dice de la sorte; perché questa sovente, a mal grado de l'amante, non concede quel tanto che l'amor dimostra, e quel che vede e brama, gli è lontano ed adversario. Ogni ben mi presenta, dice de l'oggetto; perché questo che vien dimostrato da l'indice de l'amore, gli par la cosa unica, principale ed il tutto. Me l'invola, dice della Gelosia, non già per non farlo presente, togliendolo d'avanti gli occhi; ma in far ch'il bene non sia bene, ma un angoscioso male; il dolce non sia dolce, ma un angoscioso languire. Tanto ch'il cor, cioè la volontà, ha gioia nel suo volere per forza d'amore, qualunque sia il successo. La mente, cioè la parte intellettuale, ha noia, per l'apprension de la sorte, qual non aggradisce l'amante. Il spirito, cioè l'affetto naturale, ha refrigerio, per esser rapito da quell'oggetto che dà gioia al core, e potrebbe aggradir la mente. L'alma, cioè la sustanza passibile e sensitiva, ha salma, cioè si trova oppressa dal grave peso de la gelosia, che la tormenta.
49
Appresso la considerazion del stato suo, soggionge il lacrimoso lamento, e dice: Chi mi torrà di guerra, e metterammi in pace; o chi disunirà quel che m'annoia e danna da quel che sì mi piace ed apremi le porte del cielo, perché gradite sieno le fervide fiamme del mio core, e fortunati i fonti de gli occhi miei? Appresso, continuando il suo proposito, soggionge:
Premi, oimè, gli altri, o mia nemica sorte
Vatten via, Gelosia, dal mondo fore:
Potran ben soli con sua diva corte
Far tutto nobil faccia e vago amore.
Lui mi tolga de vita, lei de morte,
Lei me l'impenne, lui brugge il mio core,
Lui me l'ancide, lei ravvive l'alma,
Lei mio sustegno, lui mia grieve salma.
Ma che dich'io d'amore?
Se lui e lei son un suggetto o forma,
Se con medesmo imperio ed una norma
Fanno un vestigio al centro del mio core?
Non son doi dunque; è una
Che fa gioconda e triste mia fortuna.

50
Quattro principii ed estremi de due contrarietadi vuol ridurre a doi principii ed una contrarietade. Dice dunque: Premi, oimè, gli altri; cioè basti a te, o mia sorte, d'avermi sin a tanto oppresso, e (perché non puoi essere senza il tuo essercizio) volta altrove il tuo sdegno. E vatten via fuori del mondo, tu, Gelosia; perché uno di que' doi altri che rimagnono, potrà supplire alle vostre vicende ed offici: se pur tu, mia sorte, non sei altro ch'il mio Amore, e tu, Gelosia, non sei estranea dalla sustanza del medesimo. Reste dunque lui per privarmi de vita, per bruggiarmi, per donarmi la morte, e per salma de le mie ossa: con questo che lei mi tolga di morte, mi impenne, mi avvive e mi sustente. Appresso, doi principii ed una contrarietade riduce ad un principio ed una efficacia, dicendo: ma che dich'io d'Amore? Se questa faccia, questo oggetto è l'imperio suo, e non par altro che l'imperio de l'amore; la norma de l'amore è la sua medesima norma; l'impression d'amore ch'appare nella sustanza del cor mio, non è certo altra impression che la sua: perché dunque dopo aver detto nobil faccia, replico dicendo vago amore?

Parte 1, dial.2

1 \ TANS.\ Or qua comincia il furioso a mostrar gli affetti suoi e discuoprir le piaghe che sono per segno nel corpo, ed in sustanza o in essenza nell'anima; e dice cossì: Io che porto d'amor l'alto vessillo,
Gelate ho spene e gli desir cuocenti:
A un tempo triemo, agghiaccio, ardo e sfavillo,
Son muto, e colmo il ciel de strida ardenti:
Dal cor scintillo, e dagli occhi acqua stillo;
E vivo e muoio e fo riso e lamenti:
Son vive l'acqui, e l'incendio non more,
Ché a gli occhi ho Teti, ed ho Vulcan al core,
Altr'amo, odio me stesso;
Ma s'io m'impiumo, altri si cangia in sasso;
Poggi'altr'al cielo, s'io mi ripogno al basso;
Sempre altri fugge, s'io seguir non cesso;
S'io chiamo, non risponde;
E quant'io cerco più, più mi s'asconde.

2
A proposito di questo voglio seguitar quel che poco avanti ti dicevo, che non bisogna affatigarsi per provare quel che tanto manifestamente si vede: cioè che nessuna cosa è pura e schetta (onde diceano alcuni, nessuna cosa composta esser vero ente; come l'oro composto non è vero oro, il vino composto non è puro vero e mero vino); appresso, tutte le cose constano de contrarii; da onde avviene, che gli successi de li nostri affetti per la composizione ch'è nelle cose, non hanno mai delettazion alcuna senza qualch'amaro; anzi dico e noto di più, che se non fusse l'amaro nelle cose, non sarrebe la delettazione, atteso che la fatica fa che troviamo delettazione nel riposo; la separazione è causa che troviamo piacere nella congiunzione; e generalmente essaminando, si trovarà sempre che un contrario è caggione che l'altro contrario sia bramato e piaccia.
3
\ CIC.\ Non è dunque delettazione senza contrarietà?
4
\ TANS.\ Certo non, come senza contrarietà non è dolore; qualmente manifesta quel pitagorico Poeta, quando dice: Hinc metuunt cupiuntque, dolent gaudentque, nec auras Respiciunt, clausae tenebris et carcere caeco.
5
Ecco dunque quel che caggiona la composizion de le cose. Quindi aviene che nessuno s'appaga del stato suo, eccetto qualch'insensato e stolto, e tanto più quanto più si ritrova nel maggior grado del fosco intervallo de la sua pazzia: allora ha poca o nulla apprension del suo male, gode l'esser presente senza temer del futuro, gioisce di quel ch'è, e per quello in che si trova, e non ha rimorso o cura di quel ch'è o può essere, ed in fine non ha senso della contrarietade, la quale è figurata per l'arbore della scienza del bene e del male.
6
\ CIC.\ Da qua si vede che l'ignoranza è madre della felicità e beatitudine sensuale; e questa medesima è l'orto del paradiso de gli animali; come si fa chiaro nelli dialogi de la Cabala del cavallo Pegaseo e per quel che dice il sapiente Salomone: chi aumenta sapienza, aumenta dolore.
7
\ TANS.\ Da qua avviene che l'amore eroico è un tormento, perché non gode del presente, come il brutale amore; ma e del futuro e de l'absente, e del contrario sente l'ambizione, emulazione, suspetto e timore. Indi dicendo una sera dopo cena un certo de nostri vicini: - Giamai fui tanto allegro quanto sono adesso; - gli rispose Gioan Bruno, padre del Nolano: - Mai fuste più pazzo che adesso.
-8
\ CIC.\ Volete dunque, che colui che è triste, sia savio, e quell'altro ch'è più triste, sia più savio?
9
\ TANS.\ Non, anzi intendo in questi essere un'altra specie di pazzia, ed oltre peggiore.
10
\ CIC.\ Chi dunque sarà savio, se pazzo è colui ch'è contento, e pazzo è colui ch'è triste?
11
\ TANS.\ Quel che non è contento, né triste.
12
\ CIC.\ Chi? quel che dorme? quel ch'è privo di sentimento? quel ch'è morto?
13
\ TANS.\ No; ma quel ch'è vivo, vegghia ed intende; il quale considerando il male ed il bene, stimando l'uno e l'altro come cosa variabile e consistente in moto, mutazione e vicissitudine (di sorte ch'il fine d'un contrario è principio de l'altro, e l'estremo de l'uno è cominciamento de l'altro), non si dismette, né si gonfia di spirito, vien continente nell'inclinazioni e temperato nelle voluptadi; stante ch'a lui il piacere non è piacere, per aver come presente il suo fine. Parimente la pena non gli è pena, perché con la forza della considerazione ha presente il termine di quella. Cossì il sapiente ha tutte le cose mutabili come cose che non sono, ed afferma quelle non esser altro che vanità ed un niente; perché il tempo a l'eternità ha proporzione come il punto a la linea.
14
\ CIC.\ Sì che mai possiamo tener proposito d'esser contenti o mal contenti, senza tener proposito de la nostra pazzia, la qual espressamente confessiamo; là onde nessun che ne raggiona, e per consequenza nessun che n'è participe, sarà savio; ed infine tutti gli omini saran pazzi.
15
\ TANS.\ Non tendo ad inferir questo; perché dirò massime savio colui che potesse veramente dire talvolta il contrario di quel che quell'altro: - Giamai fui men allegro che adesso; - over: - Giamai fui men triste che ora. -
16
\ CIC.\ Come? non fai due contrarie qualitadi dove son doi affetti contrarii? perché, dico, intendi come due virtudi, e non come un vizio ed una virtude l'esser minimamente allegro e l'esser minimamente triste?
17
\ TANS.\ Perché ambi doi li contrarii in eccesso (cioè per quanto vanno a dar su quel più) son vizii, perché passano la linea; e gli medesimi in quanto vanno a dar sul meno, vegnono ad esser virtude, perché si contegnono e rinchiudono intra gli termini.
18
\ CIC.\ Come l'esser men contento e l'esser men triste non son una virtù ed un vizio, ma son due virtudi?
19
\ TANS.\ Anzi dico che son una e medesima virtude; perché il vizio è là dove è la contrarietade; la contrarietade è massime là dove è l'estremo; la contrarietà maggiore è la più vicina all'estremo; la minima o nulla è nel mezzo, dove gli contrarii convegnono e son uno ed indifferente: come tra il freddissimo e caldissimo è il più caldo ed il più freddo, e nel mezzo puntuale è quello che puoi dire o caldo e freddo, o né caldo né freddo, senza contrarietade. In cotal modo chi è minimamente contento e minimamente allegro, è nel grado della indifferenza, si trova nella casa della temperanza, e là dove consiste la virtude e condizion d'un animo forte, che non vien piegato da l'Austro né da l'Aquilone.
20
Ecco dunque, per venir al proposito, come questo furor eroico, che si chiarisce nella presente parte, è differente dagli altri furori più bassi, non come virtù dal vizio, ma come un vizio ch'è in un suggetto più divino o divinamente, da un vizio ch'è in un suggetto più ferino o ferinamente: di maniera che la differenza è secondo gli suggetti e modi differenti, e non secondo la forma de l'esser vizio.
21
\ CIC.\ Molto ben posso, da quel ch'avete detto, conchiudere la condizion di questo eroico furore che dice: gelate ho spene, e li desir cuocenti; perché non è nella temperanza della mediocrità, ma nell'eccesso delle contrarietadi; ha l'anima discordevole, se triema nelle gelate speranze, arde negli cuocenti desiri; è per l'avidità stridolo, mutolo per il timore; sfavilla dal core per cura d'altrui, e per compassion di sé versa lacrime da gli occhi; muore ne l'altrui risa, vive ne' proprii lamenti; e (come colui che non è più suo) altri ama, odia se stesso: perché la materia, come dicono gli fisici, con quella misura ch'ama la forma absente, odia la presente. E cossì conclude nell'ottava la guerra ch'ha l'anima in se stessa; e poi quando dice ne la sestina, ma s'io m'impiumo, altri si cangia in sasso, e quel che séguita, mostra le sue passioni per la guerra ch'essercita con li contrarii esterni.
22
Mi ricordo aver letto in Iamblico, dove tratta degli Egizii misterii, questa sentenza: Impius animam dissidentem habet: unde nec secum ipse convenire potest neque cum aliis.
23
\ TANS.\ Or odi un altro sonetto di senso consequente al detto:
Ahi, qual condizion, natura, o sorte:
In viva morte morta vita vivo!
A mor m'ha morto (ahi lasso!) di tal morte,
Che son di vita insieme e morte privo.
Voto di spene, d'inferno a le porte,
E colmo di desio al ciel arrivo:
Talché suggetto a doi contrarii eterno,
Bandito son dal ciel e da l'inferno.
Non han mie pene triegua,
Perché in mezzo di due scorrenti ruote,
De quai qua l'una, là l'altra mi scuote,
Qual Ixion convien mi fugga e siegua,
Perché al dubbio discorso
Dan lezion contraria il sprone e 'l morso.

24
Mostra qualmente patisca quel disquarto e distrazione in se medesimo: mentre l'affetto, lasciando il mezzo e meta de la temperanza, tende a l'uno e l'altro estremo; e talmente si trasporta alto o a destra, che anco si trasporta a basso ed a sinistra..
25
\ CIC.\ Come con questo che non è proprio de l'uno né de l'altro estremo, non viene ad essere in stato o termine di virtude?
26
\ TANS.\ Allora è in stato di virtude, quando si tiene al mezzo, declinando da l'uno e l'altro contrario: ma quando tende a gli estremi, inchinando a l'uno e l'altro di quelli, tanto gli manca de esser virtude, che è doppio vizio; il qual consiste in questo, che la cosa recede dalla sua natura, la perfezion della quale consiste nell'unità; e là dove convegnono gli contrarii, consta la composizione e consiste la virtude. Ecco dunque come è morto vivente, o vivo moriente; là onde dice: In viva morte morta vita vivo. Non è morto, perché vive ne l'oggetto; non è vivo, perché è morto in se stesso; privo di morte, perché parturisce pensieri in quello; privo di vita, perché non vegeta o sente in se medesimo. Appresso, è bassissimo per la considerazion de l'alto intelligibile e la compresa imbecillità della potenza. È altissimo per l'aspirazione dell'eroico desio che trapassa di gran lunga gli suoi termini; ed è altissimo per l'appetito intellettuale, che non ha modo e fine di gionger numero a numero; è bassissimo per la violenza fattagli dal contrario sensuale che verso l'inferno impiomba. Onde trovandosi talmente poggiar e descendere, sente ne l'alma il più gran dissidio che sentir si possa; e confuso rimane per la ribellion del senso, che lo sprona là d'onde la raggion l'affrena, e per il contrario. Il medesimo affatto si dimostra nella seguente sentenza, dove la raggione in nome de Filenio dimanda, ed il furioso risponde in nome di Pastore, che alla cura del gregge o armento de suoi pensieri si travaglia, quai pasce in ossequio e serviggio de la sua ninfa, ch'è l'affezione di quell'oggetto alla cui osservanza è fatto cattivo. \ F.\ Pastor! \ P.\ Che vuoi? \ F.\ Che fai? \ P.\ Doglio.
\ F.\ Perché?
\ P.\ Perché non m'ha per suo vita, né morte.
\ F.\ Chi fallo? \ P.\ Amor \ F.\ Quel rio? \ P.\ Quel rio. \ F.\
Dov'è?
\ P.\ Nel centro del mio cor se tien sì forte.
\ F.\ Che fa? \ P.\ Fere. \ F.\ Chi? \ P.\ Me. \ F.\ Te? \ P.\ Sì.
\ F.\ Con che?
\ P.\ Con gli occhi, de l'inferno e del ciel porte.
\ F.\ Speri? \ P.\ Spero. \ F.\ Mercé? \ P.\ Mercé. \ F.\ Da chi?
\ P.\ Da chi sì mi martora nott'e dì.
\ F.\ Hanne? \ P.\ Non so. \ F.\ Sei folle.
\ P.\ Che, se cotal follia a l'alma piace?
\ F.\ Promette? \ P.\ No. \ F.\ Niega? \ P.\ Né meno. \ F.\ Tace?
\ P.\ Sì, perché ardir tant'onestà mi tolle.
\ F.\ Vaneggi. \ P.\ In che? \ F.\ Nei stenti.
\ P.\ Temo il suo sdegno, più che miei tormenti.

27
Qua dice che spasma: lamentasi dell'amore, non già perché ami (atteso che a nessuno veramente amante dispiace l'amare), ma perché infelicemente ami, mentre escono que' strali che son gli raggi di quei lumi, che medesimi, secondo che son protervi e ritrosi, overamente benigni e graziosi, vegnono ad esser porte che guidano al cielo, overamente a l'inferno. Con questo vien mantenuto in speranza di futura ed incerta mercé, ed in effetto di presente e certo martìre. E quantunque molto apertamente vegga la sua follia, non per tanto avvien che in punto alcuno si correga, o che almen possa conciperne dispiacere; perché tanto ne manca, che più tosto in essa si compiace, come mostra dove dice:
Mai fia che dell'amor io mi lamente,
Senza del qual non vogli'esser felice.

28
Appresso, mostra un'altra specie di furore, parturita da qualche lume di raggione, la qual suscita il timore e supprime la già detta, a fin che non proceda a fatto, che possa inasprir o sdegnar la cosa amata. Dice dunque la speranza esser fondata sul futuro, senza che cosa alcuna se gli prometta o nieghe: perché lui tace e non dimanda, per tema d'offender l'onestade. Non ardisce esplicarsi e proporsi, onde fia o con ripudio escluso, overamente con promessa accettato: perché nel suo pensiero più contrapesa quel che potrebbe esser di male in un caso, che bene in un altro. Mostrasi dunque disposto di suffrir più presto per sempre il proprio tormento, che di poter aprir la porta a l'occasione, per la quale la cosa amata si turbe e contriste.
29
\ CIC.\ Con questo dimostra l'amor suo esser veramente eroico, perché si propone per più principal fine la grazia del spirito e la inclinazion de l'affetto, che la bellezza del corpo, in cui non si termina quell'amor ch'ha del divino.
30
\ TANS.\ Sai bene che come il rapto platonico è di tre specie, de quali l'uno tende alla vita contemplativa o speculativa, l'altro a l'attiva morale, l'altro a l'ociosa e voluptuaria; cossì son tre specie d'amori, de quali l'uno dall'aspetto della forma corporale s'inalza alla considerazione della spirituale e divina; l'altro solamente persevera nella delettazion del vedere e conversare; l'altro dal vedere va a precipitarsi nella concupiscenza del toccare. Di questi tre modi si componeno altri, secondo che o il primo s'accompagna col secondo, o che s'accompagna col terzo, o che concorreno tutti tre modi insieme; de li quali ciascuno e tutti oltre si moltiplicano in altri, secondo gli affetti de furiosi che tendeno o più verso l'obietto spirituale, o più verso l'obietto corporale, o equalmente verso l'uno e l'altro. Onde avviene che di quei che si ritrovano in questa milizia e son compresi nelle reti d'amore, altri tendeno a fin del gusto che si prende dal raccôrre le poma da l'arbore de la corporal bellezza, senz'il qual ottento (o speranza al meno) stimano degno di riso e vano ogni amoroso studio; ed in cotal modo corrono tutti quei che son di barbaro ingegno, che non possono né cercano magnificarsi, amando cose degne, aspirando a cose illustri, e, più alto, a cose divine accomodando gli suoi studi e gesti, a i quali non è chi possa più ricca- e comodamente suppeditar l'ali, che l'eroico amore; altri si fanno avanti a fin del frutto della delettazione che prendeno da l'aspetto della bellezza e grazia del spirito che risplende e riluce nella leggiadria del corpo; e de tali alcuni, benché amino il corpo e bramino assai d'esser uniti a quello, della cui lontananza si lagnano e disunion s'attristano, tutta volta temeno che, presumendo in questo, non vegnan privi di quell'affabilità, conversazione, amicizia ed accordo, che gli è più principale: essendo che dal tentare non più può aver sicurezza di successo grato, che gran tema di cader da quella grazia, qual, come cosa tanto gloriosa e degna, gli versa avanti gli occhi del pensiero.
31
\ CIC.\ È cosa degna, o Tansillo, per molte virtudi e perfezioni, che quindi derivano nell'umano ingegno, cercar, accettar, nodrire e conservar un simile amore; ma si deve ancora aver gran cura di non abbattersi ad ubligarsi ad un oggetto indegno e basso, a fin che non vegna a farsi partecipe della bassezza ed indignità del medesimo, in proposito de quali intendo il conseglio del poeta ferrarese:
Chi mette il piè su l'amorosa pania,
Cerchi ritrarlo, e non v'inveschi l'ali.

32
\ TANS.\ A dir il vero, l'oggetto ch'oltre la bellezza del corpo non av'altro splendore, non è degno d'esser amato ad altro fine che di far, come dicono, la razza: e mi par cosa da porco o da cavallo di tormentarvisi su; ed io, per me, mai fui più fascinato da cosa simile, che potesse al presente esser fascinato da qualche statua o pittura, dalle quali mi pare indifferente. Sarebbe dunque un vituperio grande ad un animo generoso, se d'un sporco vile, bardo ed ignobile ingegno (quantunque sotto eccellente figura venesse ricuoperto) dica: Temo il suo sdegno più ch'il mio tormento.

Parte 1, dial.3

1 \ TANS.\ Poneno, e sono, più specie de furori, li quali tutti si riducono a doi geni: secondo che altri non mostrano che cecità, stupidità ed impeto irrazionale che tende al ferino insensato; altri consisteno in certa divina abstrazione per cui dovegnono alcuni megliori, in fatto, che uomini ordinarii. E questi sono de due specie; perché altri, per esserno fatti stanza de dei o spiriti divini, dicono ed operano cose mirabile senza che di quelle essi o altri intendano la raggione; e tali per l'ordinario sono promossi a questo da l'esser stati prima indisciplinati ed ignoranti; nelli quali, come voti di proprio spirito e senso, come in una stanza purgata, s'intrude il senso e spirito divino. Il qual meno può aver luogo e mostrarsi in quei che son colmi de propria raggione e senso, perché tal volta vuole, che il mondo sappia certo che se quei non parlano per proprio studio ed esperienza, come è manifesto, séguite che parlino ed oprino per intelligenza superiore: e con questo la moltitudine de gli uomini in tali degnamente ha maggior admirazion e fede. Altri, per essere avezzi o abili alla contemplazione, e per aver innato un spirito lucido ed intellettuale, da uno interno stimolo e fervor naturale, suscitato dall'amor della divinitate, della giustizia, della veritade, della gloria, dal fuoco del desio e soffio dell'intenzione, acuiscono gli sensi; e nel solfro della cogitativa facultade accendono il lume razionale con cui veggono più che ordinariamente: e questi non vegnono, al fine, a parlar ed operar come vasi ed instrumenti, ma come principali artefici ed efficienti.
2
\ CIC.\ Di questi doi geni quali stimi megliori?
3
\ TANS.\ Gli primi hanno più dignità, potestà ed efficacia in sé, perché hanno la divinità; gli secondi son essi più degni, più potenti ed efficaci, e son divini. Gli primi son degni come l'asino che porta li sacramenti; gli secondi come una cosa sacra. Nelli primi si considera e vede in effetto la divinità; e quella s'admira, adora ed obedisce; ne gli secondi si considera e vede l'eccellenza della propria umanitade.
4
Or venemo al proposito. Questi furori de quali noi raggioniamo, e che veggiamo messi in execuzione in queste sentenze, non son oblio, ma una memoria; non son negligenze di se stesso, ma amori e brame del bello e buono con cui si procure farsi perfetto con trasformarsi ed assomigliarsi a quello. Non è un raptamento sotto le leggi d'un fato indegno, con gli lacci de ferine affezioni; ma un impeto razionale che siegue l'apprension intellettuale del buono e bello che conosce, a cui vorrebbe conformandosi parimente piacere; di sorte che della nobiltà e luce di quello viene ad accendersi ed investirsi de qualitade e condizione per cui appaia illustre e degno. Doviene un dio dal contatto intellettuale di quel nume oggetto; e d'altro non ha pensiero che de cose divine, e mostrasi insensibile ed impassibile in quelle cose che comunmente massime senteno, e da le quali più vegnon altri tormentati; niente teme, e per amor della divinitade spreggia gli altri piaceri, e non fa pensiero alcuno de la vita. Non è furor d'atra bile che fuor di conseglio, raggione ed atti di prudenza lo faccia vagare guidato dal caso e rapito dalla disordinata tempesta; come quei, ch'avendo prevaricato da certa legge de la divina Adrastia vegnono condannati sotto la carnificina de le Furie, acciò sieno essagitati da una dissonanza tanto corporale per sedizioni, ruine e morbi, quanto spirituale per la iattura dell'armonia delle potenze cognoscitive ed appetitive. Ma è un calor acceso dal sole intelligenziale ne l'anima e impeto divino che gl'impronta l'ali; onde più e più avvicinandosi al sole intelligenziale, rigettando la ruggine de le umane cure, dovien un oro probato e puro, ha sentimento della divina ed interna armonia, concorda gli suoi pensieri e gesti con la simmetria della legge insita in tutte le cose. Non come inebriato da le tazze di Circe va cespitando ed urtando or in questo, or in quell'altro fosso, or a questo or a quell'altro scoglio; o come un Proteo vago or in questa, or in quell'altra faccia cangiandosi, giamai ritrova loco, modo, né materia di fermarsi e stabilirsi. Ma senza distemprar l'armonia vince e supera gli orrendi mostri; e per tanto che vegna a dechinare, facilmente ritorna al sesto con quelli intimi instinti, che come nove muse saltano e cantano circa il splendor dell'universale Apolline; e sotto l'imagini sensibili e cose materiali va comprendendo divini ordini e consegli. È vero che tal volta avendo per fida scorta l'amore, ch'è gemino, e perché tal volta per occorrenti impedimenti si vede defraudato dal suo sforzo, allora come insano e furioso mette in precipizio l'amor di quello che non può comprendere; onde confuso da l'abisso della divinità tal volta dismette le mani, e poi ritorna pure a forzarsi con la voluntade verso là dove non può arrivare con l'intelletto. È vero pure che ordinariamente va spasseggiando, ed ora più in una, or più in un'altra forma del gemino Cupido si trasporta; perché la lezion principale che gli dona Amore, è che in ombra contemple (quando non puote in specchio) la divina beltade; e come gli proci di Penelope s'intrattegna con le fante, quando non gli lice conversar con la padrona. Or dunque, per conchiudere, possete da quel ch'è detto, comprendere qual sia questo furioso di cui l'imagine ne vien messa avanti, quando si dice:
Se la farfalla al suo splendor ameno
Vola, non sa ch'è fiamma al fin discara;
Se, quand'il cervio per sete vien meno,
Al rio va, non sa della freccia amara;
S'il lioncorno corre al casto seno,
Non vede il laccio che se gli prepara.
I' al lume, al fonte, al grembo del mio bene,
Veggio le fiamme, i strali e le catene.
S'è dolce il mio languire,
Perché quell'alta face sì m'appaga,
Perché l'arco divin sì dolce impiaga,
Perché in quel nodo è avvolto il mio desire,
Mi fien eterni impacci
Fiamme al cor, strali al petto, a l'alma lacci.

5
Dove dimostra l'amor suo non esser come de la farfalla, del cervio e del lioncorno, che fuggirebono s'avesser giudizio del fuoco, della saetta e de gli lacci, e che non han senso d'altro che del piacere; ma vien guidato da un sensatissimo e pur troppo oculato furore, che gli fa amare più quel fuoco che altro refrigerio, più quella piaga che altra sanità, più que' legami che altra libertade. Perché questo male non è absolutamente male; ma per certo rispetto al bene secondo l'opinione, e falso, quale il vecchio Saturno ha per condimento nel devorar che fa de proprii figli. Perché questo male absolutamente ne l'occhio de l'eternitade è compreso o per bene, o per guida che ne conduce a quello; atteso che questo fuoco è l'ardente desio de le cose divine, questa saetta è l'impression del raggio della beltade della superna luce, questi lacci son le specie del vero che uniscono la nostra mente alla prima verità, e le specie del bene che ne fanno uniti e gionti al primo e sommo bene. A quel senso io m'accostai, quando dissi:
D'un sì bel fuoco e d'un sì nobil laccio
Beltà m'accende, ed onestà m'annoda,
Ch'in fiamm'e servitù convien ch'io goda.
Fugga la libertade e tema il ghiaccio.
L'incendio è tal ch'io m'ardo e non mi sfaccio,
E 'l nodo è tal ch'il mondo meco il loda,
Né mi gela timor, né duol mi snoda;
Ma tranquillo è l'ardor, dolce l'impaccio.
Scorgo tant'alto il lume che m'infiamma,
E 'l laccio ordito di sì ricco stame,
Che nascendo il pensier, more il desio.
Poiché mi splend'al cor sì bella fiamma,
E mi stringe il voler sì bel legame,
Sia serva l'ombra, ed arda il cener mio.

6
Tutti gli amori (se sono eroici e non son puri animali, che chiamano naturali e cattivi alla generazione, come instrumenti de la natura in certo modo) hanno per oggetto la divinità, tendeno alla divina bellezza, la quale prima si comunica all'anime e risplende in quelle; e da quelle poi o, per dir meglio, per quelle poi si comunica alli corpi; onde è che l'affetto ben formato ama gli corpi o la corporal bellezza, per quel che è indice della bellezza del spirito. Anzi quello che n'innamora del corpo è una certa spiritualità che veggiamo in esso, la qual si chiama bellezza; la qual non consiste nelle dimensioni maggiori o minori, non nelli determinati colori o forme, ma in certa armonia e consonanza de membri e colori. Questa mostra certa sensibile affinità col spirito a gli sensi più acuti e penetrativi; onde séguita che tali più facilmente ed intensamente s'innamorano; ed anco più facilmente si disamorano, e più intensamente si sdegnano, con quella facilità ed intensione, che potrebbe essere nel cangiamento del spirito brutto, che in qualche gesto ed espressa intenzione si faccia aperto; di sorte che tal bruttezza trascorre da l'anima al corpo, a farlo non apparir oltre come gli apparia bello. La beltà dunque del corpo ha forza d'accendere, ma non già di legare e far che l'amante non possa fuggire, se la grazia, che si richiede nel spirito, non soccorre, come la onestà, la gratitudine, la cortesia, l'accortezza. Però dissi bello quel fuoco che m'accese, perché ancor fu nobile il laccio che m'annodava.
7
\ CIC.\ Non creder sempre cossì, Tansillo; perché qualche volta, quantunque discuopriamo vizioso il spirito, non lasciamo però di rimaner accesi ed allacciati; di maniera che, quantunque la raggion veda il male ed indignità di tale amore, non ha però efficacia d'alienar il disordinato appetito. Nella qual disposizion credo che fusse il Nolano, quando disse:
Oimè, che son constretto dal furore
D'appigliarmi al mio male,
Ch'apparir fammi un sommo ben Amore.
Lasso, a l'alma non cale,
Ch'a contrarii consigli unqua ritenti;
E del fero tiranno,
Che mi nodrisce in stenti,
E poté pormi da me stesso in bando,
Più che di libertade i' son contento.
Spiego le vele al vento,
Che mi suttraga a l'odioso bene,
E tempestoso al dolce danno amene.

8
\ TANS.\ Questo accade, quando l'uno e l'altro spirto è vizioso e son tinti come di medesimo inchiostro, atteso che dalla conformità si suscita, accende e si confirma l'amore. Cossì gli viziosi facilmente concordano in atti di medesimo vizio. E non voglio lasciar de dire ancora quel che per esperienza conosco: che quantunque in un animo abbia discuoperti vizii molto abominati da me, com'è dire una sporca avarizia, una vilissima ingordiggia sul danaio, irreconoscenza di ricevuti favori e cortesie, un amor di persone al tutto vili (de quali vizii quest'ultimo massime dispiace, perché toglie la speranza a l'amante, che per esser egli, o farsi, più degno, possa da lei esser più accettato); tutta volta non mancava ch'io ardesse per la beltà corporale. Ma che? io l'amavo senza buona volontà, essendo che non per questo m'arrei più contristato che allegrato delle sue disgrazie ed infortunii.
9
\ CIC.\ Però è molto propria ed a proposito quella distinzion che fanno intra l'amare e voler bene.
10
\ TANS.\ È vero; perché a molti vogliamo bene, cioè desideramo che siano savii e giusti, ma non le amiamo, perché sono iniqui ed ignoranti; molti amiamo, perché son belli, ma non gli vogliamo bene, perché non meritano. E tra l'altre cose che stima l'amante quello non meritare, la prima è d'essere amato; e però benché non possa astenersi d'amare, niente di meno gli ne rincresce e mostra il suo rincrescimento, come costui che diceva: Oimè, ch'io son costretto dal furore D'appigliarmi al mio male. In contraria disposizione fu, o per altro oggetto corporale in similitudine, o per suggetto divino in verità, quando disse:
Bench'a tanti martir mi fai suggetto.
Pur ti ringrazio, e assai ti deggio, Amore,
Che con sì nobil piaga apriste il petto,
E tal impadroniste del mio core,
Per cui fia ver, ch'un divo e viv'oggetto,
De Dio più bella imago 'n terra adore;
Pensi chi vuol ch'il mio destin sia rio,
Ch'uccid'in speme e fa viv'in desio.
Pascomi in alta impresa;
E bench'il fin bramato non consegua,
E 'n tanto studio l'alma si dilegua,
Basta che sia sì nobilment'accesa;
Basta ch'alto mi tolsi,
E da l'ignobil numero mi sciolsi.

11
L'amor suo qua è a fatto eroico e divino; e per tale voglio intenderlo, benché per esso si dica suggetto a tanti martìri; perché ogni amante, ch'è disunito e separato da la cosa amata (alla quale com'è congionto con l'affetto, vorrebe essere con l'effetto), si trova in cordoglio e pena, si crucia e si tormenta: non già perché ami, atteso che degnissima- e nobilissimamente sente impiegato l'amore; ma perché è privo di quella fruizione la quale ottenerebbe se fusse gionto a quel termine al qual tende. Non dole per il desio che l'avviva, ma per la difficultà del studio ch'il martora. Stiminlo dunque altri a sua posta infelice per questa apparenza de rio destino, come che l'abbia condannato a cotai pene; perché egli non lasciarà per tanto de riconoscer l'obligo ch'ave ad Amore, e rendergli grazie, perché gli abbia presentato avanti gli occhi de la mente una specie intelligibile, nella quale in questa terrena vita, rinchiuso in questa priggione de la carne, ed avvinto da questi nervi, e confirmato da queste ossa, li sia lecito di contemplar più altamente la divinitade, che se altra specie e similitudine di quella si fusse offerta.
12
\ CIC.\ Il divo dunque e vivo oggetto, ch'ei dice, è la specie intelligibile più alta che egli s'abbia possuto formar della divinità; e non è qualche corporal bellezza che gli adombrasse il pensiero, come appare in superficie del senso?
13
\ TANS.\ Vero, perché nessuna cosa sensibile, né specie di quella, può inalzarsi a tanta dignitade.
14
\ CIC.\ Come dunque fa menzione di quella specie per oggetto, se, come mi pare, il vero oggetto è la divinità istessa?
15
\ TANS.\ La è oggetto finale, ultimo e perfettissimo, non già in questo stato dove non possemo veder Dio se non come in ombra e specchio; e però non ne può esser oggetto se non in qualche similitudine; non tale qual possa esser abstratta ed acquistata da bellezza ed eccellenza corporea per virtù del senso; ma qual può esser formata nella mente per virtù de l'intelletto. Nel qual stato ritrovandosi, viene a perder l'amore ed affezion d'ogni altra cosa tanto sensibile quanto intelligibile; perché questa congionta a quel lume dovien lume essa ancora, e per consequenza si fa un Dio: perché contrae la divinità in sé, essendo ella in Dio per la intenzione con cui penetra nella divinità (per quanto si può), ed essendo Dio in ella, per quanto dopo aver penetrato viene a conciperla e (per quanto si può) a ricettarla e comprenderla nel suo concetto. Or di queste specie e similitudini si pasce l'intelletto umano da questo mondo inferiore, sin tanto che non gli sia lecito de mirar con più puri occhi la bellezza della divinitade. Come accade a colui che è gionto a qualch'edificio eccellentissimo ed ornatissimo, mentre va considerando cosa per cosa in quello, si aggrada, si contenta, si pasce d'una nobil maraviglia; ma se avverrà poi che vegga il signor di quelle imagini, di bellezza incomparabilmente maggiore, lasciata ogni cura e pensiero di esse, tutto è volto ed intento a considerar quell'uno. Ecco dunque come è differenza in questo stato dove veggiamo la divina bellezza in specie intelligibili tolte da gli effetti, opre, magisteri, ombre e similitudini di quella; ed in quell'altro stato dove sia lecito di vederla in propria presenza.
16
Dice appresso: Pascomi d'alt'impresa, perché (come notano gli pitagorici) cossì l'anima si versa e muove circa Dio, come il corpo circa l'anima.
17
\ CIC.\ Dunque, il corpo non è luogo de l'anima?
18
\ TANS.\ Non; perché l'anima non è nel corpo localmente, ma come forma intrinseca e formatore estrinseco; come quella che fa gli membri, e figura il composto da dentro e da fuori. Il corpo dunque è ne l'anima, l'anima nella mente, la mente o è Dio, o è in Dio, come disse Plotino: cossì come per essenza è in Dio che è la sua vita, similmente per l'operazione intellettuale e la voluntà conseguente dopo tale operazione, si referisce alla sua luce e beatifico oggetto. Degnamente dunque questo affetto de l'eroico furore si pasce de sì alta impresa. Né per questo che l'obietto è infinito, in atto simplicissimo, e la nostra potenza intellettiva non può apprendere l'infinito se non in discorso, o in certa maniera de discorso, com'è dire in certa raggione potenziale o aptitudinale, è come colui che s'amena a la consecuzion de l'immenso onde vegna a constituirse un fine dove non è fine.
19
\ CIC.\ Degnamente, perché l'ultimo fine non deve aver fine, atteso che sarebe ultimo. È dunque infinito in intenzione, in perfezione, in essenza ed in qualsivoglia altra maniera d'esser fine.
20
\ TANS.\ Dici il vero. Or in questa vita tal pastura è di maniera tale, che più accende, che possa appagar il desìo, come ben mostra quel divino poeta, che disse: Bramando è lassa l'alma a Dio vivente; ed in altro luogo: Attenuati sunt oculi mei suspicientes in excelsum. Però dice: E bench'il fin bramato non consegua, E 'n tanto studio l'alma si dilegua, Basta che sia sì nobilmente accesa: vuol dire, ch'in tanto l'anima si consola e riceve tutta la gloria che può ricevere in cotal stato, e che sia partecipe di quell'ultimo furor de l'uomo, in quanto uomo di questa condizione, nella qual si trova adesso, e come ne veggiamo.
21
\ CIC.\ Mi par che gli peripatetici (come esplicò Averroe) vogliano intender questo, quando dicono la somma felicità de l'uomo consistere nella perfezione per le scienze.speculative.
22
\ TANS.\ È vero, e dicono molto bene; perché noi in questo stato nel qual ne ritroviamo, non possiamo desiderar né ottener maggior perfezione che quella in cui siamo quando il nostro intelletto mediante qualche nobil specie intelligibile s'unisce o alle sustanze separate, come dicono costoro, o a la divina mente, come è modo de dir de platonici. Lascio per ora di raggionar de l'anima, o uomo in altro stato e modo di essere che possa trovarsi o credersi.
23
\ CIC.\ Ma che perfezione o satisfazione può trovar l'uomo in quella cognizione la quale non è perfetta?
24
\ TANS.\ Non sarà mai perfetta per quanto l'altissimo oggetto possa esser capito, ma per quanto l'intelletto nostro possa capire: basta che in questo ed altro stato gli sia presente la divina bellezza per quanto s'estende l'orizonte della vista sua.
25
\ CIC.\ Ma de gli uomini non tutti possono giongere a quello dove può arrivar uno o doi.
26
\ TANS.\ Basta che tutti corrano; assai è ch'ognun faccia il suo possibile; perché l'eroico ingegno si contenta più tosto di cascar o mancar degnamente e nell'alte imprese, dove mostre la dignità del suo ingegno, che riuscir a perfezione in cose men nobili e basse.
27
\ CIC.\ Certo che meglio è una degna ed eroica morte, che un indegno e vil trionfo.
28
\ TANS.\ A cotal proposito feci questo sonetto:
Poi che spiegat'ho l'ali al bel desio,
Quanto più sott'il piè l'aria mi scorgo,
Più le veloci penne al vento porgo,
E spreggio il mondo, e vers'il ciel m'invio.
Né del figliuol di Dedalo il fin rio
Fa che giù pieghi, anzi via più risorgo.
Ch'i' cadrò morto a terra, ben m'accorgo,
Ma qual vita pareggia al morir mio?
La voce del mio cor per l'aria sento:
- Ove mi porti, temerario? China,
Che raro è senza duol tropp'ardimento.
-Non temer, respond'io, l'alta ruina.
Fendi sicur le nubi, e muor contento,
S'il ciel sì illustre morte ne destina.

29
\ CIC.\ Io intendo quel che dice: basta ch'alto mi tolsi; ma non quando dice: e da l'ignobil numero mi sciolsi, s'egli non intende d'esser uscito fuor de l'antro platonico, rimosso dalla condizion della sciocca ed ignobilissima moltitudine; essendo che quei che profittano in questa contemplazione, non possono esser molti e numerosi.
30
\ TANS.\ Intendi molto bene. Oltre, per l'ignobil numero può intendere il corpo e sensual cognizione, dalla quale bisogna alzarsi e disciôrsi chi vuol unirsi alla natura di contrario geno.
31
\ CIC.\ Dicono gli platonici due sorte de nodi con gli quali l'anima è legata al corpo. L'uno è certo atto vivifico che da l'anima come un raggio scende nel corpo; l'altro è certa qualità vitale che da quell'atto risulta nel corpo. Or questo numero nobilissimo movente, ch'è l'anima, come.intendete che sia disciolto da l'ignobil numero, ch'è il corpo?
32
\ TANS.\ Certo non s'intendeva secondo alcun modo di questi; ma secondo quel modo con cui le potenze che non son comprese e cattivate nel grembo de la materia, e qualche volta come sopite ed inebriate si trovano quasi ancora esse occupate nella formazion della materia e vivificazion del corpo; talor come risvegliate e ricordate di se stesse, riconoscendo il suo principio e geno, si voltano alle cose superiori, si forzano al mondo intelligibile, come al natio soggiorno; quali tal volta da là, per la conversione alle cose inferiori, si son trabalsate sotto il fato e termini della generazione. Questi doi appolsi son figurati nelle due specie de metamorfosi espresse nel presente articolo che dice:
Quel dio che scuote il folgore sonoro,
Asterie vedde furtivo aquilone,
Mnemosine pastor, Danae oro,
Alcmena pesce, Antiopa caprone;
Fu di Cadmo a le suore bianco toro,
A Leda cigno, a Dolide dragone:
Io per l'altezza de l'oggetto mio
Da suggetto più vil dovegno un dio.
Fu cavallo Saturno,
Nettun delfin, e vitello si tenne
Ibi, e pastor Mercurio dovenne,
Un'uva Bacco, Apollo un corvo furno;
Ed io, mercé d'amore,
Mi cangio in dio da cosa inferiore.

33
Nella natura è una revoluzione ed un circolo per cui, per l'altrui perfezione e soccorso, le cose superiori s'inchinano all'inferiori, e per propria eccellenza e felicitade le cose inferiori s'inalzano alle superiori. Però vogliono i pitagorici e platonici esser donato a l'anima, ch'a certi tempi non solo per spontanea voluntà, la qual le rivolta alla comprension de le nature; ma ed anco della necessità d'una legge interna scritta e registrata dal decreto fatale vanno a trovar la propria sorte giustamente determinata. E dicono che l'anime non tanto per certa determinazione e proprio volere, come ribelle, declinano dalla divinità, quanto per certo ordine per cui vegnono affette verso la materia: onde, non come per libera intenzione, ma come per certa occolta conseguenza vegnono a cadere. E questa è l'inclinazion ch'hanno alla generazione, come a certo minor bene. (Minor bene dico, per quanto appartiene a quella natura particolare; non già per quanto appartiene alla natura universale, dove niente accade senza ottimo fine che dispone il tutto secondo la giustizia). Nella qual generazione ritrovandosi (per la conversione che vicissitudinalmente succede) de nuovo ritornano a gli abiti superiori.
34
\ CIC.\ Sì che vogliono costoro che l'anime sieno spinte dalla necessità del fato, e non hanno proprio consiglio che le guide a fatto?
35
\ TANS.\ Necessità, fato, natura, consiglio, voluntà nelle.cose giustamente e senza errore ordinate, tutti concorreno in uno. Oltre che, come riferisce Plotino, vogliono alcuni che certe anime possono fuggir quel proprio male, le quali prima che se gli confirme l'abito corporale, conoscendo il periglio, rifuggono alla mente. Perché la mente l'inalza alle cose sublimi, come l'imaginazion l'abbassa alle cose inferiori; la mente le mantiene nel stato ed identità come l'imaginazione nel moto e diversità; la mente sempre intende uno, come l'imaginazione sempre vassi fingendo varie imagini. In mezzo è la facultà razionale la quale è composta de tutto, come quella in cui concorre l'uno con la moltitudine, il medesimo col diverso, il moto col stato, l'inferiore col superiore.
36
Or questa conversione e vicissitudine è figurata nella ruota delle metamorfosi, dove siede l'uomo nella parte eminente, giace una bestia al fondo, un mezzo uomo e mezzo bestia descende dalla sinistra, ed un mezzo bestia e mezzo uomo ascende de la destra. Questa conversione si mostra dove Giove, secondo la diversità de affetti e maniere di quelli verso le cose inferiori, s'investisce de diverse figure, dovenendo in forma de bestie; e cossì gli altri dei transmigrano in forme basse ed aliene. E per il contrario, per sentimento della propria nobiltà, ripigliano la propria e divina forma: come il furioso eroico, inalzandosi per la conceputa specie della divina beltà e bontade, con l'ali de l'intelletto e voluntade intellettiva s'inalza alla divinitade, lasciando la forma de suggetto più basso. E però disse: Da suggetto più vil dovegno un Dio, Mi cangio in Dio da cosa inferiore.

Parte 1, dial.4

1 \ TANS.\ Cossì si descrive il discorso de l'amor eroico, per quanto tende al proprio oggetto, ch'è il sommo bene, e l'eroico intelletto che giongersi studia al proprio oggetto, che è il primo vero o la verità absoluta. Or nel primo discorso apporta tutta la somma di questo e l'intenzione; l'ordine della quale vien descritto in cinque altri seguenti. Dice dunque:
Alle selve i mastini e i veltri slaccia
Il giovan Atteon, quand'il destino
Gli drizz'il dubio ed incauto camino,
Di boscareccie fiere appo la traccia.
Ecco tra l'acqui il più bel busto e faccia,
Che veder poss'il mortal e divino,
In ostro ed alabastro ed oro fino
Vedde; e 'l gran cacciator dovenne caccia.
Il cervio ch'a' più folti
Luoghi drizzav'i passi più leggieri,
Ratto vorâro i suoi gran cani e molti.
I' allargo i miei pensieri
Ad alta preda, ed essi a me rivolti
Morte mi dàn con morsi crudi e fieri.

2
Atteone significa l'intelletto intento alla caccia della divina sapienza, all'apprension della beltà divina. Costui slaccia i mastini ed i veltri. De quai questi son più veloci, quelli più forti. Perché l'operazion de l'intelletto precede l'operazion della voluntade; ma questa è più vigorosa ed efficace che quella; atteso che a l'intelletto umano è più amabile che comprensibile la bontade e bellezza divina, oltre che l'amore è quello che muove e spinge l'intelletto acciò che lo preceda, come lanterna. Alle selve, luoghi inculti e solitarii, visitati e perlustrati da pochissimi, e però dove non son impresse l'orme de molti uomini. Il giovane poco esperto e prattico, come quello di cui la vita è breve ed instabile il furore, nel dubio camino de l'incerta ed ancipite raggione ed affetto designato nel carattere di Pitagora, dove si vede più spinoso, inculto e deserto il destro ed arduo camino, e per dove costui slaccia i veltri e mastini appo la traccia di boscareccie fiere, che sono le specie intelligibili de' concetti ideali; che sono occolte, perseguitate da pochi, visitate da rarissimi, e che non s'offreno a tutti quelli che le cercano. Ecco tra l'acqui, cioè nel specchio de le similitudini, nell'opre dove riluce l'efficacia della bontade e splendor divino: le quali opre vegnon significate per il suggetto de l'acqui superiori ed inferiori, che son sotto e sopra il firmamento; vede il più bel busto e faccia, cioè potenza ed operazion esterna che veder si possa per abito ed atto di contemplazione ed applicazion di mente mortal o divina, d'uomo o dio alcuno.
3
\ CIC.\ Credo che non faccia comparazione, e pona come in medesimo geno la divina ed umana apprensione quanto al modo di comprendere il quale è diversissimo, ma quanto al.suggetto che è medesimo.
4
\ TANS.\ Cossì è. Dice in ostro alabastro ed oro, perché quello che in figura nella corporal bellezza è vermiglio, bianco e biondo, nella divinità significa l'ostro della divina vigorosa potenza, l'oro della divina sapienza, l'alabastro della beltade divina, nella contemplazion della quale gli pitagorici, Caldei, platonici ed altri, al meglior modo che possono, s'ingegnano d'inalzarsi. Vedde il gran cacciator: comprese, quanto è possibile e dovenne caccia: andava per predare e rimase preda questo cacciator per l'operazion de l'intelletto con cui converte le cose apprese in sé.
5
\ CIC.\ Intendo, perché forma le specie intelligibili a suo modo e le proporziona alla sua capacità, perché son ricevute a modo de chi le riceve.
6
\ TANS.\ E questa caccia per l'operazion della voluntade, per atto della quale lui si converte nell'oggetto.
7
\ CIC.\ Intendo, perché lo amore transforma e converte nella cosa amata.
8
\ TANS.\ Sai bene che l'intelletto apprende le cose intelligibilmente, idest secondo il suo modo; e la voluntà perseguita le cose naturalmente, cioè secondo la raggione con la quale sono in sé. Cossì Atteone con que' pensieri, quei cani che cercavano estra di sé il bene, la sapienza, la beltade, la fiera boscareccia, ed in quel modo che giunse alla presenza di quella, rapito fuor di sé da tanta bellezza, dovenne preda, veddesi convertito in quel che cercava; e s'accorse che de gli suoi cani, de gli suoi pensieri egli medesimo venea ad essere la bramata preda, perché già avendola contratta in sé, non era necessario di cercare fuor di sé la divinità.
9
\ CIC.\ Però ben si dice il regno de Dio esser in noi, e la divinitade abitar in noi per forza del riformato intelletto e voluntade.
10
\ TANS.\ Cossì è. Ecco dunque come l'Atteone, messo in preda de suoi cani, perseguitato da proprii pensieri, corre e drizza i novi passi; è rinovato a procedere divinamente e più leggiermente, cioè con maggior facilità e con una più efficace lena, a' luoghi più folti, alli deserti, alla reggion de cose incomprensibili; da quel ch'era un uom volgare e commune, dovien raro ed eroico, ha costumi e concetti rari, e fa estraordinaria vita. Qua gli dàn morte i suoi gran cani e molti: qua finisce la sua vita secondo il mondo pazzo, sensuale, cieco e fantastico, e comincia a vivere intellettualmente; vive vita de dei, pascesi d'ambrosia e inebriasi di nettare. - Appresso sotto forma d'un'altra similitudine descrive la maniera con cui s'arma alla ottenzion de l'oggetto, e dice:
Mio passar solitario, a quella parte
Che adombr'e ingombra tutt'il mio pensiero,
Tosto t'annida ivi ogni tuo mestiero
Rafferma, ivi l'industria spendi e l'arte.
Rinasci là, là su vogli allevarte
Gli tuoi vaghi pulcini omai ch'il fiero
Destin av'espedit'il cors'intiero.
Contro l'impresa, onde solea ritrarte.
Va', più nobil ricetto
Bramo ti godi, e arai per guida un dio
Che da chi nulla vede, è cieco detto.
Va', ti sia sempre pio
Ogni nume di quest'ampio architetto,
E non tornar a me se non sei mio.

11
Il progresso sopra significato per il cacciator che agita gli suoi cani, vien qua ad esser figurato per un cuor alato che è inviato da la gabbia, in cui si stava ocioso e quieto, ad annidarsi alto, ad allievar gli pulcini, suoi pensieri, essendo venuto il tempo in cui cessano gli impedimenti che da fuori mille occasioni, e da dentro la natural imbecillità subministravano. Licenzialo dunque, per fargli più magnifica condizione, applicandolo a più alto proposito ed intento, or che son più fermamente impiumate quelle potenze de l'anima significate anco da platonici per le due ali. E gli commette per guida quel dio che dal cieco volgo è stimato insano e cieco, cioè l'Amore; il qual per mercé e favor del cielo è potente di trasformarlo come in quell'altra natura alla quale aspira o quel stato dal quale va peregrinando bandito. Onde disse: E non tornar a me che non sei mio, di sorte che non con indignità possa io dire con quell'altro:
Lasciato m'hai, cuor mio,
E lume d'occhi miei, non sei più meco.

12
Appresso descrive la morte de l'anima, che da cabalisti è chiamata morte di bacio, figurata nella Cantica di Salomone, dove l'amica dice:
Che mi bacie col bacio de sua bocca,
Perché col suo ferire
Un troppo crudo amor mi fa languire;

da altri è chiamata sonno, dove dice il Salmista:
S'avverrà, ch'io dia sonno a gli occhi miei,
E le palpebre mie dormitaransi,
Arrò 'n colui pacifico riposo.

13
Dice, dunque, cossì l'alma, come languida per esser morta in sé, e viva ne l'oggetto:
Abbiate cura, o furiosi, al core;
Ché tropp'il mio, da me fatto lontano,
Condotto in crud'e dispietata mano,
Lieto soggiorn'ove si spasma e muore.
Co i pensier mel richiamo a tutte l'ore;
Ed ei rubello, qual girfalco insano,
Non più conosce quell'amica mano,
Onde, per non tornar, è uscito fore.
Bella fera, ch'in pene
Tante contenti, il cor, spirto, alma annodi
Con tue punte, tuoi vampi e tue catene,
De sguardi, accenti e modi;
Quel che languisc'ed arde, e non riviene,
Chi fia che saldi, refrigere e snodi?

14
Ivi l'anima dolente non già per vera discontentezza, ma con affetto di certo amoroso martìre parla come drizzando il suo sermone a gli similmente appassionati: come se non a felice suo grado abbia donato congedo al core, che corre.dove non può arrivare, si stende dove non può giongere, e vuol abbracciare quel che non può comprendere; e con ciò perché in vano s'allontane da lei, mai sempre più e più va accendendosi verso l'infinito.
15
\ CIC.\ Onde procede, o Tansillo, che l'animo in tal progresso s'appaga del suo tormento? onde procede quel sprone ch'il stimola sempre oltre quel che possiede?
16
\ TANS.\ Da questo, che ti dirò adesso. Essendo l'intelletto divenuto all'apprension d'una certa e definita forma intelligibile, e la volontà all'affezione commensurata a tale apprensione, l'intelletto non si ferma là; perché dal proprio lume è promosso a pensare a quello che contiene in sé ogni geno de intelligibile ed appetibile, sin che vegna ad apprendere con l'intelletto l'eminenza del fonte de l'idee, oceano d'ogni verità e bontade. Indi aviene che qualunque specie gli vegna presentata e da lei vegna compresa, da questo che è presentata e compresa, giudica che sopra essa è altra maggiore e maggiore, con ciò sempre ritrovandosi in discorso e moto in certa maniera. Perché sempre vede che quel tutto che possiede, è cosa misurata, e però non può essere bastante per sé, non buono da per sé, non bello da per sé; perché non è l'universo, non è l'ente absoluto, ma contratto ad esser questa natura, ad esser questa specie, questa forma rapresentata a l'intelletto e presente a l'animo. Sempre dunque dal bello compreso, e per conseguenza misurato, e conseguentemente bello per participazione, fa progresso verso quello che è veramente bello, che non ha margine e circonscrizione alcuna.
17
\ CIC.\ Questa prosecuzione mi par vana.
18
\ TANS.\ Anzi non, atteso che non è cosa naturale né conveniente che l'infinito sia compreso, né esso può donarsi finito, percioché non sarrebe infinito; ma è conveniente e naturale che l'infinito, per essere infinito, sia infinitamente perseguitato, in quel modo di persecuzione il quale non ha raggion di moto fisico, ma di certo moto metafisico; ed il quale non è da imperfetto al perfetto, ma va circuendo per gli gradi della perfezione, per giongere a quel centro infinito, il quale non è formato né forma.
19
\ CIC.\ Vorrei sapere come circuendo si può arrivare al centro?
20
\ TANS.\ Non posso saperlo.
21
\ CIC.\ Perché lo dici?
22
\ TANS.\ Perché posso dirlo e lasciarvel considerare.
23
\ CIC.\ Se non volete dire che quel che perséguita l'infinito, è come colui che discorrendo per la circonferenza cerca il centro, io non so quel che vogliate dire.
24
\ TANS.\ Altro.
25
\ CIC.\ Or se non vuoi dechiararti, io non voglio intenderti. Ma dimmi, se ti piace: che intende per quel che dice il core esser condotto in cruda e dispietata mano?
26
\ TANS.\ Intende una similitudine o metafora tolta da quel, che comunmente si dice crudele chi non si lascia fruire o non pienamente fruire, e che è più in desio che in possessione; onde per quel che possiede alcuno, non al tutto lieto soggiorna, perché brama, si spasma e muore.
27
\ CIC.\ Quali son quei pensieri che il richiamano a dietro, per ritrarlo da sì generosa impresa?
28
\ TANS.\ Gli affetti sensitivi ed altri naturali che guardano al regimento del corpo.
29
\ CIC.\ Che hanno a far quelli di questo che in modo alcuno non può aggiutargli, né favorirgli?
30
\ TANS.\ Non hanno a far di lui, ma de l'anima; la quale, essendo tr