A cura di Andrea Tabarroni
1. Vita e opere
Nato intorno al 1266 probabilmente nel villaggio di Duns, in Scozia, nei pressi del confine con l'Inghilterra, Giovanni entrò da giovane nell'ordine francescano e, dopo un periodo iniziale di formazione, fu inviato ad Oxford a perfezionare gli studi teologici. Nel 1291 fu ordinato sacerdote a Northampton, nella diocesi di Lincoln e nel 1300 ottenne, come baccelliere di teologia, la licenza di confessare. Nell'autunno del 1302 fu inviato a Parigi per completare la sua formazione e diventare maestro di teologia, ma il suo progresso negli studi fu interrotto nel giugno 1303, quando, in seguito al suo rifiuto di aderire alla causa del re di Francia Filippo il Bello contro il pontefice Bonifacio VIII, fu espulso dal regno insieme con un'ottantina di confratelli. Dopo un intervallo trascorso probabilmente ad Oxford, nell'autunno del 1304 Scoto, tornato a Parigi, portò a termine il corso sulle Sentenze di Pietro Lombardo e, probabilmente all'inizio del 1305, ottenne il grado di magister. Dopo aver servito per un biennio come maestro reggente di teologia a Parigi, Scoto fu inviato dalle autorità dell'ordine a Colonia, dove morirà, secondo una tradizione antica, ma non del tutto certa, l'8 novembre 1308.
Le opere di Scoto sono, nella grande maggioranza, il prodotto della sua decennale attività di insegnamento in filosofia e in teologia. Per questo motivo, dal punto di vista testuale, esse presentano vicissitudini ed incertezze che rendono difficile lo studio di questo pensatore. Negli ultimi decenni, il progresso delle ricerche ha contribuito molto a distinguere all'interno delle opere più importanti i diversi strati compositivi, le aggiunte originali da quelle dovute ai collaboratori o discepoli e, soprattutto, a chiarire molti dubbi al riguardo della paternità di alcune opere che erano state falsamente attribuite a Scoto. Nonostante questo, ancora oggi la situazione del suo lascito letterario non può dirsi del tutto esente da problemi, specialmente per quel che riguarda l'esatta collocazione cronologica dei suoi scritti. Inoltre, rimane tuttora assai sentita l'esigenza di edizioni scientificamente affidabili. Le più importanti tra le opere di Scoto sono certamente le diverse versioni dei suoi corsi sulle Sentenze, vale a dire la Lectura, che testimonia il suo primo corso oxoniense tenuto come baccelliere, l'Ordinatio, che di questo stesso corso fornisce una versione rivista e approfondita dall'autore, ed infine i Reportata Parisiensia, frutto dei resoconti forniti dagli studenti del corso parigino preliminare al magistero. Altre importanti opere teologiche sono le Quaestiones quodlibetales, risalenti probabilmente agli anni della reggenza parigina, il De primo principio, un trattato sulla natura e l'esistenza di Dio, e i Theoremata. In gran parte da assegnare ad un periodo precedente sono invece le opere specificamente filosofiche, cioè in primo luogo i commenti di logica (all'Isagogedi Porfirio, alle Categorie, al De interpretatione, ai Topicie agli Elenchi sofisticidi Aristotele) e l'importante commento ai libri I-IX della Metafisicadi Aristotele, cui si aggiunge un più breve commento al De anima, sinora meno studiato.
L'eco dell'insegnamento teologico e filosofico di Scoto fu immediata e duratura. Già nella lettera in cui il suo ministro generale Gonsalvo di Spagna lo raccomandava per il grado di magister si affermava che la sua fama era "diffusa in ogni luogo". Ben presto le sue dottrine più innovative ed originali furono entusiasticamente riprese e sviluppate dai suoi discepoli, specialmente in ambito francescano, oppure furono oggetto di critiche approfondite e rigorose. A partire dal secondo decennio del XIV secolo, infatti, il nome di "frater Iohannes" o del "Doctor Subtilis", come venne subito definito, fu tra quelli maggiormente citati nelle opere dei maestri di teologia ad Oxford come a Parigi. Quel che più conta, le sue opinioni contribuirono a rinnovare e a reimpostare i termini stessi del dibattito filosofico e teologico per tutto il Trecento, mentre diedero origine ed alimento, nei secoli successivi fino al diciassettesimo, ad una scuola o corrente dottrinale, quella per l'appunto chiamata "scotista", che ebbe un ruolo importante nello sviluppo della teologia cattolica moderna.
2. Metafisica
Uno dei contributi più importanti di Scoto in ambito metafisico è rappresentato dalla sua dottrina dell'univocità dell'essere. Secondo questa nuova concezione, che Scoto elabora in diretta contrapposizione con Enrico di Gand, ma che rompe con una tradizione che aveva dominato per tutto il tredicesimo secolo, non tutti i nomi o attributi divini sono predicabili di Dio soltanto in un senso analogo rispetto al loro senso ordinario, quello cioè che essi hanno quando sono applicati alle creature. Se deve essere possibile qualche forma di discorso intorno a Dio da parte degli uomini, allora occorre secondo Scoto che vi siano almeno alcuni concetti che si applicano in modo univoco, cioè nel medesimo senso, a Dio e alle creature. Essi sono in primo luogo il concetto di essere in generale e, di conseguenza, i concetti cosiddetti trascendentali, quelli cioè esattamente coestensivi al concetto di essere, come essere uno, vero, bello e buono.
Vediamo anzitutto su quale fondamento Scoto costruisce la sua critica alla tradizionale dottrina dell'analogicità dei nomi divini e del concetto di essere. La dottrina tradizionale afferma che ogni attributo che esprime una perfezione, come 'buono', 'saggio', 'giusto' ecc., ha un suo significato ordinario grazie al quale può essere predicato delle creature ed ha inoltre un significato del tutto diverso, grazie al quale può essere predicato di Dio. I due significati del nome in questione, poniamo ad es. [giusto1] e [giusto2], sono diversi nel senso che non possono avere nessun contenuto in comune, anche perché almeno uno dei due è assolutamente semplice, dovendosi applicare ad una realtà perfettamente semplice quale è Dio. Ciononostante, secondo la dottrina tradizionale, i due significati sono legati da una relazione di somiglianza in virtù del fatto che l'uno si applica agli effetti e l'altro alla Causa, ed ogni effetto in quanto tale è in qualche modo simile alla sua causa. Per questo un nome come 'giusto' non può essere considerato univoco se predicato di Dio e delle creature, ma neppure del tutto equivoco, bensì analogo. A questo punto Scoto interviene per dimostrare che non si può dare un uso analogo di un termine, vale a dire un uso di un termine secondo due significati diversi, ma in qualche modo correlati, se non si dia anche qualcosa che si predichi in modo univoco delle medesime realtà di cui il termine in questione si predica analogicamente. Dunque la possibilità della predicazione analoga dei nomi divini presuppone, e non esclude, che vi siano anche concetti che si applicano univocamente a Dio e alle creature. Si prenda ad esempio il caso del termine 'essere': esso si predica di Dio nel senso di [essere infinito] e delle creature nel senso di [essere finito]: tra questi due sensi c'è la stessa distanza che c'è in generale tra il finito e l'infinito. Nonostante questo, dice Scoto, si può ben essere certi che Dio è essere, pur essendo in dubbio se sia essere infinito o finito (quest'ultima tesi fu sostenuta ad esempio da alcuni Presocratici). Ma l'intelletto non può contemporaneamente essere certo ed essere in dubbio a riguardo del medesimo contenuto concettuale, dunque [essere] ed [essere infinito] sono due contenuti concettuali diversi, ed isolando il primo dal secondo si può costruire un concetto che sia comune in modo univoco a Dio e alle creature.
Come risulta sufficientemente chiaro, dal punto di vista teologico, la posizione di Scoto costituisce un innegabile indebolimento della concezione tradizionale dell'ineffabilità di Dio, introdotta in Occidente dallo ps. Dionigi Areopagita. La sua novità può essere espressa in questi termini: è pur vero che i nomi del nostro linguaggio ordinario mutano radicalmente di significato, quando vengono detti di Dio, ma debbono pur conservare un significato, pena la condanna della teologia all'assoluto silenzio, e per questo occorre presupporre che in quei nomi vi sia perlomeno un contenuto comune, di tipo trascendentale, che leghi insieme Dio e le creature. Dal punto di vista filosofico, inoltre, l'univocità professata da Scoto costituisce un'innovazione altrettanto radicale rispetto alla teoria aristotelica dell'essere. Non si tratta tuttavia, secondo Scoto, di porre l'essere come genere rispetto a Dio e alle creature o rispetto alla sostanza e all'accidente, bensì piuttosto di introdurre una nuova nozione del trascendentale, che si pone ora come condizione universale del reale. Ci si trova dunque di fronte ad un nuovo tipo di primato dell'essere.
Dalla teoria dell'univocità dell'essere segue direttamente la tesi che l'essere è l'oggetto primo dell'intelletto, dato che esso è presupposto da qualsiasi concetto che si applichi soltanto a Dio o soltanto alle creature. Esso è anche, secondo Scoto, l'oggetto "adeguato" dell'intelletto, nel senso preciso che questa nozione aveva acquisito negli Analitici Posteriori di Aristotele, dove si dice che l'oggetto adeguato di una facoltà è quello che è coestensivo e commisurato a tutti gli oggetti che possono essere colti da tale facoltà. Ad esempio, nel caso della vista, l'oggetto adeguato è il colore, giacché tutto ciò che può essere colto dalla vista è necessariamente colorato ed è colto dalla vista proprio in quanto è colorato.
Nel trattare questo punto Scoto si oppone sia alla tesi di Tommaso secondo cui oggetto primario dell'intelletto è l'essenza della sostanza materiale sia a quella di Enrico di Gand secondo cui tale oggetto è Dio stesso. Entrambe le posizioni contenevano il presupposto che l'intelletto umano aveva bisogno di un "sostegno" particolare per svolgere fino in fondo la sua funzione. Secondo la concezione tomista, infatti, l'intelletto ha bisogno dell'intervento della grazia per potersi elevare a contemplare direttamente Dio nella condizione della beatitudine futura, mentre secondo la posizione enriciana, di tipo agostiniano, l'intelletto giunge alla conoscenza anche in questa vita soltanto attraverso l'illuminazione divina, cioè grazie al riferimento all'archetipo eterno o idea divina. Per Scoto, invece, l'intelletto è una facoltà naturalmente commisurata alla conoscenza dell'essere nella sua generalità ed anche per questo egli afferma, con Avicenna, che l'essere in quanto essere è il soggetto della metafisica.
Insieme con l'essere, che è la nozione più fondamentale, la metafisica è secondo Scoto la scineza di tutti i trascendentali, cioè di quelle nozioni che per Aristotele non potevono essere collocate all'interno di una sola delle dieci categorie, ma le attraversavano tutte. Questi erano tradizionalmente, insieme con l'essere, l'unità, la verità e la bontà, ma ad essi Scoto aggiunge altre due tipologie di trascendentali: quella dei trascendentali disgiuntivi (anch'essi coestensivi con l'essere, come 'necessario-o-contingente', 'finito-o-infinito', 'attuale-o-potenziale', 'causa-o-causato' ecc.) e quella delle pure perfezioni (come intelletto e volontà, onniscienza e onnipotenza ecc.). Grazie allo studio scientifico di questi trascendentali, compiuto nell'ambito della metafisica, è possibile introdursi alla teologia, cioè alla scienza delle cose divine.
L'influenza di Avicenna sul pensiero di Scoto è avvertibile non solo per quanto concerne la questione dell'oggetto della metafisica, di cui si è detto più sopra, ma anche in relazione alla teoria della natura comune. Se l'essere, assunto nella sua accezione più generale, è l'oggetto primo e adeguato dell'intelletto ed è il campo di studio della metafisica, la natura o essenza di ogni singolo ente, comune ad ogni altro ente della sua specie, è l'oggetto proprio dell'intelletto ed è ciò che funge da significato del predicato nelle proposizioni universali vere che riguardano quell'ente in quanto membro della sua specie. Secondo una nota teoria avicenniana, la natura comune di per sé non è né individuale né universale, bensì indifferente rispetto ad entrambe le caratteristiche, e proprio per questo è in grado di determinarsi come individuale, una volta acquisita un'esistenza reale, oppure come universale, se un intelletto le conferisce un'esistenza mentale. In altri termini, secondo questa concezione, la natura o essenza di una cosa non può mai darsi se non come universale nella mente o come individuale al di fuori della mente, proprio perché di per sé non è né l'uno né l'altro. Ne deriva che, per Scoto, la distinzione tra essenza ed esistenza non potrà essere reale, cioé una distinzione tra cose diverse, giacché questo distruggerebbe l'unità del singolo ente, bensì piuttosto una distinzione tra una cosa (la natura) ed un suo modo di essere (l'esistenza singolare o l'universalità mentale).
Questa linea di pensiero conduce naturalmente ad impostare in termini piuttosto radicali il problema dell'individuazione, di ricercare cioé che cosa sia tale da rendere singolare l'essenza che di per sé non è singolare. Scoto discute lungamente questo problema nella sua Ordinatio, esaminando e respingendo ben cinque soluzioni diverse dalla sua: la prima che nega il bisogno di porre alcun principio di individuazione, perché sostiene che la natura è di per sé individuale (è il punto di vista dei nominalisti), la seconda che identifica il principio di individuazione con la negazione (è la posizione di Enrico di Gand), la terza con l'esistenza in atto (si tratta di una posizione comune), la quarta con la quantità (Egidio Romano) e la quinta con la materia (un'altra posizione comune attribuita solitamente ad Aristotele).
Scoto dispiega l'impegno maggiore nel confutare la soluzione nominalista ed in tal modo definisce con precisione la natura del proprio realismo metafisico. Tra le varie argomentazioni contrapposte ai nominalisti, se ne possono ricordare almeno due. La prima rileva che ogni oggetto proprio precede per natura la facoltà di cui è oggetto proprio, e questo vale quindi anche per l'essenza nei confronti dell'intelletto. Ma se l'essenza fosse di per sé singolare, si dovrebbe ammettere che l'intelletto coglie il suo oggetto in un modo che non gli corrisponde, cioè come universale invece che come singolare, e non potrebbe pertanto essere considerato come naturalmente posteriore ad esso
Ancor più caratteristica del realismo scotista è un'altra argomentazione con cui si giunge ad assegnare all'essenza un tipo di unità "minore dell'unità numerale". Se in ambito metafisico si desse soltanto l'unità di tipo numerale, quella cioè per la quale gli oggetti possono essere contati o inseriti in una successione numerica, allora secondo Scoto non si potrebbe riconoscere un carattere oggettivo alle realtà specifiche o generiche, ad esempio a relazioni come quella di contrarietà che non si fondano su caratteristiche individuali, bensì generiche (non è questo particolare bianco ad essere contrario rispetto ad un determinato nero, bensì il colore bianco rispetto al colore nero). Alle realtà essenziali va pertanto attribuita una "unità minore di quella numerale", tale cioè che sommata ad altre "unità minori" non superi tuttavia un'unità numerale (la natura generica e quella specifica sono due unità minori che possono però coincidere in un individuo numericamente uno).
Avendo in tal modo ribadito la necessità di ricercare un principio di individuazione che renda conto della caratteristica di singolarità dell'essenza, Scoto prende in considerazione diverse proposte in tal senso. La doppia negazione di Enrico di Gand è respinta perché l'individuazione di un'essenza reale non può esser fornita se non da una realtà positiva. L'esistenza attuale è respinta perché è qualcosa di esterno all'ordine categoriale cui appartiene l'essenza, e lo stesso vale per la quantità o per altri accidenti o per la materia, che sono tutti principi extra-sostanziali, mentre per Scoto la sostanza non può essere individuata da qualcosa di estrinseco. Si giunge quindi a porre l'esigenza di un principio di individuazione che sia reale, positivo e collocato nell'ordine sostanziale. Questo principio è ciò che Scoto chiama la "differenza individuale", l'ultima perfezione della forma sostanziale specifica, tale da poter "contrarre" la specie, cioè renderla non ulteriormente divisibile, e quindi individuale.
Con questa sorta di "supplemento" all'albero di Porfirio, cui spesso si fa riferimento come alla teoria dell'haecceitas (l'"esser-questa-cosa-qui"), Scoto introduce un'originale innovazione nell'ambito della metafisica di derivazione aristotelica, indebolendo quel primato ontologico della specie rispetto all'individuo che risaliva perlomeno all'interpretazione neoplatonica di Aristotele.
3. Teologia
Scoto traccia una netta distinzione tra metafisica e teologia. Essa si basa a sua volta sulla distinzione tra la theologia in se e la theologia nostra, vale a dire tra ciò che in assoluto può essere conosciuto a proposito di Dio (e che solo Dio stesso conosce) e ciò che noi possiamo conoscere di Dio, principalmente grazie alla rivelazione. Il contenuto della theologia nostra è centrato soprattutto sulla Trinità, che costituisce l'essenza stessa di Dio e non può essere da noi conosciuta mediante le nostre sole facoltà naturali. Dunque Dio nella sua essenza può essere da noi conosciuto soltanto grazie alla sua autorivelazione. Vi sono tuttavia molte verità che riguardano Dio e possono essere conosciute mediante la sola ragione, ad esempio che Dio esiste, che è perfettamente semplice, infinito ecc. Queste verità tuttavia non rientrano nell'ambito della teologia, dato che questa è per Scoto la "scientia rerum creditarum", cioè delle cose che possono essere conosciute soltanto per rivelazione. Le verità in questione pertengono dunque all'ambito della metafisica.
Per quanto riguarda invece la natura scientifica della teologia, Scoto si distacca sia dalla maggioranza dei teologi suoi contemporanei, che consideravano la teologia una scienza puramente teoretica, sia dalla concezione tipica della tradizione francescana, secondo cui la teologia è una scienza affettiva. Per lui il carattere distintivo della teologia è dato dal fatto che ogni suo contenuto è finalizzato ad indurre in chi la coltiva un comportamento giusto, ad accrescere la sua inclinazione all'amore di Dio, quindi la teologia è essenzialmente una scienza pratica.
Ci si può chiedere tuttavia, come fa Scoto nella prima questione del prologo dell'Ordinatio, se la teologia sia veramente necessaria per l'uomo. La trattazione di questo problema è affrontata dal Dottor Sottile come una discussione delle contrapposte posizioni dei teologi e dei filosofi. Secondo i teologi è possibile dimostrare la necessità della teologia perché si può dimostrare che il fine ultimo dell'uomo è la fruizione di Dio ed anche che le naturali facoltà umane non sono in grado di raggiungere la conoscenza presupposta da questa fruizione. Dunque il fine dell'uomo sarebbe al di là delle sue facoltà naturali e può essere raggiunto solo grazie alla rivelazione. Per i filosofi invece non esiste nulla che l'uomo non possa conoscere per mezzo delle sue facoltà naturali, e dunque la rivelazione non solo non è necessaria, ma è in realtà superflua. La posizione di Scoto si colloca in un certo senso a metà strada: da un lato egli precisa che, in ogni caso, la teologia non è necessaria per la salvezza, dato che Dio può salvare anche chi non ha la fede, dall'altro lato, tuttavia, contro i filosofi, egli sostiene che con le sole nostre facoltà naturale noi non possiamo sapere se il nostro fine ultimo sia soprannaturale o naturale, ed è precisamente per questo che noi abbiamo bisogno della rivelazione, che non solo ci indica il nostro fine soprannaturale, ma ci fornisce anche le conoscenze necessarie per raggiungerlo. La necessità della teologia, dunque, nella concezione di Scoto, è solo indirettamente inscritta nella ragione umana, ma non per questo risulta meno necessaria.
Come si è visto, uno dei compiti principali della metafisica è quello di dimostrare l'esistenza di Dio. L'importanza che Scoto conferisce a questo compito è testimoniata dal fatto che egli costruisce a questo proposito quella che è senz'altro la dimostrazione più articolata e sofisticata dell'intera tradizione scolastica, tale da compendiare in un certo senso anche gli sforzi dei teologi precedenti, ed illustra dettagliatamente questa complessa argomentazione in quattro opere distinte, nella Lectura, nell'Ordinatio, nella Reportatio e nel De primo principio. La strutturadi quest'argomentazione può essere schematizzata come segue:
esiste un Primo agente
esiste un Fine ultimo di tutte le azioni
esiste un Ente con il massimo grado di perfezione
queste tre proprietà possono appartenere ad un solo genere di Enti
un Ente con queste proprietà è necessariamente infinito
Una volta raggiunto questo risultato, Scoto è inoltre in grado di dimostrare anche l'unicità e la semplicità di Dio. Proviamo a seguire, in maniera alquanto sintetica, i diversi passaggi della dimostrazione di Scoto.
Il punto di partenza è dato dall'assunzione di una verità contingente, ma su cui tutti possono convenire, che cioè esistono degli effetti ("aliquod ens est effectibile"). Per definizione un effetto non è qualcosa che può causarsi da sé, se quindi si è d'accordo nell'eliminare la possibilità che sia causato da nulla e quella che si dia una circolarità di cause, allora non resta che concludere che ci deve essere una causa di quell'effetto. A sua volta tale causa o non è un effetto, e allora avremmo raggiunto la dimostrazione che esiste una causa non causata, cioè un primo agente, oppure, se è un effetto, di nuovo si può riproporre lo stesso ragionamento che conduce alla necessaria esistenza di un'ulteriore causa. Se non si vuole ammettere la possibilità di una serie infinita di cause, bisogna concludere che ad un certo punto si giungerà ad un agente primo non causato.
Contro questa fase iniziale della dimostrazione si possono muovere due obiezioni: in primo luogo si può notare che, presupponendo l'impossibilità di un regresso infinito nella serie delle cause, essa assume quello che deve dimostrare, cioè cade nella fallacia della petizione di principio. In secondo luogo si può osservare che, dal punto di vista della teoria aristotelica della dimostrazione, non si tratta in questo caso di una dimostrazione scientifica, dato che prende le mosse da una premessa contingente e non può quindi concludere se non ad una verità altrettanto contingente.
In risposta alla prima obiezione Scoto introduce la distinzione tra una serie di cause essenzialmente ordinate e una serie di cause accidentalmente ordinate. Essenzialmente ordinate sono quelle cause tali per cui, data la sequenza A - B - C, A non è semplicemente causa di B che è causa di C, bensì A è causa del fatto che B è causa di C. Ad esempio la sequenza nonno - padre - figlio è accidentalmente ordinata, perché il nonno è causa dell'esistenza del padre, ma non è causa sufficiente della generazione del figlio da parte del padre. Invece la sequenza movimento del braccio - movimento dell'asta - palla in buca è essenzialmente ordinata. Ora, secondo Scoto, l'impossibilità del regresso all'infinito può essere dimostrata proprio riguardo alle cause essenzialmente ordinate, perché esse sono tali da far risalire interamente la responsabilità dell'effetto alla causa superiore, e quindi se alla fine un effetto c'è, ci deve esser anche all'inizio una Prima causa che ne è in primo luogo responsabile.
Per quanto riguarda invece la seconda obiezione, quella che riguarda lo statuto modale della dimostrazione, Scoto intende neutralizzarla riformulando la sua premessa iniziale in termini di possibilità: è possibile che qualcosa sia un effetto. Da qui si deriva che è possibile che qualcosa sia una causa ed inoltre, facendo nuovamente ricorso all'impossibilità di un regresso all'infinito delle cause essenzialmente ordinate, che è possibile che qualcosa sia una causa Prima. A questo punto, dalla possibilità dell'esistenza di una causa Prima essenzialmente non causata Scoto deriva l'esistenza necessaria di una tale causa, trasformando quindi il suo argomento cosmologico in un argomento di tipo ontologico.
Utilizzando una strategia argomentativa del tutto simile, cioé facendo leva sempre sull'inammissibilità del regresso infinito rispettivamente delle cause finali e delle cause progressivamente più prefette, Scoto giunge a dimostrare l'esistenza di un Fine ultimo e di un Ente massimamente perfetto. In aggiunta a ciò egli dimostra che se qualcosa è un Fine ultimo, sarà anche un Primo agente e un Ente massimamente perfetto, cioè che queste tre proprietà sono coestensive: tutti gli individui che godono di una di esse, godono anche delle altre due. A questo punto Scoto è pronto per compiere il passaggio finale, quello di dimostrare che un Ente di tal genere è infinito, e quindi può essere identificato con Dio.
Anche in quest'ultima fase la dimostrazione è condotta su diverse linee: l'infinità viene raggiunta sia prendendo in considerazione Dio come Prima causa efficiente (cioè come Primo motore, e per tanto in grado di causare una serie infinita di movimenti), sia prendendolo in considerazione come Agente intellettuale (che quindi possiede la conscenza attuale e distinta di tutti i suoi infiniti effetti), sia infine considerandolo come Ente massimamente perfetto. da quest'ultimo punto di vista Scoto sottolinea che un Ente supremamente eccellente non può essere finito, perché ciò che è finito può essere superato in eccellenza da ciò che è infinito. In questo contesto viene ribadito che un ente infinito può esistere, dato che il concetto di ente infinito non è contraddittorio, e che se un ente infinito supremamente eccellente può esistere, allora esso deve esistere, altrimenti sarebbe superato in eccellenza da un altro ente infinito che possedesse l'esistenza attuale.
La dimostrazione scotiana dell'esistenza di Dio come infinito in atto viene poi completata dalla dimostrazione dell'unicità e della semplicità di Dio. Se Dio è questo Ente infinito, Primo agente, Fine ultimo e massimamente perfetto, non vi può essere più di un unico Dio, perché altrimenti vi potrebbe esser più di un'unica causa essenziale ed immediata di un medesimo effetto. Inoltre, se Dio è attualmente infinito, sarà anche semplice, poiché altrimenti sarebbe composto di parti, ciascuna delle quali sarebbe minore dell'intero; ma tali parti non potrebbero essere infinite, poiché in tal caso non sarebbero minori dell'intero, e non potrebbero nemmeno essere finite, poiché nessuna somma di parti finite può comporre un intero infinito. Dunque Dio infinito non può essere composto di parti e quindi sarà semplice.
Se dunque mediante l'esercizio della pura ragione naturale secondo Scoto è possibile dimostrare non solo che Dio esiste, ma anche che è infinito, unico, semplice, primo di ogni sequenza di cause essenzialmente ordinate e massimamente perfetto, tuttavia vi sono altre proprietà di Dio che non si possono conoscere se non con l'aiuto della rivelazione. Una di queste è l'onnipotenza, che Scoto distingue rispetto all'infinita potenza in base al fatto che un agente si dice onnipotente solo se è in grado di produrre in modo immediato (cioè senza il concorso delle cause secondarie) un'infinità di effetti. Data questa definizione, si può comprendere come essa non possa essere derivata dall'infinità, come è il caso invece della semplicità.
Ma l'aspetto più innovativo della dottrina scotista dell'onnipotenza riguarda il suo rapporto con altre due proprietà di Dio, quelle di essere un agente assolutamente libero e indipendente dal tempo. In base alla sua teoria della libertà del volere, di cui si tratterà più sotto, Scoto considera che un agente è libero quando è in grado di produrre un determinato effetto nel medesimo momento in cui produce l'effetto opposto. Applicando a Dio questo principio, occorre tener conto della sua indipendenza rispetto al tempo e quindi la sua libertà consisterà nel mantenere sempre il potere di produrre effetti diversi ed anche opposti rispetto a quelli che in effetti produce. Da questo punto di vista Scoto recupera una distinzione consueta nella teologia scolastica tra ciò che Dio fa in base alla sua potenza assoluta e ciò che fa in base alla sua potenza ordinata. Tale distinzione ha sempre avuto il significato di sottolineare come Dio non sia legato necessariamente all'ordine che ha creato. Ora però Scoto, con la sua peculiare definizione modale della libertà, è in grado di dare un contenuto filosoficamente nuovo a questa distinzione. La potenza assoluta di Dio può infatti essere definita come il potere che egli ha di produrre sempre qualsiasi stato di cose alternativo a quello che produce, purché sia logicamente possibile. Quello tra gli stati di cose possibili che viene effettivamente prodotto rientra per questo nella sua potenza ordinata. Risulta chiaro quindi che il discorso delle due potenze non implica l'introduzione di una qualsivoglia distinzione in Dio, bensì soltanto un modo per distinguere il corso degli eventi effettivamente voluto da Dio da tutti gli altri corsi di eventi logicamente possibili e compossibili, e sottolinearne quindi il carattere assolutamente contingente. È da questo punto di vista che Scoto è stato di recente indicato come l'inventore dell'importante nozione filosofica di mondo possibile.
. Logica e teoria della conoscenza
Così come la metafisica studia, secondo Scoto, l'essere in quanto essere, la logica studia in primo luogo l'argomentazione sillogistica, nelle sue diverse parti componenti (termini e proposizioni) e nelle sue diverse specie (argomentazione dimostrativa, dialettica e sofistica). Per quanto concerne tuttavia il posto che la logica occupa nell'ambito del panorama complessivo delle scienze, Scoto sottolinea che essa non è propriamente né una scienza che si occupa direttamente delle cose, cioè una scienza reale come la metafisica o la fisica, né una scienza che si occupa in senso stretto del linguaggio, cioè una scienza sermocinale come la grammatica. La logica si occupa piuttosto dei concetti o intenzioni (intentiones), vale a dire del modo in cui le cose vengono conosciute dall'intelletto e delle proprietà (intentiones secundae) attribuibili alle cose in quanto sono conosciute.
Tale prospettiva è messa da Scoto in particolare rilievo a proposito della questione del significato dei nomi, che trae origine dall'esegesi del primo capitolo del De interpretatione di Aristotele. Dai commentatori, sia antichi sia medievali, di questo testo è stata spesso sollevata la questione se i nomi del linguaggio umano significhino direttamente le cose oppure soltanto per il tramite dei concetti. Scoto prende in esame due distinte soluzioni a questo problema, la prima che sostiene la significazione indiretta delle cose da parte dei nomi, la seconda, per la quale Scoto si dichiara nell'Ordinatio, che invece sostiene la significazione diretta. Ma anche in quest'ultimo caso per Scoto è importante tener presente che i nomi non significano le cose in sé, in quanto esistenti, bensì le cose in quanto sono conosciute dal nostro intelletto. Per questo lo studio dei concetti, che appartiene alla logica, ha una dignità autonoma e non si risolve interamente né nello studio delle cose né in quello dei nomi.
Scendendo più in dettaglio nell'analisi del significato dei termini, Scoto può mettere a frutto l'impostazione metafisica che egli deriva da Avicenna e che identifica nell'essenza o natura l'oggetto proprio dell'intelletto. Da questa tesi si può infatti derivare che il significato dei termini universali è dato in primo luogo dall'essenza o natura in quanto conosciuta. Quando perciò in una proposizione universale si predica un termine universale, è questa natura ad essere oggetto della predicazione ed è in base alla composizione ontologica di questa natura o alla relazione tra la natura e l'individuo in cui è contratta che sono verificabili le proposizioni scientifiche. Nel caso tipico di una proposizione come "ogni uomo è animale", ad esempio, il valore di verità è determinato dal rapporto che lega, al livello della natura, l'humanitas e l'animalitas, ma la proposizione può essere verificata solo esaminando i singoli individui in cui è contratta la natura, cioè i singoli uomini. Alla base di questo duplice livello semantico sta dunque la particolare relazione che intercorre tra principio individuale contraente e natura contratta, di cui già si è parlato in riferimento al problema metafisico dell'individuazione. Dal punto di vista della teoria del significato, tuttavia, per poter sostenere il nesso tra i due livelli in questione, è importante poter affermare, come fa Scoto, che nell'unico e medesimo individuo sono contenute "unitivamente" due realtà distinte, vale a dire appunto la natura specifica e la differenza individuale. Queste due realtà o "formalità", come Scoto anche le chiama, sono realmente identiche, ma sono distinte o non-identiche formalmente, nel senso che ciascuna delle due non può darsi senza che anche l'altra si dia (e ciò soddisfa la condizione dell'identità reale), ma nello stesso tempo l'una può essere definita senza fare alcun riferimento all'altra.
Con questa nuova nozione della distinzione formale Scoto assume una posizione originale all'interno del dibattito, particolarmente acceso tra i teologi posteriori a Tommaso d'Aquino, intorno alla distinzione tra ente ed essenza. Questa posizione, dal punto di vista metafisico, appare come un coerente sviluppo della teoria avicenniana della natura comune e risulta perfettamente parallela all'idea di un'unità minore dell'unità numerale che si è visto caratterizzare il piano delle realtà essenziali. Scoto utilizza la differenza formale come strumento teorico in diversi contesti, come ad esempio in psicologia, per spiegare il rapporto tra l'anima e le sue facoltà, e particolarmente in teologia, dove si applica al problema di distinguere le tre Persone divine dalla comune essenza divina, ed anche al problema di distinguere le due nature, quella divina e quella umana, unite nel Verbo. Inoltre, come si è visto, essa costituisce il perno dell'integrazione tra ontologia e semantica, e quindi uno dei cardini metafisici su cui si fonda la possibilità stessa della conoscenza umana.
La dualità tra singolare e universale è alla base anche della teoria della conoscenza di Scoto, ma in questo ambito il primato dell'individuale viene affermato con vigore. È dalla conoscenza intellettuale dell'individuo che prende le mosse, secondo Scoto, l'intero processo cognitivo umano ed a questo proposito viene avanzata una distinzione, quella tra conoscenza intuitiva e conoscenza astrattiva di un oggetto individuale, che ha condizionato il dibattito gnoseologico lungo tutto il quattordicesimo secolo ed oltre. Secondo la definizione proposta da Scoto, la conoscenza, o meglio la cognizione intuitiva (cognitio o notitia intuitiva) è l'atto cognitivo che si genera nell'intelletto quando questi si trova in presenza di un oggetto attualmente esistente, mentre la cognizione astrattiva è l'atto cognitivo intellettuale che prescinde dall'esistenza e dalla non-esistenza attuale dell'oggetto. Si tratta in entrambi i casi di due atti cognitivi intellettuali rivolti ad un oggetto individuale, quindi non bisogna confondere la cognizione intuitiva con l'intuizione sensibile dell'individuale né la cognizione astrattiva con la conoscenza dell'universale. Proprio perché intellettuali, inoltre, entrambi i tipi di atti cognitivi hanno per oggetto l'essenza individuale e non l'individuo sensibile (in conformità con la teoria scotista dell'essenza come oggetto proprio dell'intelletto).
Questi due tipi di conoscenza individuale sono il fondamento, per Scoto, di tutte le proposizioni gnoseologicamente garantite. Le proposizioni che possono essere considerate scientifiche nello stretto senso aristotelico, quelle cioè che sono universali e necessarie, si fondano naturalmente sulla cognizione astrattiva, che prescinde dalle condizioni attuali di esistenza degli oggetti. Ma noi abbiamo garanzia gnoseologica anche a riguardo di alcune nostre esperienze, come ad esempio quelle che concernono i nostri atti interiori, e su queste possiamo fondare delle proposizioni evidenti di natura contingente. Queste proposizioni traggono la loro garanzia di verità dalla cognizione intuitiva degli oggetti considerati, dato che tale cognizione non può verificarsi se non in presenza di quegli oggetti ed è causalmente legata ad essi.
Dal punto di vista epistemologico, la fondazione di ogni conoscenza certa sugli atti cognitivi intellettuali che colgono l'essenza individuale costituisce un importante innovazione della tradizione precedente. Secondo il paradigma aristotelico, infatti, la certezza scientifica risiede in primo luogo nei principi autoevidenti (principia per se nota) che sono alla base delle varie scienze e solo il modello sillogistico, cioè deduttivo, della scienza rigorosa può garantire che la certezza dei principi sia trasmessa sino alle conclusioni della scienza. Secondo la tradizione platonica, invece, ed in particolare secondo la teoria agostiniana dell'illuminazione, la certezza giunge all'intelletto soltanto dalla contemplazione dei modelli eterni ideali che risiedono nella mente divina. In questo contesto, il primato della conoscenza individuale sostenuto da Scoto da un lato rompe decisamente con lo schema agostiniano dell'illuminazione, e dall'altro introduce un significativo ampliamento nell'epistemologia aristotelica, accogliendo nell'ambito della conoscenza evidente anche la sfera del contingente e del singolare.
5. Etica e politica
Alla base dell'etica di Scoto si trova una precisa opzione espressa in ambito psicologico, che a sua volta utilizza uno strumento teorico di tipo ontologico. Si tratta della tesi secondo cui le facoltà dell'anima, l'intelletto e la volontà, sono distinte soltanto formalmente, e non realmente, rispetto all'anima stessa. Questa concezione, che si distacca dalla posizione adottata su questo argomento tra gli altri anche da Tommaso d'Aquino, favorisce un approccio maggiormente integrato ai problemi della psicologia, ma ha delle conseguenze anche in ambito etico. La principale tra queste è la considerazione che l'anima stessa, e non una delle sue facoltà, è la causa delle azioni dell'uomo. Nello stesso tempo l'anima è causa di determinate azioni in quanto natura intellettuale ed è causa di altre azioni in quanto natura volontaria. Queste puntualizzazioni hanno una precisa rilevanza per quel che riguarda il problema, fondamentale nell'etica di Scoto, della libertà umana.
Secondo Scoto, l'uomo è un essere dotato di libertà nel senso più pieno. Il problema è di definire se tale libertà gli compete in quanto natura intellettuale o in quanto natura volontaria. La soluzione a questo problema è fondata su di una distinzione presente nella Metafisica di Aristotele (IX.2, 1046b1-4), secondo cui gli agenti si dividono in razionali e irrazionali: i primi sono in grado di produrre effetti opposti, mentre i secondi sono determinati a produrre sempre lo stesso effetto. Dal punto di vista metafisico, dunque, la libertà consiste proprio in questa indeterminazione, nel potere cioè di causare effetti opposti. Ma se consideriamo l'anima umana dal punto di vista della sua natura intellettuale, vediamo che essa non è indeterminata rispetto ai suoi effetti: posto nelle condizioni opportune, l'intelletto non può di per sé astenersi dal compiere la propria azione, vale a dire comprendere un concetto o dare il suo assenso ad una proposizione che gli appare vera. Se lo fa, è perché si trova sotto il controllo della volontà, come avviene quando si dice di qualcuno che "non vuol capire" una cosa. È dunque in quanto natura volontaria che l'anima gode della libertà nei confronti dei propri effetti, è in grado cioè di volere cose opposte e di causare azioni moralmente giuste o ingiuste.
La misura di questa libertà del volere è definita con precisione da Scoto anche dal punto di vista logico, in relazione alla scansione temporale dell'atto del volere. Non si deve pensare infatti, sottolinea Scoto, che la volontà sia libera sempre soltanto finché non si determina nella sua scelta di uno dei contrari. Se così fosse infatti la libertà del volere sarebbe condizionata rispetto al tempo: sarebbe sempre libertà del futuro e mai libertà nel momento presente. Per eliminare questa prospettiva Scoto pone il caso di una volontà che duri per un solo istante e chiede: se in quell'istante essa compie un atto (una scelta), tale atto sarà compiuto in modo necessario o contingente ? (non si tratta di un caso ipotetico per la teologia scolastica, ma della questione tradizionale di sapere se gli angeli potevano peccare nel primo istante della loro creazione, quando vennero determinati al male o al bene dalla loro scelta pro o contro Dio). La non necessarietà dell'atto per Scoto deriva in questo caso dalla stessa definizione logica di causa contingente: una tale causa infatti non può essere definita contingente perché rimane indeterminata solo fino al momento prima di causare. Se così fosse, ogni sua azione causale sarebbe necessaria nel momento in cui si compie. Una causa contingente dunque è tale perché nel momento in cui produce il suo effetto mantiene la capacità di non produrlo o di produrne uno opposto. Lo stesso vale quindi per la volontà istantanea, che mantiene la sua capacità di non scegliere o di compiere una scelta diversa. Tale capacità nei confronti degli opposti non dipende dunque dalla successione temporale, ma è una caratteristica connaturale della volontà, che la definisce come agente razionale o libero.
Applicando dunque la distinzione aristotelica si deve concludere, secondo Scoto, che la volontà è l'unico agente razionale, mentre l'intelletto rientra nella categoria degli agenti irrazionali o naturali. Questo primato della volontà nei confronti dell'intelletto sbarra le porte alla costruzione di ogni etica di tipo intellettualistico, nella quale la volontà sia considerata come determinata verso il raggiungimento della felicità, cioè del proprio benessere, e quindi sia sottoposta al condizionamento da parte dell'intelletto, che può indicare ogni volta, a torto o a ragione, quale sia la scelta che conduce alla felicità. L'opzione volontaristica di Scoto si esprime invece nel sottolineare che la volontà è svincolata in entrambi i sensi dall'intelletto: essa infatti può volere il male pur sapendo che è male, ma può anche volere il bene pur sapendo che è contrario al suo benessere. Quest'ultima possibilità si fonda sul fatto che la volontà secondo Scoto è caratterizzata da una duplice inclinazione: non solo infatti essa è naturalmente incline verso tutto ciò che può condurre al proprio benessere (inclinazione verso l'utile o affectio commodi), ma è anche incline verso ciò che è moralmente buono (inclinazione verso il giusto o affectio iustitiae). In ultima analisi, è proprio nella distanza tra queste due disposizioni caratteristiche che si apre lo spazio per una genuina libertà della volontà, ed è in questo che risiede lo scarto che la contraddistingue rispetto a tutti gli altri agenti naturali non liberi.
Se la categoria filosofica di "volontarismo" può legittimamente essere applicata alla concezione scotista del primato della volontà, non altrettanto si può dire per quel che concerne la sua teoria etica generale, non perlomeno nell'accezione rigorosa del termine, con cui si intende solitamente designare una concezione secondo cui la norma morale dipende interamente dalla volontà divina ("è buono ciò che Dio vuole, perché Dio lo vuole"). La dottrina morale di Scoto, ed in generale quella della tradizione scolastica francescana, è stata spesso in passato descritta in questi termini, ma di recente gli studi più accurati sull'argomento hanno cominciato a mettere in questione la correttezza di questa categoria storiografica.
La teoria volontaristica si fonda evidentemente sull'idea della trascendenza divina: essendo Dio infinitamente superiore e migliore delle sue creature, ogni altra cosa, ivi compresa la definizione di ciò che è bene e ciò che è male, dipende da lui nella sua essenza. Punto debole del volontarismo etico, tuttavia, è sempre stato quello di non fornire una motivazione sufficientemente ricca per fondare l'obbligatorietà della norma morale: secondo il volontarismo infatti obbedire alla legge morale significa precisamente fare tutto ciò che Dio vuole soltanto perché Dio lo vuole. D'altra parte la concezione opposta al volontarismo, vale a dire il naturalismo o il razionalismo etico, secondo cui la legge morale può essere razionalmente desunta dall'ordine naturale del mondo, tende ad elevare l'ordine creato da Dio a livello di norma vincolante per Dio stesso, nel senso almeno in cui Dio non potrebbe volere se non ciò che vuole, dato che questo è il bene.
Di fronte a questi paradigmi alternativi, la posizione di Scoto si colloca su di un piano intermedio. Da un lato, in accordo con i naturalisti, egli ammette che per considerare moralmente giusta un'azione non è necessario che essa sia voluta da Dio, è sufficiente invece che sia compiuta seguendo i dettami della retta ragione, che sia compiuta cioè per un fine appropriato (conveniens), considerata la natura dell'agente e dell'oggetto dell'azione. In aggiunta a ciò, Scoto ritiene che ci siano dei principi morali che sono obbligatori per Dio stesso, oltre che evidentemente per tutte le creature. Questi principi, che costituiscono l'ambito della legge naturale intesa in senso stretto, sono quelli che derivano dall'eccellenza della divinità e che impongono di onorarla ed amarla più di ongi altra cosa. Per questo motivo, ad esempio, Dio non potrebbe comandare a qualcuno di non amarLo, perché in tal modo gli imporrebbe di fare una cosa intrinsecamente ingiusta, cioè ingiusta a prescindere dalla volontà di Dio. Principi di questo tipo sono quelli espressi nei primi tre comandamenti, la cosiddetta prima tavola della legge.
D'altro canto, tuttavia, per Scoto ogni altro principio morale, diverso da quelli che hanno per oggetto Dio stesso ed impongono di amarlo sopra tutto, mantiene la propria validità soltanto se ed in quanto Dio non ordina diversamente. Ogni principio morale che riguarda le creature, quindi, benché dotato di una sua validità razionale fondata sull'ordine naturale, può tuttavia essere sospeso e persino rovesciato da Dio. In quest'ambito, che può essere definito legge di natura soltanto in senso largo, rientrano i sette comandamenti della cosiddetta seconda tavola, quelli cioè che impongono determinati comportamenti nei confronti delle creature e di cui si trovano esempi di sospensione nella stessa Scrittura, primo fra tutti il caso famoso del sacrificio umano imposto da Dio ad Abramo. Proprio il comportamento esibito da Dio nella vicenda di Abramo ci mostra comunque che anche quando decide di sospendere la validità dei precetti morali che riguardano le creature, Dio si mostra sempre rispettoso della natura. Scoto esprime questo concetto rilevando che l'obbligo che vincola Dio al rispetto e all'amore di Sè stesso in qualche modo lo inclina, pur senza obbligarlo, anche al rispetto e all'amore per le sue creature. Come si vede, dunque, il sistema etico proposto da Scoto si sostiene in un delicato equilibrio tra legge naturale e comando divino, ma senz'altro appare ispirato soprattutto dall'esigenza di salvaguardare l'assoluta libertà di Dio.
Scoto non ha lasciato trattazioni esplicitamente dedicate ai problemi politici, ma in alcuni punti della sua opera, ed in particolare nei commenti al IV libro delle Sentenze, si possono rinvenire spunti interessanti anche in questo settore della speculazione filosofica. È il caso in particolare della discussione sull'origine della proprietà e del potere politico impostata da Scoto in una questione che riguarda il sacramento della confessione e la necessità della restituzione del maltolto. In questo contesto l'attenzione si concentra sul mutamento antropologico che ha avuto luogo in seguito al peccato originale: la corruzione della natura umana ha condotto alla revoca del precetto naturale secondo cui la proprietà dei beni materiali doveva rimanere indivisa presso tutti gli uomini ed ha reso necessaria in tal modo l'istituzione della proprietà privata. Una volta divisa la proprietà, è sorta anche l'esigenza di difendere i beni personali e la stessa incolumità individuale dagli attacchi dei malvagi e per questo si è stabilita una legge positiva ed un autorità politica in grado di farla osservare. L'origine del governo è avvenuta dunque secondo Scoto mediante un patto di associazione in cui si è espresso il consenso di tutti, ma non per questo si dovrà vedere in lui un precursore del contrattualismo. Quel che conta per Scoto è sottolineare che la comunità politica ha avuto origine da una decisione presa legittimamente da chi aveva l'autorità per farlo, ma anche che tale decisione ha segnato uno scarto netto rispetto alle forme di vita comune vigenti nella condizione edenica precedente il Peccato.
Un altro tema su cui si esercita la riflessione politica di Scoto è quello, piuttosto frequentato nel periodo scolastico, dell'interpretazione della schiavitù. Egli mette per primo in rilievo come le varie formulazioni che Aristotele dedica alla schiavitù nell'Etica Nicomachea e nella Politica possono essere ricondotti a due diversi tipi di rapporti di subordinazione tra uomo e uomo: l'uno, la servitù che Scoto chiama dispotica o extrema, è un'istituzione del diritto positivo, conseguente all'esito di eventi bellici o giudiziari o di natura economica, mentre l'altro, fondato sulle naturali differenze intellettuali e corporali tra gli uomini, è una relazione di subordinazione politica in cui il servo non viene trattato alla stregua di una proprietà. Benché sia ripugnante dal punto di vista morale, tuttavia anche la servitù estrema costituisce un rapporto giuridicamente valido, se è stato istituito in base alle leggi vigenti e sancito dalla legittima autorità. Come tale, secondo Scoto, essa pone in essere una sfera di obbligazioni che non possono essere trasgredite legittimamente, anche se sono contrarie al diritto di natura.
Da ultimo, occorre perlomeno ricordare che, in conformità con una tradizione che caratterizza soprattutto i maestri dell'ordine francescano, anche Scoto si occupa dei temi che riguardano il comportamento economico dei cittadini cristiani, cioè la sfera della cosiddetta etica economica. Proseguendo una linea di tendenza inaugurata già da Pietro di Giovanni Olivi, il maggiore teorico francescano in questo campo, Scoto fonda la sua tradizionale condanna dell'usura soprattutto sull'argomento che l'usuraio, richiedendo un interesse aggiuntivo sulla somma prestata, si avvantaggia della ricchezza prodotta da altri, e non dal suo lavoro. D'altra parte, in piena coerenza con questa prospettiva, occorre riconoscere che all'usuraio che si pente e vuole riparare i suoi peccati non si può chiedere, oltre alla restituzione degli interessi illegittimamente ottenuti, anche quella dei guadagni compiuti utilizzando i profitti ingiusti in un'altra attività: questi ultimi, infatti, sono prodotti del suo lavoro e non di quello altrui.