Baldassarre Castiglione
IL LIBRO DEL CORTEGIANO
IL PRIMO LIBRO DEL CORTEGIANO DEL CONTE BALDESAR CASTIGLIONE A MESSER ALFONSO ARIOSTO
IL SECONDO LIBRO DEL CORTEGIANO DEL CONTE BALDESAR CASTIGLIONE A MESSER ALFONSO ARIOSTO
IL TERZO LIBRO DEL CORTEGIANO DEL CONTE BALDESAR CASTIGLIONE A MESSER ALFONSO ARIOSTO
IL QUARTO LIBRO DEL CORTEGIANO DEL CONTE BALDESAR CASTIGLIONE A MESSER ALFONSO ARIOSTO
Al reverendo ed illustre signor
DON MICHEL DE SILVA
vescovo di Viseo
I.
Quando il signor Guid'Ubaldo di Montefeltro, duca d'Urbino, passò di questa vita, io insieme con alcun'altri cavalieri che l'aveano servito restai alli servizi del duca Francesco Maria della Rovere, erede e successor di quello nel stato; e come nell'animo mio era recente l'odor delle virtú del duca Guido e la satisfazione che io quegli anni aveva sentito della amorevole compagnia di così eccellenti persone, come allora si ritrovarono nella corte d'Urbino, fui stimulato da quella memoria a scrivere questi libri del Cortegiano; il che io feci in pochi giorni, con intenzione di castigar col tempo quegli errori, che dal desiderio di pagar tosto questo debito erano nati. Ma la fortuna già molt'anni m'ha sempre tenuto oppresso in così continui travagli, che io non ho mai potuto pigliar spazio di ridurgli a termine, che il mio debil giudicio ne restasse contento. Ritrovandomi adunque in Ispagna ed essendo di Italia avvisato che la agnora Vittoria dalla Colonna, marchesa di Pescara, alla quale io già feci copia del libro, contra la promessa sua ne avea fatto transcrivere una gran parte, non potei non sentirne qualche fastidio, dubitandomi di molti inconvenienti, che in simili casi possono occorrere; nientedimeno mi confidai che l'ingegno e prudenzia di quella Signora, la virtú della quale io sempre ho tenuto in venerazione come cosa divina, bastasse a rimediare che pregiudicio alcuno non mi venisse dall'aver obedito a' suoi comandamenti. In ultimo seppi che quella parte del libro si ritrovava in Napoli in mano di molti; e, come sono gli omini sempre cupidi di novità, parea che quelli tali tentassero di farla imprimere. Ond'io, spaventato da questo periculo, diterminaimi di riveder súbito nel libro quel poco che mi comportava il tempo, con intenzione di publicarlo; estimando men male lasciarlo veder poco castigato per mia mano che molto lacerato per man d'altri. Cosí, per eseguire questa deliberazione cominciai a rileggerlo; e súbito nella prima fronte, ammonito dal titulo, presi non mediocre tristezza, la qual ancora nel passar piú avanti molto si accrebbe, ricordandomi la maggior parte di coloro, che sono introdutti nei ragionamenti', esser già morti: che, oltre a quelli de chi si fa menzione nel proemio dell'ultimo, morto è il medesimo messer Alfonso Ariosto, a cui il libro è indrizzato, giovane affabile, discreto, pieno di suavissimi costumi ed atto ad ogni cosa conveniente ad omo di corte. Medesimamente il duca Iuliano de' Medici, la cui bontà e nobil cortesia meritava piú lungamente dal mondo esser goduta. Messer Bernardo, Cardinal di Santa Maria in Portico, il quale per una acuta e piacevole prontezza d'ingegno fu gratissimo a qualunque lo conobbe, Pur è morto. Morto è il signor Ottavian Fregoso, omo a' nostri tempi rarissimo, magnanimo, religioso, pien di bontà, d'ingegno, prudenzia e cortesia e veramente amico d'onore e di virtú e tanto degno di laude, che li medesimi inimici suoi furono sempre constretti a laudarlo; e quelle disgrazie, che esso constantissimamente supportò, ben furono bastanti a far fede che la fortuna, come sempre fu, cosí è ancor oggidí contraria alla virtú. Morti sono ancor molti altri dei nominati nel libro, ai quali parea che la natura promettesse lunghissima vita. Ma quello che senza lacrime raccontar non si devria è che la signora Duchessa essa ancor è morta; e se l'animo mio si turba per la perdita de tanti amici e signori mei, che m'hanno lasciato in questa vita come in una solitudine piena d'affanni, ragion è che molto piú acerbamente senta il dolore della morte della signora Duchessa che di tutti gli altri, perché essa molto piú che tutti gli altri valeva ed io ad essa molto piú che a tutti gli altri era tenuto. Per non tardare adunque a pagar quello, che io debbo alla memoria de cosí eccellente Signora e degli altri che piú non vivono, indutto ancora dal periculo del libro, hollo fatto imprimere e publicare tale qual dalla brevità del tempo m'è stato concesso. E perché voi né della signora Duchessa né degli altri che son morti, fuor che del duca Iuliano e del Cardinale di Santa Maria in Portico, aveste noticia in vita loro, acciò che, per quanto io posso, l'abbiate dopo la morte, mandovi questo libro come un ritratto di pittura della corte d'Urbino, non di mano di Rafaello o Michel Angelo, ma di pittor ignobile e che solamente sappia tirare le linee principali, senza adornar la verità de vaghi colori o far parer per arte di prospettiva quello che non è. E come ch'io mi sia sforzato di dimostrar coi ragionamenti le proprietà e condicioni di quelli che vi sono nominati, confesso non avere, non che espresso, ma né anco accennato le virtú della signora Duchessa; perché non solo il mio stile non è sufficiente ad esprimerle, ma pur l'intelletto ad imaginarle; e se circa questo o altra cosa degna di riprensione (come ben so che nel libro molte non mancano) sarò ripreso, non contradirò alla verità.
II.
Ma perché talor gli omini tanto si dilettano di riprendere, che riprendono ancor quello che non merita riprensione, ad alcuni che mi biasimano perch'io non ho imitato il Boccaccio, né mi sono obligato alla consuetudine del parlar toscano d'oggidí, non restarò di dire che, ancor che 'l Boccaccio fusse di gentil ingegno, secondo quei tempi, e che in alcuna parte scrivesse con discrezione ed industria, nientedimeno assai meglio scrisse quando si lassò guidar solamente dall'ingegno ed instinto suo naturale, senz'altro studio o cura di limare i scritti suoi, che quando con diligenzia e fatica si sforzò d'esser piú culto e castigato. Perciò li medesimi suoi fautori affermano che esso nelle cose sue proprie molto s'ingannò di giudicio, tenendo in poco quelle che gli hanno fatto onore ed in molto quelle che nulla vagliono. Se adunque io avessi imitato quella manera di scrivere che in lui è ripresa da chi nel resto lo lauda, non poteva fuggire almen quelle medesime calunnie, che al proprio Boccaccio son date circa questo; ed io tanto maggiori le meritava, quanto che l'error suo allor fu credendo di far bene ed or il mio sarebbe stato conoscendo di far male. Se ancora avessi imitato quel modo che da molti è tenuto per bono e da esso fu men apprezzato, parevami con tal imitazione far testimonio d'esser discorde di giudicio da colui che io imitava; la qual cosa, secondo me, era inconveniente. E quando ancora questo rispetto non m'avesse mosso, io non poteva nel subietto imitarlo, non avendo esso mai scritto cosa alcuna di materia simile a questi libri del Cortegiano; e nella lingua, al parer mio, non doveva, perché la forza e vera regula del parlar bene consiste piú nell'uso che in altro, e sempre è vizio usar parole che non siano in consuetudine. Perciò non era conveniente ch'io usassi molte di quelle del Boccaccio, le quali a' suoi tempi s'usavano ed or sono disusate dalli medesimi Toscani. Non ho ancor voluto obligarmi alla consuetudine del parlar toscano d'oggidí, perché il commerzio tra diverse nazioni ha sempre avuto forza di trasportare dall'una all'altra, quasi come le mercanzie, cosí ancor novi vocabuli, i quali poi durano o mancano, secondo che sono dalla consuetudine ammessi o reprobati; e questo, oltre il testimonio degli antichi, vedesi chiaramente nel Boccaccio, nel qual son tante parole franzesi, spagnole e provenzali ed alcune forse non ben intese dai Toscani moderni, che chi tutte quelle levasse farebbe il libro molto minore. E perché al parer mio la consuetudine del parlare dell'altre città nobili d'Italia, dove concorrono omini savi, ingeniosi ed eloquenti, e che trattano cose grandi di governo de' stati, di lettere, d'arme e negoci diversi, non deve essere del tutto sprezzata, dei vocabuli che in questi lochi parlando s'usano, estimo aver potuto ragionevolmente usar scrivendo quelli, che hanno in sé grazia ed eleganzia nella pronunzia e son tenuti communemente per boni e significativi, benché non siano toscani ed ancor abbiano origine di fuor d'Italia. Oltre a questo usansi in Toscana molti vocabuli chiaramente corrotti dal latino, li quali nella Lombardia e nelle altre parti d'Italia son rimasti integri e senza mutazione alcuna, e tanto universalmente s'usano per ognuno, che dalli nobili sono ammessi per boni e dal vulgo intesi senza difficultà. Perciò non penso aver commesso errore, se io scrivendo ho usato alcuni di questi e piú tosto pigliato l'integro e sincero della patria mia che 'l corrotto e guasto della aliena. Né mi par bona regula quella che dicon molti, che la lingua vulgar tanto è piú bella, quanto è men simile alla latina; né comprendo perché ad una consuetudine di parlare si debba dar tanto maggiore autorità che all'altra, che, se la toscana basta per nobilitare i vocabuli latini corrotti e manchi e dar loro tanta grazia che, cosí mutilati, ognun possa usarli per boni (il che non si nega), la lombarda o qualsivoglia altra non debba poter sostener li medesimi latini puri, integri, proprii e non mutati in parte alcuna, tanto che siano tollerabili. E veramente, sí come il voler formar vocabuli novi o mantenere gli antichi in dispetto della consuetudine dir si po temeraria presunzione, cosí il voler contra la forza della medesima consuetudine distruggere e quasi sepelir vivi quelli che durano già molti seculi, e col scudo della usanza si son diffesi dalla invidia del tempo ed han conservato la dignità e 'l splendor loro, quando per le guerre e ruine d'Italia si son fatte le mutazioni della lingua, degli edifici, degli abiti e costumi, oltra che sia difficile, par quasi una impietà. Perciò, se io non ho voluto scrivendo usare le parole del Boccaccio che piú non s'usano in Toscana, né sottopormi alla legge di coloro, che stimano che non sia licito usar quelle che non usano li Toscani d'oggidí, parmi meritare escusazione. Penso adunque, e nella materia del libro e nella lingua, per quanto una lingua po aiutar l'altra, aver imitato autori tanto degni di laude quanto è il Boccaccio; né credo che mi si debba imputare per errore lo aver eletto di farmi piú tosto conoscere per lombardo parlando lombardo, che per non toscano parlando troppo toscano; per non fare come Teofrasto, il qual, per parlare troppo ateniese, fu da una simplice vecchiarella conosciuto per non ateniese. Ma perché circa questo nel primo libro si parla a bastanza, non dirò altro se non che, per rimover ogni contenzione, io confesso ai mei riprensori non sapere questa lor lingua toscana tanto difficile e recondita; e dico aver scritto nella mia, e come io parlo, ed a coloro che parlano come parl'io; e cosí penso non avere fatto ingiuria ad alcuno, ché, secondo me, non è proibito a chi si sia scrivere e parlare nella sua propria lingua; né meno alcuno è astretto a leggere o ascoltare quello che non gli aggrada. Perciò, se essi non vorran leggere il mio Cortegiano, non me tenerò io punto da loro ingiuriato.
III.
Altri dicono che, essendo tanto difficile e quasi impossibile trovar un omo cosí perfetto come io voglio che sia il cortegiano, è stato superfluo il scriverlo perché vana cosa è insegnare quello che imparare non si po. A questi rispondo che mi contentarò aver errato con Platone, Senofonte e Marco Tullio, lassando il disputare del mondo intelligibile e delle idee; tra le quali, sí come, secondo quella opinione, è la idea della perfetta republica e del perfetto re e del perfetto oratore, cosí è ancora quella del perfetto cortegiano; alla imagine della quale s'io non ho potuto approssimarmi col stile, tanto minor fatica averanno i cortegiani d'approssimarsi con l'opere al termine e mèta, ch'io col scrivere ho loro proposto; e se con tutto questo non potran conseguir quella perfezion, qual che ella si sia, ch'io mi son sforzato d'esprimere, colui che piú se le avvicinarà sarà il piú perfetto, come di molti arcieri che tirano ad un bersaglio, quando niuno è che dia nella brocca, quello che piú se le accosta senza dubbio è miglior degli altri. Alcuni ancor dicono ch'io ho creduto formar me stesso, persuadendomi che le condizioni, ch'io al cortegiano attribuisco, tutte siano in me. A questi tali non voglio già negar di non aver tentato tutto quello ch'io vorrei che sapesse il cortegiano; e penso che chi non avesse avuto qualche notizia delle cose che nel libro si trattano, per erudito che fosse stato, mal avrebbe potuto scriverle; ma io non son tanto privo di giudicio in conoscere me stesso, che mi presuma saper tutto quello che so desiderare.
La diffesa adunque di queste accusazioni e, forse, di molt'altre rimetto io per ora al parere della commune opinione; perché il piú delle volte la moltitudine, ancor che perfettamente non conosca, sente però per instinto di natura un certo odore del bene e del male e, senza saperne rendere altra ragione, l'uno gusta ed ama e l'altro rifiuta ed odia. Perciò, se universalmente il libro piacerà, terrollo per bono e pensarò che debba vivere; se ancor non piacerà, terrollo per malo e tosto crederò che se n'abbia da perdere la memoria. E se pur i mei accusatori di questo commun giudicio non restano satisfatti, contentinsi almeno di quello del tempo; il quale d'ogni cosa al fin scuopre gli occulti diffetti e, per esser padre della verità e giudice senza passione, suol dare sempre della vita o morte delle scritture giusta sentenzia.
BALD. CASTIGLIONE
IL PRIMO LIBRO DEL CORTEGIANO
DEL CONTE BALDESAR CASTIGLIONE
A MESSER ALFONSO ARIOSTO
I
Fra me stesso lungamente ho dubitato, messer Alfonso carissimo, qual di due cose piú difficil mi fusse; o il negarvi quel che con tanta instanzia piú volte m'avete richiesto, o il farlo: perché da un canto mi parea durissimo negar alcuna cosa, e massimamente laudevole, a persona ch'io amo sommamente e da cui sommamente mi sento esser amato; dall'altro ancor pigliar impresa, la quale io non conoscessi poter condur a fine, pareami disconvenirsi a chi estimasse le giuste riprensioni quanto estimar si debbano. In ultimo, dopo molti pensieri, ho deliberato esperimentare in questo quanto aiuto porger possa alla diligenzia mia quella affezione e desiderio intenso di compiacere, che nell'altre cose tanto sòle accrescere la industria degli omini.
Voi adunque mi richiedete ch'io scriva qual sia, al parer mio, la forma di cortegiania piú conveniente a gentilomo che viva in corte de' príncipi, per la quale egli possa e sappia perfettamente loro servire in ogni cosa ragionevole, acquistandone da essi grazia e dagli altri laude; in somma, di che sorte debba esser colui, che meriti chiamarsi perfetto cortegiano, tanto che cosa alcuna non gli manchi. Onde io, considerando tal richiesta, dico che, se a me stesso non paresse maggior biasimo l'esser da voi reputato poco amorevole che da tutti gli altri poco prudente, arei fuggito questa fatica, per dubbio di non esser tenuto temerario da tutti quelli che conoscono come difficil cosa sia, tra tante varietà di costumi che s'usano nelle corti di Cristianità, eleggere la piú perfetta forma e quasi il fior di questa cortegiania, perché la consuetudine fa a noi spesso le medesime cose piacere e dispiacere; onde talor procede che i costumi, gli abiti, i riti e i modi, che un tempo son stati in pregio, divengono vili, e per contrario i vili divengon pregiati. Però si vede chiaramente che l'uso piú che la ragione ha forza d'introdur cose nove tra noi e cancellar l'antiche; delle quali chi cerca giudicar la perfezione, spesso s'inganna. Per il che, conoscendo io questa e molte altre difficultà nella materia propostami a scrivere, son sforzato a fare un poco di escusazione e render testimonio che questo errore, se pur si po dir errore, a me è commune con voi, acciò che, se biasmo a venir me ne ha, quello sia ancor diviso con voi; perché non minor colpa si dee estimar la vostra avermi imposto carico alle mie forze disequale, che a me averlo accettato.
Vegniamo adunque ormai a dar principio a quello che è nostro presuposto e, se possibil è, formiamo un cortegian tale, che quel principe che sarà degno d'esser da lui servito, ancor che poco stato avesse, si possa però chiamar grandissimo signore. Noi in questi libri non seguiremo un certo ordine o regula di precetti distinti, che 'l piú delle volte nell'insegnare qualsivoglia cosa usar si sòle; ma alla foggia di molti antichi, rinovando una grata memoria, recitaremo alcuni ragionamenti, i quali già passarono tra omini singularissimi a tale proposito; e benché io non v'intervenissi presenzialmente per ritrovarmi, allor che furon detti, in Inghilterra, avendogli poco appresso il mio ritorno intesi da persona che fidelmente me gli narrò, sforzerommi a punto, per quanto la memoria mi comporterà, ricordarli, acciò che noto vi sia quello che abbiano giudicato e creduto di questa materia omini degni di somma laude ed al cui giudicio in ogni cosa prestar si potea indubitata fede. Né fia ancor fuor di proposito, per giungere ordinatamente al fine dove tende il parlar nostro, narrar la causa dei successi ragionamenti.
II
Alle pendici dell'Appennino, quasi al mezzo della Italia verso il mare Adriatico, è posta, come ognun sa, la piccola città d'Urbino; la quale, benché tra monti sia, e non cosí ameni come forse alcun'altri che veggiamo in molti lochi, pur di tanto avuto ha il cielo favorevole, che intorno il paese è fertilissimo e pien di frutti; di modo che, oltre alla salubrità dell'aere, si trova abundantissima d'ogni cosa che fa mestieri per lo vivere umano. Ma tra le maggior felicità che se le possono attribuire, questa credo sia la principale, che da gran tempo in qua sempre è stata dominata da ottimi Signori; avvenga che nelle calamità universali delle guerre della Italia essa ancor per un tempo ne sia restata priva. Ma non ricercando piú lontano, possiamo di questo far bon testimonio con la gloriosa memoria del duca Federico, il quale a' dí suoi fu lume della Italia; né mancano veri ed amplissimì testimonii, che ancor vivono, della sua prudenzia, della umanità, della giustizia, della liberalità, dell'animo invitto e della disciplina militare; della quale precipuamente fanno fede le sue tante vittorie, le espugnazioni de lochi inespugnabili, la súbita prestezza nelle espedizioni, l'aver molte volte con pochissime genti fuggato numerosi e validissimi eserciti, né mai esser stato perditore in battaglia alcuna; di modo che possiamo non senza ragione a molti famosi antichi agguagliarlo. Questo, tra l'altre cose sue lodevoli, nell'aspero sito d'Urbino edificò un palazzo, secondo la opinione di molti, il piú bello che in tutta Italia si ritrovi; e d'ogni oportuna cosa sí ben lo fornì, che non un palazzo, ma una città in forma de palazzo esser pareva; e non solamente di quello che ordinariamente si usa, come vasi d'argento, apparamenti di camere di ricchissimi drappi d'oro, di seta e d'altre cose simili, ma per ornamento v'aggiunse una infinità di statue antiche di marmo e di bronzo, pitture singularissime, instrumenti musici d'ogni sorte; né quivi cosa alcuna volse, se non rarissima ed eccellente. Appresso con grandissima spesa adunò un gran numero di eccellentissimi e rarissimi libri greci, latini ed ebraici, quali tutti ornò d'oro e d'argento, estimando che questa fusse la suprema eccellenzia del suo magno palazzo.
III.
Costui adunque, seguendo il corso della natura, già di sessantacinque anni, come era visso, cosí gloriosamente morí; ed un figliolino di diece anni, che solo maschio aveva e senza madre, lasciò signore dopo sé; il qual fu Guid'Ubaldo. Questo, come dello stato, cosí parve che di tutte le virtú paterne fosse erede, e súbito con maravigliosa indole cominciò a promettere tanto di sé, quanto non parea che fusse licito sperare da uno uom mortale; di modo che estimavano gli omini delli egregi fatti del duca Federico niuno esser maggiore, che l'avere generato un tal figliolo. Ma la fortuna, invidiosa di tanta virtú, con ogni sua forza s'oppose a cosí glorioso principio, talmente che, non essendo ancor il duca Guido giunto alli venti anni, s'infermò di podagre, le quali con atrocissimi dolori procedendo, in poco spazio di tempo talmente tutti i membri gli impedirono, che né stare in piedi né moversi potea; e cosí restò un dei piú belli e disposti corpi del mondo deformato e guasto nella sua verde età. E non contenta ancor di questo, la fortuna in ogni suo disegno tanto gli fu contraria, ch'egli rare volte trasse ad effetto cosa che desiderasse; e benché in esso fosse il consiglio sapientissimo e l'animo invittissimo, parea che ciò che incominciava, e nell'arme e in ogni altra cosa o piccola o grande, sempre male gli succedesse: e di ciò fanno testimonio molte e diverse sue calamità, le quali esso con tanto vigor d'animo sempre tollerò, che mai la virtú dalla fortuna non fu superata; anzi, sprezzando con l'animo valoroso le procelle di quella, e nella infirmità come sano e nelle avversità come fortunatissimo, vivea con somma dignità ed estimazione appresso ognuno; di modo che, avvenga che cosí fusse del corpo infermo, militò con onorevolissime condicioni a servicio dei serenissimi re di Napoli Alfonso e Ferrando minore; appresso con papa Alessandro VI, coi signori Veneziani e Fiorentini. Essendo poi asceso al pontificato Iulio II, fu fatto Capitan della Chiesa; nel qual tempo, seguendo il suo consueto stile, sopra ogni altra cosa procurava che la casa sua fusse di nobilissimi e valorosi gentilomini piena, coi quali molto familiarmente viveva, godendosi della conversazione di quelli: nella qual cosa non era minor il piacer che esso ad altrui dava, che quello che d'altrui riceveva, per esser dottissimo nell'una e nell'altra lingua, ed aver insieme con l'affabilità e piacevolezza congiunta ancor la cognizione d'infinite cose; ed oltre a ciò tanto la grandezza dell'animo suo lo stimulava che, ancor che esso non potesse con la persona esercitar l'opere della cavalleria, come avea già fatto, pur si pigliava grandissimo piacer di vederle in altrui; e con le parole, or correggendo or laudando ciascuno secondo i meriti, chiaramente dimostrava quanto giudicio circa quelle avesse; onde nelle giostre, nei torniamenti, nel cavalcare, nel maneggiar tutte le sorti d'arme, medesimamente nelle feste, nei giochi, nelle musiche, in somma in tutti gli esercizi convenienti a nobili cavalieri, ognuno si sforzava di mostrarsi tale, che meritasse esser giudicato degno di cosí nobile commerzio.
IV.
Erano adunque tutte l'ore del giorno divise in onorevoli e piacevoli esercizi cosí del corpo come dell'animo; ma perché il signor Duca continuamente, per la infirmità, dopo cena assai per tempo se n'andava a dormire, ognuno per ordinario dove era la signora duchessa Elisabetta Gonzaga a quell'ora si riduceva; dove ancor sempre si ritrovava la signora Emilia Pia, la qual per esser dotata di così vivo ingegno e giudicio, come sapete, pareva la maestra di tutti, e che ognuno da lei pigliasse senno e valore. Quivi adunque i soavi ragionamenti e l'oneste facezie s'udivano, e nel viso di ciascuno dipinta si vedeva una gioconda ilarità, talmente che quella casa certo dir si poteva il proprio albergo della allegria; né mai credo che in altro loco si gustasse quanta sia la dolcezza che da una amata e cara compagnia deriva, come quivi si fece un tempo; ché, lassando quanto onore fosse a ciascun di noi servir a tal signore come quello che già di sopra ho detto, a tutti nascea nell'animo una summa contentezza ogni volta che al conspetto della signora Duchessa ci riducevamo; e parea che questa fosse una catena che tutti in amor tenesse uniti, talmente che mai non fu concordia di voluntà o amore cordiale tra fratelli maggior di quello, che quivi tra tutti era. Il medesimo era tra le donne, con le quali si aveva liberissimo ed onestissimo commerzio; ché a ciascuno era licito parlare, sedere, scherzare e ridere con chi gli parea: ma tanta era la reverenzia che si portava al voler della signora Duchessa, che la medesima libertà era grandissimo freno; né era alcuno che non estimasse per lo maggior piacere che al mondo aver potesse il compiacer a lei, e la maggior pena il dispiacerle. Per la qual cosa quivi onestissimi costumi erano con grandissima libertà congiunti ed erano i giochi e i risi al suo conspetto conditi, oltre agli argutissimi sali, d'una graziosa e grave maestà; ché quella modestia e grandezza che tutti gli atti e le parole e i gesti componeva della signora Duchessa, motteggiando e ridendo, facea che ancor da chi mai piú veduta non l'avesse, fosse per grandissima signora conosciuta. E cosí nei circonstanti imprimendosi, parea che tutti alla qualità e forma di lei temperasse; onde ciascuno questo stile imitare si sforzava, pigliando quasi una norma di bei costumi dalla presenzia d'una tanta e cosí virtuosa signora: le ottime condizioni della quale io per ora non intendo narrare, non essendo mio proposito, e per esser assai note al mondo e molto piú ch'io non potrei né con lingua né con penna esprimere; e quelle che forse sariano state alquanto nascoste, la fortuna, come ammiratrice di cosí rare virtú, ha voluto con molte avversità e stimuli di disgrazie scoprire, per far testimonio che nel tenero petto d'una donna in compagnia di singular bellezza possono stare la prudenzia e la fortezza d'animo, e tutte quelle virtú che ancor ne' severi omini sono rarissime.
V.
Ma lassando questo, dico che consuetudine di tutti i gentilomini della casa era ridursi súbito dopo cena alla signora Duchessa; dove, tra l'altre piacevoli feste e musiche e danze che continuamente si usavano, talor si proponeano belle questioni, talor si faceano alcuni giochi ingeniosi ad arbitrio or d'uno or d'un altro, ne' quali sotto varii velami spesso scoprivano i circonstanti allegoricamente i pensier sui a chi piú loro piaceva. Qualche volta nasceano altre disputazioni di diverse materie, o vero si mordea con pronti detti; spesso si faceano imprese come oggidì chiamiamo; dove di tali ragionamenti maraviglioso piacere si pigliava per esser, come ho detto, piena la casa di nobilissimi ingegni; tra i quali, come sapete, erano celeberrimi il signor Ottaviano Fregoso, messer Federico suo fratello, il Magnifico Iuliano de' Medici, messer Pietro Bembo, messer Cesar Gonzaga, il conte Ludovico da Canossa, il signor Gaspar Pallavicino, il signor Ludovico Pio, il signor Morello da Ortona, Pietro da Napoli, messer Roberto da Bari ed infiniti altri nobilissimi cavalieri; oltra che molti ve n'erano, i quali, avvenga che per ordinario non stessino quivi fermamente, pur la maggior parte del tempo vi dispensavano; come messer Bernardo Bibiena, l'Unico Aretino, Ioanni Cristoforo Romano Pietro Monte, Terpandro, messer Nicolò Frisio; di modo che sempre poeti, musici e d'ogni sorte omini piacevoli e li più eccellenti in ogni facultà che in Italia si trovassino, vi concorrevano.
VI.
Avendo adunque papa Iulio II con la presenzia sua e con l'aiuto de' Franzesi ridutto Bologna alla obedienzia della sede apostolica nell'anno MDVI, e ritornando verso Roma, passò per Urbino; dove quanto era possibile onoratamente e con quel piú magnifico e splendido apparato che si avesse potuto fare in qualsivoglia altra nobil città d'Italia, fu ricevuto; di modo che, oltre il Papa, tutti i signor cardinali ed altri cortegiani restarono summamente satisfatti; e furono alcuni, i quali, tratti dalla dolcezza di questa compagnia, partendo il Papa e la corte, restarono per molti giorni ad Urbino; nel qual tempo non solamente si continuava nell'usato stile delle feste e piaceri ordinari, ma ognuno si sforzava d'accrescere qualche cosa, e massimamente nei giochi, ai quali quasi ogni sera s'attendeva. E l'ordine d'essi era tale che, súbito giunti alla presenzia della signora Duchessa, ognuno si ponea a sedere a piacer suo o, come la sorte portava, in cerchio; ed erano sedendo divisi un omo ed una donna, fin che donne v'erano, che quasi sempre il numero degli omini era molto maggiore; poi, come alla signora Duchessa pareva si governavano, la quale per lo piú delle volte ne lassava il carico alla signora Emilia. Cosí il giorno appresso la partita del Papa, essendo all'ora usata ridutta la compagnia al solito loco, dopo molti piacevoli ragionamenti la signora Duchessa volse pur che la signora Emilia cominciasse i giochi; ed essa, dopo l'aver alquanto rifiutato tal impresa, cosí disse: - Signora mia, poiché pur a voi piace ch'io sia quella che dia principio ai giochi di questa sera, non possendo ragionevolmente mancar d'obedirvi, delibero proporre un gioco, del qual penso dover aver poco biasmo e men fatica; e questo sarà ch'ognun proponga secondo il parer suo un gioco non piú fatto; da poi si eleggerà quello che parerà esser piú degno di celebrarsi in questa compagnia -. E cosí dicendo, si rivolse al signor Gaspar Pallavicino, imponendogli che 'l suo dicesse; il qual súbito rispose: - A voi tocca, signora, dir prima il vostro -. Disse la signora Emilia: - Eccovi ch'io l'ho detto, ma voi, signora Duchessa, commandategli ch'e' sia obediente -. Allor la signora Duchessa ridendo, - Acciò, - disse, - che vi abbia ad obedire, vi faccio mia locotenente e vi do tutta la mia autorità
VII.
- Gran cosa è pur, - rispose il signor Gaspar, - che sempre alle donne sia licito aver questa esenzione di fatiche, e certo ragion saria volerne in ogni modo intender la cagione; ma per non esser io quello che dia principio a disobedire, lasserò questo ad un altro tempo e dirò quello che mi tocca; - e cominciò: - A me pare che gli animi nostri, sí come nel resto, cosí ancor nell'amare siano di giudicio diversi, e perciò spesso interviene che quello che all'uno è gratissimo, all'altro sia odiosissimo. Ma con tutto questo, sempre però si concordano in aver ciascuno carissima la cosa amata, talmente che spesso la troppo affezione degli amanti di modo inganna il loro giudicio, che estiman quella persona che amano essere sola al mondo ornata d'ogni eccellente virtú e senza diffetto alcuno; ma perché la natura umana non ammette queste cosí compite perfezioni, né si trova persona a cui qualche cosa non manchi, non si po dire che questi tali non s'ingannino e che lo amante non divenga cieco circa la cosa amata. Vorrei adunque che questa sera il gioco nostro fosse, che ciascun dicesse di che virtú precipuamente vorrebbe che fosse ornata quella persona ch'egli ama; e poiché cosí è necessario che tutti abbiano qualche macchia, qual vicio ancor vorrebbe che in essa fosse, per veder chi saprà ritrovare piú lodevoli ed utili virtù e più escusabili vicii, e meno a chi ama nocivi ed a chi è amato -. Avendo cosí detto il signor Gaspar, fece segno la signora Emilia a madonna Costanza Fregosa, per esser in ordine vicina, che seguitasse; la qual già s'apparechiava a dire; ma la signora Duchessa súbito disse: - Poiché madonna Emilia non vole affaticarsi in trovar gioco alcuno, sarebbe pur ragione che l'altre donne partecipassino di questa commodità, ed esse ancor fussino esente di tal fatica per questa sera, essendoci massimamente tanti omini, che non è pericolo che manchin giochi. - Cosí faremo, - rispose la signora Emilia; ed imponendo silenzio a madonna Costanza, si volse a messer Cesare Gonzaga, che le sedeva a canto, e gli commandò che parlasse; ed esso cosí cominciò:
VIII.
- Chi vol con diligenzia considerar tutte le nostre azioni, trova sempre in esse varii diffetti; e ciò procede perché la natura, cosí in questo come nell'altre cose varia, ad uno ha dato lume di ragione in una cosa, ad un altro in un'altra: però interviene che, sapendo l'un quello che l'altro non sa ed essendo ignorante di quello che l'altro intende, ciascun conosce facilmente l'error del compagno e non il suo ed a tutti ci pare essere molto savi, e forse piú in quello in che piú siamo pazzi; per la qual cosa abbiam veduto in questa casa esser occorso che molti, i quali al principio son stati reputati savissimi, con processo di tempo si son conosciuti pazzissimi; il che d'altro non è proceduto che dalla nostra diligenzia. Ché, come si dice che in Puglia circa gli atarantati, s'adoprano molti instrumenti di musica e con varii suoni si va investigando, fin che quello umore che fa la infirmità, per una certa convenienzia ch'egli ha con alcuno di que' suoni, sentendolo, súbito si move e tanto agita lo infermo, che per quella agitazion si riduce a sanità, cosí noi, quando abbiamo sentito qualche nascosa virtú di pazzia, tanto sottilmente e con tante varie persuasioni l'abbiamo stimulata e con sí diversi modi, che pur al fine inteso abbiamo dove tendeva; poi, conosciuto lo umore, cosí ben l'abbiam agitato, che sempre s'è ridutto a perfezion di publica pazzia; e chi è riuscito pazzo in versi, chi in musica, chi in amore, chi in danzare, chi in far moresche, chi in cavalcare, chi in giocar di spada, ciascun secondo la minera del suo metallo; onde poi, come sapete, si sono avuti maravigliosi piaceri. Tengo io adunque per certo che in ciascun di noi sia qualche seme di pazzia, il qual risvegliato possa multiplicar quasi in infinito. Però vorrei che questa sera il gioco nostro fusse il disputar questa materia e che ciascun dicesse: avendo io ad impazzir publicamente, di che sorte di pazzia si crede ch'io impazzissi e sopra che cosa, giudicando questo esito per le scintille di pazzia che ogni dí si veggono di me uscire; il medesimo si dica de tutti gli altri, servando l'ordine de' nostri giochi, ed ognuno cerchi di fondar la opinion sua sopra qualche vero segno ed argumento. E cosí di questo nostro gioco ritraremo frutto ciascun di noi di conoscere i nostri diffetti, onde meglio ce ne potrem guardare; e se la vena di pazzia che scopriremo sarà tanto abundante che ci paia senza rimedio, l'aiutaremo e, secondo la dottrina di fra Mariano, averemo guadagnato un'anima, che non fia poco guadagno -. Di questo gioco si rise molto, né alcun era che si potesse tener di parlare; chi diceva, - Io impazzirei nel pensare -; chi, - Nel guardare -; chi dicea, - Io già son impazzito in amare -; e tali cose.
IX.
Allor fra Serafino, a modo suo ridendo: - Questo, - disse, - sarebbe troppo lungo; ma se volete un bel gioco, fate che ognuno dica il parer suo, onde è che le donne quasi tutte hanno in odio i ratti ed aman le serpi; e vederete che niuno s'apporrà, se non io, che so questo secreto per una strana via -. E già cominciava a dir sue novelle; ma la signora Emilia gli impose silenzio, e trapassando la dama che ivi sedeva, fece segno all'Unico Aretino, al qual per l'ordine toccava; ed esso, senza aspettar altro comandamento, - Io, - disse, - vorrei esser giudice con autorità di poter con ogni sorte di tormento investigar di sapere il vero da' malfattori; e questo per scoprir gl'inganni d'una ingrata, la qual, cogli occhi d'angelo e cor di serpente, mai non accorda la lingua con l'animo e con simulata pietà ingannatrice a niun'altra cosa intende, che a far anatomia de' cori: né se ritrova cosí velenoso serpe nella Libia arenosa, che tanto di sangue umano sia vago, quanto questa falsa; la qual non solamente con la dolcezza della voce e meliflue parole, ma con gli occhi, coi risi, coi sembianti e con tutti i modi è verissima sirena. Però, poiché non m'è licito, com'io vorrei, usar le catene, la fune o 'l foco per saper una verità, desidero di saperla con un gioco, il quale è questo: che ognun dica ciò che crede che significhi quella lettera S, che la signora Duchessa porta in fronte; perché, avvenga che certamente questo ancor sia un artificioso velame per poter ingannare, per avventura si gli darà qualche interpretazione da lei forse non pensata. e trovarassi che la fortuna, pietosa riguardatrice dei martíri degli omini, l'ha indutta con questo piccol segno a scoprire non volendo l'intimo desiderio suo, di uccidere e sepellir vivo in calamità chi la mira o la serve -. Rise la signora Duchessa, e vedendo l'Unico ch'ella voleva escusarsi di questa imputazione, - Non, - disse, - non parlate, Signora, che non è ora il vostro loco di parlare -. La signora Emilia allor si volse e disse: - Signor Unico, non è alcun di noi qui che non vi ceda in ogni cosa, ma molto piú nel conoscer l'animo della signora Duchessa; e cosí come piú che gli altri lo conoscete per lo ingegno vostro divino, l'amate ancor piú che gli altri; i quali, come quegli uccelli debili di vista, che non affisano gli occhi nella spera del sole, non possono cosí ben conoscer quanto esso sia perfetto; però ogni fatica saria vana per chiarir questo dubbio, fuor che 'l giudicio vostro. Resti adunque questa impresa a voi solo, come a quello che solo po trarla al fine -. L'Unico, avendo tacciuto alquanto ed essendogli pur replicato che dicesse, in ultimo disse un sonetto sopra la materia predetta, dechiarando ciò che significava quella lettera S; che da molti fu estimato fatto all'improvviso, ma, per esser ingenioso e culto piú che non parve che comportasse la brevità del tempo, si pensò pur che fosse pensato.
X.
Cosí, dopo l'aver dato un lieto applauso in laude del sonetto ed alquanto parlato, il signor Ottavian Fregoso, al qual toccava, in tal modo ridendo incominciò: - Signori, s'io volessi affermare non aver mai sentito passion d'amore, son certo che la signora Duchessa e la signora Emilia, ancor che non lo credessino, mostrarebbon di crederlo, e diriano che ciò procede perch'io mi son diffidato di poter mai indur donna alcuna ad amarmi; di che in vero non ho io insin qui fatto prova con tanta instanzia, che ragionevolmente debba esser disperato di poterlo una volta conseguire. Né già son restato di farlo perch'io apprezzi me stesso tanto, o cosí poco le donne, che non estimi che molte ne siano degne d'esser amate e servite da me; ma piú tosto spaventato dai continui lamenti d'alcuni inamorati, i quali pallidi, mesti e taciturni, par che sempre abbiano la propria scontentezza dipinta negli occhi; e se parlano, accompagnando ogni parola con certi sospiri triplicati, di null'altra cosa ragionano che di lacrime, di tormenti, di disperazioni e desidèri di morte; di modo che, se talor qualche scintilla amorosa pur mi s'è accesa nel core, io súbito sònomi sforzato con ogni industria di spegnerla, non per odio ch'io porti alle donne, come estimano queste signore, ma per mia salute. Ho poi conosciuti alcun'altri in tutto contrari a questi dolenti, i quali non solamente si laudano e contentano dei grati aspetti, care parole e sembianti suavi delle lor donne, ma tutti i mali condiscono di dolcezza; di modo che le guerre, l'ire, i sdegni di quelle per dolcissimi chiamano; perché troppo piú che felici questi tali esser mi paiono. Ché se negli sdegni amorosi, i quali da quell'altri piú che morte sono reputati amarissimi, essi ritrovano tanta dolcezza, penso che nelle amorevoli dimostrazioni debban sentir quella beatitudine estrema, che noi in vano in questo mondo cerchiamo. Vorrei adunque che questa sera il gioco nostro fusse che ciascun dicesse, avendo ad esser sdegnata seco quella persona ch'egli ama, qual causa vorrebbe che fosse quella che la inducesse a tal sdegno. Ché se qui si ritrovano alcuni che abbian provato questi dolci sdegni, son certo che per cortesia desideraranno una di quelle cause che cosí dolci li fa, ed io forse m'assicurerò di passar un poco piú avanti in amore, con speranza di trovar io ancora questa dolcezza, dove alcuni trovano l'amaritudine; ed in tal modo non potranno queste signore darmi infamia piú ch'io non ami.
XI.
Piacque molto questo gioco e già ognun si preparava di parlar sopra tal materia; ma non facendone la signora Emilia altramente motto, messer Pietro Bembo, che era in ordine vicino, cosí disse: - Signori, non piccol dubbio ha risvegliato nell'animo mio il gioco proposto dal signor Ottaviano, avendo ragionato de' sdegni d'amore: i quali, avvenga che varii siano, pur a me sono essi sempre stati acerbissimi, né da me credo che si potesse imparar condimento bastante per addolcirgli; ma forse sono piú e meno amari secondo la causa donde nascono. Ché mi ricordo già aver veduto quella donna ch'io serviva verso me turbata, o per suspetto vano che da se stessa della fede mia avesse preso, o vero per qualche altra falsa opinione in lei nata dalle altrui parole a mio danno; tanto ch'io credeva niuna pena alla mia potersi agguagliare e parevami che 'l maggior dolor ch'io sentiva fusse il patire non avendolo meritato, ed aver questa afflizione non per mia colpa, ma per poco amor di lei. Altre volte la vidi sdegnata per qualche error mio e conobbi l'ira sua proceder dal mio fallo; ed in quel punto giudicava che 'l passato mal fosse stato levissimo a rispetto di quello ch'io sentiva allora; e pareami che l'esser dispiaciuto, e per colpa mia, a quella persona alla qual sola io desiderava e con tanto studio cercava di piacere, fosse il maggior tormento e sopra tutti gli altri. Vorrei adunque che 'l gioco nostro fusse che ciascun dicesse, avendo ad esser sdegnata seco quella persona ch'egli ama, da chi vorrebbe che nascesse la causa del sdegno, o da lei, o da se stesso; per saper qual è maggior dolore, o far dispiacere a chi s'ama, o riceverlo pur da chi s'ama -.
XII.
Attendeva ognun la risposta della signora Emilia; la qual non facendo altrimenti motto al Bembo, si volse e fece segno a messer Federico Fregoso che 'l suo gioco dicesse; ed esso súbito cosí cominciò: - Signora, vorrei che mi fusse licito, come qualche volta si sòle, rimettermi alla sentenzia d'un altro; ch'io per me voluntieri approvarei alcun dei giochi proposti da questi signori, perché veramente parmi che tutti sarebben piacevoli: pur, per non guastar l'ordine, dico che chi volesse laudar la corte nostra, lasciando ancor i meriti della signora Duchessa, la qual sola con la sua divina virtú basteria per levar da terra al cielo i piú bassi spiriti che siano al mondo, ben poria senza suspetto d'adulazion dir che in tutta la Italia forse con fatica si ritrovariano altrettanti cavalieri cosí singulari, ed oltre alla principal profession della cavalleria cosí eccellenti in diverse cose, come or qui si ritrovano; però, se in loco alcuno son omini che meritino esser chiamati bon cortegiani e che sappiano giudicar quello che alla perfezion della cortegiania s'appartiene, ragionevolmente si ha da creder che qui siano. Per reprimere adunque molti sciocchi, i quali per esser prosuntuosi ed inetti si credono acquistar nome di bon cortegiano, vorrei che 'l gioco di questa sera fusse tale, che si elegesse uno della compagnia ed a questo si desse carico di formar con parole un perfetto cortegiano, esplicando tutte le condicioni e particular qualità, che si richieggono a chi merita questo nome; ed in quelle cose che non pareranno convenienti sia licìto a ciascun contradire, come nelle scole de' filosofi a chi tien conclusioni -. Seguitava ancor piú oltre il suo ragionamento messer Federico, quando la signora Emilia, interrompendolo: - Questo, - disse, - se alla signora Duchessa piace, sarà il gioco nostro per ora -. Rispose la signora Duchessa: - Piacemi -. Allor quasi tutti i circunstanti, e verso la signora Duchessa e tra sé, cominciarono a dir che questo era il piú bel gioco che far si potesse; e senza aspettar l'uno la risposta dell'altro, facevano instanzia alla signora Emilia che ordinasse chi gli avesse a dar principio. La qual, voltatasi alla signora Duchessa: - Comandate, - disse, - Signora, a chi piú vi piace che abbia questa impresa; ch'io non voglio, con elegerne uno piú che l'altro, mostrar di giudicare qual in questo io estimi piú sufficiente degli altri, ed in tal modo far ingiuria a chi si sia -. Rispose la signora Duchessa: - Fate pur voi questa elezione; e guardatevi col disubedire di non dar esempio agli altri, che siano essi ancor poco ubedienti.
XIII.
Allor la signora Emilia, ridendo, disse al conte Ludovico da Canossa: - Adunque, per non perder piú tempo, voi, Conte, sarete quello che averà questa impresa nel modo che ha detto messer Federico; non già perché ci paia che voi siate cosí bon cortegiano, che sappiate quel che si gli convenga, ma perché, dicendo ogni cosa al contrario, come speramo che farete, il gioco sarà piú bello, ché ognun averà che respondervi; onde se un altro che sapesse piú di voi avesse questo carico, non si gli potrebbe contradir cosa alcuna perché diria la verità, e cosí il gioco saria freddo -. Súbito rispose il Conte: - Signora, non ci saria pericolo che mancasse contradizione a chi dicesse la verità, stando voi qui presente -; ed essendosi di questa ri sposta alquanto riso, seguitò: - Ma io veramente, Signora, molto volontier fuggirei questa fatica, parendomi troppo difficile e conoscendo in me ciò che voi avete per burla detto esser verissimo, cioè ch'io non sappia quello che a bon cortegian si conviene; e questo con altro testimonio non cerco di provare, perché, non facendo l'opere, si po estimar ch'io nol sappia; ed io credo che sia minor biasmo mio, perché senza dubbio peggio è non voler far bene, che non saperlo fare. Pur, essendo cosí che a voi piaccia che io abbia questo carico, non posso né voglio rifiutarlo, per non contravenir all'ordine e giudicio vostro, il quale estimo piú assai che 'l mio -. Allor messer Cesare Gonzaga, - Perché già, - disse, - è passata bon'ora di notte e qui son apparecchiate molte altre sorti di piaceri, forse bon sarà differir questo ragionamento a domani e darassi tempo al Conte di pensar ciò ch'egli s'abbia a dire; ché in vero di tal subietto parlare improviso è difficil cosa -. Rispose il Conte: - Io non voglio far come colui, che spogliatosi in giuppone saltò meno che non avea fatto col saio; e perciò parmi gran ventura che l'ora sia tarda, perché per la brevità del tempo sarò sforzato a parlar poco e 'l non avervi pensato mi escuserà talmente che mi sarà licito dir senza biasimo tutte le cose che prima mi verranno alla bocca. Per non tener adunque piú lungamente questo carico di obligazione sopra le spalle, dico che in ogni cosa tanto è difficil il conoscer la vera perfezion, che quasi è impossibile; e questo per la varietà de' giudici. Però si ritrovano molti, ai quali sarà grato un omo che parli assai, e quello chiameranno piacevole; alcuni si diletteranno piú della modestia; alcun'altri d'un omo attivo ed inquieto; altri di chi in ogni cosa mostri riposo e considerazione; e cosí ciascuno sempre coprendo il vicio lauda e vitupera secondo il parer suo, col nome della propinqua virtú, o la virtú col nome del propinquo vicio; come chiamando un prosuntuoso, libero; un modesto, àrrido; un nescio, bono; un scelerato, prudente; e medesimamente nel resto. Pur io estimo in ogni cosa esser la sua perfezione, avvenga che nascosta; e questa potersi con ragionevoli discorsi giudicar da chi di quella tal cosa ha notizia. E perché, come ho detto, spesso la verità sta occulta ed io non mi vanto aver questa cognizione, non posso laudar se non quella sorte di cortegiani ch'io piú apprezzo, ed approvar quello che mi par piú simile al vero, secondo il mio poco giudicio; il qual seguitarete, se vi parerà bono, o vero v'attenerete al vostro, se egli sarà dal mio diverso. Né io già contrasterò che 'l mio sia migliore del vostro; ché non solamente a voi po parer una cosa ed a me un'altra, ma a me stesso poria parer or una cosa ed ora un'altra.
XIV.
Voglio adunque che questo nostro cortegiano sia nato nobile e di generosa famiglia; perché molto men si disdice ad un ignobile mancar di far operazioni virtuose, che ad uno nobile, il qual se desvia dal camino dei sui antecessori, macula il nome della famiglia e non solamente non acquista, ma perde il già acquistato; perché la nobiltà è quasi una chiara lampa, che manifesta e fa veder l'opere bone e le male ed accende e sprona alla virtú cosí col timor d'infamia, come ancor con la speranza di laude; e non scoprendo questo splendor di nobiltà l'opere degli ignobili, essi mancano dello stimulo e del timore di quella infamia, né par loro d'esser obligati passar piú avanti di quello che fatto abbiano i sui antecessori; ed ai nobili par biasimo non giunger almeno al termine da' sui primi mostratogli. Però intervien quasi sempre che e nelle arme e nelle altre virtuose operazioni gli omini piú segnalati sono nobili perché la natura in ogni cosa ha insito quello occulto seme, che porge una certa forza e proprietà del suo principio a tutto quello che da esso deriva ed a sé lo fa simile; come non solamente vedemo nelle razze de' cavalli e d'altri animali, ma ancor negli alberi, i rampolli dei quali quasi sempre s'assimigliano al tronco; e se qualche volta degenerano, procede dal mal agricultore. E cosí intervien degli omini, i quali, se di bona crianza sono cultivati, quasi sempre son simili a quelli d'onde procedono e spesso migliorano; ma se manca loro chi gli curi bene, divengono come selvatichi, né mai si maturano. Vero è che, o sia per favor delle stelle, o di natura, nascono alcuni accompagnati da tante grazie, che par che non siano nati, ma che un qualche dio con le proprie mani formati gli abbia ed ornati de tutti i beni dell'animo e del corpo; sí come ancor molti si veggono tanto inetti e sgarbati, che non si po credere se non che la natura per dispetto o per ludibrio produtti gli abbia al mondo. Questi sí come per assidua diligenzia e bona crianza poco frutto per lo piú delle volte posson fare, cosí quegli altri con poca fatica vengon in colmo di summa eccellenzia. E per darvi un esempio, vedete il signor don Ippolito da Este cardinal di Ferrara, il quale tanto di felicità ha portato dal nascere suo, che la persona, lo aspetto, le parole e tutti i sui movimenti sono talmente di questa grazia composti ed accommodati, che tra i piú antichi prelati, avvenga che sia giovane, rappresenta una tanto grave autorità, che piú presto pare atto ad insegnare, che bisognoso d'imparare; medesimamente, nel conversare con omini e con donne d'ogni qualità, nel giocare, nel ridere e nel motteggiare tiene una certa dolcezza e cosí graziosi costumi, che forza è che ciascun che gli parla o pur lo vede gli resti perpetuamente affezionato. Ma, tornando al proposito nostro, dico che tra questa eccellente grazia e quella insensata sciocchezza si trova ancora il mezzo; e posson quei che non son da natura cosí perfettamente dotati, con studio e fatica limare e correggere in gran parte i diffetti naturali. Il cortegiano, adunque, oltre alla nobiltà, voglio che sia in questa parte fortunato, ed abbia da natura non solamente lo ingegno e bella forma di persona e di volto, ma una certa grazia e, come si dice, un sangue, che lo faccia al primo aspetto a chiunque lo vede grato ed amabile; e sia questo un ornamento che componga e compagni tutte le operazioni sue e prometta nella fronte quel tale esser degno del commerzio e grazia d'ogni gran signore -.
XV.
Quivi, non aspettando piú oltre, disse il signor Gaspar Pallavicino: - Acciò che il nostro gioco abbia la forma ordinata e che non paia che noi estimiam poco l'autorità dataci del contradire, dico che nel cortegiano a me non par cosí necessaria questa nobiltà; e s'io mi pensassi dir cosa che ad alcun di noi fusse nova, io addurrei molti i quali, nati di nobilissimo sangue, son stati pieni di vicii; e per lo contrario molti ignobili, che hanno con la virtú illustrato la posterità loro. E se è vero quello che voi diceste dianzi, cioè che in ogni cosa sia quella occulta forza del primo seme, noi tutti saremmo in una medesima condicione per aver avuto un medesimo principio, né piú un che l'altro sarebbe nobile. Ma delle diversità nostre e gradi d'altezza e di bassezza credo io che siano molte altre cause: tra le quali estimo la fortuna esser precipua, perché in tutte le cose mondane la veggiamo dominare e quasi pigliarsi a gioco d'alzar spesso fin al cielo chi par a lei senza merito alcuno, e sepellir nell'abisso i piú degni d'esser esaltati. Confermo ben ciò che voi dite della felicità di quelli che nascon dotati dei beni dell'animo e del corpo; ma questo cosí si vede negli ignobili come nei nobili, perché la natura non ha queste cosí sottili distinzioni; anzi, come ho detto, spesso si veggono in persone bassissime altissimi doni di natura. Però non acquistandosi questa nobiltà né per ingegno né per forza né per arte, ed essendo piú tosto laude dei nostri antecessori che nostra propria, a me par troppo strano voler che, se i parenti del nostro cortegiano son stati ignobili, tutte le sue bone qualità siano guaste, e che non bastino assai quell'altre condizioni che voi avete nominate, per ridurlo al colmo della perfezione: cioè ingegno, bellezza di volto, disposizion di persona e quella grazia, che al primo aspetto sempre lo faccia a ciascun gratissimo -.
XVI.
Allor il conte Ludovico, - Non nego io, - rispose, - che ancora negli omini bassi non possano regnar quelle medesime virtú che nei nobili; ma per non replicar quello che già avemo detto con molte altre ragioni che si poriano addurre in laude della nobilità, la qual sempre ed appresso ognuno è onorata, perché ragionevole cosa è che de' boni nascano i boni, avendo noi a formare un cortegiano senza diffetto alcuno e cumulato d'ogni laude, mi par necessario farlo nobile, sí per molte altre cause, come ancor per la opinion universale, la qual súbito accompagna la nobilità. Ché se saranno dui omini di palazzo, i quali non abbiano per prima dato impression alcuna di se stessi con l'opere o bone o male, súbito che s'intenda l'un esser nato gentilomo e l'altro no, appresso ciascuno lo ignobile sarà molto meno estimato che 'l nobile, e bisognerà che con molte fatiche e con tempo nella mente degli omini imprima la bona opinion di sé, che l'altro in un momento, e solamente con l'esser gentilom, averà acquistata. E di quanta importanzia siano queste impressioni, ognun po facilmente comprendere; ché, parlando di noi, abbiam veduto capitare in questa casa omini, i quali, essendo sciocchi e goffissimi, per tutta Italia hanno però avuto fama di grandissimi cortegiani; e benché in ultimo sian stati scoperti e conosciuti, pur per molti dí ci hanno ingannato, e mantenuto negli animi nostri quella opinion di sé che prima in essi hanno trovato impressa, benché abbiano operato secondo il lor poco valore. Avemo veduti altri, al principio in pochissima estimazione, poi esser all'ultimo riusciti benissimo. E di questi errori sono diverse cause; e tra l'altre la ostinazion dei signori, i quali, per voler far miracoli, talor si mettono a dar favore a chi par loro che meriti disfavore. E spesso ancor essi s'ingannano; ma perché sempre hanno infiniti imitatori, dal favor loro deriva grandissima fama, la qual per lo piú i giudici vanno seguendo; e se ritrovano qualche cosa che paia contraria alla commune opinione, dubitano di ingannar se medesimi e sempre aspettano qualche cosa di nascosto, perché pare che queste opinioni universali debbano pur esser fondate sopra il vero e nascere da ragionevoli cause, e perché gli animi nostri sono prontissimi allo amore ed all'odio, come si vede nei spettaculi de' combattimenti e de' giochi e d'ogni altra sorte contenzione, dove i spettatori spesso si affezionano senza manifesta cagione ad una delle parti, con desiderio estremo che quella resti vincente e l'altra perda. Circa la opinione ancor delle qualità degli omini, la bona fama o la mala nel primo entrare move l'animo nostro ad una di queste due passioni. Però interviene che per lo piú noi giudichiamo con amore, o vero con odio. Vedete adunque di quanta importanzia sia questa prima impressione e come debba sforzarsi d'acquistarla bona nei princípi chi pensa aver grado e nome di bon cortegiano.
XVII.
Ma per venire a qualche particularità, estimo che la principale e vera profession del cortegiano debba esser quella dell'arme; la qual sopra tutto voglio che egli faccia vivamente e sia conosciuto tra gli altri per ardito e sforzato e fidele a chi serve. E 'l nome di queste bone condicioni si acquisterà facendone l'opere in ogni tempo e loco, imperò che non è licito in questo mancar mai, senza biasimo estremo; e come nelle donne la onestà, una volta macchiata, mai piú non ritorna al primo stato, cosí la fama d'un gentilom che porti l'arme, se una volta in un minimo punto si denigra per coardia o altro rimproccio, sempre resta vituperosa al mondo e piena d'ignominia. Quanto piú adunque sarà eccellente il nostro cortegiano in questa arte, tanto piú sarà degno di laude; bench'io non estimi esser in lui necessaria quella perfetta cognizion di cose e l'altre qualità, che ad un capitano si convengono; ché per esser questo troppo gran mare, ne contentatemo, come avemo detto, della integrità di fede e dell'animo invitto e che sempre si vegga esser tale: perché molte volte piú nelle cose piccole che nelle grandi si conoscono i coraggiosi; e spesso ne' pericoli d'importanzia, e dove son molti testimonii, si ritrovano alcuni li quali, benché abbiano il core morto nel corpo, pur spinti dalla vergogna o dalla compagnia, quasi ad occhi chiusi vanno inanzi e fanno il debito loro, e Dio sa come; e nelle cose che poco premono e dove par che possano senza esser notati restar di mettersi a pericolo, volentier si lasciano acconciare al sicuro. Ma quelli che ancor quando pensano non dover esser d'alcuno né mirati, né veduti, né conosciuti, mostrano ardire e non lascian passar cosa, per minima ch'ella sia, che possa loro esser carico, hanno quella virtú d'animo che noi ricerchiamo nel nostro cortegiano. Il quale non volemo però che si mostri tanto fiero, che sempre stia in su le brave parole e dica aver tolto la corazza per moglie, e minacci con quelle fiere guardature che spesso avemo vedute fare a Berto; ché a questi tali meritamente si po dir quello, che una valorosa donna in una nobile compagnia piacevolmente disse ad uno, ch'io per ora nominar non voglio; il quale, essendo da lei, per onorarlo, invitato a danzare, e rifiutando esso e questo e lo udir musica e molti altri intertenimenti offertigli, sempre con dir cosí fatte novelluzze non esser suo mestiero, in ultimo, dicendo la donna, "Qual è adunque il mestier vostro?", rispose con un mal viso: "Il combattere"; allora la donna súbito: "Crederei", disse, "che or che non siete alla guerra, né in termine de combattere, fosse bona cosa che vi faceste molto ben untare ed insieme con tutti i vostri arnesi da battaglia riporre in un armario finché bisognasse, per non ruginire più di quello che siate"; e cosí, con molte risa de' circunstanti, scornato lasciollo nella sua sciocca prosunzione. Sia adunque quello che noi cerchiamo, dove si veggon gli inimici, fierissimo, acerbo e sempre tra i primi; in ogni altro loco, umano, modesto e ritenuto, fuggendo sopra tutto la ostentazione e lo impudente laudar se stesso, per lo quale l'uomo sempre si còncita odio e stomaco da chi ode -.
XVIII
- Ed io, - rispose allora il signor Gaspar, - ho conosciuti pochi omini eccellenti in qualsivoglia cosa, che non laudino se stessi; e parmi che molto ben comportar lor si possa, perché chi si sente valere, quando si vede non esser per l'opere dagli ignoranti conosciuto, si sdegna che 'l valor suo stia sepulto e forza è che a qualche modo lo scopra, per non essere defraudato dell'onore, che è il vero premio delle virtuose fatiche. Però tra gli antichi scrittori, chi molto vale rare volte si astien da laudar se stesso. Quelli ben sono intollerabili che, essendo di niun merito, si laudano; ma tal non presumiam noi che sia il nostro cortegiano -. Allor il Conte, - Se voi, - disse, - avete inteso, io ho biasmato il laudare se stesso impudentemente e senza rispetto; e certo, come voi dite, non si dee pigliar mala opinion d'un omo valoroso, che modestamente si laudi; anzi toôr quello per testimonio piú certo che se venisse di bocca altrui. Dico ben che chi, laudando se stesso, non incorre in errore, né a sé genera fastidio o invidia da chi ode, quello è discretissimo ed, oltre alle laudi che esso si dà, ne merita ancor dagli altri; perché è cosa difficil assai -. Allora il signor Gaspar, - Questo, - disse, - ci avete da insegnar voi -. Rispose il Conte: - Tra gli antichi scrittori non è ancor mancato chi l'abbia insegnato; ma, al parer mio, il tutto consiste in dir le cose di modo, che paia che non si dicano a quel fine, ma che caggiano talmente a proposito, che non si possa restar di dirle, e sempre mostrando fuggir le proprie laudi, dirle pure; ma non di quella maniera che fanno questi bravi, che aprono la bocca e lascian venir le parole alla ventura; come pochi dí fa disse un de' nostri che, essendogli a Pisa stato passata una coscia con una picca da una banda all'altra, pensò che fosse una mosca che l'avesse punto; ed un altro disse che non teneva specchio in camera perché quando si crucciava diveniva tanto terribile nell'aspetto, che veggendosi aría fatto troppo gran paura a se stesso -. Rise qui ognuno; ma messer Cesare Gonzaga suggiunse: - Di che ridete voi? Non sapete che Alessandro Magno, sentendo che opinion d'un filosofo era che fussino infiniti mondi, cominciò a piangere, ed essendoli domandato perché piangeva, rispose, "Perch'io non ne ho ancor preso un solo"; come se avesse avuto animo di pigliarli tutti?. Non vi par che questa fosse maggior braveria che il dir della puntura della mosca? - Disse allor il Conte: - Anco Alessandro era maggior uom che non era colui che disse quella. Ma agli omini eccellenti in vero si ha da perdonare quando presumono assai di sé; perché chi ha da far gran cose, bisogna che abbia ardir di farle e confidenzia di se stesso e non sia d'animo abbietto o vile, ma sí ben modesto in parole, mostrando di presumer meno di se stesso che non fa, pur che quella presunzione non passi alla temerità -.
XIX
Quivi facendo un poco di pausa il Conte, disse ridendo messer Bernardo Bibiena: - Ricordomi che dianzi diceste che questo nostro cortegiano aveva da esser dotato da natura di bella forma di volto e di persona, con quella grazia che lo facesse cosí amabile. La grazia e 'l volto bellissimo penso per certo che in me sia e perciò interviene che tante donne, quante sapete, ardeno dell'amor mio; ma della forma del corpo sto io alquanto dubbioso, e massimamente per queste mie gambe, che in vero non mi paiono cosí atte com'io vorrei; del busto e del resto contentomi pur assai bene. Dichiarate adunque un poco piú minutamente questa forma del corpo, quale abbia ella da essere, acciò che io possa levarmi di questo dubbio e star con l'animo riposato -. Essendosi di questo riso alquanto, suggiunse il Conte: - Certo quella grazia del volto, senza mentire, dir si po esser in voi, né altro esempio adduco che questo, per dechiarire che cosa ella sia; ché senza dubbio veggiamo il vostro aspetto esser gratissimo e piacere ad ognuno, avvenga che i lineamenti d'esso non siano molto delicati; ma tien del virile, e pur è grazioso; e trovasi questa qualità in molte e diverse forme di volti. E di tal sorte voglio io che sia lo aspetto del nostro cortegiano, non cosí molle e feminile come si sforzano d'aver molti, che non solamente si crespano i capegli e spelano le ciglia, ma si strisciano con tutti que' modi che si faccian le piú lascive e disoneste femine del mondo; e pare che nello andare, nello stare ed in ogni altro lor atto siano tanto teneri e languidi, che le membra siano per staccarsi loro l'uno dall'altro; e pronunziano quelle parole cosí afflitte, che in quel punto par che lo spirito loro finisca; e quanto piú si trovano con omini di grado, tanto piú usano tai termini. Questi, poiché la natura, come essi mostrano desiderare di parere ed essere, non gli ha fatti femine, dovrebbono non come bone femine esser estimati, ma, come publiche meretrici, non solamente delle corti de' gran signori, ma del consorzio degli omini nobili esser cacciati.
XX.
Vegnendo adunque alla qualità della persona, dico bastar ch'ella non sia estrema in piccolezza né in grandezza, perché e l'una e l'altra di queste condicioni porta seco una certa dispettosa maraviglia e sono gli omini di tal sorte mirati quasi di quel modo che si mirano le cose monstruose; benché, avendo da peccare nell'una delle due estremità, men male è l'esser un poco diminuto, che ecceder la ragionevol misura in grandezza; perché gli omini cosí vasti di corpo, oltra che molte volte di ottuso ingegno si trovano, sono ancor inabili ad ogni esercizio di agilità, la qual cosa io desidero assai nel cortegiano. E perciò voglio che egli sia di bona disposizione e de' membri ben formato, e mostri forza e leggerezza e discioltura, e sappia de tutti gli esercizi di persona, che ad uom di guerra s'appartengono; e di questo penso il primo dever essere maneggiar ben ogni sorte d'arme a piedi ed a cavallo e conoscere i vantaggi che in esse sono, e massimamente aver notizia di quell'arme che s'usano ordinariamente tra' gentilomini; perché, oltre all'operarle alla guerra, dove forse non sono necessarie tante sottilità, intervengono spesso differenzie tra un gentilom e l'altro, onde poi nasce il combattere, e molte volte con quell'arme che in quel punto si trovano a canto; però il saperne è cosa securissima. Né son io già di que' che dicono, che allora l'arte si scorda nel bisogno; perché certamente chi perde l'arte in quel tempo, dà segno che prima ha perduto il core e 'l cervello di paura.
XXI.
Estimo ancora che sia di momento assai il saper lottare, perché questo accompagna molto tutte l'arme da piedi. Appresso bisogna che e per sé e per gli amici intenda le querele e differenzie che possono occorrere, e sia avvertito nei vantaggi, in tutto mostrando sempre ed animo e prudenzia; né sia facile a questi combattimenti, se non quanto per l'onor fosse sforzato; che, oltre al gran pericolo che la dubbiosa sorte seco porta, chi in tai cose precipitosamente e senza urgente causa incorre, merita grandissimo biasimo, avvenga che ben gli succeda. Ma quando si trova l'omo esser entrato tanto avanti, che senza carico non si possa ritrarre, dee e nelle cose che occorrono prima del combattere, e nel combattere, esser deliberatissimo e mostrar sempre prontezza e core; e non far com'alcuni, che passano la cosa in dispute e punti, ed avendo la elezion dell'arme, pigliano arme che non tagliano né pungono e s'armano come s'avessero ad aspettar le cannonate; e parendo lor bastare il non esser vinti, stanno sempre in sul diffendersi e ritirarsi, tanto che mostrano estrema viltà; onde fannosi far la baia da' fanciulli, come que' dui Anconitani, che poco fa combatterono a Perugia e fecero ridere chi gli vide. - E quali furon questi? - disse il signor Gaspar Pallavicino. Rispose messer Cesare: - Dui fratelli consobrini -. Disse allora il Conte: - Al combattere parvero fratelli carnali; - poi suggionse: - Adopransi ancor l'arme spesso in tempo di pace in diversi esercizi, e veggonsi i gentilomini nei spettacoli publici alla presenzia de' populi, di donne e di gran signori. Però voglio che 'l nostro cortegiano sia perfetto cavalier d'ogni sella, ed oltre allo aver cognizion di cavalli e di ciò che al cavalcare s'appartiene, ponga ogni studio e diligenzia di passar in ogni cosa un poco piú avanti che gli altri, di modo che sempre tra tutti sia per eccellente conosciuto. E come si legge d'Alcibiade che superò tutte le nazioni presso alle quali egli visse, e ciascuna in quello che piú era suo proprio, cosí questo nostro avanzi gli altri, e ciascuno in quello di che piú fa professione. E perché degli Italiani è peculiar laude il cavalcare bene alla brida, il maneggiar con ragione massimamente cavalli asperi, il correr lance e 'l giostrare, sia in questo de' migliori Italiani; nel torneare, tener un passo, combattere una sbarra, sia bono tra i miglior Franzesi; nel giocare a canne, correr tori, lanzar aste e dardi, sia tra i Spagnoli eccellente. Ma sopra tutto accompagni ogni suo movimento con un certo bon giudicio e grazia, se vole meritar quell'universal favore che tanto s'apprezza.
XXII.
Sono ancor molti altri esercizi, i quali, benché non dependano drittamente dalle arme, pur con esse hanno molta convenienzia e tengono assai d'una strenuità virile; e tra questi parmi la caccia esser de' principali, perché ha una certa similitudine di guerra; ed è veramente piacer da gran signori e conveniente ad uom di corte; e comprendesi che ancor tra gli antichi era in molta consuetudine. Conveniente è ancor saper nuotare, saltare, correre, gittar pietre perché, oltre alla utilità che di questo si po avere alla guerra, molte volte occorre far prova di sé in tai cose; onde s'acquista bona estimazione, massimamente nella moltitudine, con la quale bisogna pur che l'om s'accommodi. Ancor nobile esercizio e convenientissimo ad uom di corte è il gioco di palla, nel quale molto si vede la disposizion del corpo e la prestezza e discioltura d'ogni membro, e tutto quello che quasi in ogni altro esercizio si vede. Né di minor laude estimo il volteggiar a cavallo, il quale, abbenché sia faticoso e difficile, fa l'omo leggerissimo e destro piú che alcun'altra cosa; ed oltre alla utilità, se quella leggerezza è compagnata di bona grazia, fa, al parer mio, piú bel spettaculo che alcun degli altri. Essendo adunque il nostro cortegiano in questi esercizi piú che mediocremente esperto, penso che debba lasciar gli altri da canto; come volteggiar in terra, andar in su la corda e tai cose, che quasi hanno del giocolare e poco sono a gentilomo convenienti. Ma perché sempre non si po versar tra queste cosí faticose operazioni, oltra che ancor la assiduità sazia molto e leva quella ammirazione che si piglia delle cose rare, bisogna sempre variar con diverse azioni la vita nostra. Però voglio che 'l cortegiano descenda qualche volta a piú riposati e placidi esercizi, e per schivar la invidia e per intertenersi piacevolmente con ognuno faccia tutto quello che gli altri fanno, non s'allontanando però mai dai laudevoli atti e governandosi con quel bon giudicio che non lo lassi incorrere in alcuna sciocchezza; ma rida, scherzi, motteggi, balli e danzi, nientedimeno con tal maniera, che sempre mostri esser ingenioso e discreto ed in ogni cosa che faccia o dica sia aggraziato -.
XXIII.
- Certo, - disse allor messer Cesare Gonzaga, - non si dovria già impedir il corso di questo ragionamento; ma, se io tacessi, non satisfarei alla libertà ch'io ho di parlare, né al desiderio di saper una cosa; e siami perdonato s'io, avendo a contradire, dimanderò; perché questo credo che mi sia licito, per esempio del nostro messer Bernardo, il quale per troppo voglia d'esser tenuto bell'omo, ha contrafatto alle leggi del nostro gioco, domandando e non contradicendo. - Vedete, - disse allora la signora Duchessa, - come da un error solo molti ne procedono. Però chi falla e dà mal esempio, come messer Bernardo, non solamente merita esser punito del suo fallo, ma ancor dell'altrui -. Rispose allora messer Cesare: - Dunque io, Signora, sarò esente di pena, avendo messer Bernardo ad esser punito del suo e del mio errore. - Anzi, - disse la signora Duchessa, - tutti dui devete aver doppio castigo: esso del suo fallo e dello aver indutto voi a fallire; voi del vostro fallo e dello aver imitato chi falliva. - Signora, - rispose messer Cesare, - io fin qui non ho fallito; però, per lasciar tutta questa punizione a messer Bernardo solo, tacerommi -. E già si taceva; quando la signora Emilia ridendo, - Dite ciò che vi piace, - rispose, - Ché, con licenzia però della signora Duchessa, io perdono a chi ha fallito e a chi fallirà in cosí piccol fallo -. Suggiunse la signora Duchessa: - Io son contenta; ma abbiate cura che non v'inganniate, pensando forse meritar piú con l'esser clemente che con l'esser giusta; perché perdonando troppo a chi falla si fa ingiuria a chi non falla. Pur non voglio che la mia austerità per ora, accusando la indulgenzia vostra, sia causa che noi perdiamo d'udir questa domanda di messer Cesare -. Cosí esso, essendogli fatto segno dalla signora Duchessa e dalla signora Emilia, súbito disse:
XXIV.
- Se ben tengo a memoria, parmi, signor Conte, che voi questa sera piú volte abbiate replicato che 'l cortegiano ha da compagnare l'operazion sue, i gesti, gli abiti, in somma ogni suo movimento con la grazia; e questo mi par che mettiate per un condimento d'ogni cosa, senza il quale tutte l'altre proprietà e bone condicioni sian di poco valore. E veramente credo io che ognun facilmente in ciò si lasciarebbe persuadere, perché per la forza del vocabulo si po dir che chi ha grazia quello è grato. Ma perché voi diceste, questo spesse volte esser don della natura e de' cieli, ed ancor quando non è cosí perfetto potersi con studio e fatica far molto maggiore, quegli che nascono cosí avventurosi e tanto ricchi di tal tesoro, come alcuni che ne veggiamo, a me par che in ciò abbiano poco bisogno d'altro maestro; perché quel benigno favor del cielo quasi al suo dispetto i guida piú alto che essi non desiderano, e fagli non solamente grati, ma ammirabili a tutto il mondo. Però di questo non ragiono, non essendo in poter nostro per noi medesimi l'acquistarlo. Ma quelli che da natura hanno tanto solamente, che son atti a poter esser aggraziati aggiungendovi fatica, industria e studio, desidero io di saper con qual arte, con qual disciplina e con qual modo possono acquistar questa grazia, cosí negli esercizi del corpo, nei quali voi estimate che sia tanto necessaria, come ancor in ogni altra cosa che si faccia o dica. Però, secondo che col laudarci molto questa qualità a tutti avete, credo, generato una ardente sete di conseguirla, per lo carico dalla signora Emilia impostovi siete ancor con lo insegnarci obligato ad estinguerla
XXV.
- Obligato non son io, - disse il Conte, - ad insegnarvi a diventar aggraziati, né altro, ma solamente a dimostrarvi qual abbia ad essere un perfetto cortegiano. Né io già pigliarei impresa di insegnarvi questa perfezione, massimamente avendo poco fa detto che 'l cortegiano abbia da saper lottare e volteggiare e tant'altre cose, le quali come io sapessi insegnarvi, non le avendo mai imparate, so che tutti lo conoscete. Basta che sí come un bon soldato sa dire al fabro di che foggia e garbo e bontà hanno ad esser l'arme, né però gli sa insegnar a farle, né come le martelli o tempri, cosí io forse vi saprò dir qual abbia ad esser un perfetto cortegiano, ma non insegnarvi come abbiate a fare per divenirne. Pur, per satisfare ancor quanto è in poter mio alla domanda vostra, benché e' sia quasi in proverbio che la grazia non s'impari, dico che chi ha da esser aggraziato negli esercizi corporali, presuponendo prima che da natura non sia inabile, dee cominciar per tempo ed imparar i princípi da ottimi maestri; la qual cosa quanto paresse a Filippo re di Macedonia importante, si po comprendere, avendo voluto che Aristotele, tanto famoso filosofo e forse il maggior che sia stato al mondo mai, fosse quello che insegnasse i primi elementi delle lettere ad Alessandro suo figliolo. E delli omini che noi oggidí conoscemo, considerate come bene ed aggraziatamente fa il signor Galleazzo Sanseverino, gran scudiero di Francia tutti gli esercizi del corpo; e questo perché, oltre alla natural disposizione ch'egli tiene della persona, ha posto ogni studio d'imparare da bon maestri ed aver sempre presso di sé omini eccellenti e da ognun pigliar il meglio di ciò che sapevano; ché sí come del lottare, volteggiare e maneggiar molte sorti d'armi ha tenuto per guida il nostro messer Pietro Monte, il qual, come sapete, è il vero e solo maestro d'ogni artificiosa forza e leggerezza, cosí del cavalcare, giostrare e qualsivoglia altra cosa ha sempre avuto inanzi agli occhi i piú perfetti, che in quelle professioni siano stati conosciuti.
XXVI.
Chi adunque vorrà esser bon discipulo, oltre al far le cose bene, sempre ha da metter ogni diligenzia per assimigliarsi al maestro e, se possibil fosse, transformarsi in lui. E quando già si sente aver fatto profitto, giova molto veder diversi omini di tal professione e, governandosi con quel bon giudicio che sempre gli ha da esser guida, andar scegliendo or da un or da un altro varie cose. E come la pecchia ne' verdi prati sempre tra l'erbe va carpendo i fiori, cosí il nostro cortegiano averà da rubare questa grazia da que' che a lui parerà che la tenghino e da ciascun quella parte che piú sarà laudevole; e non far come un amico nostro, che voi tutti conoscete, che si pensava esser molto simile al re Ferrando minore d'Aragona, né in altro avea posto cura d'imitarlo, che nel spesso alzare il capo, torzendo una parte della bocca, il qual costume il re avea contratto cosí da infirmità. E di questi molti si ritrovano, che pensan far assai, pur che sian simili a un grand'omo in qualche cosa; e spesso si appigliano a quella che in colui è sola viciosa. Ma avendo io già piú volte pensato meco onde nasca questa grazia, lasciando quelli che dalle stelle l'hanno, trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano piú che alcuna altra, e ciò è fuggir quanto piú si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l'arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia; perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch'ella si sia. Però si po dir quella esser vera arte che non pare esser arte; né piú in altro si ha da poner studio, che nel nasconderla: perché se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l'omo poco estimato. E ricordomi io già aver letto esser stati alcuni antichi oratori eccellentissimi, i quali tra le altre loro industrie sforzavansi di far credere ad ognuno sé non aver notizia alcuna di lettere; e dissimulando il sapere mostravan le loro orazioni esser fatte simplicissimamente, e piú tosto secondo che loro porgea la natura e la verità, che 'l studio e l'arte; la qual se fosse stata conosciuta, aría dato dubbio negli animi del populo di non dover esser da quella ingannati. Vedete adunque come il mostrar l'arte ed un cosí intento studio levi la grazia d'ogni cosa. Qual di voi è che non rida quando il nostro messer Pierpaulo danza alla foggia sua, con que' saltetti e gambe stirate in punta di piede, senza mover la testa, come se tutto fosse un legno, con tanta attenzione, che di certo pare che vada numerando i passi? Qual occhio è cosí cieco, che non vegga in questo la disgrazia della affettazione? e la grazia in molti omini e donne che sono qui presenti, di quella sprezzata desinvoltura (ché nei movimenti del corpo molti cosí la chiamano), con un parlar o ridere o adattarsi, mostrando non estimar e pensar piú ad ogni altra cosa che a quello, per far credere a chi vede quasi di non saper né poter errare?
XXVII.
Quivi non aspettando, messer Bernardo Bibiena disse: - Eccovi che messer Roberto nostro ha pur trovato chi laudarà la foggia del suo danzare, poiché tutti voi altri pare che non ne facciate caso; ché se questa eccellenzia consiste nella sprezzatura e mostrar di non estimare e pensar piú ad ogni altra cosa che a quello che si fa, messer Roberto nel danzare non ha pari al mondo; ché per mostrar ben di non pensarvi si lascia cader la robba spesso dalle spalle e le pantoffole de' piedi, e senza raccórre né l'uno né l'altro, tuttavia danza -. Rispose allor il Conte: - Poiché voi volete pur ch'io dica, dirò ancor dei vicii nostri. Non v'accorgete che questo, che voi in messer Roberto chiamate sprezzatura, è vera affettazione? perché chiaramente si conosce che esso si sforza con ogni studio mostrar di non pensarvi, e questo è il pensarvi troppo; e perché passa certi termini di mediocrità quella sprezzatura è affettata e sta male; ed è una cosa che a punto riesce al contrario del suo presuposito, cioè di nasconder l'arte. Però non estimo io che minor vicio della affettazion sia nella sprezzatura, la quale in sé è laudevole, lasciarsi cadere i panni da dosso, che nella attillatura, che pur medesimamente da sé è laudevole, il portar il capo cosí fermo per paura di non guastarsi la zazzera, o tener nel fondo della berretta il specchio e 'l pettine nella manica, ed aver sempre drieto il paggio per le strade con la sponga e la scopetta; perché questa cosí fatta attillatura e sprezzatura tendono troppo allo estremo; il che sempre è vicioso, e contrario a quella pura ed amabile simplicità, che tanto è grata agli animi umani. Vedete come un cavalier sia di mala grazia, quando si sforza d'andare cosí stirato in su la sella e, come noi sogliam dire, alla veneziana, a comparazion d'un altro, che paia che non vi pensi e stia a cavallo cosí disciolto e sicuro come se fosse a piedi. Quanto piace piú e quanto piú è laudato un gentilom che porti arme, modesto, che parli poco e poco si vanti, che un altro, il quale sempre stia in sul laudar se stesso, e biastemando con braveria mostri minacciar al mondo! e niente altro è questo, che affettazione di voler parer gagliardo. Il medesimo accade in ogni esercizio, anzi in ogni cosa che al mondo fare o dir si possa
XXVIII.
Allora il signor Magnifico, - Questo ancor, - disse, - si verifica nella musica, nella quale è vicio grandissimo far due consonanzie perfette l'una dopo l'altra; tal che il medesimo sentimento dell'audito nostro l'aborrisce e spesso ama una seconda o settima, che in sé è dissonanzia aspera ed intollerabile; e ciò procede che quel continuare nelle perfette genera sazietà e dimostra una troppo affettata armonia; il che mescolando le imperfette si fugge, col far quasi un paragone, donde piú le orecchie nostre stanno suspese e piú avidamente attendono e gustano le perfette, e dilettansi talor di quella dissonanzia della seconda o settima, come di cosa sprezzata. - Eccovi adunque, - rispose il Conte, - che in questo nòce l'affettazione, come nell'altre cose. Dicesi ancor esser stato proverbio presso ad alcuni eccellentissimi pittori antichi troppa diligenzia esser nociva, ed esser stato biasmato Protogene da Apelle, che non sapea levar le mani dalla tavola -. Disse allora messer Cesare: - Questo medesimo diffetto parmi che abbia il nostro fra Serafino, di non saper levar le mani dalla tavola, almen fin che in tutto non ne sono levate ancora le vivande -. Rise il Conte e suggiunse: - Voleva dire Apelle che Protogene nella pittura non conoscea quel che bastava; il che non era altro, che riprenderlo d'esser affettato nelle opere sue. Questa virtú adunque contraria alla affettazione, la qual noi per ora chiamiamo sprezzatura, oltra che ella sia il vero fonte donde deriva la grazia, porta ancor seco un altro ornamento, il quale accompagnando qualsivoglia azione umana, per minima che ella sia, non solamente súbito scopre il saper di chi la fa, ma spesso lo fa estimar molto maggior di quello che è in effetto; perché negli animi delli circunstanti imprime opinione, che chi cosí facilmente fa bene sappia molto piú di quello che fa, e se in quello che fa ponesse studio e fatica, potesse farlo molto meglio. E per replicare i medesimi esempi, eccovi che un uom che maneggi l'arme, se per lanzar un dardo, o ver tenendo la spada in mano a altr'arma, si pon senza pensar scioltamente in una attitudine pronta, con tal facilità che paia che il corpo e tutte le membra stiano in quella disposizione naturalmente e senza fatica alcuna, ancora che non faccia altro, ad ognuno si dimostra esser perfettissimo in quello esercizio. Medesimamente nel danzare un passo solo, un sol movimento della persona grazioso e non sforzato, súbito manifesta il sapere de chi danza. Un musico, se nel cantar pronunzia una sola voce terminata con suave accento in un groppetto duplicato, con tal facilità che paia che cosí gli venga fatto a caso, con quel punto solo fa conoscere che sa molto piú di quello che fa. Spesso ancor nella pittura una linea sola non stentata, un sol colpo di pennello tirato facilmente, di modo che paia che la mano, senza esser guidata da studio o arte alcuna, vada per se stessa al suo termine secondo la intenzion del pittore, scopre chiaramente la eccellenzia dell'artifice, circa la opinion della quale ognuno poi si estende secondo il suo giudicio e 'l medesimo interviene quasi d'ogni altra cosa. Sarà adunque il nostro cortegiano stimato eccellente ed in ogni cosa averà grazia, massimamente nel parlare, se fuggirà l'affettazione; nel qual errore incorrono molti, e talor piú che gli altri alcuni nostri Lombardi; i quali, se sono stati un anno fuor di casa, ritornati súbito cominciano a parlare romano, talor spagnolo o franzese, e Dio sa come; e tutto questo procede da troppo desiderio di mostrar di saper assai; ed in tal modo l'omo mette studio e diligenzia in acquistar un vicio odiosissimo. E certo a me sarebbe non piccola fatica, se in questi nostri ragionamenti io volessi usar quelle parole antiche toscane, che già sono dalla consuetudine dei Toscani d'oggidí rifiutate; e con tutto questo credo che ognun di me rideria
XXIX.
Allor messer Federico, - Veramente, - disse, - ragionando tra noi, come or facciamo, forse saria male usar quelle parole antiche toscane; perché, come voi dite, dariano fatica a chi le dicesse ed a chi le udisse e non senza difficultà sarebbono da molti intese. Ma chi scrivesse, crederei ben io che facesse errore non usandole perché dànno molta grazia ed autorità alle scritture, e da esse risulta una lingua piú grave e piena di maestà che dalle moderne. - Non so, - rispose il Conte, - che grazia o autorità possan dar alle scritture quelle parole che si deono fuggire, non solamente nel modo del parlare, come or noi facciamo (il che voi stesso confessate), ma ancor in ogni altro che imaginar si possa. Ché se a qualsivoglia omo di bon giudicio occorresse far una orazione di cose gravi nel senato proprio di Fiorenza, che è il capo di Toscana, o ver parlar privatamente con persona di grado in quella città di negoci importanti, o ancor con chi fosse dimestichissimo di cose piacevoli, con donne o cavalieri d'amore, o burlando o scherzando in feste, giochi, o dove si sia, o in qualsivoglia tempo, loco o proposito, son certo che si guardarebbe d'usar quelle parole antiche toscane; ed usandole, oltre al far far beffe di sé, darebbe non poco fastidio a ciascun che lo ascoltasse. Parmi adunque molto strana cosa usare nello scrivere per bone quelle parole, che si fuggono per viciose in ogni sorte di parlare; e voler che quello che mai non si conviene nel parlare, sia il piú conveniente modo che usar si possa nello scrivere. Ché pur, secondo me, la scrittura non è altro che una forma di parlare che resta ancor poi che l'omo ha parlato, e quasi una imagine o piú presto vita delle parole, e però nel parlare, il qual, súbito uscita che è la voce, si disperde, son forse tollerabili alcune cose che non sono nello scrivere; perché la scrittura conserva le parole e le sottopone al giudicio di chi legge e dà tempo di considerarle maturamente. E perciò è ragionevole che in questa si metta maggior diligenzia per farla piú culta e castigata; non però di modo che le parole scritte siano dissimili dalle dette, ma che nello scrivere si eleggano delle piú belle che s'usano nel parlare. E se nello scrivere fosse licito quello che non è licito nel parlare, ne nascerebbe un inconveniente al parer mio grandissimo, che è che più licenzia usar si poria in quella cosa, nella qual si dee usar piú studio; e la industria che si mette nello scrivere in loco di giovar nocerebbe. Però certo è che quello che si conviene nello scrivere si convien ancor nel parlare; e quel parlar è bellissimo, che è simile ai scritti belli. Estimo ancora che molto piú sia necessario l'esser inteso nello scrivere che nel parlare; perché quelli che scrivono non son sempre presenti a quelli che leggono, come quelli che parlano a quelli che parlano. Però io laudarei che l'omo, oltre al fuggir molte parole antiche toscane, si assicurasse ancor d'usare, e scrivendo e parlando, quelle che oggidí sono in consuetudine in Toscana e negli altri lochi della Italia, e che hanno qualche grazia nella pronuncia. E parmi che chi s'impone altra legge non sia ben sicuro di non incorrere in quella affettazione tanto biasimata, della qual dianzi dicevamo -.
XXX.
Allora messer Federico, - Signor Conte, - disse, - io non posso negarvi che la scrittura non sia un modo di parlare. Dico ben che, se le parole che si dicono hanno in sé qualche oscurità, quel ragionamento non penetra nell'animo di chi ode e passando senza esser inteso, diventa vano; il che non interviene nello scrivere, ché se le parole che usa il scrittore portan seco un poco, non dirò di difficultà, ma d'acutezza recondita, e non cosí nota come quelle che si dicono parlando ordinariamente, danno una certa maggior autorità alla scrittura e fanno che 'l lettore va piú ritenuto e sopra di sé, e meglio considera e si diletta dello ingegno e dottrina di chi scrive; e col bon giudicio affaticandosi un poco, gusta quel piacere che s'ha nel conseguir le cose difficili. E se la ignoranzia di chi legge è tanta, che non possa superar quelle difficultà, non è la colpa dello scrittore, né per questo si dee stimar che quella lingua non sia bella. Però, nello scrivere credo io che si convenga usar le parole toscane e solamente le usate dagli antichi Toscani, perché quello è gran testimonio ed approvato dal tempo che sian bone, e significative de quello perché si dicono; ed oltre a questo hanno quella grazia e venerazion che l'antiquità presta non solamente alle parole, ma agli edifici, alle statue, alle pitture e ad ogni cosa che è bastante a conservarla; e spesso solamente con quel splendore e dignità fanno la elocuzion bella, dalla virtú della quale ed eleganzia ogni subietto, per basso che egli sia, po esser tanto adornato, che merita somma laude. Ma questa vostra consuetudine, di cui voi fate tanto caso, a me par molto pericolosa e spesso po esser mala; e se qualche vicio di parlar si ritrova esser invalso in molti ignoranti, non per questo parmi che si debba pigliar per una regula ed esser dagli altri seguitato. Oltre a questo, le consuetudini sono molto varie, né è città nobile in Italia che non abbia diversa maniera di parlar da tutte l'altre. Però non vi ristringendo voi a dechiarir qual sia la megliore, potrebbe l'omo attaccarse alla bergamasca cosí come alla fiorentina, e secondo voi non sarebbe error alcuno. Parmi adunque che a chi vol fuggir ogni dubbio, ed esser ben sicuro, sia necessario proporsi ad imitar uno, il quale di consentimento di tutti sia estimato bono, ed averlo sempre per guida e scudo contra chi volesse riprendere; e questo (nel vulgar dico) non penso che abbia da esser altro che il Petrarca e 'l Boccaccio; e chi da questi dui si discosta va tentoni, come chi camina per le tenebre senza lume e però spesso erra la strada. Ma noi altri siamo tanto arditi, che non degnamo di far quello che hanno fatto i boni antichi, cioè attendere alla imitazione, senza la quale estimo io che non si possa scriver bene. E gran testinionio di questo parmi che ci dimostri Virgilio; il quale, benché con quello ingegno e giudicio tanto divino togliesse la speranza a tutti i posteri che alcun mai potesse ben imitar lui, volse però imitar Omero -.
XXXI.
Allora il signor Gaspar Pallavicino, - Questa disputazion, - disse, - dello scrivere in vero è ben degna d'esser udita; nientedimeno piú farebbe al proposito nostro, se voi c'insegnaste di che modo debba parlar il cortegiano, perché parmi che n'abbia maggior bisogno e piú spesso gli occorra il servirsi del parlare che dello scrivere -. Rispose il Magnifico: - Anzi a cortegian tanto eccellente e cosí perfetto non è dubbio che l'uno e l'altro è necessario a sapere, e che senza queste due condizioni forse tutte l'altre sariano non molto degne di laude; però, se il Conte vorrà satisfare al debito suo, insegnerà al cortegiano non solamente il parlare, ma ancor il scriver bene -. Allor il Conte, - Signor Magnifico, - disse, - questa impresa non accettarò io già, ché gran sciocchezza saria la mia voler insegnare ad altri quello che io non so; e, quando ancor lo sapessi, pensar di poter fare in cosí poche parole quello, che con tanto studio e fatica hanno fatto a pena omini dottissimi, ai scritti de' quali rimetterei il nostro cortegiano, se pur fossi obligato d'insegnargli a scrivere e parlare -. Disse messer Cesare: - Il signor Magnifico intende del parlare e scriver vulgare, e non latino; però quelle scritture degli omini dotti non sono al proposito nostro; ma bisogna che voi diciate circa questo ciò che ne sapete, ché del resto v'averemo per escusato. - Io già l'ho detto, - rispose il Conte; - ma, parlandosi della lingua toscana, forse piú saria debito del signor Magnifico che d'alcun altro il darne la sentenzia -. Disse il Magnifico: - Io non posso né debbo ragionevolmente contradir a chi dice che la lingua toscana sia piú bella dell'altre. È ben vero che molte parole si ritrovano nel Petrarca e nel Boccaccio, che or son interlassate dalla consuetudine d'oggidí; e queste io, per me, non usarei mai né parlando né scrivendo; e credo che essi ancor, se insin a qui vivuti fossero, non le usarebbono piú -. Disse allor messer Federico: - Anzi le usarebbono; e voi altri, signori Toscani, dovreste rinovar la vostra lingua e non lassarla perire, come fate; ché ormai si po dire che minor notizia se n’abbia in Fiorenza, che in molti altri lochi della Italia -. Rispose allor messer Bernardo: - Queste parole che non s'usano piú in Fiorenza sono restate ne' contadini e, come corrotte e guaste dalla vecchiezza, sono dai nobili rifiutate -.
XXXII.
Allora la signora Duchessa, - Non usciam, - disse, - del primo proposito e facciam che 'l conte Ludovico insegni al cortegiano il parlare e scriver bene, e sia o toscano o come si voglia -. Rispose il Conte: - Io già, Signora, ho detto quello che ne so; e tengo che le medesime regule, che serveno ad insegnar l'uno, servano ancor ad insegnar l'altro. Ma poiché mel commandate, risponderò quello che m'occorre a messer Federico, il quale ha diverso parer dal mio; e forse mi bisognerà ragionar un poco più diffusamente che non si conviene; ma questo sarà quanto io posso dire. E primamente dico che, secondo il mio giudicio, questa nostra lingua, che noi chiamiamo vulgare, è ancor tenera e nova, benché già gran tempo si costumi; perché, per essere stata la Italia non solamente vessata e depredata, ma lungamente abitata da' barbari, per lo commerzio di quelle nazioni la lingua latina s'è corrotta e guasta, e da quella corruzione son nate altre lingue; le quai, come i fiumi che dalla cima dell'Appennino fanno divorzio e scorrono nei dui mari, cosí si son esse ancor divise ed alcune tinte di latinità pervenute per diversi camini qual ad una parte e quale ad altra, ed una tinta di barbarie rimasta in Italia. Questa adunque è stata tra noi lungamente incomposta e varia, per non aver avuto chi le abbia posto cura, né in essa scritto, né cercato di darle splendor o grazia alcuna; pur è poi stata alquanto più culta in Toscana, che negli altri lochi della Italia; e per questo par che 'l suo fiore insino da que' primi tempi qui sia rimaso, per aver servato quella nazion gentil accenti nella pronunzia ed ordine grammaticale in quello che si convien, piú che l'altre; ed aver avuti tre nobili scrittori, i quali ingeniosamente e con quelle parole e termini che usava la consuetudine de' loro tempi hanno espresso i lor concetti; il che piú felicemente che agli altri, al parer mio, è successo al Petrarca nelle cose amorose. Nascendo poi di tempo in tempo, non solamente in Toscana ma in tutta la Italia, tra gli omini nobili e versati nelle corti e nell'arme e nelle lettere, qualche studio di parlare e scrivere piú elegantemente, che non si faceva in quella prima età rozza ed inculta, quando lo incendio delle calamità nate da' barbari non era ancor sedato, sonsi lassate molte parole, cosí nella città propria di Fiorenza ed in tutta la Toscana, come nel resto della Italia, ed in loco di quelle riprese dell'altre, e fattosi in questo quella mutazion che si fa in tutte le cose umane; il che è intervenuto sempre ancor delle altre lingue. Ché se quelle prime scritture antiche latine fossero durate insino ad ora, vederemmo che altramente parlavano Evandro e Turno e gli altri Latini di que' tempi, che non fecero poi gli ultimi re romani e i primi consuli. Eccovi che i versi che cantavano i Salii a pena erano dai posteri intesi; ma, essendo di quel modo dai primi institutori ordinati, non si mutavano per riverenzia della religione. Cosí successivamente gli oratori e i poeti andarono lassando molte parole usate dai loro antecessori; ché Antonio, Crasso, Ortensio, Cicerone fuggivano molte di quelle di Catone e Virgilio molte d'Ennio; e cosí fecero gli altri; che, ancor che avessero riverenzia all'antiquità, non la estimavan però tanto, che volessero averle quella obligazion che voi volete che ora le abbiam noi; anzi, dove lor parea, la biasmavano: come Orazio, che dice che i suoi antichi aveano scioccamente laudato Plauto e vol poter acquistare nove parole. E Cicerone in molti lochi riprende molti suoi antecessori; e per biasmare Sergio Galba afferma che le orazioni sue aveano dell'antico; e dice che Ennio ancor sprezzò in alcune cose i suoi antecessori, di modo che, se noi vorremo imitar gli antichi, non gli imitaremo. E Virgilio, che voi dite che imitò Omero, non lo imitò nella lingua.
XXXIII.
Io adunque queste parole antiche, quanto per me, fuggirei sempre di usare, eccetto però che in certi lochi, ed in questi ancor rare volte; e parmi che chi altrimente le usa faccia errore, non meno che chi volesse, per imitar gli antichi, nutrirsi ancora di ghiande, essendosi già trovata copia di grano. E perché voi dite che le parole antiche solamente con quel splendore d'antichitá adornan tanto ogni subietto, per basso ch'egli sia, che possono farlo degno di molta laude, io dico che non solamente di queste parole antiche, ma né ancor delle bone faccio tanto caso, ch'estimi debbano senza 'l suco delle belle sentenzie esser prezzate ragionevolmente perché il divider le sentenzie dalle parole è un divider l'anima dal corpo: la qual cosa né nell'uno né nell'altro senza distruzione far si po. Quello adunque che principalmente importa ed è necessario al cortegiano per parlare e scriver bene, estimo io che sia il sapere; perché chi non sa e nell'animo non ha cosa che meriti esser intesa, non po né dirla né scriverla. Appresso bisogna dispor con bell'ordine quello che si ha a dire o scrivere; poi esprimerlo ben con le parole: le quali, s'io non m'inganno, debbono esser proprie, elette, splendide e ben composte, ma sopra tutto usate ancor dal populo; perché quelle medesime fanno la grandezza e pompa dell'orazione, se colui che parla ha bon giudicio e diligenzia e sa pigliar le piú significative di ciò che vol dire, ed inalzarle, e come cera formandole ad arbitrio suo collocarle in tal parte e con tal ordine. che al primo aspetto mostrino e faccian conoscer la dignità e splendor suo, come tavole di pittura poste al suo bono e natural lume. E questo cosí dico dello scrivere, come del parlare; al qual però si richiedono alcune cose che non son necessarie nello scrivere: come la voce bona, non troppo sottile o molle come di femina, né ancor tanto austera ed orrida che abbia del rustico, ma sonora, chiara, soave e ben composta, con la pronunzia espedita e coi modi e gesti convenienti; li quali, al parer mio, consistono in certi movimenti di tutto 'l corpo, non affettati né violenti, ma temperati con un volto accommodato e con un mover d'occhi che dia grazia e s'accordi con le parole, e piú che si po significhi ancor coi gesti la intenzione ed affetto di colui che parla. Ma tutte queste cose sarian vane e di poco momento se le sentenzie espresse dalle parole non fossero belle, ingeniose, acute, eleganti e gravi, secondo 'l bisogno -.
XXXIV.
- Dubito, - disse allora il signor Morello, - che se questo cortegiano parlerà con tanta eleganzia e gravità, fra noi si trovaranno di quei che non lo intenderanno. - Anzi da ognuno sarà inteso, - rispose il Conte, - perché la facilità non impedisce la eleganzia. Né io voglio che egli parli sempre in gravità, ma di cose piacevoli, di giochi, di motti e di burle, secondo il tempo; del tutto però sensatamente e con prontezza e copia non confusa; né mostri in parte alcuna vanità o sciocchezza puerile. E quando poi parlerà di cosa oscura o difficile, voglio che e con le parole e con le sentenzie ben distinte esplichi sottilmente la intenzion sua, ed ogni ambiguità faccia chiara e piana con un certo modo diligente senza molestia. Medesimamente, dove occorrerà, sappia parlar con dignità e veemenzia, e concitar quegli affetti che hanno in sé gli animi nostri, ed accenderli o moverli secondo il bisogno; talor con una simplicità di quel candore, che fa parer che la natura istessa parli, intenerirgli e quasi inebbriargli di dolcezza, e con tal facilità, che chi ode estimi ch'egli ancor con pochissima fatica potrebbe conseguir quel grado, e quando ne fa la prova si gli trovi lontanissimo. Io vorrei che 'l nostro cortegiano parlasse e scrivesse in tal maniera, e non solamente pigliasse parole splendide ed eleganti d'ogni parte della Italia, ma ancora laudarei che talor usasse alcuni di quelli termini e franzesi e spagnoli, che già sono dalla consuetudine nostra accettati. Però a me non dispiacerebbe che, occorrendogli, dicesse primor, dicesse accertare, avventurare; dicesse ripassare una persona con ragionamento, volendo intendere riconoscerla e trattarla per averne perfetta notizia; dicesse un cavalier senza rimproccio, attillato, creato d'un principe ed altri tali termini, pur che sperasse esser inteso. Talor vorrei che pigliasse alcune parole in altra significazione che la lor propria e, traportandole a proposito, quasi le inserisse come rampollo d'albero in piú felice tronco, per farle piú vaghe e belle, e quasi per accostar le cose al senso degli occhi proprii e, come si dice, farle toccar con mano, con diletto di chi ode o legge. Né vorrei che temesse di formarne ancor di nove e con nove figure di dire, deducendole con bel modo dai Latini, come già i Latini le deducevano dai Greci.
XXXV.
Se adunque degli omini litterati e di bon ingegno e giudicio, che oggidí tra noi si ritrovano, fossero alcuni, li quali ponessimo cura di scrivere del modo che s'è detto in questa lingua cose degne d'esser lette, tosto la vederessimo culta ed abundante de termini e belle figure, e capace che in essa si scrivesse cosí bene come in qualsivoglia altra; e se ella non fosse pura toscana antica, sarebbe italiana, commune, copiosa e varia, e quasi come un delicioso giardino pien di diversi fiori e frutti. Né sarebbe questo cosa nova; perché delle quattro lingue che aveano in consuetudine, i scrittori greci, elegendo da ciascuna parole, modi e figure, come ben loro veniva, ne facevano nascere un'altra che si diceva commune, e tutte cinque poi sotto un solo nome chiamavano lingua greca; e benché la ateniese fosse elegante, pura e facunda piú che l'altre, i boni scrittori che non erano di nazion ateniesi, non la affettavan tanto, che nel modo dello scrivere e quasi all'odor e proprietà del suo natural parlare non fossero conosciuti; né per questo però erano sprezzati; anzi quei che volevan parer troppo ateniesi, ne rapportavan biasimo. Tra i scrittori latini ancor furono in prezzo a' suoi dí molti non romani, benché in essi non si vedesse quella purità propria della lingua romana, che rare volte possono acquistar quei che son d'altra nazione. Già non fu rifutato Tito Livio, ancora che colui dicesse aver trovato in esso la patavinità, né Virgilio, per esser stato ripreso che non parlava romano; e, come sapete, furono ancor letti ed estimati in Roma molti scrittori di nazione barbari. Ma noi, molto piú severi che gli antichi, imponemo a noi stessi certe nove leggi fuor di proposito, ed avendo inanzi agli occhi le strade battute, cerchiamo anelar per diverticuli; perché nella nostra lingua propria, della quale, come di tutte l'altre, l'officio è esprimer bene e chiaramente i concetti dell'animo, ci dilettiamo della oscurità e, chiamandola lingua vulgare, volemo in essa usar parole che non solamente non son dal vulgo, ma né ancor dagli omini nobili e litterati intese, né piú si usano in parte alcuna; senza aver rispetto che tutti i boni antichi biasmano le parole rifutate dalla consuetudine. La qual voi, al parer mio, non conoscete bene; perché dite che, se qualche vicio di parlare è invalso in molti ignoranti non per questo si dee chiamar consuetudine, né esser accettato per una regula di parlare; e, secondo che altre volte vi ho udito dire, volete poi che in loco de Capitolio si dica Campidoglio; per Ieronimo, Girolamo; aldace per audace; e per patrone, padrone, ed altre tai parole corrotte e guaste, perché cosí si trovan scritte da qualche antico Toscano ignorante e perché cosí dicono oggidí i contadini toscani. La bona consuetudine adunque del parlare credo io che nasca dagli omini che hanno ingegno e che con la dottrina ed esperienzia s'hanno guadagnato il bon giudicio, e con quello concorrono e consentono ad accettar le parole che lor paion bone, le quali si conoscono per un certo giudicio naturale e non per arte o regula alcuna. Non sapete voi che le figure del parlare, le quai dànno tanta grazia e splendor alla orazione, tutte sono abusioni dalle regule grammaticali ma accettate e confirmate dalla usanza, perché, senza poterne render altra ragione, piaceno ed al senso proprio dell'orecchia par che portino suavità e dolcezza? E questa credo io che sia la bona consuetudine; della quale cosí possono essere capaci i Romani, i Napoletani, i Lombardi e gli altri, come i Toscani.
XXXVI.
È ben vero che in ogni lingua alcune cose sono sempre bone, come la facilità, il bell'ordine, l'abundanzia, le belle sentenzie, le clausule numerose; e, per contrario, l'affettazione e l'altre cose opposite a queste son male. Ma delle parole son alcune che durano bone un tempo, poi s'invecchiano ed in tutto perdono la grazia; altre piglian forza e vengono in prezzo perché, come le stagioni dell'anno spogliano de' fiori e de' frutti la terra e poi di novo d'altri la rivesteno, cosí il tempo quelle prime parole fa cadere e l'uso altre di novo fa rinascere e dà lor grazia e dignità, fin che, dall'invidioso morso del tempo a poco a poco consumate, giungono poi esse ancora alla lor morte; perciò che, al fine, e noi ed ogni nostra cosa è mortale. Considerate che della lingua osca non avemo piú notizia alcuna. La provenzale, che pur mo, si po dir, era celebrata da nobili scrittori, ora dagli abitanti di quel paese non è intesa. Penso io adunque, come ben ha detto il signor Magnifico, che se 'l Petrarca e 'l Boccaccio fossero vivi a questo tempo, non usariano molte parole che vedemo ne' loro scritti: però non mi par bene che noi quelle imitiamo. Laudo ben sommamente coloro che sanno imitar quello che si dee imitare; nientedimeno non credo io già che sia impossibile scriver bene ancor senza imitare; e massimamente in questa nostra lingua, nella quale possiam esser dalla consuetudine aiutati; il che non ardirei dir nella latina -.
XXXVII.
Allor messer Federico, - Perché volete voi, - disse, - che piú s'estimi la consuetudine nella vulgare che nella latina? - Anzi, dell'una e dell'altra, - rispose il Conte, - estimo che la consuetudine sia la maestra. Ma perché quegli omini, ai quali la lingua latina era cosí propria come or è a noi la vulgare, non sono piú al mondo, bisogna che noi dalle lor scritture impariamo quello, che essi aveano imparato dalla consuetudine; né altro vol dir il parlar antico che la consuetudine antica di parlare; e sciocca cosa sarebbe amar il parlar antico non per altro, che per voler piú presto parlare come si parlava, che come si parla. - Dunque, - rispose messer Federico, - gli antichi non imitavano? - Credo, - disse il Conte, - che molti imitavano, ma non in ogni cosa. E se Virgilio avesse in tutto imitato Esiodo, non gli sería passato innanzi; né Cicerone a Crasso, né Ennio ai suoi antecessori. Eccovi che Omero è tanto antico, che da molti si crede che egli cosí sia il primo poeta eroico di tempo, come ancor è d'eccellenzia di dire; e chi vorrete voi che egli imitasse? - Un altro, - rispose messer Federico, - piú antico di lui, del quale non avemmo notizia per la troppo antiquità. - Chi direte adunque, - disse il Conte, - che imitasse il Petrarca e 'l Boccaccio, che pur tre giorni ha, si po dir, che son stati al mondo? - Io nol so, - rispose messer Federico; ma creder si po che essi ancor avessero l'animo indrizzato alla imitazione, benché noi non sappiam di cui -. Rispose il Conte: - Creder si po che que' che erano imitati fossero migliori che que' che imitavano; e troppo maraviglia saria che cosí presto il lor nome e la fama, se eran boni, fosse in tutto spenta. Ma il lor vero maestro cred'io che fosse l'ingegno ed il lor proprio giudicio naturale; e di questo niuno è che si debba maravigliare, perché quasi sempre per diverse vie si po tendere alla sommità d'ogni eccellenzia. Né è natura alcuna che non abbia in sé molte cose della medesima sorte dissimili l'un dall'altra, le quali però son tra sé di equal laude degne. Vedete la musica, le armonie della quale or son gravi e tarde, or velocissime e di novi modi e vie; nientedimeno tutte dilettano, ma per diverse cause, come si comprende nella maniera del cantare di Bidon, la qual è tanto artificiosa, pronta, veemente, concitata e de cosí varie melodie, che i spirti di chi ode tutti si commoveno e s'infiammano e cosí sospesi par che si levino insino al cielo. Né men commove nel suo cantar il nostro Marchetto Cara, ma con piú molle armonia; ché per una via placida e piena di flebile dolcezza intenerisce e penetra le anime imprimendo in esse soavemente una dilettevole passione. Varie cose ancor egualmente piacciono agli occhi nostri, tanto che con difficultà giudicar si po quai piú lor sian grate. Eccovi che nella pittura sono eccellentissimi Leonardo Vincio, il Mantegna, Rafaello, Michel Angelo, Georgio da Castel Franco; nientedimeno, tutti son tra sé nel far dissimili, di modo che ad alcun di loro non par che manchi cosa alcuna in quella maniera, perché si conosce ciascun nel suo stilo esser perfettissimo. Il medesimo è di molti poeti greci e latini, i quali, diversi nello scrivere, sono pari nella laude. Gli oratori ancor hanno avuto sempre tanta diversità tra sé, che quasi ogni età ha produtto ed apprezzato una sorte d'oratori peculiar di quel tempo; i quali non solamente dai precessori e successori suoi, ma tra sé son stati dissimili, come si scrive ne' Greci di Isocrate, Lisia, Eschine e molt'altri, tutti eccellenti, ma a niun però simili forche a se stessi. Tra i Latini poi quel Carbone, Lelio, Scipione Affricano, Galba, Sulpizio, Cotta, Gracco, Marc'Antonio, Crasso e tanti che saria lungo nominare, tutti boni e l'un dall'altro diversissimi; di modo che chi potesse considerar tutti gli oratori che son stati al mondo, quanti oratori tante sorti di dire trovarebbe. Parmi ancor ricordare che Cicerone in un loco introduca Marc'Antonio dir a Sulpizio che molti sono i quali non imitano alcuno e nientedimeno pervengono al sommo grado della eccellenzia; e parla di certi, i quali aveano introdutto una nova forma e figura di dire, bella, ma inusitata agli altri oratori di quel tempo, nella quale non imitavano se non se stessi; però afferma ancor che i maestri debbano considerar la natura dei discipuli e, quella tenendo per guida, indrizzargli ed aiutargli alla via, che lo ingegno loro e la natural disposizion gli inclina. Per questo adunque, messer Federico mio, credo, se l'omo da sé non ha convenienzia con qualsivoglia autore, non sia ben sforzarlo a quella imitazione; perché la virtú di quell'ingegno s'ammorza e resta impedita, per esser deviata dalla strada nella quale avrebbe fatto profitto, se non le fosse stata precisa. Non so adunque come sia bene, in loco d'arricchir questa lingua e darle spirito, grandezza e lume, farla povera, esile, umile ed oscura e cercare di metterla in tante angustie, che ognuno sia sforzato ad imitare solamente il Petrarca e 'l Boccaccio; e che nella lingua non si debba ancor credere al Policiano, a Lorenzo de' Medici, a Francesco Diaceto e ad alcuni altri che pur son toscani, e forse di non minor dottrina e giudicio che si fosse il Petrarca e 'l Boccaccio. E veramente gran miseria saria metter fine e non passar piú avanti di quello che si abbia fatto quasi il primo che ha scritto, e disperarsi che tanti e cosí nobili ingegni possano mai trovar piú che una forma bella di dire in quella lingua, che ad essi è propria e naturale. Ma oggidí son certi scrupolosi, i quali, quasi con una religion e misterii ineffabili di questa lor lingua toscana, spaventano di modo chi gli ascolta, che inducono ancor molti omini nobili e litterati in tanta timidità, che non osano aprir la bocca e confessano di non saper parlar quella lingua, che hanno imparata dalle nutrici insino nelle fasce. Ma di questo parmi che abbiam detto pur troppo; però seguitiamo ormai il ragionamento del cortegiano -.
XXXVIII.
Allora messer Federico rispose: lo voglio pur ancor dir questo poco: che è ch'io già non niego che le opinioni e gli ingegni degli omini non siano diversi tra sé, né credo che ben fosse che uno, da natura veemente e concitato, si mettesse a scrivere cose placide, né meno un altro, severo e grave, a scrivere piacevolezze: perché in questo parmi ragionevole che ognuno s'accomodi allo instinto suo proprio. E di ciò, credo, parlava Cicerone quando disse che i maestri avessero riguardo alla natura dei discipuli per non fare come i mal agricultori, che talor nel terreno che solamente è fruttifero per le vigne vogliano seminar grano. Ma a me non po caper nella testa che d'una lingua particulare, la quale non è a tutti gli omini cosí propria come i discorsi ed i pensieri e molte altre operazioni, ma una invenzione contenuta sotto certi termini, non sia piú ragionevole imitar quelli che parlan meglio, che parlare a caso e che, cosí come nel latino l'omo si dee sforzar di assimigliarsi alla lingua di Virgilio e di Cicerone, piú tosto che a quella di Silio o di Cornelio Tacito, cosí nel vulgar non sia meglio imitar quella del Petrarca e del Boccaccio, che d'alcun altro; ma ben in essa esprimere i suoi proprii concetti ed in questo attendere, come insegna Cicerone, allo instinto suo naturale; e cosí si troverà che quella differenzia che voi dite essere tra i boni oratori, consiste nei sensi e non nella lingua -. Allor il Conte, - Dubito, - disse, - che noi entraremo in un gran pelago e lassaremo il nostro primo proposito del cortegiano. Pur domando a voi: in che consiste la bontà di questa lingua? Rispose messer Federico: - Nel servar ben le proprietà di essa e tórla in quella significazione, usando quello stile e que' numeri che hanno fatto tutti quei che hanno scritto bene. - Vorrei, - disse il Conte, - sapere se questo stile e questi numeri di che voi parlate, nascano dalle sentenzie o dalle parole. Dalle parole, - rispose messer Federico. - Adunque, - disse il Conte, - a voi non par che le parole di Silio e di Cornelio Tacito siano quelle medesime che usa Virgilio e Cicerone, né tolte nella medesima significazione? - Rispose messer Federico: - Le medesime son sí, ma alcune mal osservate e tolte diversamente -. Rispose il Conte: - E se d'un libro di Cornelio e d'un di Silio si levassero tutte quelle parole che son poste in altra significazion di quello che fa Virgilio e Cicerone, che seriano pochissime, non direste voi poi che Cornelio nella lingua fosse pare a Cicerone, e Silio a Virgilio? e che ben fosse imitar quella maniera del dire?
XXXIX.
Allor la signora Emilia, - A me par, - disse, - che questa vostra disputa sia mo troppo lunga e fastidiosa; però fia bene a differirla ad un altro tempo -. Messer Federico pur incominciava a rispondere; ma sempre la signora Emilia lo interrompeva. In ultimo disse il Conte: - Molti vogliono giudicare i stili e parlar de' numeri e della imitazione; ma a me non sanno già essi dare ad intendere che cosa sia stile né numero, né in che consista la imitazione, né perché le cose tolte da Omero o da qualche altro stiano tanto bene in Virgilio, che piú presto paiano illustrate che imitate; e ciò forse procede ch'io non son capace d'intendergli. Ma perché grande argumento che l'om sappia una cosa è il saperla insegnare, dubito che essi ancora poco la intend