Fenomenologia
della musica
Invito all’interpretazione metafisica
dell’Inno alla Gioia di L. van Beethoven
di A. Salvato
Questo breve scritto ha in animo di dare al
lettore uno spunto per l’interpretazione metafisica dell’Inno alla Gioia di L.
van Beethoven, sulla base di un’analisi della composizione, con riferimento
alla Nona Sinfonia, e sulle orme del pensiero esposto da G. W. F. Hegel nella
Fenomenologia dello Spirito (particolare riferimento al concetto di proposizione speculativa). Tutta
l’analisi, si svolgerà a partire da alcune riflessioni di Th. W. Adorno, citate
quando opportuno.
Nel 1824 Beethoven, ormai sordo, ultimò la
stesura della Sinfonia n.9 in Re minore, op.125, “Corale”. Quest’opera
magistrale sarà apprezzata dai più grandi compositori e musicisti di sempre,
uno su tutti G. Mahler, e con essi dall’umanità tutta. La Sinfonia, in quattro
movimenti, si conclude con un’Ode e successiva fuga, costruite sul testo di “An
die Freude” di F. Schiller. L’analisi dell’intera Sinfonia non si addice a
questa sede, dove ci si limiterà ad analizzarne il quarto movimento, con
riferimento particolare all’Inno del quale sopra. Sarà tuttavia indispensabile
tenere presente il fatto che il tema dell’Inno alla Gioia non appare solamente
nel movimento del quale si tratterà, ma si ripropone, anche solo come “idea”,
durante tutti i movimenti precedenti, pur senza giungere a realizzazione.
In primo luogo, trattasi di fare una semplice
precisazione riguardo le composizioni di Beethoven: la differenza esistente tra
esse e la musica popolare. Dove la seconda si basa sull’immediatezza (nel senso
di “mancanza di mediazione”), le prime si basano sul ragionamento, l’analisi,
il pensiero. Certo Beethoven non si aspettava che le sue opere venissero
semplicemente ascoltate, e che il lavoro dell’uditore terminasse con il
silenzio degli esecutori, come vuolsi per la musica popolare, volta al mero
scopo d’intrattenere. Al contrario, per comprendere appieno un’opera delle
portata, e.g.: della Nona Sinfonia, è necessario ascoltarla molte volte e a
fondo, analizzandone i temi, le dinamiche, le melodie, et c. Nondimeno, è
indispensabile sottoporsi all’ascolto di varie esecuzioni, in quanto una sola
potrebbe non rendere giustizia al vero intento dell’opera, e non permettere
all’ascoltatore un giudizio sufficientemente approfondito. La consistenza
dell’opera si estende ben oltre il piano fisico dell’udito, ovvero del piacere
generato nell’ascoltatore: essa sconfina nell’ambito metafisico, e può
esprimere con il medesimo rigore logico d’un ottimo trattato la necessità della
trascendenza e le dinamiche di quest’ultima.
Dunque, la musica di Beethoven necessita
d’essere mediata, interpretata. In ultima analisi, essa necessita d’essere
compresa. Ora, è possibile procedere all’analisi. Il tema dell’Inno alla Gioia,
come evidenziato, s’intravede come traccia già all’inizio della Sinfonia. Non
potendosi definire essa traccia “tema”, sarà detta idea tematica. L’idea
tematica dunque si esprime più volte, nei quasi 60 minuti che precedono la sua
vera realizzazione. In questo tempo, essa cambia forma, si modella, si muove,
si rigenera. Dà ad intendere d’esser tema, per poi subito smentirsi, per far
comprendere all’ascoltatore che ancora qualcosa ha da compiersi, che non è
possibile saltare alle conclusioni. Ciononostante, nessun buon ascoltatore
negherebbe di riconoscere abbondantemente le caratteristiche di un tema, in
quest’idea che ancora va esprimendosi. Ed è questo il momento nel quale entra
in gioco la sopra nominata Fenomenologia dello Spirito. Hegel propone, nella
prefazione alla sua monumentale opera, la teoria della proposizione
speculativa. In breve, e a scapito purtroppo della precisione, la teoria verrà
ora esposta. Per i motivi espressi nell’intera prefazione, la comune
proposizione che sottostà a delle regole grammaticali ben precise (in
particolare quelle della necessità di soggetto e oggetto) non è sufficiente a
descrivere correttamente un pensiero filosofico, quantomeno non nell’ottica
hegeliana di una filosofia come scienza. In somma: “Dio è l’essere”,
rispettando l’esempio del filosofo tedesco, non è una buona frase. “Nella
proposizione: ‘Dio è l’essere’, predicato è l’essere, ed ha un significato sostanziale, nel quale il soggetto si
scioglie”[1].
Subito dopo Hegel precisa che attribuire all’essere il ruolo di predicato non è corretto. Infatti, l’essere come predicato si esaurirebbe nel
suo essere predicato, e ciò non renderebbe giustizia della verità della frase.
Dio sembrerebbe infatti cessare d’essere ciò che inizialmente è (ovvero Dio,
soggetto), per diventare essere, cioè
predicato. Il soggetto sfuma dunque nell’oggetto, e qui il pensiero si trova
nell’oggetto ad essere rinviato al soggetto. In questo modo esso vacilla,
subisce il contraccolpo, ovvero:
s’accorge che con la comune proposizione viene espresso tutt’altro rispetto a
ciò che esso intendeva esprimere. Questo problema è dovuto ai limiti della
grammatica di soggetto e oggetto. Da ciò, si deduce la necessità della
proposizione speculativa. Semplificando il concetto, si può comodamente dire
che la proposizione speculativa è quella proposizione che descrive il movimento
effettualmente speculativo, portando al proprio interno il “tornare in sé”
dell’oggetto[2]
che non trova posto nella comune proposizione. Senza troppo togliere all’argomento
di Hegel si può dire che la proposizione speculativa deve esprimere la
proposizione originaria (“Dio è l’essere”), e allo stesso tempo rendere atto
del movimento di negatività che causa l’uscire del soggetto, il suo entrare
nell’oggetto, e il suo tornare soggetto. In sostanza, si vengono ad eliminare i
ruoli precedentemente occupati da soggetto e oggetto, a favore di un unico
totalizzante movimento che esprime l’interezza del ragionamento. Questa, è la
proposizione speculativa, in quanto “solo l’enunciazione del movimento medesimo
è rappresentazione speculativa”[3].
Risulta chiaro d’altronde, che la comune grammatica del linguaggio – e, sulla
scorta del pensiero successivo di Wittgenstein: il linguaggio in generale – non
è in grado di esprimere la proposizione speculativa, che può anche essere
chiamata proposizione filosofica. Il
problema sta nel fatto che ci è impossibile dare nozione di contemporaneità e
di movimento tra soggetto ed oggetto. Questo problema viene risolto, in musica,
dal principio del contrappunto. Sul
significato del termine contrappunto, in questa sede trattasi d’interrogare la
voce per noi più autorevole, ossia Beethoven stesso: “questa parola significa
punto contra punto, poiché i nostri maggiori scrivevano la musica con punti a vece
delle note […]: così punto contro punto, nota contro nota, punctum contra punctum, nota
contra notam”[4].
L’arte di combinare due linee melodiche, rendendole allo stesso tempo una,
contrapponendole dunque nel medesimo istante l’una all’altra: l’arte di creare
una dialettica interna alla musica. A riguardo, posso permettermi il
riferimento ad un magnifico, pur poco conosciuto trattato “della Moderna
Musica” di Francesc’Antonio Vallotti (1697 – 1780), nel quale si può leggere
quanto segue: “fra i tanti modi di introdurre varietà nel contrappunto, il
primo e principale si è quello del vario movimento delle parti”[5].
È perciò chiaro che la componente fondamentale del contrappunto è la varietà, e
che essa è data dal movimento interno delle parti della composizione.
Successivamente, Vallotti definisce il contrappunto doppio in questo modo: “il
contrappunto doppio è un artificioso componimento fatto in guisa tale, che le
parti siano tutte tra di loro convertibili: così che la parte acuta possa
diventar grave e la grave acuta”[6].
Questa definizione sembra esattamente ricalcare ciò che abbiamo cercato invano
di esprimere con la grammatica del linguaggio, ovvero l’intercambiabilità di
soggetto ed oggetto (in questo caso: parte acuta e parte grave) all’interno
della medesima proposizione, per generare la “nuova e varia armonia”[7],
che appare proprio essere la nostra proposizione speculativa. Sempre sul
contrappunto doppio, vale la pena soffermarsi sulla definizione fornita da
Beethoven: “il contrappunto doppio ha preso il suo nome da ciò, che ciascuna
parte può presentarsi sotto due forme, cioè come parte superiore e come parte
inferiore”[8],
e ancora “nel contrappunto doppio […] il rivolto delle parti dà origine ad una
nuova armonia”[9].
In modo meno esplicito di Vallotti, principalmente poiché la trattazione di
Beethoven verte più sul lato teorico che sul lato “narrativo”, anche
quest’ultimo riprende il concetto d’intercambiabilità tra parti nel
contrappunto, aggiungendo in modo assolutamente analogo che proprio il
contrappunto genera una nuova armonia. Come indicazione per un approfondimento,
si può osservare come i tre moti di successione degli intervalli (ossia: moto
retto, contrario, obliquo) indicati da Beethoven[10],
moti i quali “giova […] impiegare alternativamente”[11],
per conferire maggiore movimento alla composizione, siano strettamente
paragonabili al moto generato dal negativo[12]
hegeliano.
Dopo questa doverosa escursione sul terreno del
pensiero hegeliano, e la piccola parentesi sul contrappunto, è possibile
ritornare all’ambito precedente, ed evidenziare lo stretto legame che connette
la proposizione speculativa con la Nona Sinfonia. Non è soltanto il
contrappunto, infatti, il momento di contatto tra la filosofia hegeliana e la
musica di Beethoven.
Per chi ha ben presente il movimento, in termini hegeliani, del tema dell’Inno alla Gioia
durante tutta la Sinfonia, non è difficile osservare in esso le stesse
dinamiche che caratterizzano il movimento
tra soggetto ed oggetto. Il primo può essere paragonato all’idea tematica, così
come il secondo può essere paragonato al tema. Qui sorge d’altronde spontanea
l’osservazione, che il tema avrebbe ogni ragione d’esser soggetto piuttosto che
oggetto, ma allo stesso modo non si può negare che l’idea tematica svolga il
ruolo di soggetto. Ecco il motivo per il quale si rimanda alla proposizione
speculativa: l’idea tematica nel suo compiersi è soggetto del suo stesso
movimento; intanto, essa si realizza, entrando dunque nel momento nel quale è
tema, ovvero soggetto. Così, il soggetto è entrato nell’oggetto, il quale a sua
volta è diventato soggetto. “Il tema dello sviluppo è lo spirito, cioè il
riconoscere sé stesso nell’altro. L’altro
[…] viene quasi lasciato a sé stesso, osservato, si muove in sé”[13].
Dunque il c.d.: “tema dello sviluppo”, che noi chiamiamo semplicemente tema,
deve compiere l’atto di riconoscere sé stesso nell’altro da sé. Ciò significa
che, mentre l’idea tematica viene lasciata a sé stessa, lasciata libera di
muoversi e di esprimersi, il tema – che ancora non è stato chiamato in causa –
è costretto a riconoscersi in questa idea tematica, poiché innegabilmente essa
lo esprime, seppur non ancora in modo identico. Identità che sarà raggiunta con
il totale sviluppo dell’idea tematica, nell’atto di puro trascendere che la connetterà indissolubilmente al tema. Lo
sviluppo appena nominato merita certamente di essere collegato al sostantivo
“Entwicklung”, che nella lingua tedesca indica con maggior rigore il vero
significato che al termine sviluppo è necessario attribuire.
È stata così affermata l’analogia tra la
proposizione speculativa e il movimento del tema all’interno della Nona
Sinfonia. Si può dunque dire che idea tematica e tema subiscono esattamente lo
stesso destino di soggetto e oggetto: vengono identificati ed unificati nel concetto. “Io pongo dunque nell’automovimento del concetto ciò mediante
cui la scienza esiste”[14],
scrive ancora Hegel. Certo non si vuol giungere alla conclusione che la musica
debba diventare scienza, ma si vuole far leva sull’automovimento del concetto.
Quella che sta per essere enunciata potrà apparire come una forzatura, e forse
lo è in parte. Tuttavia, le argomentazioni a riguardo non mancano.
È necessario notare come nella musica,
nonostante l’intera opera d’un musicista sia null’altro che il frutto della sua
invenzione, qualcosa non possa essere del tutto controllato dalla creatività
dello stesso. Con questo, ci si riferisce a quello che chiameremo concetto tematico, come da esito della
precedente disamina. Il concetto tematico nasce dalla pura invenzione
dell’autore, è libero, e può essere composto in qualunque modo. Però, la sua
libertà termina nel momento nel quale inizia (si eviti il riferimento alle
avanguardie musicali del Novecento, nelle quali lo sconvolgimento d’ogni legge
rende impossibile tale analisi: il riferimento è alla musica ottocentesca, e
specificamente a quella di Beethoven). Infatti, il suo stesso statuto di
concetto tematico, implica la necessità del movimento, il quale si può
liberamente definire automovimento,
secondo la terminologia hegeliana, poiché esso si genera da sé. Non è fuori
luogo, in quest’ambito, citare Royce: “[…] quando il matematico ha costruito un
tal concetto di qualche regno di oggetti ideali, può sorgere l’ultima questione
se, entro questo regno, possa trovarsi o no un oggetto […] E questa questione è
tale che il rispondervi non è affatto per
il matematico oggetto di una scelta
arbitraria”[15].
L’ambito matematico non è in questo caso molto distante da quello musicale e
filosofico. Per il matematico, il quale ha – ammettiamo “arbitrariamente” –
generato un regno di oggetti ideali matematici, le implicazioni che essi hanno
con la realtà rendono necessaria,
ovvero impossibilitata ad essere altrimenti, la risposta riguardo la
possibilità d’includere un determinato elemento in questo mondo. Quindi, il
controllo sul mondo creato sfugge di mano, poiché è costretto a sottostare alle
regole che esso stesso si è imposto. Così, il concetto tematico che è stato
arbitrariamente creato, è costretto a sottostare alle regole che si è imposto,
nel suo stesso essere tematico, ovvero le regole dello sviluppo, dell’automovimento. “Evidentemente esiste un
nesso proprio tra la parte effettivamente ‘vincolante’, integrante della forma
e quella sua parte assolutamente non vincolante, che improvvisa come una
fantasia”[16],
ovvero la forma impone necessariamente ed in modo vincolante una determinata realizzazione di un’idea, anche se essa
è stata creata arbitrariamente, in situazione non vincolante. Questo vincolante
è indice della fondamentale necessità di trascendere presente nella minima
parte del quarto movimento della Nona Sinfonia[17] che
ci accingiamo ad analizzare.
Si faccia ora riferimento alla pagina 39 della partitura, ed in
particolare alla parte del corno in Re. In queste battute, certo non spreca
note: esegue solamente un bicordo di ottava (mi-mi8va), che nella sua
semplicità racchiude il nocciolo fondamentale dell’interpretazione che si sta
fornendo di quest’opera. “Sembra che in Beethoven gli intervalli con estensione maggiore dell’ottava compaiano
essenzialmente solo nell’ultima fase, e per la precisione sempre solo nel senso
dell’eccessiva tensione del principio soggettivo, che pone, in un’oggettività
che può essere generata solo dal principio
che trascende sé stesso”[18],
scrive ancora Adorno. Possiamo dunque notare come l’intervallo di ottava
eseguito dal corno in Re sia una sorta di ammissione di mancata trascendenza.
L’ottava infatti è un intervallo che punta al proprio superamento, ma non lo
completa: nonostante la nota cambi, essa rimane sempre la medesima, non và
oltre la propria origine (come invece negli altri intervalli e.g.: di nona,
decima, undicesima – ai quali si dedicherà analisi successiva), non cambia nome. Questo corno è inserito esattamente prima
dell’Inno alla Gioia, che come abbiamo precedentemente spiegato indica il
momento della totale trascendenza, del necessario superamento. Indispensabile
ai fini dell’analisi è l’ascolto, poiché in questo momento la sola lettura
della partitura non è sufficiente: un buon ascoltatore sente, sia con l’udito che con l’animo, la tensione fortissima che
viene espressa in questo momento, in queste pochissime battute che precedono
l’Inno alla Gioia. Risuonano timidi oboe e fagotto, quando tentano di esprimere
per l’ultima volta l’idea tematica, prima che essa volga definitivamente al
puro e trascendente concetto tematico. Risuonano timidi, piano, pianissimo,
poiché sono bloccati dall’inesorabile profondità del corno in Re. Possiamo
dunque impostare una dialettica di questo tipo: oboe e fagotto rappresentano la
necessità pura e vincolante della
trascendenza, l’ultimo passo che si sta svolgendo, verso il superamento
definitivo dell’idea tematica; il corno in Re rappresenta il legame finito,
puramente immanente, il negativo – ossia ciò che tenta di bloccare il movimento
che si sta generando, aiutandolo al tempo stesso a prendere forma. Ecco allora
che non è casuale il fatto che il corno esegua note all’intervallo di ottava, e
sempre le medesime: ciò è indice evidente del fatto che esso simboleggia
l’ultima guardia del legame con l’immanenza. La lotta tra immanenza e
trascendenza, l’ultima contrapposizione tra soggetto e oggetto si fa in questo
momento serratissima, e si tratta della stessa lotta, guerra, pólemos,
che secondo Eraclito è “padre di tutte le cose”[19]. E
in questo momento la tensione cresce, allo stesso modo nel quale si fa evidente
il motivo del vincolante che
precedentemente era stato nominato: senza vincolo, non si darebbe necessità, e
senza la stretta necessità che qui si evidenzia, non si darebbe la possibilità
di superare quel vincolo, di trascendere. È necessario un atto di forza,
indispensabile mettere in discussione tutto ciò che era stato precedentemente
nella sinfonia, per giungere appunto ad oltrepassare il vincolante.
Tornando al corno in Re che blocca il
trascendere, si osserva come la guerra si faccia sempre più serrata, un po’
alla volta oboe e fagotto guadagnano maggiore spazio, a sfavore del corno il
quale si fa sempre più debole, per scomparire totalmente nel passaggio (pagina 40) al vero e proprio Inno alla
Gioia. Nella battuta immediatamente precedente all’ingresso del coro, si nota
un potentissimo crescendo (sia in termini di altezza delle note, sia nello
specifico del crescendo d’intensità) che culmina nel fortissimo che dà inizio all’Inno. Così, l’atto del trascendere ha
luogo, così il tema – idea tematica diventa il concetto tematico. Ora gli
intervalli si liberano, l’orchestrazione dimostra tutta la sua inesorabile
potenza, la foga incontrollabile dettata dal successo: questa è la prima
realizzazione della proposizione speculativa, nella forma contrappuntistica
della Nona Sinfonia. Non senza una certa ironia, l’atto di forza del soggetto
viene rappresentato dal fortissimo, e
certo non è fuori luogo ricordare l’aneddoto, storicamente documentato, secondo
il quale il direttore d’orchestra Arturo Toscanini a volte, preso dalla
magnificenza e dall’intensità dello specifico momento sinfonico che è oggetto
della nostra analisi, si lasciava andare in un potente grido rivolto al coro e
all’orchestra tutta, proprio all’inizio dell’Inno alla Gioia. Nel compiere il
salto dal lato empirico al lato metafisico, dunque, si verifica anche in certa
misura un salto dalla tensione metafisica alla tensione immanente.
Siamo dunque entrati definitivamente nel momento
del concetto tematico. Ora il vincolante
si è svincolato, e la cifra stilistica predominante è quella della libertà di
movimento. Così, l’intervallo d’ottava del corno in Re, indice di immanenza, si
scioglie dando libertà a tutti gli intervalli disponibili, e particolarmente
all’intervallo di nona. Dall’analisi del Trattato d’Armonia e di Composizione
di Beethoven emerge una particolare considerazione riguardo quest’intervallo,
la seguente: esso viene lasciato “a parte”, rispetto a tutti gli altri
intervalli composti (ovvero superiori all’ottava). Nella parte prima del volume
I, Beethoven si dedica all’analisi dei principali intervalli, analizzando gli
unisoni, le seconde, le terze, e così via fino alle none. Successivamente,
aggiunge un rapido commento come per giustificare il suo esser conciso: “le decime undecime, e tredicesime, considerate quanto al loro effetto, altro non sono che
le ottave della terza, della quarta e della sesta”[20]
(tralasciando il fatto che non vengono nominate le “duodecime”, che però
appaiono nell’esempio della riga successiva). Questi intervalli non sono dunque
meritevoli di particolare analisi, in quanto composti: per essi ci si limita a
segnarli con i numeri dell’intervallo semplice al quale si riferiscono. Eppure
nella precedente analisi degli intervalli semplici, egli ha voluto analizzare
anche gli intervalli di nona. Questo spiega, a nostro avviso, come Beethoven
conferisca un particolare statuto a questi intervalli. Essi non sono ridotti
banalmente ad “ottava della seconda”, come per logica si vorrebbe (e su questo
cfr. un qualunque trattato d’armonia contemporaneo), ma tengono la particolare
denominazione di “none”. Non sembra dunque forzato ritenere che proprio in
quanto indice del superamento dell’ottava, dell’oltre-immanente ovvero
trascendente, la nona debba essere l’esempio portante, e dunque mantenere
carattere di autonomia.
Da quest’ottica di sottolineatura del carattere
trascendente degli intervalli composti e in particolar modo dell’intervallo di
nona, si può procedere con un brevissimo cenno al fugato conclusivo della Nona
Sinfonia: sul concetto tematico del quale ci si è occupati in questa
trattazione, Beethoven costruisce una magistrale Fuga corale, nella quale le
voci si susseguono in un intreccio incredibile. Questa fuga è la seconda
realizzazione della proposizione speculativa all’interno della Nona Sinfonia.
Come si era detto in precedenza, il contrappunto doppio è l’esempio tecnico
specifico della proposizione filosofica – ma si veda dunque dove questo
contrappunto doppio è usato, secondo la teoria musicale: “[…] serve
principalmente nelle fughe in genere, o sieno nelle semplici o di più soggetti
tessute o siano motivi gravi o motivi cantabili e di espressione, comunque
occorra di valersene”[21].
Vallotti specifica dunque che il contrappunto doppio è caratteristico delle
fughe, perciò è indubbio che la fuga finale della Nona sia esempio di
contrappunto doppio. Beethoven dedica un capitolo del suo Trattato all’analisi
della fuga a tre voci, esempio al quale può essere ricondotta la fuga in
questione, dicendo che “sue parti essenziali sono: 1. Il tema, soggetto (o Dux)
2. La risposta (Comes) 3. La ripercussione”[22].
Ecco il motivo per il quale si è voluto dire che la fuga conclusiva costituisce
l’ultima, e anche la più evidente espressione della proposizione speculativa.
Essa ripercorre esattamente i tre momenti costitutivi di quest’ultima, ma li
rende un tutt’uno proprio grazie alla tecnica del contrappunto.
Dall’analisi di questa minima parte della Nona
Sinfonia di Beethoven è emerso come essa possa essere interpretata come pregna
della dialettica hegeliana. A riguardo, si ricordi che Beethoven ed Hegel
vissero più o meno nello stesso periodo di tempo. Non si vuole tuttavia
lasciare ad intendere che la musica beethoveniana può essere liberamente
ricondotta ad una creazione di stampo
hegeliano. Quest’opera fu composta negli ultimi anni della vita del musicista,
quando egli già da molto aveva firmato il proprio testamento. Oltre a
raccontare una storia, come tutte le sinfonie, essa è testimonianza della
storia di un uomo. Come giustamente fa notare Adorno, “in questa musica la
presentazione della totalità come già compiuta divenne insopportabile per il
suo genio critico”[23].
Beethoven ormai non poteva più accettare di mostrare la realtà come già data,
come già fatta. La sinfonia, l’opera musicale in generale doveva esprimere un
cammino di conoscenza e di liberazione. Sempre sull’orma di Adorno, osserviamo
riguardo alla necessità, al vincolante di cui prima, che “nel momento in cui la
soggettività estetica le compare dinnanzi guardandola, essa non si riconcilia
con lei, non è lei stessa. […] l’opera d’arte […] ha qualcosa di resistente, di
contrastante che la filosofia idealistica, per la quale tutto è opera propria,
in verità non conosce”[24].
L’opera d’arte dunque porta con sé il grandissimo peso della realtà: essa,
all’atto pratico, non accetta la conciliante identità nel tutto proposta dalla
filosofia hegeliana, proprio perché “la Nona Sinfonia ha meno fiducia
nell’identità”[25].
Rimane la sostanziale differenza tra opera d’arte e ascoltatore, tra opera
d’arte ed esecutore. L’opera, che hegelianamente non s’esaurisce nel suo fine
ma nella sua attuazione (esecuzione), non s’identifica mai totalmente né con
chi la esegue né con chi l’ascolta. Beethoven sembra rifiutare il momento
dell’identificazione quasi difendendo una sorta di solipsismo. A nostro parere,
Beethoven difende l’irriducibilità dell’alterità come momento costruttivo della
dialettica musicale. In sostanza, l’opera non potrà mai essere “pura”, poiché
essa si carica continuamente d’interpretazioni: l’esecutore dà la propria
sensibilità alla parte che esegue, così come il direttore d’orchestra fornisce
il proprio spunto interpretativo, e a sua volta l’ascoltatore percepisce in
modo differente. L’opera an sich
resta dunque un sottofondo costitutivo ed ineliminabile dell’esecuzione e della
percezione, ed in questo sottofondo si inserisce la possibilità della totale
immedesimazione secondo i termini della filosofia hegeliana. Ma la mediazione
alla quale la musica necessariamente è sottoposta, le impedisce di potersi
identificare con altro che con sé stessa. Non si tratta dunque di fare una
filosofia dell’ascolto, quasi non ci fosse alcuna implicazione metafisica, né
di ritenere che la musica possa essere indipendente dall’ascolto e
dall’esecuzione, ovvero che essa sia una pura entità metafisica. Trattasi
piuttosto di riconoscere l’unità indissolubile tra il piano immanente ed il
piano metafisico, e di basare l’interpretazione su questa relazione. Insomma,
il termine della proposizione speculativa hegeliana, potrebbe essere applicato
ancora una volta, questa volta volendo vedere la musica in sé, l’esecuzione e
l’ascolto come momenti costitutivi, e fare della musica il soggetto e
dell’esecuzione – ascolto il predicato. Ma, com’è facile prevedere,
l’esecuzione e l’ascolto avrebbero tutti i motivi per essere a loro volta
soggetti.
Per concludere, si vuole proporre una minima
bibliografia d’approfondimento. Si consiglia “La musica e l’ineffabile” di V.
Jankélévitch (Bompiani, 2001), riguardo la concezione ametafisica della
filosofia della musica. Monografia fondamentale su Beethoven è inoltre
“Beethoven. La vita, l’opera, il romanzo familiare” di M. Solomon (Marsilio,
2002). Per una breve panoramica sulla filosofia della musica, si veda “Musica”
di E. Matassi (Guida, 2004). Si rimanda inoltre all’ottimo sito web http://beethoven.staatsbibliothek-berlin.de,
nel quale è possibile reperire l’intero manoscritto della Nona Sinfonia.
Per l’ascolto della Nona Sinfonia, si consiglia
come fondamentale l’esecuzione del 1951, W. Furtwängler direttore
dell’orchestra del festival di Bayreuth, nella serie Great Recordings of the
Century, EMI Classics: una delle più belle esecuzioni della Nona Sinfonia che
siano state registrare, con l’unico difetto di essere mono. Sempre in EMI
Classics, ottima l’esecuzione della Wiener Philharmoniker diretta da S. Rattle,
oppure per Deutsche Grammophon l’esecuzione della Berliner Philharmoniker
diretta da F. Fricsay. Ancora per Deutsche Grammophon, su supporto di qualità
superiore SACD, si propone l’ascolto di Berliner Philharmoniker, diretta da H.
von Karajan.
[1] G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, traduzione di E. De Negri, Fabbri
Editori, 2001, Prefazione, IV
[2] “[…] devesi invece
presentare quel tornare in sé
del concetto”, Ibid.
[3] Ibid.
[4] L. van Beethoven, Trattato d’Armonia e di Composizione, A. Forni, 2003
(rist. anast. 1855, Studii di Beethoven,
G. Canti, Milano), Vol. I, Parte Seconda, Capitolo II
[5] P. F. Vallotti, Trattato della Moderna Musica, Tipografia della Prov. Patavina di
S. Antonio dei Frati Min. Conv., Padova, 1950, cap. XXXVI
[6] Ibid., cap. XXXVII
[7] Ibid.
[8] L. van Beethoven, Ibid., Vol. II, Parte Terza,
Capitolo VI
[9] Ibid.
[10] cfr. Ibid., Vol. I, Parte Seconda, Capitolo I
[11] Ibid., Vol. I, Parte Seconda, Capitolo
III
[12] Cfr. G. W. F.
Hegel, Ibid., Prefazione, III
[13] Th. Adorno, Beethoven, Einaudi, 2001
[V, 147]
[14] G. W. F. Hegel, Ibid., Prefazione, IV (corsivo mio)
[15] J. Royce, Il mondo e l’individuo vol.I, Laterza, 1914
[16] Th. Adorno, Ibid. [V, 148]
[17] Per quanto riguarda
l’analisi della
partitura, di difficile reperibilità in buona edizione, si farà riferimento ad un’utilissima partitura
gratuita, disponibile on-line all’indirizzo: http://www.imslp.org/index.php?title=Symphony_No.9_%28Beethoven%2C_Ludwig_van%29 sotto il codice IMSLP #00099. I numeri di pagina e qualunque
altra indicazione faranno dunque riferimento alla suddetta partitura, quarto
movimento
[18] Ibid. (corsivo mio) [IV, 120]
[19] DK, Her. B53
[20] L. van Beethoven, Ibid., Vol. I, Parte Prima,
Capitolo I
[21] P. F. Vallotti, Ibid., Cap. XXXVII (“Del contrappunto
doppio”)
[22] L. van Beethoven, Ibid., Vol. II, Parte Terza, Capitolo III
[23] Th. Adorno, Ibid. [II, 29]
[24] Ibid. [II, 31]
[25] Ibid.