RETORICA E
PASSIONI IN ARISTOTELE
Passioni,
sogni e inganni nel De insomniis e
nella Retorica.
di
Gian Mario Mollar
La realtà degli uomini è la figura del sogno,che di
quella parlano come se narrassero un groviglio di sogni.
Carlo Michelstaedter, La
persuasione e la rettorica.
La tematica delle passioni è presente sia nel De insomniis che nella Retorica, sebbene in proporzioni diverse. Infatti, mentre nella Retorica una buona parte del secondo libro è occupata dall’analisi di una vasto repertorio di passioni, nel De insomniis la trattazione che le riguarda è ridotta ad un solo passo[1] ed è circoscritta a tre elementi, la paura, l’amore e l’ira. Si cercherà, nel corso di questa breve esposizione, di analizzare in che modo l’approccio aristotelico alle passioni cambi nell’ambito di queste due opere.
Com’è noto, lo scritto Sui sogni fa parte dei cosiddetti Parva naturalia, una silloge di brevi saggi aventi per tema questioni di filosofia della natura. Ma a che scopo Aristotele introduce una digressione sulle passioni nel bel mezzo di un’opera sui sogni? Ricostruendo il contesto, risulta evidente che non si tratta affatto di una divagazione. L’obiettivo del filosofo, in questa sede, è quello di trovare la facoltà che è affetta dai sogni, al fine di poter delineare una definizione del sogno, che farà la sua comparsa verso la fine del trattato: “Sogno è … l’immagine generata dal movimento degli effetti residui della percezione quando si dorme, in quanto si dorme”[2]. Si giunge a questa conclusione escludendo una serie di possibilità alternative: il sogno non è un’affezione “della parte <dell’anima> che opina (tou doxàzontos) né di quella che pensa (tou dianooumènou)”[3]. Questo assunto viene dimostrato sulla base del fatto che, anche mentre sogniamo, noi applichiamo l’opinione alle cose sognate: nei sogni non ci limitiamo a percepire uomini e cavalli, ma esprimiamo su di essi i nostri giudizi, dicendo, ad esempio, che sono belli, o che sono bianchi[4]. È importante evidenziare che, all’interno del sogno, non esiste una discrasia temporale tra la percezione e l’opinione: i due stati sono simultanei, e contemporaneamente insorgono nel sognatore. Tale sincronia di immagine e opinione si può, forse, ricondurre all’assenza di ponderazione che caratterizza il sonno, mentre nello stato di veglia la riflessione razionale è un elemento fondamentale. In un altro trattato dei Parva naturalia, Il sonno e la veglia, lo Stagirita fa notare come il sonno si contrapponga alla veglia: “il sonno sembra una sorta di privazione di veglia. Sempre infatti, nelle cose di natura come nelle altre cose, i contrari (ta enantia) paiono presentarsi nello stesso ricettore e sono affezioni di esso”[5]. Sulla scorta di questo passo, si può dire che sonno e veglia sono contrari tra loro, ma non sono necessariamente contraddittori in senso assoluto, dal momento che l’uno non esclude sempre l’altro ed esistono stati intermedi tra i due. Proprio l’esistenza di stati intermedi getta il filosofo in una sorta di aporia, perché, se si qualifica il sonno come l’impossibilità di attuare l’attività percettiva, diventa problematico distinguerlo da stati quali lo svenimento, la perdita dei sensi oppure l’uscita di senno. In alcuni di questi casi, può succedere che chi sviene di esercitare l’immaginazione. “Se è possibile che chi è svenuto si sia addormentato, sarebbe possibile che anche l’immagine sia un sogno”[6]. Ma, essendo l’obiettivo quello di delimitare e classificare il sonno e i sogni, una tale confusione tra sonno e stati patologici deve in qualche modo essere risolta, e a tale scopo Aristotele sostiene che non qualsiasi mancanza di percezione è sonno, ma soltanto quella che avviene a causa della cozione endocorporea del cibo[7]. Così facendo, l’attività onirica resta scorporata da altre attività che si svolgono in stato di incoscienza, e il campo dei sogni è ben delimitato.
Se le cose stanno così, i sogni non ineriscono soltanto all’opinione: l’opinione e il pensiero, infatti, senza la percezione non avrebbero nulla su cui esercitarsi. D’altra parte, non è possibile nemmeno sostenere che i sogni coinvolgano la percezione stricto sensu: chi sogna sta dormendo, e, avendo gli occhi chiusi, è impossibile vedere e avere percezioni, per cui “è chiaro che negli stati di sonno non percepiamo nulla”[8]. Per mezzo di successive esclusioni, lo Stagirita giunge a stabilire che “il sognare è proprio della parte percettiva, ma di essa in quanto immaginativa”[9].
Per avere qualche informazione più precisa riguardo all’immaginazione (phantasia), occorre consultare il De anima, ove si afferma che “l’immaginazione è ciò mediante cui diciamo che si produce in noi un’apparenza (phàntasma)”[10]. Il ruolo e le caratteristiche di questa funzione sono argomenti particolarmente controversi, e non è facile classificarli in modo univoco. Una prima difficoltà è dovuta al fatto che, come mette in evidenza Dorothea Frede in un pregevole saggio, il termine greco riveste tre ambiti di significato distinti, “la capacità di creare apparenze, la creazione stessa (immaginare) e la stessa apparenza creata”[11]. Quando la percezione in atto cessa, l’immaginazione ci permette di proseguire l’attività dei sensi, anche in assenza di stimoli diretti, permettendoci di rappresentarci gli oggetti anche assenti[12]. Si può quindi dire che “la phantasia non ha una facoltà propria, ma è parassita della percezione sensibile”[13]. In breve, fin quando c’è interazione tra l’oggetto e il senso interessato si può parlare di percezione, mentre, dopo che il rapporto e cessato e la facoltà percettiva non si esercita più in atto, subentra l’immaginazione, che, fornendoci un’immagine residuale di tale percezione. La tesi della Frede è che “Aristotele eleggesse la phantasia a fornirci di sequenze coerenti di eventi…Grazie all’immaginazione, quindi, otteniamo un quadro più completo di una situazione o di una serie di situazioni”: l’immaginazione, dunque, ci garantirebbe una sintesi di quelli che, altrimenti, sarebbero solamente dati sensoriali simultanei ma slegati. Ad esempio: i miei occhi vedono un oggetto sferico di colore rosso, il mio tatto lo percepisce come liscio, il mio gusto avverte un sapore dolce e zuccherino… a questo punto subentra l’immaginazione, che coordina questi risultati e mi fa riconoscere l’oggetto come una mela. Si tratta di un’interpretazione estremamente kantiana, che mi sembra andare un po’ troppo oltre il testo aristotelico, che non dice tutto ciò esplicitamente. A questo proposito, mi pare più prudente attenersi alla tesi di M. Schofield, che esclude tale funzione sintetizzante, sostenendo che, parlando di phantasia, “Aristotele sembra essere interessato ad una capacità di avere… esperienze sensoriali non paradigmatiche, esperienze differenti tra loro come i sogni e l’interpretazione di dati sensibili indistinti o confusi”[14]. Queste esperienze si avvicinano al paradigma di una normale percezione sensoriale, ma mancano di qualcosa per essere identificate con essa, e pertanto sono elaborate dall’immaginazione. Di conseguenza, secondo lo studioso inglese, l’apparire, che costituisce l’ambito di riferimento dell’immaginazione, non è tanto da intendersi come “apparenza reale” o fenomeno, quanto piuttosto come “apparenza ingannevole”. “Aristotele ha in mente l’uso più quotidiano di phainesthai per esprimere scetticismo, cautela o inaffidabilità a proposito del carattere verosimile delle esperienze sensoriali o quasi sensoriali”[15]. Insomma, secondo Schofield, il phainesthai che interessa l’immaginazione aristotelica è quello di tutti i casi in cui affermiamo: “Quella cosa sembra così (-ma lo sarà realmente?)”.[16] Inoltre, Schofield illustra la derivazione del termine phantasia da phos, luce e, in virtù di questa derivazione, le immagini forniteci dall’immaginazione sono da considerarsi come illuminate.
In ogni caso, il saggio della Frede mi pare più affidabile nel momento in cui riconosce una duplice funzione della phantasia:
A monte di questa distinzione, tuttavia, si può classificare il ruolo dell’immaginazione come facoltà astrattiva, che ci permette di prescindere dalla sensibilità e di passare al pensiero. Il pensiero non opera sui dati immediati della percezione, bensì su quelli che potremmo definire “oggetti disincarnati”, filtrati dall’immaginazione e conseguentemente epurati della loro immediatezza. Aristotele non è un sensista, ma è comunque interessante notare che il nous non opera in rottura con la sensibilità, bensì in continuità con essa: da ciò si può inferire la centralità della percezione dal punto di vista aristotelico.
Pur sostenendo questo duplice ruolo dell’immaginazione, l’autrice è però sollecita nel far notare che “le phantasiai,…anche se spesso funzionano come incentivi per il pensiero… rimangono tuttavia fenomeni autonomi”. Ed è proprio riflettendo sul De insomniis che si vede costretta a palesare questa riserva, perché nei sogni i phantasmata non sono in alcun modo assoggettati al controllo razionale. Come si vedrà in seguito, l’ingannevolezza del sogno è proprio frutto di questa assenza di attività intellettiva: durante il sonno non è possibile giudicare in modo appropriato, e le immagini della phantasia hanno così un dominio assoluto sui nostri organi sensori.
Il sogni, dunque, derivano dalla percezione in atto, senza tuttavia identificarsi con essa: la percezione in atto è “una sorta di alterazione (allòiosis tìs)”[19] degli organi di senso nel momento in cui essi percepiscono, ma tracce di essa permangono anche nel momento in cui l’affezione diretta è finita. Aristotele ci fornisce una sorta di modello meccanico del modo in cui queste tracce permangono all’interno degli organi percettivi: il termine di paragone, in questo caso, sono i corpi che subiscono un mutamento di luogo, che continuano a muoversi anche una volta terminato il contatto diretto con il proiciente, allo stesso modo in cui, nel caso dei sogni, abbiamo la persistenza di immagini dopo che l’oggetto che le produceva non è più presente. La persistenza del moto di un oggetto lanciato viene giustificata grazie al mezzo in cui avviene il movimento: chi lancia un oggetto, muove una porzione d’aria, che a sua volta ne muove un’altra e così via, e questa progressione fa sì che l’oggetto non cada immediatamente a terra ma prosegua nella direzione del moto impressogli. Il mezzo, quindi, sia esso aria oppure acqua, garantisce la continuità del moto anche quando il contatto tra chi effettua il lancio e il proiettile è cessato[20].
I residui percettivi ingenerano le immagini che appaiono nella fase onirica. Pertanto, la sensibilità è sollecitata tanto nella veglia che nel sonno. Durante il sonno, però, essendo sospesa l’ingente stimolazione diurna cui sono sottoposti i sensi, diventano più appariscenti le piccole sollecitazioni, che durante il giorno non sono percepibili, essendo oscurate da quelle più grandi e frequenti. Usando le parole di Aristotele, “quando sensi e pensieri cessano, anche i piccoli movimenti vengono alla superficie”[21]. Il sonno, dunque, è una sorta di lente di ingrandimento che, per mezzo della sospensione della caotica e turbolenta percezione diurna, dona uno spazio a sensazioni che, prendendo in prestito un termine alla moderna psicanalisi, si potrebbero definire “rimosse”.
Il passo successivo, che introduce nel vivo del tema da trattare, consiste nello stabilire il grado di verità delle immagini così avvertite. Va da sé che il sogno può ingannare facilmente, perché è costituito da un residuo percettivo, ovvero da qualche cosa che è stato, ma non è più: L. Repici riassume dicendo che nel sogno “l’effetto della percezione rimane percepibile anche quando l’oggetto sensibile esterno non è più presente”[22]. Dunque, il sogno è, per sua essenza, legato al tema dell’inganno, che si può definire come qualcosa che appare senza tuttavia avere un’esistenza vera e propria. Si deve rimarcare che questa associazione non è un novum introdotto da Aristotele, ma è radicato sin dalle origini del pensiero greco. Già Omero, infatti, faceva dire a Penelope che “i sogni sono inspiegabili e ambigui”[23], e Aristotele non fa che proseguire su questa linea di pensiero, classificandoli come percezioni ingannevoli. È però importante dire che esiste una differenza fondamentale tra Omero e Aristotele, in quanto per il primo i sogni sono inviati dalla divinità, che può decidere se ingannare o agevolare i mortali per mezzo del suo intervento, mentre per il secondo tale intervento soprannaturale è da escludersi nel modo più assoluto. I sogni, infatti, provengono da movimenti (kineseis), ingenerati dagli oggetti esterni, che si propagano grazie alla quiete notturna: altrimenti, non si spiegherebbe come mai “tale affezione capita a uomini qualunque e non ai più saggi; essa infatti capiterebbe di giorno e ai sapienti, se fosse la divinità la fonte di provenienza”.[24] Questo assunto ha un interessante strascico nel fatto che, nello scritto sulla Divinazione durante il sonno, il filosofo giunge a ridimensionare drasticamente la possibilità dell’esistenza di sogni predittivi del futuro: così facendo, contribuisce a indebolire il legame del sogno con la realtà, per avvicinarlo ulteriormente all’ambito dell’illusione[25].
Ma, dal momento che i sogni ingannano, Aristotele si trova nella necessità di precisare le modalità di questo processo, e a tale scopo, con un ragionamento per analogia, tira in ballo le passioni: “anche quando il sensibile esterno si è allontanato, gli effetti della percezione permangono e sono percepibili e, oltre a questo, … noi ci inganniamo (apatòmetha) facilmente circa le sensazioni, quando siamo affetti da passioni (en tois pàthesin òntes), chi in un modo chi in un altro”[26]. Questo brano è il perno su cui ruota il ragionamento aristotelico, che si può così sintetizzare: durante il sonno i sogni ci ingannano allo stesso modo in cui, durante la veglia, ci sbagliamo quando siamo affetti da passioni o (lo si vedrà tra poco) da malattie. L’analogia esistente tra i due stati, in ogni caso, non può essere ridotta a identità: se, infatti, la percezione durante la veglia può risultare ingannevole perché ciò che i nostri sensi avvertono non ha un riscontro nella realtà, nel sogno questa condizione è amplificata, in quanto non solo non c’è corrispondenza con il reale, ma lo stesso soggetto sognante è propenso a scambiare l’apparenza per realtà. In sintesi, “sognando siamo … doppiamente ingannati e lo siamo senza rimedio perché non ci accorgiamo di esserlo”[27].
Fatta questa premessa generale, si può passare a considerare i casi specifici, che riguardano il caso del codardo ingannato dalla paura (phòbos) e dell’innamorato indotto in errore dall’amore (èros). I due casi sono correlati, perché “a partire da una piccola somiglianza (omoiòtes), sembra all’uno di vedere i nemici e all’altro la persona amata e quanto più la passione lo prende, tanto minore è la somiglianza a partire da cui queste cose gli appaiono”[28]. Dunque il pavido e l’innamorato, avendo la loro natura alterata e sbilanciata dalla passione, sono inclini a “scambiare lucciole per lanterne”, amplificando e conferendo significato a piccole somiglianze, che verrebbero ignorate da un individuo non affetto da questi moti interiori. Ma la somiglianza, nel pensiero dello Stagirita, è connessa non solo con gli errori dello stato di veglia, ma anche all’interpretazione dei sogni. Gli interpreti, infatti, non fanno che osservare le somiglianze intercorrenti tra il sogno e la realtà: proprio per questo, forse, il filosofo è così incline a credere che essi possano sbagliare frequentemente. Nella Divinazione durante il sonno si parla di somiglianza “in quanto le immagini capita che siano press’a poco simili alle apparenze riflesse nelle acque”[29]: tale paragone con l’elemento liquido, peraltro già presente anche nel De insomniis[30], serve a rendere l’idea del carattere impermanente, cangiante delle impressioni oniriche, oltre che ad esemplificare, sul piano fisiologico, le modalità secondo le quali le percezioni non più attuali si propagano attraverso il sangue.
Paura e amore non sono, comunque, le uniche fonti di inganno: “allo stesso modo, tutti sono molto facilmente soggetti a ingannarsi negli stati d’ira (en orgaìs) e in ogni desiderio (en pàsais epithumìais) e tanto più quanto più si trovino in tali stati”[31]. Alla lista delle passioni elencate si aggiungono quindi l’ira e i desideri generalmente intesi, ma di essi non viene fornita alcuna esemplificazione, sottintendendo che portano a sbagliare perché minano la serenità di giudizio. Implicita in questa frase è anche l’idea che esistano diverse gradazioni nelle passioni: chi è meno irato si ingannerà di meno rispetto a chi lo è in maggior proporzione. Tale affermazione può risultare ovvia al nostro senso comune, ma non lo era certo nel mondo antico, se si pensa alle posizioni che hanno assunto, posteriormente ad Aristotele, gli stoici. Basti, a questo proposito, citare Plutarco, che li accusava di voler andare contro l’evidenza “per il fatto di aver reso uguali tutti gli errori e i peccati. Per loro infatti ogni passione è un errore e chiunque soffra, o tema o desideri commette un errore”[32]. Lo stesso passaggio dall’errore alla virtù, di conseguenza, veniva da essi considerato non graduale ma netto e subitaneo: “sono dell’idea che non ci sia nulla di mezzo tra virtù e vizio… Come infatti … di necessità il legno o è dritto o è storto, così un’azione o è giusta o è ingiusta, e non più o meno giusta o più o meno ingiusta”[33]. L’istituzione di una gradualità nelle passioni costituisce una innovazione radicale di Aristotele.
Nel De insomniis, lo studio sull’ingannevolezza dei sogni si avvale di una duplice comparazione con due fenomeni propri dello stato di veglia:
Aristotele, infatti, indica diverse ragioni per cui la percezione può risultare confusa: “questo è anche il motivo per cui ai febbricitanti talora appaiono animali sui muri a partire da una piccola somiglianza di linee che si intrecciano”[34]. Anche in questo caso ricorre il tema dell’illusione, in rapporto alla febbre; mentre le passioni inducono in errore perché turbano l’animo, le malattie ottengono lo stesso effetto agendo sul corpo, e ingenerando, così, illusioni ottiche. Ancora una volta, però, viene ben rimarcata la differenza tra lo stato di coscienza e il sonno. Il soggetto febbricitante ha una duplice possibilità: se non è troppo infermo, può agevolmente rendersi conto che si tratta di una mera immagine illusoria, se, invece, è affetto in misura maggiore perde anche questa capacità di discernimento, ma può pur sempre avvicinarsi al luogo in cui appaiono gli animali, e verificare direttamente la consistenza di quei miraggi[35]. Di contro, chi sta sognando non ha nessuna di queste due possibilità: da un lato, come si è visto, spesso chi sogna non ha nemmeno la consapevolezza di essere in un sogno, e dunque è ingannato non solo dalle immagini del sogno, ma anche dal fatto di non sapere di essere ingannato, dall’altro gli è negata anche una verifica diretta della verità o falsità delle figure che gli si presentano. Tirando le fila del discorso, Aristotele afferma che “la causa per cui queste cose accadono è che la parte principale e quella per la quale insorgono le immagini non giudicano secondo la stessa funzione”[36]. Quindi, durante il sonno non è attiva la parte giudicatrice dell’anima, e, di conseguenza, tutte le percezioni sensibili sono poste allo stesso livello: non c’è una percezione che ne possa smentire un’altra, perché manca la coordinazione del pensiero. Per delucidare questo passo un po’ complesso, Aristotele porta tre esempi in cui l’intervento del pensiero risulta dirimente. Innanzitutto “il sole ci appare della grandezza di un piede, ma qualcos’altro contraddice questa apparenza”[37]: stando alla semplice sensibilità, saremmo inclini ad attribuire al sole delle dimensioni ridotte, ma con il pensiero giungiamo a stabilire che, se fosse così piccolo, non riuscirebbe ad illuminare la terra, e quindi, come si dice nel De anima, che riprende questo esempio, “si è convinti che sia più grande della terra abitata”[38]. Il secondo esempio, invece, riguarda la percezione tattile: “incrociando le dita, un solo oggetto appare due”[39]. L’apparente sdoppiamento al tatto dura solo fintanto che si tengono gli occhi chiusi e si dilegua immediatamente non appena facciamo uso della vista, che è considerata da Aristotele un senso preminente rispetto agli altri. Tale preminenza, tuttavia, è possibile solo grazie alla facoltà giudicatrice, che è garante di questa gerarchia: nello stato di veglia, al contrario, il pensiero è sopito e quindi tutte le percezioni sono ugualmente verosimili. Analogo a questo è un altro esperimento percettivo coniato da Aristotele, per cui, se ci si comprime la parte inferiore dell’occhio con un dito, l’oggetto che stiamo guardando si sdoppia[40]. Infine, viene preso in considerazione il caso in cui “la terra ai naviganti sembra muoversi, mentre è la loro vista ad essere mossa da altro”[41]. Se non avessero la possibilità di capire che si trovano su una nave, i passeggeri continuerebbero a credere di essere fermi davanti a un paesaggio che si muove. Può essere curioso notare che, con quest’ultimo esempio, lo stesso Stagirita fornisce un potente argomento a coloro che saranno gli iniziatori della rivoluzione scientifica, Copernico e Galileo, e ancor prima di loro Giovanni Buridano e Nicola Oresme, che lo ritorceranno contro di lui per demolire il suo sistema geocentrico.
Nel cominciare a trattare il parallelo tra lo scritto Sui sogni e la Retorica, è opportuno considerare i tre luoghi comuni (koinoi topoi), enunciati da Aristotele in quanto indispensabili per l’oratore. Essi riguardano il possibile e l’impossibile, l’esistente e l’inesistente e il grande e il piccolo[42]. A proposito di quest’ultimo, il filosofo afferma che “il luogo relativo alla grandezza (to megèthous koinòn) è comune a tutti i tipi di discorso, poiché tutti si servono della diminuzione e dell’amplificazione (aùxis) sia nei discorsi deliberativi, sia in quelli di lode o di biasimo, sia nei discorsi di accusa o di difesa”[43]. Come si è visto, anche riguardo ai sogni questo luogo comune gioca un ruolo fondamentale, perché “dormendo i piccoli movimenti appaiono grandi”[44]. Ci si potrebbe così azzardare ad accostare l’attività del retore, che con la sua magniloquenza ingrandisce ciò che di per sé sarebbe insignificante, con ciò che accade durante l’attività onirica, nella quale avviene un analogo passaggio dalle percezioni residuali impercettibili durante la veglia ai phantàsmata del sogno. L’oratore, con la sua capacità di amplificazione, diventerebbe così un tessitore di sogni, un esperto nell’affascinare il proprio uditorio con immagini sproporzionate rispetto al vero e inadeguate alla realtà dei fatti. Questa prospettiva, per quanto accattivante, non può tuttavia essere enfatizzata più del necessario. È vero, infatti, che in tutta la Retorica, uno dei verbi utilizzati più di frequente è phàinesthai, apparire, ma occorre fare delle precisazioni al riguardo: apparenza e inganno non sono, in questo caso, sinonimi. L’arte oratoria ha più a che fare con l’apparire (phàinesthai) che con l’essere (èinai), ma deve comunque tenersi in prossimità dell’eikòs, del verosimile. L’oratore deve riferire cose plausibili, e un grande aiuto in questo sforzo gli proviene dal non spingersi troppo oltre nel campo dell’inganno, scendendo ad una sorta di compromesso tra la verità dei fatti e quelli che sono i suoi interessi. Anche Aristotele, come i sofisti, riconosce alla retorica la capacità di sostenere tesi opposte, ma con una riserva fondamentale: “I contenuti, ovviamente, non sono indifferenti, ma, in senso generale, quelli veri e migliori sono sempre per loro natura più adatti al sillogismo e più persuasivi”[45]e, poco prima, “la verità e la giustizia sono per natura più forti dei loro contrari”[46]. Dunque, chi si appresta a sostenere tesi verosimili, ha un alleato in più rispetto a chi intende affermare quelle contrarie: la forza stessa della verità, dell’evidenza, perché “gli uomini hanno una sufficiente disposizione naturale per il vero e nella maggior parte dei casi colgono la verità”[47]. Ma sarebbe ingenuo pretendere di prevalere solo grazie alla potenza degli argomenti, perché anche l’esposizione e l’organizzazione del ragionamento hanno un peso fondamentale e imprescindibile, perché non importa solo quel che si dice, ma anche il come lo si dice. Da questo punto di vista, Aristotele è consapevole quanto qualsiasi sofista della potenza della parola, che può avere anche effetti ambigui e pericolosi, quali lo stravolgere la realtà dei fatti e adulterare le opinioni dell’uditorio, ma sa anche che questa risorsa non necessariamente deve essere volta all’inganno. La retorica, infatti, può costituire anche un utile strumento per smantellare e smascherare i ragionamenti capziosi. In ogni caso, il filosofo non fa un mistero del fatto che la retorica sia una disciplina che può essere usata in modo ambivalente, e che l’oratore e il retore (ovvero l’oratore inteso in senso deteriore) costituiscono due facce della stessa medaglia: “chi si serve ingiustamente di questo potere della parola –si dirà- potrebbe nuocere profondamente; ma questa obiezione vale per tutti i beni [N. B.: esclusa la virtù, dal momento che Aristotele non è certo un relativista]… Se di essi farà un giusto uso, infatti, un uomo potrà recare un grandissimo giovamento, se ingiusto, un danno altrettanto grande”[48]. In buona sostanza, si può affermare che, se l’oratore può essere paragonato a un creatore di sogni, a un manipolatore di illusioni, non di necessità lo si dovrà considerare un esiziale tessitore di incubi.
Come si è detto in apertura, il trattato dei Parva naturalia e la Retorica contengono entrambi dei riferimenti allo stesso tipo di passioni. In quest’ultima opera, si parla dei pàthe perché costituiscono uno strumento fondamentale di convincimento dell’uditorio. Aristotele, al principio del secondo libro, fornisce un’utile definizione delle passioni: “le passioni sono ciò per opera di cui gli uomini, mutando, differiscono in relazione ai giudizi, a cui conseguono piacere (hedonè) e dolore (lype)”[49]. È significativo notare che, a livello generale, manca qualsiasi riferimento all’inganno, che, invece si è visto essere fondamentale nel De insomniis, mentre vengono due termini nuovi, il piacere e il dolore. Come si vedrà nel seguito della trattazione, nel delineare i fondamenti dell’arte retorica, Aristotele non dimostra una particolare attenzione per il tema dell’inganno, anche se sono rinvenibili dei riferimenti.
La passione dell’ira (orghè) viene presentata per prima, a partire dalla definizione: “si ponga che l’ira sia una brama (òrexis) dolorosa di vendetta manifesta per un’offesa apparente/manifesta (phàinomene) rivolta verso di noi o verso qualcuno che ci è legato…Ogni manifestazione d’ira, inoltre, è accompagnata da un certo piacere (edonè) che deriva dalla speranza (elpìs) di vendicarsi”[50]. Gran parte del significato di questo passo dipende dal valore che si vuole attribuire al participio phàinomene, che ricorre due volte in due righe. Se lo si traduce come “manifesta”, si pone l’accento sulla dimensione comunitaria dell’ira: si reagisce ad un’offesa che è palese, sotto gli occhi di tutti, e, pertanto, si desidera che anche la vendetta sia altrettanto notevole e pubblica. Se invece si preferisce intendere il participio come “apparente”, si pone la base per una riflessione maggiormente filosofica: chi sceglie di vendicarsi, lo fa non tanto sulla base dei fatti, quanto piuttosto su quella che crede essere la realtà. Se si accetta questa seconda lettura, allora si capisce anche qual è il margine d’azione dell’oratore: egli, ovviamente, non può modificare quel che è successo, ma può, tuttavia, modificare l’animo di chi ha subito l’offesa, cercando di spegnere oppure di aizzare, a seconda dei casi, la passione. “È evidente che l’oratore, per mezzo del suo discorso, dovrà porre gli ascoltatori nella disposizione d’animo di chi è incline all’ira, e dipingere gli avversari come responsabili di azioni che suscitano ira, e come un genere di persone con il quale ci si adira”[51].
Allo stesso modo in cui nei sogni non è coinvolta una percezione attuale, ma semplicemente i residui di essa che continuano a colpire i sensi, così l’ira non è tanto legata alle cause esterne, quanto alla disposizione del singolo, che continua a rimuginare su cose già trascorse. La retorica, da questo punto di vista, dispone di un potere enorme, in quanto può addirittura agire retroattivamente, sul passato, e determinare così l’esistenza oppure l’inesistenza di un fatto accaduto nel pensiero di chi deve giudicare.
Si può osservare, sempre a proposito del brano citato, che l’ira sussume sotto di sé due sentimenti contrastanti: il piacere e il dolore. Per un verso, si può dire che tale curioso miscuglio di passioni sia indice dello stato d’animo confuso e alterato di chi è incollerito. Ma c’è di più. La parte dolorosa dell’ira consiste nell’offesa subita, quindi nel passato, mentre la parte piacevole è connessa con la speranza di vendicarsi, con il futuro, ed è un desiderio (epithumìa); “gli uomini si adirano quando soffrono, perché chi soffre desidera (ephìetai) qualcosa”[52]. Nel libro I, lo Stagirita fornisce maggiori informazioni circa il desiderio: “il desiderio è impulso (òrexis) verso ciò che è piacevole… Dal momento che il provare piacere consiste nel percepire una data emozione, e che l’immaginazione (phantasìa) è una sensazione indebolita, e dal momento che, in chi ricorda o spera, dovrebbe essere presente l’immaginazione di ciò che si ricorda o si spera – ebbene, se è così, è evidente che sia chi ricorda sia chi spera prova piacere, poiché ha anche luogo una sensazione”[53]. Piacere e dolore, all’interno della passione, non sono temporalmente differiti, ma sono simultanei. La passione, quindi, è un grumo di piacere e dolore, che si dibattono indistintamente: la distinzione tra i due elementi può avvenire solo a livello logico, non certo a livello fenomenologico. Da questo punto di vista, piacere e dolore, pur essendo contrari non sono mutuamente contraddittori, ma si coimplicano nella passione, non sono due compartimenti stagni, ma un tutt’uno. Tale contrarietà ma non contraddizione di piacere e dolore è paragonabile a quella di sonno e veglia, di cui si è parlato precedentemente.
L’ira, per la sua parte piacevole, dipende dall’immaginazione, che, in quanto facoltà di rappresentare le cose anche quando sono assenti, è coinvolta anche nel corso dell’attività onirica. In questo modo, chi è adirato riesce a contemperare il dolore per l’offesa subita con il piacere proveniente dall’anticipazione mentale, e dunque solo a livello virtuale e potenziale, delle azioni che compirà vendicandosi: si dimostra così, fra l’altro, che hedonè e lype non si escludono reciprocamente, e anzi possono coesistere. In sede retorica, Aristotele ammette la possibilità di una certa piacevolezza insita anche in una passione abietta, senza preoccuparsi di stigmatizzarne i difetti a livello morale. “Si passa il tempo a vendicarsi con il pensiero, e l’immagine che ne nasce genera piacere, come accade nei sogni”[54]. Per il filosofo, il piacere che deriva dal prefigurare psichicamente la vendetta può essere accostato a quello dei sogni. Tra sogni e pensieri vendicativi esiste un’analogia strutturale, dal momento che entrambi interessano la facoltà dell’immaginazione; si parla tuttavia di analogia e non di identità, perchè, come si è spiegato sopra, nello scritto Sui sogni l’illusione di chi dorme è più profonda rispetto all’illusione di chi è desto. Del resto, nella Retorica, Aristotele lascia molto in disparte l’ingannevolezza dei sogni, per introdurre un elemento che nel De insomniis non compare affatto, l’idea che le immagini dei sogni possano anche essere piacevoli.
La passione dell’amore (èros), che si è vista nell’opera Sui sogni, non viene qui tematizzata in modo esplicito e diffuso. Certo, Aristotele descrive la philìa, e il verbo philèo può essere reso in italiano come “amare”, ma non contiene la componente passionale che è invece connaturata al verbo erào. Quindi, a mio giudizio, è impossibile equiparare l’amicizia della Retorica con l’amore del De insomniis. La fonte di questa possibile confusione dipende al fatto che il greco è una lingua più ricca rispetto all’italiano e che dispone di molteplici verbi e sostantivi atti ad esprimere differenti sfumature di quello che noi definiamo genericamente “amore”[55]. In ogni caso, anche nella Retorica è possibile rintracciare qualche riferimento all’“amore passionale”, soprattutto nel passo in cui si tratteggiano le caratteristiche della gioventù. Lo Stagirita afferma, infatti, che “i giovani… sono inclini ai desideri, e portati a fare ciò che desiderano. Tra i desideri fisici, sono inclini a seguire soprattutto quello sessuale (tà afrodìsia)”[56]. Un’altra caratteristica della gioventù è quella di fidarsi troppo, per mancanza di esperienza, e di essere conseguentemente portati ad essere ingannati: il filosofo afferma che “si lasciano ingannare facilmente (euexapàtetoi eisì) per il motivo che … sono pronti a sperare (elpìzousi)”[57]. Nella giovinezza vediamo uniti due elementi che Aristotele aveva citato anche parlando del rapporto sogni-passioni: l’inclinazione ad amare e la propensione ad essere ingannati. Ma, mentre nello scritto Sui sogni[58] esiste una connessione causale tra le due cose, dal momento che chi ama si inganna perché vede ovunque la figura della persona dell’amata, in questo passo tale successione non viene espressa esplicitamente. Si dice, appunto, che i giovani amano molto e che si sbagliano altrettanto, ma non è chiaro se esista un rapporto di interdipendenza tra i due fattori, o se si tratti di una mera coincidenza. È, comunque, estremamente importante il nesso che lega inganno e speranza: l’elpìs[59] è proiettata nel futuro, e permette di associare la passione amorosa all’ira, anch’essa implicante la “speranza di vendicarsi”. Entrambe le passioni coinvolgono l’immaginazione, che viene utilizzata per fornire immagini generatrici di piacere. Non a caso, anche parlando dell’ira Aristotele accenna all’amore, quasi a evidenziare la somiglianza tra le due passioni: “chi è ammalato, chi è povero, chi combatte, chi è innamorato (eròntes),… chi, in sintesi, ha un desiderio e non può soddisfarlo, è portato all’ira ed è eccitabile”[60]. In questo brano, il riferimento al desiderio, e quindi al piacere, che, se frustrato, si trasforma in dolore, ribadisce la facilità con cui questi opposti possono trascolorare l’uno nell’altro: del resto, come si diceva a proposito dei sogni, l’immaginazione crea fantasmi simili a figure riflesse sulle acque, dai contorni cangianti, instabili quanto le reazioni che possono ingenerare. Sembra anche significativo il fatto che, nel passo citato, vengano citate le stesse categorie che, nel De insomniis, erano considerate soggette ad ingannarsi: gli iracondi, gli innamorati, gli ammalati (là si parlava di febbricitanti) e coloro che sono in battaglia. Il contesto bellico è determinante per l’ultima passione che accomuna le due opere, che è la paura; c’è però una differenza, perché, nello scritto sui sogni, Aristotele associava guerra e paura, mentre nella Retorica il rapporto è tra guerra e ira.
Nella definizione della paura si possono trovare elementi importanti: “il timore (phòbos) può essere definito come una forma di sofferenza (lype) o uno sconvolgimento che deriva dall’ immaginazione (phantasìa) di un male imminente che causa rovina o dolore”[61]. Anche in questo caso, la passione dipende da una phantasìa e, di conseguenza, non siamo così lontani dalla prospettiva del trattato Sui sogni. In quell’opera, il timoroso si immaginava l’arrivo dei nemici sopravvalutando qualche minima somiglianza, in questo caso, invece, siamo di fronte ad una prospettiva più generale: chi ha paura si basa su un’immagine di sventure imminenti. Anche se Aristotele non menziona esplicitamente l’inganno, è comunque molto sottile nel far notare che, per fare insorgere la paura, non è indispensabile che la minaccia abbia un’esistenza reale: “hanno timore gli uomini che pensano di poter subire qualcosa, sia delle persone dalle quali si attendono ciò, sia di determinate cose, sia di certe circostanze”[62] e “sarà necessariamente temibile tutto ciò che sembri possedere un grande potere di distruggere”[63]. Il campo della paura è principalmente psicologico e soggettivo, e la sua corrispondenza con la realtà può anche limitarsi ad una “piccola somiglianza”[64]: è questo il motivo per cui non a tutti fanno paura le stesse cose, e il compito dell’oratore è proprio quello di stabilire, in ciascun caso, quali sono gli argomenti su cui fare leva. Dunque, se la paura dipende dall’immaginazione, anche in questo caso è facile vedere una corrispondenza con il sogno e anche con l’inganno, perché in entrambi i casi non c’è un coinvolgimento diretto della sensibilità, quanto piuttosto una rielaborazione psicologica della medesima che può anche essere sbagliata. Ma ancora una volta Aristotele preferisce non pronunciarsi al riguardo, limitandosi a sottolineare la connessione tra paura e dolore: mentre l’ira è un sentimento misto di piacere e dolore, nel caso della paura si ha una connotazione esclusivamente negativa. Anche qui, inoltre, come nel caso dell’ira, viene fatto riferimento alla speranza: “per provare timore è necessario che, nella loro situazione di angoscia, rimanga una qualche speranza di salvezza (tina elpìda)”[65]. La speranza, introducendo un’aspettativa di piacere, acuisce la paura: chi non ha nulla da perdere non ha timore, perché è indifferente verso il futuro. Se, invece, ci si aspetta qualche cosa di positivo dal futuro, la paura nasce dal pensiero di perderlo o di non vederlo realizzato. Dunque, l’oratore, dosando abilmente questi ingredienti, è anche in grado di ingannare, di suscitare una sensazione di pericolo anche dove non ce ne sarebbe motivo. L’importante, però, è che crei immagini dinamiche nell’anima dell’uditorio, perché non basta che il pericolo sia grande, ma deve anche essere imminente e minaccioso, in modo da ingenerare scompiglio e agitazione.
In conclusione, viene spontaneo domandarsi per quale motivo, nella Retorica, Aristotele non parli mai espressamente di inganni, anche se fa riferimento ai sogni nel trattare le passioni. A mio giudizio, si può rendere ragione di tale scelta se si tiene conto che, parlando di retorica, lo Stagirita mantiene un atteggiamento debole, disimpegnato, privo di pretese scientifiche. Usando in modo un po’ originale una metafora platonica, si potrebbe dire che sceglie di restare all’interno della caverna, a prendere nota delle varie opinioni che gli abitanti si scambiano a proposito delle ombre proiettate sui muri, senza pretendere di emendarle e senza scomporsi a causa dell’insipienza degli astanti. Aristotele mantiene una disposizione bonaria verso le passioni, e non le dipinge mai, almeno in quest’opera, come qualche cosa di bestiale o troppo sconveniente, sono al massimo vizi, ma non peccati. Così facendo, però, vengono sospese, almeno per quel momento, tutte le considerazioni fatte in sede teoretica e morale, dotate di ben altro rigore. Il filosofo, per poter fornire una descrizione utile all’oratore, che molto spesso ha a che fare con il volgo più che con i sapienti, è costretto a rinunciare alla prescrizione di norme per l’agire morale. In questo senso, l’epistème fa spazio alla dòxa, e il sempre cede il posto al per lo più, e il verosimile, non il vero, costituisce l’obiettivo principale. Se le cose stanno così, non è più così importante marcare un confine netto tra dove finisce la realtà e dove comincia l’illusione: l’oratore può e deve muoversi disinvoltamente tra i due ambiti, cercando di operare una sintesi che garantisca immagini non importa se irreali o reali, purchè convincenti. Tale impostazione, però, è del tutto estranea al De insomniis, che, essendo uno scritto di filosofia naturale, rimane fedele ai canoni dell’epistème, secondo i quali è importante il discrimine tra il vero e il falso, che costituiscono uno dei quattro modi in cui si può parlare dell’essere. Forse, potrebbe essere questo il motivo per cui nel De insomniis si parla di sogni e passioni ingannevoli, mentre nella Retorica si parla solamente di sogni e passioni in quanto apportatori di piacere: del resto, già Platone, nel Gorgia, diceva che l’arte retorica è più simile alla cucina che alla medicina, in quanto è più atta a solleticare piacevolmente l’anima che a fornirle delle cure. Aristotele, pur elevando la retorica rispetto al ruolo attribuitole da questo dialogo platonico, tende comunque ad escluderla da una indagine seria sul reale, e ad assegnarle, come campo di competenza, le passioni, in cui verità e inganno si confondono, rendendo inutile parlare di illusione. All’oratore non interessa statuto ontologico delle immagini da lui stesso create, quanto, piuttosto, gli stati passionali in quanto tali.
Pur tenendo presente questa differenza fondamentale, le due opere sono accomunate da almeno due caratteristiche. In primo luogo, sia per l’oratore che per chi si occupa di sogni, sono fondamentali i semeia, i segni. Essi vengono impiegati per costruire gli entimemi oppure i sillogismi (in questo caso sono necessari e pertanto assumono il nome di “prove”), sono gli elementi primi da cui si parte per argomentare[66]. Ma anche i sogni possono costituire dei segni, in quanto permettono di inferire il possibile insorgere di una malattia nel corpo di chi sta sognando: “essendo gli inizi di tutte le cose piccole, è chiaro che lo sono anche quelli delle malattie e delle altre affezioni che stanno per avere luogo nei corpi. È quindi chiaro che tali cose diventano necessariamente trasparenti negli stati di sonno più che durante la veglia”[67]. Questa caratteristica è estremamente utile per i medici, ma non priva di interesse filosofico, in quanto ribadisce l’assunto aristotelico per cui, nella fase onirica, ciò che è piccolo diventa grande, e dunque suscettibile di essere interpretato più agevolmente. Ma, per Aristotele, non si può andare oltre nel conferire ai sogni un valore significativo: se è vero che possono servire a diagnosticare preventivamente malattie corporee, in nessun caso possono essere considerati segni di eventi che accadranno in futuro. Se si sogna di qualcuno che poi si incontra realmente il giorno dopo, non si deve considerare il sogno un segno (semeion) di ciò, ma semplicemente una coincidenza (symptoma)[68]. Da ciò dipende anche il fatto che spesso i sogni non si realizzano, perché “le coincidenze non hanno luogo né sempre né per lo più”[69]. Dunque, gli interpreti di sogni non dispongono di segni necessari per la loro arte, allo stesso modo in cui l’oratore non usa sempre “prove” per costruire i suoi discorsi. L’interprete è più simile a un disegnatore, che, partendo da minimi elementi di somiglianza, riesce a ricostruire immagini di uomini, cavalli…[70]. Anche al retore, mutatis mutandis, si potrebbe conferire un analogo titolo di disegnatore, capace di armonizzare i segni in un discorso di senso compiuto e dotato di veemenza persuasiva.
Un secondo punto di vicinanza tra le due opere è costituito dalla considerazione delle passioni come stati mentali perturbati. Non importa se nel De insomniis esse siano considerate foriere di illusioni percettive, mentre nella Retorica portatrici di piacere e/o dolore, perché, in ogni caso, le passioni costituiscono una messa in mora della correttezza di giudizio. Lo scritto sui sogni si limita a questo, a sottolineare la potenzialità destabilizzante della passione, mentre la Retorica contiene un passo ulteriore, ovvero il modo di incanalare questa potenzialità al fine di alterare il giudizio nella direzione voluta dall’oratore.
[1] Cfr. Aristotele, I sogni, 460 b 1-26 in L. Repici (a cura di), Aristotele. Il sonno e i sogni, Venezia, Marsilio, 2003.
[2] Ivi, 462 a 29-31.
[3] Ivi, 459 a 8-9.
[4] Ivi, 458 b 10-15.
[5] Aristotele, Il sonno e la veglia, 453 b 27-30 in L. Repici (a cura di), Aristotele. Il sonno e i sogni, Venezia, Marsilio, 2003.
[6] Ivi, 456 b 12-20.
[7] Ibidem.
[8] Ivi, 458 b 8.
[9] Ivi, 459 a 21-22.
[10] Aristotele, De anima, a cura di G. Movia, Milano, Bompiani, 2001, III, 428 a 2
[11] D. Frede, La funzione conoscitiva della <<phantasia>> in Aristotele, 1992, in G. Cambiano, L. Repici, Aristotele e la conoscenza, Milano, LED, 1998, p. 92 nota 2.
[12] Cfr. E. Berti (a cura di), Guida ad Aristotele, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 163.
[13] D. Frede, cit., p. 95.
[14] M. Schofield, Aristotle on imagination (1979), in G. E. R. Lloyd e G. E. L. Owen (a cura di) Aristotle on mind and senses, Cambridge, 1978, p. 101. Mia la traduzione dall’inglese.
[15] Ibidem.
[16] Ibidem.
[17] D. Frede, cit., p. 106..
[18] Ivi, p. 107.
[19] Aristotele, I sogni, 459 b 4.
[20] Ivi, 459 a 26-34.
[21] Ivi, 460 a 2-3.
[22] L. Repici, Introduzione a Aristotele. Il sonno e i sogni, op. cit., p. 33.
[23] Omero, Odissea, a cura di E. Cetrangolo, Milano, BUR, 1997, XIX, 535
[24] Aristotele, La divinazione durante il sonno, in L. Repici (a cura di), Aristotele. Il sonno e i sogni, op. cit., II; 464 a 17-20. In ogni caso, i movimenti di cui si parla non sono gli stessi che intendeva Democrito: il filosofo di Abdera parlava di un trasferimento fisico di effluvi dal percepito al percipiente, mentre per Aristotele non è necessario che avvenga un passaggio di materia, è sufficiente che si trasportino dei movimenti, delle affezioni.
[25] Ibidem.
[26] Aristotele, I sogni, 460 b 2-5.
[27] L. Repici, Introduzione ad Aristotele. Il sonno e i sogni, cit., p. 64.
[28] Aristotele, I sogni, 460 b 5-9.
[29] Aristotele, La divinazione durante il sonno, 464 b 8-9.
[30] Cfr. Aristotele, I sogni, 461 a 8-10.
[31] Ivi, 460 b 8-11.
[32] Stoici antichi, Tutti i frammenti, a cura di R. Radice, Milano, Bompiani, 2002, SVF III, fr. 468.
[33] Ivi, SVF III, fr. 536.
[34] Aristotele, I sogni, 461 b 11-13.
[35] Cfr. Ivi,
461 b 13-16.
[36] Ivi, 461 b 16-18.
[37] Ivi, 460 b 18-20.
[38] Aristotele, L’anima, III, 328 b 3-5.
[39] Aristotele, I sogni, 460 b 20-23.
[40] Ivi, 461 b 32.
[41] Ivi, 460 b 20-28.
[42] Cfr. Aristotele, Retorica, a cura di M. Dorati, Milano, Mondatori, 1996, II,18-19.
[43] Ibidem.
[44] L. Repici, Introduzione a Aristotele. Il sonno e i sogni, cit., p. 65. Corsivo dell’autrice.
[45] Aristotele, Retorica, I, 1, 1355 a 35-39.
[46] Ivi, I, 1, 1355 a 21-22.
[47] Ivi, I, 1, 1355 a 15-18.
[48] Ivi, I, 1, 1355 b 5-10.
[49] Ivi, II, 1, 1378 a 20-25. Mi servo qui della traduzione della Prof.ssa Repici fornita a lezione.
[50]
Ivi, II, 1, 1378 a 31-35 e 1378 b
1-10. Anche in questo caso ho emendato la versione di Dorati con quella di
Repici.
[51] Ivi, II, 2, 1380 a 1-5.
[52] Ivi, II, 2, 1379 a 10-11.
[53] Ivi, I, 11, 1370 a 27-35.
[54] Ivi, II, 2, 1378 b 8-10.
[55] Cfr., oltre ai due verbi già citati, agapào, stèrgo…
[56] Aristotele, Retorica, II, 12, 1389 a 2-6.
[57] Ivi, II, 12, 1389 25-26.
[58] Cfr. nota 38.
[59] Mi pare interessante rilevare che la speranza dipende dal fatto che i giovani “credono tutti gli uomini onesti e migliori di quanto non siano”(Ivi, II, 2, 1389 b 7-8). Così facendo, Aristotele stempera l’ottimismo con cui, nel primo libro, aveva affermato che tutti gli uomini hanno una naturale disposizione al cogliere la verità (cfr. nota 35). Più oltre, con una certa dose di pessimismo antropologico (o realismo, a seconda dei punti di vista), giunge ad affermare che “gli uomini sono per la maggior parte cattivi piuttosto che buoni” (Ivi, II, 5, 1382 b 5). Unendo le due affermazioni, si può dire che gli uomini sono, sì, in grado di scorgere la verità, ma sono altrettanto pronti a commettere ingiustizia non appena se ne presenti l’occasione: quasi un’anticipazione del celebre motto oraziano “video meliora proboque sed deteriora sequor”. In ogni caso, nel corso della Retorica il filosofo non assume mai toni arcignamente moralistici, ma si limita a descrivere i difetti umani con una certa accondiscendenza.
[60] Aristotele, Retorica, II, 2, 1379 a 15-18.
[61] Ivi, II, 5, 1382 a 22-23. Ho emendato la traduzione di Dorati, che rendeva phantasia con “prefigurazione”.
[62] Ivi, II, 5, 1382 b 33-35. Mio il corsivo.
[63] Ivi, II, 5, 1382 a 27-30. Mio il corsivo.
[64] Cfr. nota 17.
[65] Ivi, II, 5, 1383 a 5-7.
[66] Cfr. Aristotele, Retorica, Cit. I, 1357 b 1-10.
[67] Aristotele, La divinazione durante il sonno, cit., 463 a 17-20.
[68] Ivi, 463 b 1-11.
[69] Ibidem.
[70] Ivi, 464 b 10-15.