DAVID HUME

LA CAUSALITA'


A cura di Gigliana Maestri



La critica svolta da Hume alla nozione di causalità mira a dimostrare che noi non percepiamo mai una reale connessione fra due oggetti posti in un rapporto di causa-effetto, ma che tale connessione è semplicemente un'impressione della mente, ossia la determinazione della mente a passare da un oggetto ad un altro. Hume affronta questo problema nella terza parte del I libro del Trattato sulla natura umana. In primo luogo, la causalità è una relazione filosofica. Quando, in filosofia, si parla di "relazione" s'intende qualsiasi tipo di paragone istituito fra oggetti o idee indipendentemente da un principio di connessione. Ad esempio, anche la "distanza" è una relazione, perché ne acquistiamo l'idea mettendo a paragone gli oggetti. Per comprendere meglio quanto affermato, occorre ricordare che i ragionamenti consistono proprio nel porre a confronto gli oggetti, in modo da scoprirne le relazioni costanti o incostanti. I paragoni possono essere istituiti sia se entrambi gli oggetti sono immediatamente presenti ai sensi, sia in presenza di uno solo di essi, e anche in assenza di entrambi. La causalità, insieme all'identità ed alla situazione spazio-temporale, fa parte di quelle relazioni filosofiche che non dipendono esclusivamente dal confronto fra le idee, e, in questo ambito, è "la sola che possa spingersi al di là dei sensi, ed informarci dell'esistenza di oggetti che non vediamo né sentiamo". Due sono le caratteristiche fondamentali della relazione causale: essa implica sempre "contiguità" e "priorità" della causa rispetto all'effetto. Prima di tutto, due oggetti considerati come causa ed effetto sono contigui; anche quando pensiamo che due cose fra loro distanti possano essere in un rapporto di causa-effetto, esaminandole bene ci accorgiamo che, in realtà, sono unite da una catena di cause contigue, sia tra loro sia tra gli oggetti distanti. In secondo luogo, una causa precede sempre il suo effetto. Se, al contrario, causa ed effetto fossero "contemporanei", allora avremmo la distruzione di quella successione di cause che osserviamo nel mondo, e addirittura il totale annientamento del tempo. Occorre infatti pensare che l'essenza del tempo consiste nell'essere costituito da istanti contigui, ciascuno ben distinto dagli altri e perfettamente indivisibile; se ogni momento del tempo fosse invece divisibile all'infinito, avremmo un infinito numero di istanti coesistenti, e verrebbe meno la nostra percezione della "successione" (sappiamo che ciò non può essere: quest'anno, che è il 2005, non coincide con l'anno precedente e neppure con il futuro 2006). Ora, tornando al discorso principale, appare chiaro che se causa ed effetto coesistessero, non percepiremmo più la successione del tempo, e ciò, come si è dimostrato, sarebbe assurdo. Se contiguità e priorità sono relazioni importanti per la causalità, tuttavia non sono esaurienti, perché un oggetto può benissimo essere contiguo ed antecedente ad un altro, senza però costituirne la causa. D'altra parte, occorre evitare la tentazione di definire una causa come qualcosa che ne produce un'altra, in quanto il verbo "produrre" ha il medesimo significato del verbo "causare", e perciò si rischia di cadere in un inutile circolo vizioso. Per spiegare adeguatamente la causalità occorre invece prendere in esame la relazione di connessione necessaria, che in questo contesto è molto più importante della contiguità e della priorità. In effetti, la causalità implica sempre una connessione tra gli oggetti, e l'idea di una simile connessione deriva dall'esperienza, nel senso che questa costituisce la condizione fondamentale per poter inferire l'esistenza di un oggetto da quella di un altro. Quando vediamo due oggetti sempre uniti insieme, e facciamo quest'esperienza numerose volte, accade che poi, se incontriamo uno di questi oggetti, la nostra mente si raffigura l'altro, anche se assente. Si può proporre un esempio:abbiamo visto un oggetto che chiamiamo "fiamma", e, accanto ad esso, abbiamo sentito una sensazione che chiamiamo "calore". Grazie ad una serie di esperienze simili, osserviamo che alla fiamma "è sempre associato" il calore. Così, senza porci troppi problemi, chiamiamo la fiamma "causa" e il calore "effetto", stabilendo una connessione necessaria fra questi due oggetti, nel senso che ne abbiamo "scoperto" il costante congiungimento. A questo punto, però, si apre un problema:occorre stabilire se tale connessione necessaria esista oggettivamente, o se piuttosto si tratti di un frutto della nostra mente, una specie di "finzione". Si è detto che giungiamo all'idea di connessione necessaria attraverso l'esperienza. Ora, l'esperienza ha sempre a che fare con il passato, in quanto si forma sulla base delle osservazioni condotte in passato. Tuttavia, secondo Hume l'esperienza non può offrirci alcuna garanzia circa il futuro, perché un cambiamento nel corso delle cose o della natura è sempre ammissibile. In altre parole, non possiamo mai essere certi che un determinato fatto accaduto in passato si ripresenti sempre nello stesso identico modo anche in futuro, perché non è contraddittorio supporre la possibilità di un cambiamento (si tratta di una "questione di fatto", per la quale non vale il principio di non-contraddizione: possiamo pensare che una medesima cosa sia o non sia, esista o non esista). Tuttavia, è vero che noi siamo soliti trasferire la nostra esperienza di casi passati al futuro, ma lo facciamo semplicemente per un "meccanismo psicologico" quale l'abitudine. Essa è "ciò che procede da un'antecedente ripetizione". L'esperienza ci offre infatti moltissimi casi di oggetti simili posti in simili relazioni di contiguità e successione. Dopo frequenti ripetizioni della medesima esperienza ci accorgiamo che, quando incontriamo uno di questi oggetti, la nostra mente è "necessariamente" determinata per abitudine a rappresentarsi anche l'altro, che sempre lo accompagna. E' proprio tale "determinazione" a far nascere in noi l'idea di "necessità". Secondo Hume, questo è uno degli argomenti più rilevanti in ambito filosofico, un argomento che in genere viene definito come quello della "potenza ed efficacia delle cause". Comunemente, siamo tutti portati a credere che una causa sia veramente tale in quanto possiede un'energia o una forza o un potere in grado di dare luogo ad un effetto. Si tratta di una credenza ricavata dal fatto che, nel mondo della natura, vi sono sempre molte nuove produzioni, che perciò c'inducono a ritenere che esistano delle cause in grado di crearle. Occorre tuttavia tenere presente che, in questo caso, stiamo affrontando un problema puramente verbale:infatti, i termini "efficacia, azione, potenza, forza, energia, necessità, connessione" sono tutti, più o meno, sinonimi, e quindi è assurdo usarne uno per definire gli altri. Vediamo ora dettagliatamente in che modo ci formiamo l'idea di potenza o forza di una causa. Il ragionamento non è in grado di produrre tale idea, perché da solo, a priori, non può mai far nascere un'idea originale, nuova; tale idea deve provenire dall'esperienza, ossia attraverso la sensazione o la riflessione. Se, ad esempio, osserviamo due oggetti, di cui uno sia la causa e l'altro l'effetto, non percepiamo il legame che li unisce, e non saremo mai in grado di affermare con certezza che esiste, fra di essi, una connessione necessaria. Quindi, non è l'osservazione di un caso singolo a produrre in noi l'idea di potenza ed efficacia della causa. D'altra parte, neppure la frequente ripetizione di casi simili può, per se stessa, far scaturire un'idea nuova, originale, differente da ciò che si trova in un caso singolo, come quella di potenza od efficacia. In altri termini, nel costante congiungimento degli oggetti e nella somiglianza delle loro relazioni di contiguità e successione, non viene mai "scoperto" nulla di nuovo; soltanto l'osservazione di tale somiglianza produce nella mente una nuova "impressione", che è quella di potenza o di necessità (sinonimi). In conclusione, come si è detto, la necessità è qualcosa che esiste soltanto nella nostra mente, ossia è la determinazione della mente a passare da un oggetto ad un altro, da un'idea all'altra. Ma c'è una questione altrettanto importante. Quando la mente passa da un'idea all'altra, compie questa operazione soltanto grazie a dei "principi associativi", che consentono di unire le nostre idee nell'immaginazione. Tali principi sono: somiglianza, contiguità e causalità. Ciò significa che, se abbiamo un'idea, la nostra mente tende naturalmente a passare all'idea che le assomiglia, che le è contigua e che le è connessa. La causalità, quindi, non è soltanto una relazione filosofica, ma è anche una delle proprietà che consentono l'unione delle idee nell'immaginazione, e il facile passaggio dall'una all'altra (si tenga presente che i tre principi enunciati non sono gli unici a determinare l'aggregazione delle idee, anche perché il pensiero si muove molto irregolarmente fra di esse;tuttavia, sono i principi più generali). Solo in quanto principio di associazione fra le idee, la causalità ci consente l'inferenza da un'idea all'altra. Pertanto, secondo Hume possiamo stabilire due definizioni della causalità, una che la intende come relazione filosofica, l'altra che la considera un principio di associazione. Secondo la prima definizione, la causalità è un oggetto contiguo ed antecedente ad un altro, e tale che tutti gli oggetti somiglianti al primo sono posti in simili relazioni di contiguità e priorità con tutti gli oggetti somiglianti al secondo. Invece, in base alla seconda definizione, la causa è un oggetto contiguo ed antecedente a un altro, e talmente unito ad esso che l'idea dell'uno determina la mente a passare all'idea dell'altro, e l'impressione dell'uno a rendere più vivace l'idea dell'altro. A questo punto, viene meno la convinzione, profondamente radicata sia nel popolo sia nei filosofi, che ogni oggetto che inizi ad esistere debba sempre avere una causa della sua esistenza. Si suppone che questa massima sia intuitivamente vera, ma le definizioni di causalità appena presentate ne mostrano l'infondatezza; inoltre, dal momento che tutte le idee distinte sono anche separabili, e che le idee di causa ed effetto sono distinte, allora per noi è facile concepire un oggetto come non esistente in questo momento ed esistente un attimo dopo, senza unirvi l'idea, da esso distinta, d'una causa. In conclusione, è evidente che la necessità della relazione causale non ha fondamento logico e neppure empirico, ma soltanto psicologico. Del resto, tutta la speculazione humeana è volta a dimostrare, nell'ambito delle conoscenze sperimentali, il fondamento psicologico delle credenze e dei concetti umani.

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