di Andrea Sangiacomo
Prendemmo
a spargere le carte sul tavolo, scoperte, come per imparare a riconoscerle, e
dare loro il giusto valore nei giochi, o il vero significato nella lettura del
destino. Eppure non sembrava che alcuno di noi avesse voglia d’iniziare una
partita, e tanto meno di mettersi a interrogare l’avvenire, dato che d’ogni
avvenire sembravamo svuotati, sospesi in un viaggio né terminato né da
terminare.
(I. Calvino — Il castello dei destini incrociati)
1. Ilio dalle solide mura
All’uomo non è indifferente il luogo dove spende la propria esistenza, abitare è per lui il verbo dal significato più affine a quell’altro verbo, così austero e misterioso, Essere. L’uomo abita, è un abitatore di spazi. Ogni spazio è una campata di cielo e una fuga di sguardi, un’apertura inventata dall’orizzonte suo custode, una volta per tutte o forse ogni volta diversa. Abitare un luogo è imparare a pensare e a pensarsi in rapporto alla geografia del dove, all’ordine dello spazio che lì si dispiega, in relazione alla luce che in quella contrada il giorno conosce. Esser nati tra colli tranquilli, o tra valichi montani, o sulle spiagge del mare senza fine, sono tutte domande diverse che chiedono fin dall’inizio a ciascuno di rispondere con la sua stessa esistenza.
Ma l’uomo non abita solo gli spazi e i luoghi che la natura disegna, anzi, egli, forse, abita soprattutto quegli spazi ideali che sono le parole. E’ infatti nel cerchio del dire che le cose, prendendo la parola, si fanno incontro agli uomini e si lasciano da loro comprendere, si raccontano. Quando si pone la propria esistenza nel luogo del dire, nello spazio della parola, si incontrano le cose in modo diverso, non più come mute e indeterminate cose in sé, chiuse nel mistero del loro silenzio inviolato, ma come cose per me, voci che prendono ad abitare con me la mia esistenza.
Se oggi tanto si parla di “Civiltà Occidentale” è senz’altro perché questi due termini così riuniti danno voce all’esserci di qualcosa. Eppure, nonostante le energie profuse da apologeti e detrattori per condurre guerre più o meno civili, più o meno sante, più o meno armate di buone ragioni o di eserciti, il significato di cosa sia questa “Civiltà Occidentale”, non pare del tutto chiaro. In genere, quando interrogati in proposito, ci si limita ad alludere ai fatti, storici, culturali, politici, sociali ed economici avvenuti in una determinata area geografica, o si tenta, al più, di redigere un decalogo di valori di cui tale civiltà sarebbe portatrice e promotrice.
Dunque, in simili determinazioni, la “Civiltà Occidentale” è pensata essenzialmente come un fatto, cioè come qualcosa che ci si può porre innanzi come un oggetto o a cui ci si può rapportare in qualche modo dall’esterno, come a un altro, amico o nemico che sia. Ciò risulta, tuttavia, insoddisfacente, perché se qualcosa come una “Civiltà Occidentale” esiste, allora questa, prima di tutto, è un’idea, ovvero un luogo del pensiero, uno spazio di parola, in cui si sta dentro: si abita. Essere abitatori dell’Occidente e della sua Civiltà significa concepire l’esistenza a partire dall’idea che apre l’orizzonte in cui tale Civiltà consiste. Se la “Civiltà Occidentale” inizia ad esser concepita come spazio in cui l’esistere si offre in un certo modo, secondo un dato senso, allora si può pensare che tutti i fatti che solitamente si menzionano come sue cifre caratterizzanti non siano altro che le testimonianze della struttura in cui tale spazio trova il suo ordine. Acquista improvviso interesse quell’assonanza che esiste tra la parola “civiltà” e la parola “città”, tra civitas e civilitas: così come la città è il modo in cui l’uomo impara ad abitare un certo luogo fisico, costruendovi gli edifici e le vie della propria esistenza a partire dalle peculiarità intrinseche di questo, così pure la Civiltà è allora, in origine, quell’archetipo ideale stando nel quale edifichiamo per la nostra esistenza un determinato senso.
Andare alla ricerca del significato dell’espressione “Civiltà Occidentale”, nel tentativo di cogliere il “che cosa è”, il senso dell’essere di ciò che queste parole nominano, ebbene, tale ricerca avrà dunque da portare in luce la fisionomia di quello spazio originario nella cui idea tutti i fatti che comunemente si menzionano pongono il loro fondamento, ovvero quella città paradigmatica che sta all’origine dell’Occidente in quanto Civiltà e in cui pertanto abita il significato con cui l’uomo occidentale, il cittadino di questa Civiltà, pensa le parole del proprio esserci. Ma proprio perché ci siamo messi in cerca di una città che è anzi tutto un luogo di parole, sorge spontaneo alla memoria il nome di Ilio dalle solide mura.
Ilio non è un sito archeologico, né una didascalia segnata su un atlante, Ilio, piuttosto, è la città protagonista del poema che abita le origini di ciò che siamo, l’Iliade. Una sorta di miracolo si compie in questa poesia antica di più di tre millenni: proprio qui, ciò che esisteva come semplice fatto viene per la prima volta trasfigurato in Idea, a cui guarda tutto ciò che all’interno di questa pone la dimora della propria esistenza. Ilio è lo sfondo dell’epopea, anzi, delle infinite epopee che nel suo nome intrecciano il loro contrappunto. Eppure, poiché il senso degli eventi narrati si inscrive tutto entro quello determinato da questo sfondo, esso se ne mostra come vero e proprio orizzonte trascendentale.
Una descrizione dei luoghi interni, di cosa o chi sia dentro le solide mura, la incontriamo nel VI canto, quando Ettore lascia il campo di battaglia per rientrare in città:
alle porte Scee Ettore giunse intanto, e alla quercia; e subito gli furono intorno le spose dei Teucri e le figlie chiedendo notizie di figli fratelli parenti e sposi; ma lui le invitata, tutte, a pregare gli dei: su molte di loro la sciagura incombeva. Giunse poi alla splendida reggia di Priamo, dai portici luminosi; vi erano in essa cinquanta stanze di pietra chiara, costruite l’una accanto all’altra: qui dormivano i figli di Priamo accanto alle spose; dall’altra parte, di fronte, vi erano le dodici stanze delle figlie, dodici stanze di pietra chiara con il tetto a terrazza, costruite l’una accanto all’altra: qui dormivano i generi di Priamo accanto alle nobili spose. E come fu giunto alla reggia gli venne incontro la madre dolcissima che stava recandosi da Laodice, la figlia più bella[1].
Ad accogliere Ettore sono donne: le spose dei Teucri, le figlie, sua madre Ecuba, poco dopo sarà la volta di Elena, e infine di sua moglie Andromaca. Chi resta in città? Le donne. Gli uomini sono fuori, alla guerra, le loro mogli, madri e figlie li attendono, nella speranza di vederli tornare. Su Ilio splende la reggia di Priamo, il re amato da Zeus. Perché amato da Zeus? Perché detentore di una sterminata prole d’eroi: cinquanta figli e dodici figlie, e per ciascuno un talamo nuziale. La ricchezza di Ilio è la vita: Ilio è la città della vita, chi vi resta è chi si salva dalla guerra, chi non è chiamato dalle Parche a morire sul campo di battaglia, ma anche chi ama di un amore così carnalmente avvolgente che smemora addirittura il combattimento e l’onore.
L’amore che troviamo nell’accampamento acheo è intriso di morte e sangue, è l’amore precario e votato alla tragedia di Achille per Briseide e Patroclo, amore della sua stessa madre, Teti, che piange le sorti del figlio che ha generato: «figlio mio, perché ti ho cresciuto, io, madre infelice? […] Sei votato a morte precoce e ora sei anche infelice fra tutti: per un triste destino ti ho messo al mondo, nella reggia di Peleo»[2].
E dentro Ilio, oltre le porte Scee? Ci sono le stanze della reggia di Priamo e in una specialmente fugge l’unico eroe a cui della guerra non importa proprio nulla, pure se l’ha innescata. Con divina, sorprendente disinvoltura troviamo infatti Paride, da tutti disprezzato, che appena può scappa dal combattimento. Per far cosa? Per ritrovare Elena, che «volgendo altrove lo sguardo rivolse allo sposo parole di biasimo: “Sei dunque tornato dalla battaglia; vorrei che tu fossi morto là”»[3]. Ma a Paride questo non importa, dentro la città non si combatte, s’ha da fare una sola cosa: fare all’amore. «Le rispose Paride allora: “No, donna, non straziarmi l’animo con offese crudeli; oggi Menelao ha vinto con l’aiuto di Atena, un’altra volta sarò io a vincere lui; anche noi abbiamo i nostri dèi. Ma ora, sdraiamoci e facciamo l’amore; mai fino ad ora il desiderio mi prese il cuore in tal modo”»[4].
Dunque, non è vero, come invece sarebbe potuto sembrare in un primo momento, che nell’Iliade, pòlemos è padre di tutte le cose. Il detto di Eraclito non vale per ciò che si trova dentro la città, ma solo per ciò che sta fuori.
Le bianche mura di Ilio segnano il cerchio della vita, della fertilità che genera e di Eros dio d’amore che unisce e congiunge. La vita è dentro queste mura. Ilio è città ben difesa, le sue mura per nove anni resistono all’assedio delle truppe achee. Ilio è città ricca e prospera perché il suo re, Priamo, è il re amato da Zeus, ovvero è quel re a cui Zeus ha concesso di avere molti figli. Ilio è città assediata perché nella sua rocca custodisce un tesoro rubato: la bella Elena. Chi è fuori dalla città non è che combatta per entrare, ma è chiamato a combattere, cioè a morire, proprio in quanto sta fuori. La vita è racchiusa nel cerchio ben sicuro delle mura. Fuori c’è il campo di battaglia, ovvero il regno di Hýpnos e Thanatos.
E la prima grandiosa immagine di ciò che sta fuori da Ilio l’avevamo incontrata infatti fin da subito, all’inizio del primo canto, quando Apollo
discese, con l’ira nel cuore; sulle spalle portava l’arco e la chiusa faretra; risuonavano i dardi sulle sue spalle mentre avanzava in preda alla collera; veniva avanti, simile alla notte. Si fermò lontano dalle navi e scagliò una freccia: emise un suono sinistro l’arco d’argento; prima colpiva i muli e i cani veloci, ma poi prese di mira gli uomini con il suo dardo acuto. Fitti e senza tregua ardevano i fuochi dei roghi. Per nove giorni volarono per il campo le frecce del dio[5].
Apollo furente esaudisce la preghiera di Crise, la cui figlia Agamennone non vuole liberare, e per nove giorni infuria la pestilenza sugli Achei. Così come per nove anni, fuori da Troia, infuria la morte, per Elena la bella che la città ha rapito e tiene chiusa entro le sue mura. Poiché la vita è chiusa al sicuro in un luogo, fuori da questo luogo non resta che la morte. La vita è donna, giacché è la donna che chiude in sé la vita nascente e la dà alla luce. Ma la vita, fin dal suo concepimento è chiusa e protetta, prima nel ventre materno, poi difesa entro la città. E poiché tutta la vita si raccoglie in questo luogo sicuro, allora fuori non resta che il regno inospitale della morte. Non si muore perché si vuole accedere o conquistare la vita, ma si muore perché, fuori dalla città della vita e dell’amore, non resta altro da fare che combattere per morire.
Non è un caso, allora, che l’Iliade non termini con la presa della città, di questo, anzi, non dice nulla, come nulla della città raccontava prima che a questa le navi veloci degli Achei portassero l’assedio. Termina il poema, invece, l’immagine dell’amore che scende nei campi della morte a reclamare indietro le spoglie di ciò che ha amato: il re amato da Zeus, Priamo, si reca da Achille a supplicare indietro il corpo straziato del suo figlio più valoroso, e unendosi l’eroe stesso al cordoglio del vecchio, nel ricordo di altre morti e altre sventure, Achille l’eroe acconsente a restituire la salma, giacché, pare suggerire Omero, tutti siamo uguali quando piangiamo la morte di chi abbiamo amato.
E l’Iliade si conclude cantando una solenne celebrazione funebre:
aggiogarono ai carri muli e buoi, e rapidamente si radunarono davanti alla città; per nove giorni portarono legna, in gran quantità; ma quando, il decimo giorno, si levò la luminosa Aurora, allora, piangendo, trasportarono il corpo del valoroso Ettore, lo posero sulla sommità della pira e appiccarono il fuoco. Quando al mattino apparve l’Aurora con la sua luce rosata, allora il popolo tutto si raccolse intorno alla pira di Ettore glorioso. E dopo che furono tutti riuniti, allora per prima cosa spensero il rogo versando il vino fulgente là dove si erano levate le fiamme; i fratelli e gli amici raccolsero poi le bianche ossa e piangevano, il volto inondato di lacrime. Raccolsero le ossa e le misero in un’urna d’oro che avvolsero in morbide stoffe di porpora; poi la collocarono in una fossa profonda che ricoprirono con un fitto strato di pietre; in fretta elevarono un tumulo e tutt’intorno vi posero guardie perché gli Achei dalle belle armature non attaccassero prima del tempo. Dopo aver eretto la tomba tornarono indietro, in città, e qui, tutti insieme riuniti, presero parte al sontuoso banchetto nella reggia di Priamo, il re amato da Zeus. Così celebrarono il rito per Ettore, domatore di cavalli[6].
Così come per nove anni si era
consumato lo scempio della stirpe di Priamo, così per nove giorni si stette a
raccogliere legna su cui bruciare le spoglie dell’eroe più forte. E ciò che di
lui rimase, le ossa, in quanto resto ultimo della sua viva esistenza, le si
chiusero in un’urna preziosa, e l’urna fu sotterrata e fu fatto elevare un
tumulo di pietre protetto dalle guardie: anche a questo ultimo ricordo di vita
venivano così tributati gli onori tributati alla vita tutta, ovvero la
protezione, il venir racchiuso e messo al sicuro dentro qualcosa che possa
difendere e separare da ciò che sta fuori. Ed eretta la tomba fuori
dalle mura, il corteo dei vivi rientra nel suo luogo naturale e qui
consuma il suo banchetto in onore del morto. Questo il rito per Ettore, domatore
di cavalli.
Eppure, era stato Priamo a dire a Ettore, e proprio per cercare di trattenerlo e non farlo scendere in quello che sarebbe stato il suo ultimo duello, era stato proprio il re amato da Zeus a proferire quelle parole che a noi suonano così tremende: «quando un giovane muore, ucciso in battaglia, e giace a terra straziato dalle acute armi di bronzo, tutto a lui si addice, tutto quello che si vede di lui, anche se è morto, è bello»[7]. E il suo intento era chiaramente dissuaderlo dalla guerra, rammentargli che, se lui così giovane e forte fosse caduto, il suo vecchio padre avrebbe certamente offerto una scena meschina quando fosse rimasto inerme innanzi all’arma del nemico. Ma, appunto, come cerca di dissuadere Ettore, il vecchio Priamo? Invocando che, essendo ormai vecchio, per lui ormai non sarebbe bello morire in battaglia. Ma Priamo stesso sta affermando: per un uomo nel fiore degli anni è bello morire in battaglia, ed Ettore è un uomo nel fiore degli anni, il più bello e il più forte di Ilio.
Ed Ettore stesso, salutando per l’ultima volta il suo piccolo Astianatte, aveva pregato:
Zeus, e voi divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, che si distingua fra i Teucri per forza e valore, che regni sovrano su Ilio. E vedendolo tornare dalla battaglia un girono qualcuno dirà: “E’ molto più forte del padre”. Lui tornerà portando le spoglie insanguinate dei nemici uccisi e la madre ne sarà lieta in cuore[8].
Dunque Priamo ed Ettore sono concordi nel porre come loro orizzonte fondamentale l’idea che è nella guerra che si decide il valore di un uomo e che è della guerra un’intrinseca bellezza: la vita bella è quella spesa combattendo, questo è il primo e l’ultimo comandamento che riempie i silenzi tra un verso e l’altro di tutto il poema.
Cos’è la vita? Ciò che vien chiuso, racchiuso, difeso entro una linea che tutta la circonda e che dentro di sé la salva, come nel ventre materno, da tutto quello che sta fuori. Questa linea è esemplificata materialmente dalle le fortificazioni entro cui Ilio sta sicura, Ilio che appunto è chiamata dalle solide mura. E’ proprio dell’idea del muro difensivo il dover difendere: laddove esiste un muro difensivo si presuppone che tutto ciò che stia oltre quel muro sia un possibile nemico. Il muro è ciò che già da sempre sta combattendo il primo nemico: il fuori in quanto tale. Alla città ben protetta dalle sue mura si può accedere, se lo si vuole, solo e unicamente attraverso le porte: ovvero quelle aperture provvisorie nel muro di cinta che consentono e regolano i contatti con l’esterno secondo la legge imposta dal re della città. Attraverso le porte il re domina non solo su chi entra e chi esce, ma sulla possibilità stessa di questo entrare o uscire. Il nemico è chi vuole abbattere il muro, oltrepassarlo eludendo il dominio. Innanzi al nemico le porte vengono rinserrate, o aperte solo per lasciar uscire gli eserciti chiamati alla guerra, ovvero gli alleati del muro che devono sostenere quest’ultimo nella sua eterna lotta contro il fuori. Il nemico non deve poter varcare le porte, non deve avere accesso, non deve poter entrare dentro la città.
Ma chi è il nemico? Chi sta fuori. E se la città è il luogo dove ben protetta sta sicura la vita, chi può attendere fuori, se non la morte stessa? La morte è il nemico. Essa sta fuori dalla città ove abita la vita. Alla morte è fatto divieto di varcare le porte con cui la città da essa si difende, per la morte non c’è spazio né ci deve essere dentro la città. Eppure, per tenere la morte fuori dalla città, occorre lottare. Le solide mura già sempre lottano. Ma quando la lotta si fa accanita e la morte non giunge sola ma accompagnata da eserciti ed eserciti di uomini, pronti a morire per conquistare la vita, ebbene, allora bisogna uscire dalla città per difenderla, uscire dalla vita per difendere la vita: la vita è salva solo se muore. Gli Achei sono coloro che accettano la morte, lo star fuori, pur di poter entrare e dar conquista alla città della vita. I Troiani sono coloro che la città della vita abitano e che dai nemici assedianti fuori devono difendersi. Entrambi condividono il medesimo assunto fondamentale: per vivere bisogna morire, tutto sta a scegliere come.
E proprio questo convincimento risuona sulle labbra dell’eroe che più di tutti conosce la morte e il pianto per la morte di chi ha amato, Achille, che così risponde a Odisseo, quando questi lo supplica di abbandonare la sua ira e ridiscendere in battaglia:
Niente, per me, vale la vita: non i tesori che la città di ilio fiorente possedeva prima, in tempo di pace, prima che giungessero i figli dei Danai; non le ricchezze che, dietro la soglia di pietra, racchiude il tempio di Apollo signore dei dardi, a Pito rocciosa; si possono rubare buoi, e pecore pingui, si possono acquistare tripodi e cavalli dalle fulve criniere; ma la vita dell’uomo non ritorna indietro, non si può rapire o riprendere, quando ha passato la barriera dei denti[9].
Perché «niente vale la vita»? Perché la vita «non ritorna indietro, quando ha passato la barriera dei denti». Niente vale la vita, perché la vita è mortale e lo è perché, per salvarsi dalla morte, deve morire. Per ogni vita esiste un tempo estremo in cui la morte la chiama a difendersi, morte minaccia di vincere le solide mura e quindi costringe i vivi ad uscirne e battersi e morire. Bisognerà necessariamente sempre difendere ciò che si erige per difendersi: ogni opera costruita per la propria difesa è un’opera che postula l’esistenza di un nemico potente tanto da imporci una costruzione difensiva. Ma costruita l’opera difensiva, proprio perché la sua edificazione è determinata dalla potenza del nemico, si presuppone e si sa già che prima o poi bisognerà a nostra volta difenderla.
La vita è quella che sta chiusa entro solide mura, perché fuori esiste un nemico, così potente da imporci di erigere solide mura, se davvero vogliamo sfuggirgli. Questo nemico è la morte. La vita può vivere solo se accetta di chiudersi in una rocca, in cui attendere e poi consumare i giorni del suo assedio. Cosa è, dunque, la morte?
In un’immagine, sola per grandezza e forza, l’Iliade ce lo mostra:
Aveva appena parlato e la morte lo avvolse, l’anima abbandonò il corpo e volò verso l’Ade piangendo il suo destino, la forza e la giovinezza perdute. Era morto, e il divino Achille gli diceva: “Tu, muori; io accoglierò il mio destino quando Zeus e gli altri dei immortali vorranno che si compia”. Disse così e strappò dal cadavere l’asta di bronzo, la mise da parte, poi gli tolse dal corpo le armi insanguinate. Tutti gli Achei accorsero intorno, ammiravano il corpo di Ettore e la sua bellezza e tutti, standogli accanto, gli vibravano un colpo e poi, guardandosi l’uno con l’altro, dicevano: “certo, è molto più morbido da toccare, Ettore, ora, di quanto appiccava il fuoco ardente alle navi”. Così dicevano e lo colpivano da vicino. Ma il divino Achille […] intanto preparava per Ettore un oltraggio indegno. Nella parte posteriore dei piedi forò i tendini, tra caviglia e tallone, vi passò della corregge e le legò al carro, lasciando che la testa fosse trascinata per terra. Poi salì sul carro portando le armi famose e con un colpo di frusta stimolò i cavalli che di slancio presero il volo. Una nuvola nera si leva intorno al corpo trascinato, i capelli bruni si spargono intorno, nella polvere giace la testa che prima era così bella e che ora Zeus ha abbandonato ai nemici perché le rechino oltraggio nella sua stessa patria[10].
Morire significa perdere la forza, la giovinezza e la bellezza, vuol dire lasciare la parte migliore di sé, in questo caso il corpo, in balia del nemico, dei suoi scherni e del suo oltraggio: la morte è impotenza, ovvero fine della propria potenza. La potenza è la forza, la giovinezza e la bellezza, ovvero l’aver forza e tempo e meriti per imporre il proprio volere. La fine di questa potenza è l’esser ridotti in balia dell’altro, il non poter più far valere la propria forza, il non poter più godere della propria gioventù, il veder corrompere la propria bellezza, rovinata nella polvere della disfatta. Morire significa finire nella polvere, la morte è l’esser consegnati all’altro da sé, nel modo più radicale in cui ciò è possibile, da cima a fondo: l’altro può disporre totalmente di tutto ciò che di me valeva e che era solo mio, il corpo. La morte è l’altro da me che mi domina integralmente e può far di me ciò che vuole, umiliare la mia gioventù, insozzare la mia bellezza, calpestare la mia forza ormai resa impotente innanzi ai suoi scherni. La morte è l’altro che impossessandosi di me mi annulla.
Ettore aveva detto ad Achille: «sento in me il coraggio di starti di fronte: ti ucciderò o mi ucciderai»[11]. Nemico innanzi a nemico, non c’è scelta: uno dei due deve morire, ovvero esser consegnato all’altro. L’unica differenza è il modo in cui ciò può avvenire, Ettore promette di rispettare il corpo di Achille se questi dovesse cadere, Achille sprezza tale promessa. Ma anche queste differenze confermano ciò che stiamo mostrando: la morte è il più radicale assoggettamento all’altro, uscire di sé per cadere in mano al nemico. Così l’anima di chi muore fugge all’Ade, passa la barriera dei denti, esce dal corpo. E il corpo, da cui è così uscita la vita, muore in quanto si lascia dominare dal nemico che ora su di lui ha il potere di fare ciò che vuole e trasformarlo in cadavere e oltraggiarne l’onore, la morte entra e compie il suo saccheggio, la sua razzia, la sua devastazione nella città ormai espugnata.
Proprio perché resta fermo il punto che la morte è questo uscire da sé per cadere in mano all’altro, acquista importanza assoluta il modo in cui ciò avvenga: visto che la morte, in quanto tale, è qualcosa di irresistibile, tutto sta e tutto si gioca nel come viene affrontata e su questo come si decide ogni valore, ogni senso e ogni gloria della propria esistenza.
Morire è l’uscire da sé, l’andare altrove, il cadere sotto il potere di chi ci è estraneo, di chi sta fuori di noi, per questo la vita va protetta, per questo va cinta da mura che possano salvarla e tenerla sicura, ferma in sè. La morte è fuori perché è ciò che ci trascina fuori di noi, cioè ci fa diventare altro da ciò che siamo. E la morte vince sempre, perché il fuori costantemente ci assedia e incombe, fino a costringerci ad uscire di nostra volontà, per scegliere almeno il modo della nostra sconfitta. La morte è il diventar altro, e se vogliamo restare ciò che siamo, se vogliamo restare nella vita, dobbiamo difenderci da questo divenire.
Chi abita Ilio, è colui che vive solo in quanto è nato per morire, ovvero per uscire dalla città e scegliere in battaglia in che modo dire addio a se stesso, in che modo uscire da sé e farsi ridurre ad altro. Chi abita Ilio è l’uomo inteso come il mortale, colui che è chiamato a esistere solo per uscire dalla città fiorente della sua stessa esistenza. Il valore di questa vita è dunque il valore della cosa fuggevole, che va colta fino a che c’è e che va goduta sino a che non sia chiamata all’estrema difesa di se stessa, ovvero alla lotta per scegliere come perdere sé nel diventar altro. Vivere, per contro, è essere uno, essere se stessi, sempre uguali, in sé stessi esistere e in sé stessi stare, muore chi esce, giacché la morte abita il fuori in quanto tale. Nella Civiltà di Ilio, vivere è lo stare in quel luogo fuori dal quale si diventa altro da sé, si muore. Vivere è chiudersi nella rocca ben protetta del proprio sé stesso identico soltanto a sé: se ne esce solo per andarsi a scegliere la propria morte. Ilio dalle solide mura, civiltà del Limite, della solitudine che spetta all’Uno che non esce da sé e dentro di sé resta ben protetto, proprietario di quell’esistenza che scopre così la possibilità di pronunciare la parola “mio”.
2.
La Repubblica
Quando tu incontri gente
che loda Omero e sostiene che questo poeta ha educato l’Ellade e che merita di
essere preso e studiato per amministrare ed educare il mondo umano, e che
secondo le regole di questo poeta si organizza e si vive tutta le propria vita,
questa gente si deve sì baciarla e abbracciarla come quanto mai eccellente, e
riconoscere che Omero è il massimo poeta e il primo tra gli autori tragici; ma
si deve anche sapere che della poesia bisogna ammettere nello stato solamente
la parte costituita da inni agli dèi ed elogi agli onesti. Ma se vi ammetterai
la sdolcinata Musa lirica o epica, nel tuo stato regneranno piacere e dolore
anziché legge e quella che da tutti concordemente è sempre giudicata l’ottima
ragione[12].
In effetti proprio così ci interromperebbe
a questo punto Platone, non permettendoci di proseguire più oltre nelle nostre
osservazioni. Ma come, pretendiamo di esser filosofi e poi andiamo dietro alle
parole di un poeta?
Resti detto tuttavia
che, se la poesia imitativa rivolta al piacere dimostrasse con qualche
argomento che deve avere il suo posto in uno stato ben governato, noi saremmo
ben lieti di riaccoglierla, perché siamo consci di subire il suo fascino[13].
Certo, Platone, quando ci muove
queste osservazioni, sta discutendo la sua Politeia, ovvero della
fondazione dello Stato giusto e, più in generale, di cosa sia la giustizia in
sé. Il problema è squisitamente educativo, dove si assume l’educazione
nel senso più radicale del termine, come edificazione dell’individuo e
dello Stato assieme. Tutto il dialogo può essere letto in chiave pedagogica,
ovvero come il tentativo di giungere alla determinazione di quale sia la
formazione necessaria a formare un uomo giusto. E se questo è l’intento, allora
ben si comprende perché Socrate così ammonisca:
tutte le battaglie
divine inventate da Omero, non si devono ammettere nello stato, abbiano o non
abbiano queste invenzioni carattere di allegoria. Il giovane non è in grado di
giudicare ciò che è allegoria e ciò che non lo è: tutte le impressioni che
riceve a tale età divengono in genere incancellabili e immutabili. Ecco perché
è assai importante che le prime cose udite dai giovani siano favole narrate nel
miglior modo possibile con l’intento di incitare alla virtù[14].
Certamente, se stiamo a vedere i
“modelli educativi” forniti dall’Iliade, non possiamo che concordare con
Platone, basti pensare, oltre ai vari esempi ricordati nel dialogo, al caso
forse ancora più emblematico di Achille che, in fondo, per una questione di
onore personale «infiniti addusse lutti agli Achei e molte anzi tempo all’Orco
generose travolse alme d’Eroi». Ma tuttavia, come dicevamo all’inizio, le
vicende degli uomini e degli dèi prendono senso e si comprendono solo se si
accetta di seguirle all’interno dello sfondo, dell’orizzonte in cui sono
iscritte. L’Iliade non è solo poema che narra di una guerra epica, ma è,
forse prima di tutto, canto di quello che oggi, con espressione un poco
banalizzante, potremmo chiamare uno “stile di vita”, ovvero un preciso modo
d’intendere l’esistenza. L’Idea fondamentale di questa concezione sta
nel concepire la vita come ciò che è ben racchiuso in se stesso, ciò che deve
restare protetto e unito. Non a caso, quando la filosofia, fin dai suoi albori,
dovette pensare la morte, la pensò, in modo più o meno articolato, come disgregazione,
ovvero dispersione di quell’unità che, stando raccolta sicura nell’identità con
sé medesima, era appunto il vivere.
Dunque, possiamo anche contestare
che il modo scelto dagli eroi Omerici affrontare la vita e la morte non
sia affatto un esempio di virtù, o, almeno, che non sia un esempio di quella
che Platone intende essere la virtù. Ciò non toglie, però, che quell’archetipo,
quel paradigma che gli eroi declinavano a modo loro, non sia rimasto
invariato almeno nei suoi tratti essenziali e non sia comune anche a Platone
stesso, sicché si potrebbe addirittura avanzare la tesi che legge nella Politeia
non tanto una contestazione al fondamento di quella che potremmo chiamare la Civiltà
Omerica, quanto piuttosto al modo in cui gli eroi cantati da Omero
hanno abitato l’Idea che stava alla base di tale Civiltà, una critica non al
paradigma in quanto tale, ma ad una sua specifica declinazione.
Nel Filebo, Socrate avrà da
affermare:
gli antichi, che erano
migliori di noi e che stavano più vicini agli dèi, ci hanno trasmesso questo
oracolo: che le cose che si dice che sempre sono, sono costituite di uno e di
molti, e hanno per natura in se stesse limite e illimitatezza. Dunque, poiché
queste cose sono ordinate in questo modo, bisogna che noi poniamo e cerchiamo,
ogni volta, sempre un’unica Idea per ogni cosa[15].
E nella Repubblica chiede:
«possiamo dunque citare per lo Stato un male maggiore di quello che lo divide e
lo fa di uno molteplice? O un bene maggiore di quello che lega lo Stato e lo fa
uno?»[16]
Ma non è allora troppo difficile intendere come,
per Platone, Uno Limite e Bene coincidano e siano tre parole che danno voce ad
una medesima realtà, anzi, a quella realtà che sta al fondamento di tutte le
cose, all’unico vero achè. Ma questo archè è il medesimo archetipo
che Omero raffigura nella città di Ilio: l’Essere stesso, quando si declina
come l’esistere in questa città, è considerato, dai mortali,
proprio in quanto Uno, Limite, Bene. Proprio sulla base di tale sostanziale
assunzione del paradigma archetipico tratteggiato dalla poesia di Omero,
Platone, dandone sanzione metafisica, può contestare il modo in cui in
Omero l’Idea era, dal suo punto di vista, malamente realizzata e quindi,
con estremo rigore e coerenza, dedurre quale invece debba essere il modello
dello Stato giusto, in cui i
cittadini devono essere
indirizzati ciascuno a quell’attività per cui hanno naturale disposizione, uno
solo a un’opera sola, perché ciascun individuo, attendendo all’unica opera che
gli è propria, non diventi molteplice ma resti uno, e così tutto lo stato sia
unitario, non molteplice. […] I dirigenti dello stato devono insistere su
questo principio, se vogliono evitare che lo si distrugga a loro insaputa e
salvaguardarlo in ogni circostanza[17].
E va allora da sé che per
l’individuo la giustizia non sia altro che la traduzione, all’interno della
soggettività, di questo medesimo principio che
consiste nell’adempire i
propri compiti non esteriormente, ma interiormente, in un’azione che coinvolge
veramente la propria personalità e carattere, per cui l’individuo non permette
che ciascuno dei suoi elementi esplichi compiti propri di altri né che le parti
dell’anima s’ingeriscano le une nelle funzioni delle altre; ma instaurando un
reale ordine nel suo intimo, diventa signore di se stesso e disciplinato e
amico di se medesimo e armonizza le tre parti della sua anima […] dopo averle
legate tutte ed essere divenuto uno di molti[18].
Gli abitanti della Politeia platonica
sono pertanto i medesimi abitanti di Ilio, divenuti però in qualche modo più
saggi, più sapienti, ovvero più lucidamente coerenti con le regole del luogo in
cui vivono. Ciò che Omero cantava in poesia, Platone lo radicalizza temprandolo
nel fuoco dell’ottima ragione e ponendolo come pietra angolare di
tutto il suo edificio metafisico. Ilio dalle solide mura risorge così
non più nel dominio fantastico e mitico delle epopee narrate dagli aedi, ma
acquista la dignità e la solidità di un sistema di pensiero che sbarra la
strada al nemico opponendogli la forza del proprio logos.
Lo sviluppo di una città è spesso il
suo fortificarsi e ingrandirsi attorno al nucleo originario. La storia della
Civiltà Occidentale è la storia di come le solide mura di Ilio si siano
fatte sempre più solide, sempre più forti, sempre più invalicabili. Sempre più
chiuse a proteggere qualcosa come il singolo. Platone è tappa centrale
in questo processo giacché per primo ha tentato di tradurre quello che era
ancora solo un orizzonte poeticamente taciuto come sfondo in un sistema di
ragioni filosofiche che sfidano l’invincibilità dell’incontrovertibile,
aspirando a porsi come epistéme.
La civiltà nata in Ilio, dall’idea
stessa che l’esistere è il chiudersi nel limite invalicabile del finito,
diventa la civiltà che parla la lingua del fine, del telos, e quindi del
valore, diventa propriamente Civiltà Occidentale, ovvero che guarda
all’Occidente, al punto dove il Sole, simbolo platonico del Bene, sempre tende
e dove sempre va a terminare la sua corsa quotidiana.
Non è certo un caso, del resto, la
preoccupazione di Platone per giungere a dimostrare razionalmente l’immortalità
dell’anima individuale: il non riuscire a salvare per sempre la vita dalla
morte doveva infatti parere all’illustre ateniese una debolezza filosofica
imperdonabile, giacché, così, tutto l’edificio finiva per fallire il suo scopo,
le mura non si mostravano più così solide come avrebbero dovuto, visto
che alla fine non giungevano a difendere una volta per sempre ciò per la
cui difesa erano state edificate. E a Platone, del resto, non interessa infatti
l’immortalità in quanto tale, come concetto generico o astratto, ma sempre
l’immortalità dell’anima individuale che si porta all’Ade le sue colpe e
le sue virtù in modo da poter essere giudicata in base a ciò che è stata: in
modo più radicale non si potrebbe pensare l’esser-sempre-me, il restar sempre
io e sempre proprio io, che sono immortale proprio perché, anche nella morte,
non divento altro e anche nell’aldilà vado con tutto quello che sono stato e ho
vissuto.
Ma questa dimostrazione è
forse per il logos un compito troppo alto e laddove il logos è
costretto al silenzio, occorre ammettere la voce del mito che con la sua parola
fantastica eppure verosimile soddisfi quell’esigenza di ribadire
la valenza etica dell’immortalità e quindi suggellare in questa la cifra
di una finitezza irriducibile, di un essere assolutamente limitato nel sé,
proprio dell’essere dell’anima in quanto mia. Non è un caso, allora, che
la Politeia si concluda con il grande mito escatologico di Er, fornito
proprio subito dopo che Socrate, mostrato, forse un po’ troppo frettolosamente,
come nella dimostrazione razionale dell’immortalità «non c’è alcuna
difficoltà», aveva concluso: «ebbene,
quando una cosa non perisce per male alcuno, né suo né non suo, è chiaro che
deve esistere sempre e, se esiste sempre, è immortale. Ecco dunque un punto
acquisito»[19].
Eppure, ciò non è sufficiente, serve il mito.
Evidentemente, siamo qui innanzi a qualcosa di più che un corollario
metafisico, non sta in ciò il senso. L’immortalità dell’anima è la formulazione
rigorosa data dalla metafisica platonica per pensare il più grande desiderio
di ogni abitante di Ilio: non essere chiamati a uscir fuori, poter
essere difesi da mura così forti, da logoi così solidi, che nessun
nemico potrà mai penetrarvi. Essere immortale, essere eterno: il significato di
queste espressioni allude al poter essere sempre uguali, al poter stare
sempre nel medesimo luogo, dove il luogo è inteso in senso lato come quel
certo spazio in cui l’esistenza viene ad abitare. E perché Platone sente quest’esigenza?
Ma proprio perché lui, il più greco dei greci, non ha mai smesso di abitare Ilio
dalle solide mura, né ha mai smesso di pensare come fosse possibile rendere
queste mura ancora più solide, infinitamente più solide: eterne.
3.
Equivoco e liberazione della Parola
C’era tra i farisei un
uomo chiamato Nicodèmo, un capo dei Giudei. Egli andò da Gesù, di notte, e gli
disse: “Rabbì, sappiamo che sei un maestro venuto da Dio; nessuno infatti può
fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui”. Gli rispose Gesù: “In verità,
in verità ti dico, se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di
Dio”. Gli disse Nicodèmo: “Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse
entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?”. Gli rispose
Gesù: “In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito,
non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carne è carne e quel
che è nato dallo Spirito, è Spirito. Non ti meravigliare se t’ho detto: dovete
rinascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai
di dove viene e dove va; così è chiunque è nato dallo Spirito”. Replicò
Nicodèmo: “Come può accadere questo?”. Gli rispose Gesù: “Tu sei maestro in
Israele e non sai queste cose? In verità, in verità ti dico, noi parliamo di
quel che sappiamo e testimoniamo quel che abbiamo veduto; ma voi non accogliete
la nostra testimonianza. Se vi ho parlato di cose della terra e non credete,
come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Eppure nessuno è mai salito al
cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo. E come Mosè innalzò
il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo,
perché chiunque crede abbia la vita eterna”[20].
Anche la Politeia di Platone
fu una città assediata, e, come Ilio, assediata prima di tutto dal fuori.
Nel passo che qui si ricorda sta già inscritto il destino di questo
assedio.
Nicodèmo, maestro in Israele,
incontra di notte colui che si dice Figlio dell’uomo e che fa
segni tali da testimoniare che con lui è Dio stesso. La notte, quando tace
la battaglia combattuta, e resta quella delle parole chiamate a ordire
l’assalto del giorno che ha da sorgere, o anche solo a dipingere i sogni del rimpianto
che il giorno trascorso ha lasciato dietro di sé, in questa notte un capo e
maestro incontra qualcuno che parla, fa segni, tali da
manifestare innegabilmente una potenza divina. Questo qualcuno, avanza la
richiesta inaudita che si rinasca dall’alto, e come premio di ciò
promette in cambio la vita eterna.
Il Cristianesimo promette, con
l’autorità di Dio, ciò che il logos platonico sempre si era affannato
a dimostrare, ovvero tenere fermo e
lontano dal dubbio, legato ben solido nei lacci degli argomenti per non
permettergli di sfuggire altrove, cioè convertirsi nel suo contrario, vacillare
e cadere nel non essere. E’ per questo che la Repubblica ha da ascoltare
questa parola, raccogliendone i segni divini. Eppure tale parola è
parola nemica della legge su cui si fondava già Ilio, essa chiede agli
uomini di rinascere, perché le cose di cui parla il profeta di questo
nuovo e diverso logos non sono della terra ma del cielo, cioè di
altrove, stanno fuori. Se si vuole la vita eterna, che in
Ilio suona come l’eterno poter restare in sé medesimi, sempre se stessi per
sempre, si deve diventare altro da ciò che si è, ovvero morire.
E se questo pare incomprensibile o
contraddittorio è solo perché non si tratta di un logos qualsiasi, di un
argumentum nel senso platonico del termine, quanto piuttosto di qualcosa
che fin da subito è prospettato come una fede, di un credere, che
non ha più la coerenza platonica ma anzi, nel confronto, il carattere
della suprema contraddizione. E’ proprio perché agli occhi della ragione questa
promessa ha il carattere del paradosso, che, se si vuole ottenere ciò
che la promessa prospetta, occorre credere in essa. Si crede, dunque, in
qualcosa di invisibile, incredibile, tanto da aver bisogno di qualcuno
che lo mostri agli uomini, che altrimenti senz’altro ne resterebbero del tutto
ignari, giacché «nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che
è disceso dal cielo». Ciò in cui si ha fede è qualcosa che, essendo essenzialmente
oggetto di dubbio, può essere tenuto fermo e scacciare il suo contraddittorio
solo in base ad un atto di volontà: se la fede non si radicasse su
questo dubbio non avrebbe bisogno di dirsi fede ma sarebbe epistéme, la
scienza dell’incontrovertibile.
Io esisto e concepisco la mia
esistenza, in quanto abitatore di Ilio, secondo il senso del Limite e del
finito che racchiudendola entro le proprie mura ne fa qualcosa di determinato,
la fa essere. Io so questo: che Io sono e che tale essere è
l’esser-Io, ovvero l’esser-Uno e Limitato entro questo Uno, l’esser-solo-me.
Dunque, soltanto questo Io posso testimoniare. Ma la Parola che mi
promette di farmi eterno nella mia solitudine, mi chiede anche di dar
testimonianza di ciò che è totalmente altro da me. La fede che mi si chiede è
una testimonianza impossibile, impossibile proprio perché all’interno del senso
che per me ha l’esistere, non incontro, né mai potrei incontrare, ciò di cui mi
si chiede di testimoniare e del quale non potrò quindi mai essere testimone.
Come si può testimoniare qualcosa che non s’è mai visto? Se salvarmi per me ha
il significato del restar protetto dentro il mio me stesso, nella mia identità,
come potrò salvarmi rinascendo, cioè diventando altro?
L’unica cosa che vede Nicodèmo nella
notte, è questo rabbì che gli chiede di rinascere e che, con
l’autorità di segni divini, gli promette vita eterna in cambio della sua
fede. Costui sa che la testimonianza che lui sta portando non
può essere accolta, perché parla di cose che, chi l’ascolta, non solo non
ha mai visto ma non può vedere, giacché tutta la sua volontà è una lotta
contro l’illimitata alterità con cui tali cose pretenderebbero di abbattere le solide
mura che proteggono il senso del suo esserci. «Quel che è nato dalla carne
è carne»: chi nasce nella Repubblica intende le parole col senso che qui
le parole hanno, le ascolta a partire dai problemi che il loro significato qui
pone, le segue fintanto che glielo consento i confini che qui si
impongono agli spazi del vivere, dell’esistere e del pensare.
Proprio qui, di questa Parola
che annuncia l’invisibile, nel senso di ciò che per natura non può mai
esser visto, si può portare testimonianza solo per fede, ovvero volendo credere
ciò che, costitutivamente, si pone come oggetto di dubbio. La fede può esistere
solo come volontà. Una volontà di che cosa? Di essere eternamente, ovvero di
non dover mai essere altro da sé, di non dover mai uscire da sé, poter
continuare a vivere ed essere se stessi. Io voglio che le mura di Ilio restino
solide e vincano sul fuori, sull’altro, sul nemico. Io voglio
la potenza, per questo voglio credere di poter essere sempre e non dover
cedere smettendo di essere ciò che sono. Pur di donare alla mia difesa dal
fuori ulteriore potenza, accetto di far entrare nella città e nella rocca
questa Parola che promette eternità al mio volere: nella notte quando tacciono
le armi avviene il complotto che svuota i templi dei loro simulacri e vi rinchiude
l’immagine invisibile del nuovo Dio.
La ragione non può
testimoniare nulla di quello che la fede le chiede di testimoniare, non perché
ciò sia irragionevole in se stesso, ma proprio perché è l’assolutamente
altro da ciò che tale ragione pensa e intende essere l’esistenza: la legge di
Ilio vieta e mette al bando la possibilità di intendere la Parola fuori
dal sistema di sensi e significati che vige nella città. Non è dunque possibile
dimostrare l’esistenza di Dio, non tanto perché Dio in sé non esista
ma perché l’esistenza è a priori pensata in rapporto a ciò che Dio, se è, non
può mai essere e che per definizione sempre deve trascendere:
quell’assolutamente finito che io sono. Il fatto stesso che si tenti una dimostrazione
dell’esistenza di Dio non fa che confermare nei fatti che tale esistenza è,
essenzialmente, oggetto di fede, ovvero si radica nel dubbio: io voglio
che Dio sia, ma, se venisse meno questa volontà che impedisce ogni
ulteriore discorso, si potrebbe affermare che Dio potrebbe non essere.
Anzi, più radicalmente ancora, se si lascia libero il logos dalle
costrizioni che la volontà gli impone, si dovrebbe giungere in modo abbastanza
semplice al sillogismo: se Dio è, la sua esistenza deve avere il senso
dell’Illimitato, ma per me l’esistenza ha unicamente il senso del limitato, dunque
l’esistenza di Dio non può avere senso, o, che è lo stesso, io non sono in
grado di concepire come realmente significante l’espressione “Dio è”.
Solo la volontà, quella
volontà che vuole eternamente se stessa e lo vuole con tanta forza da
rifugiarsi nel credo quia absurdum, può dare testimonianza e credere.
Volontà che vuole se stessa per sempre e che in questo sempre legge la
conquista della sua estrema potenza, giacché finale vittoria
sull’altro, sul fuori ostile che così ab aeterno resta chiuso
fuori, cioè lontano dal mio essere e quindi lontano dalla possibilità di
strapparmelo. In fondo, già in Platone il mito è qualcosa in cui si
vuole credere, o, meglio, in cui si deve credere se si vuole
dare all’immortalità il senso autentico di un restare sempre me: esso «potrà
salvare anche noi se gli crediamo»[21]. Ma
se ciò è vero, allora l’essenza della fede non è altro che una volontà di
potenza:
perché ormai è necessario
l’avvento del nichilismo? Perché sono i nostri stessi valori durati finora che
traggono in esso la loro conclusione ultima; perché il nichilismo è la logica
pensata fino in fondo dei nostri grandi valori e ideali, — perché noi dobbiamo
prima vivere il nichilismo, per scoprire che cosa sia propriamente il valore
di questi “valori”…[22]
Il nichilismo si rivela come quel
pensiero che, conquistando assoluto rigore, giunge a pensare ciò che già la
poesia di Omero presupponeva: l’Essere è sempre esser-questo e solo questo,
ciò che è altro è niente. In tale formula, il “questo” indica precisamente
una certa cosa finita e limitata, chiusa entro confini ben determinati e ben
fortificati. Sulla base di questa formula è necessario dedurre che se di
cose ne esistono tante e se queste sono soggette a divenire, questo divenire,
in quanto le porta ad essere altro da sé, a diventare diverse, le porta a
cadere nel nulla: è in base a questa formula che l’Occidente, quando pensa il
divenire, pensa sempre, necessariamente, il sorgere e l’uscire dal niente. E
non a caso Platone, il più occidentale degli occidentali, dovette commettere parricidio
verso quel pensiero, quello di Parmenide, che, nel suo ripensare e trasfigurare
l’orizzonte di Ilio, sosteneva che nessuna cosa, in quanto “questo”,
propriamente è, e che quindi non esiste alcun divenire, se divenire è stare in
bilico e oscillare tra l’Essere il non essere.
E se Dio stesso è, ontologicamente, il
totalmente altro da me, in quanto l’assolutamente trascendente, non è allora,
forse, esso stesso un’ipostasi del nulla? Se bisogna tener ferma la
legge su cui si fonda la città di Ilio, quella città che accogliendo nella sua
rocca il Verbum si fece Civitas Dei, ebbene non bisognerà allora
finire col sacrificare Dio stesso al nulla?
O si tiene ferma la Civiltà a partire dalla
quale pensiamo e intendiamo questa Parola che dal fuori nemico ci giunge,
oppure si accoglie la Parola davvero, e l’assurdità della sua richiesta di rinascere:
aut aut. Dio è morto perché noi l’abbiamo ucciso: poiché la sua
Parola chiedeva in definitiva il nostro diventar altro, il nostro morire, noi
alla fine ce ne siamo difesi e abbiamo ucciso chi, volendoci
strappare alla protezione delle nostre mura, si rivelava, in fine, essere
nient’altro che un nemico dell’Occidente: questa Parola era un cavallo
di Troia da cui però, alla fine, abbiamo saputo difenderci e vincere.
Non si dovette alla fine
sacrificare una buona volta tutto quanto vi è di consolate, di santo, di
risanatore, ogni speranza, ogni fede in una segreta armonia, in future
beatitudini e giustizie? Non si dovette sacrificare Dio stesso e, per crudeltà
verso di sé, adorare la pietra, la stupidità, la pesantezza, il destino, il
nulla? Sacrificare Dio per il nulla — questo paradossale mistero della estrema
crudeltà rimase riservato alla generazione che appunto ora sta avanzando, noi
tutti ne sappiamo già qualcosa[23].
La radicalità a cui ci spinge il
nichilismo, ci porta a formulare in modo radicale, cioè in termini ontologici,
la legge che da Omero a Nietzsche ha determinato il senso dell’esistenza
dell’uomo occidentale. A questo punto è nostro dovere chiedere: ma tale
legge, fino a che punto andrà ancora rispettata? Non è forse proprio questa la tavola
che va infranta, il valore che va trasvalutato?
La storia degli ultimi due secoli,
ci testimonia il compiersi della Civiltà Occidentale in Civiltà della Tecnica,
ovvero Civiltà della volontà di potenza che impone sé a tutte le cose e
di tutte e molteplici le fa diventare una sola: la volontà di potenza
non è quindi la negazione dell’Idea platonica del giusto e del Bene, ma,
piuttosto, la sua ennesima trasfigurazione, la gigantomachia in cui il
paradigma dell’esser-solo-questo, dell’Uno limitato ad essere sempre e soltanto
sé, si impone sulla molteplicità delle cose, riducendo e assoggettandone
l’eterogeneità a se stessa. Ciò che oggi volgarmente passa sotto i nomi di
“globalizzazione”, “massificazione”, “omologazione” non è altro che la
manifestazione più esteriore di questo processo sotterraneo mediante il quale
la Civiltà Occidentale continua a ripensare in modo sempre più coerente il
proprio fondamento.
Il nichilismo non è la fine dell’Occidente ma la
sua verità. Proprio in quanto ne pensa radicalmente l’essenza, il
nichilismo ci porta a scorgere il carattere qualitativo peculiare di tale
civiltà, ponendocela come civiltà della solitudine: io e solo io, tutto
è uno in me e fuori di me nient’altro, io sono questo e solo questo e quando
non potrò più esser questo sarò niente, o questo o niente. Dal Cogito
di Cartesio all’Idea assoluta di Hegel, la filosofia non ha fatto altro
che meditare sul modo migliore e più coerente per pensare l’assolutizzazione
del finito nel “questo”, anche laddove ha pronunciato esplicitamente la parola
“infinito”, “illimitato”. La voracità con cui l’Occidente pare aver divorato le
altre forme di civiltà, assoggettandole a sé, riducendole a propria immagine,
s’inscrive nel suo destino, cioè in questa volontà di ridurre l’illimitato
entro il limite sicuro che conchiude l’Uno in se stesso, lasciando fuori
soltanto la morte, il non essere.
Ma se oggi è il tempo in cui
l’Occidente assume la forma del suo più alto rigore, se oggi l’Idea in cui
nasce l’Occidente, proprio perché tradotta in termini ontologici puri, è
formulata con una forza che mai prima d’ora ha potuto vantare, se oggi la
tecnica è in grado di far sperare a Ilio mura non solide ma
addirittura incrollabili, ritraducendo ancora una volta, e ora nei termini
delle scienze, il mito dell’immortalità, ebbene, allora
l’autentico inattuale è
il superamento dell’essenza dell’Occidente. Ma in esso vien resa innanzitutto
testimonianza della verità dell’essere. La quale dice che l’essere è e non è
possibile che non sia (Parmenide, fr. 2). L’”essere” — ossia tutto ciò che non
è un niente. Ma, niente, è soltanto il niente, e non anche ‘qualcosa’, che si
presuma di mantener significante come un non-niente (e un significare qualsiasi
è un esser significante come un non-niente) e insieme lo si trattenga nel limbo
dell’inesistenza, ponendolo appunto come ‘qualcosa’ (cioè un non-niente) che,
quando non è, è niente[24].
Con queste parole, Emanuele
Severino, colpisce al cuore la legge che l’Occidente ha sempre pensato e che
quindi ha fatto della sua storia la storia stessa del nichilismo. L’Occidente crede
che l’Essere sia qualcosa che possa andare nel nulla: è questa la sua fede fondamentale.
Essere significa stare qui, fermi, esser sempre sé. Il nemico dell’Essere è il divenire,
che fa diventare altro da sé, quindi altro dall’Essere, trascina fuori dalla
città sicura e consegna al nulla. Il divenire deve intendersi, per
l’Occidente, come un passaggio dall’Essere al nulla in quanto distrugge quella
monolitica identità con se stesso che si pensa sia l’Essere in quanto conchiuso
nella perfezione della sua finitudine. Ma poiché la distruzione di
questa identità, il diventar altro, è “sotto gli occhi di tutti”, allora si deve
affermare che l’Essere può non essere, ovvero che le cose sono ma
solo quando non sono niente, quando non sono strappate alla pace
tranquilla che riposa dietro la solide mura di Ilio. Riconoscendo il
mutamento, ma pensando che l’Essere sia uno stare in se stessi, allora è
forza di necessità riconoscere che il divenire sia passare dall’Essere al non
essere.
Emerge qui il centro concettuale
fondamentale, abbiamo innanzi il cuore più profondo del problema, il senso
stesso della necessità per cui l’Occidente deve essere nichilista e ha
in tale nichilismo il suo più proprio destino. Ma pure, se trasvalutazione
deve darsi, non può essere quella dettata dalla volontà di potenza, come
vorrebbe Nietzsche, giacché tale volontà altro non fa se non pensare la
medesima Idea con rigore ancora maggiore, esattamente come Platone già
in origine fece con Omero.
La Civiltà Occidentale è una civiltà
della solitudine, questa solitudine ha il senso dell’isolamento, della
chiusura nella rocca sicura del proprio sé identico a sé, entro le mura che
pongono il limite e separano l’Uno dall’Illimitato, mettendolo così in salvo
dalla disgregazione, dalla morte: dal niente.
L’accoglimento della
terra si unisce alla convinzione che la terra sia il tutto con cui noi abbiamo
sicuramente a che fare. In tale convinzione, l’essere che accade viene isolato
dalla verità dell’essere. […] La non verità è la sollecitudine per la terra,
unica alla convinzione che la terra sia la dimensione con cui abbiamo
sicuramente a che fare, e al di là della quale si stende l’oscurità più
profonda[25].
Ma a questo punto, proprio perché
viene formulata in tutta la sua radicalità, la legge su cui si fonda e cresce
l’Occidente, si mostra anche come contraddizione, giacché impone agli opposti
l’identità e si ritiene in dovere di porre che l’Essere sia identico al
non essere, che le cose siano un niente a cui talvolta accade di essere, ma il
cui destino sia essenzialmente quello di sorgere e tornare al nulla.
La verità vuole la
terra; l’errore pensa il voluto come il tutto sicuramente esistente. Lo spicco
della terra sullo sfondo diventa così l’isolamento della terra, la sua
separazione dalla verità. L’isolamento non è l’apparire della terra senza che
la verità della terra appaia, ma è l’apparire del pensiero che pone la terra
come il terreno sicuro. La terra appare sempre legata alla verità, giacché
nulla può apparire se non appare la verità dell’essere; ma nell’apparire accade
anche l’errore, che pensa l’isolamento della terra, cioè riconosce solamente
una parte di ciò che appare. Così la verità e l’errore si contendono la terra.
Ognuna delle cose della terra — gli uomini, le piante, le azioni, i sentimenti,
i corpi, i pensieri — appaiono, nella non verità, in questo loro venir contese.
La distrazione dalla verità, in cui consiste la non verità come vita normale
dell’uomo, è l’apparire degli enti della terra come contesi alla verità da
parte dell’errore. […] Volendo la terra, la verità la solleva dallo sfondo; e
l’errore acuisce lo spicco, sradicandola dallo sfondo e ponendola come il tutto
che sicuramente esiste. Il linguaggio — che appartiene anch’esso
all’accadimento della terra — si dispone allora a nominare le cose della terra,
che stanno dinanzi come isolate dalla loro verità. Ma il linguaggio della non
verità porta le tracce della profondità abissale[26].
Se la coerenza del nichilismo ci
porta a vedere come la legge fondamentale dell’Occidente imponga di pensare che
le cose, per essere, devono farsi mortali, ovvero essere solo quando non sono
un niente, allora, rilevare l’impossibilità che ciò effettivamente sia,
ovvero mostrare che questa legge comanda qualcosa che, violentando le parole,
grida un ordine che non riesce a significare altro che una contraddizione,
ebbene allora tutto ciò significa minare alla base le fondamenta stesse
dell’Occidente: il nichilismo, che prendendo a parlare con un rigore assoluto
mostra l’assoluta contraddizione di questa parola, non è altro che quel
decisivo cavallo di Troia per mezzo del quale la stessa Ilio cade.
Perché Ilio può cadere?
Perché il fondamento su cui si regge la sua legge è esso stesso una fede
ovvero un dubbio che la volontà di potenza ha mutato in certezza. Ciò
vuol dire che l’essenza di questa fede non è affatto l’incontrovertibile ma, al
contrario, la pura controvertibilità. La volontà è il gendarme della fede, cioè
il gendarme della parola: ha il dovere di impedire alla parola di asserire ciò
che è contrario alla fede. Ma allora la legge del nichilismo è infranta nel
momento in cui si sottrae la parola stessa alla schiavitù del senso a cui la
sottomette la volontà di potenza.
4.
Il cavallo di Troia
La storia dell’Occidente è veramente storia
di un errore, ma non limitatamente al senso che Nietzsche voleva intendere
con tale espressione, bensì nell’accezione più ampia che ne fa la legge che
comanda all’uomo di pensare la sua esistenza, ancor prima che viverla, come
esistenza che è sospesa sul niente, esistenza mortale.
Ma ora possiamo anche arrivare a
vedere che, se è vero che Ilio offre la prima idea paradigmatica di questa
legge, è pur vero, anche, che l’Iliade resta il poema della guerra
contro Ilio. Ed è forse giunto ora il momento di recuperare questo aspetto
che, nel tessere assieme gli elementi fondamentali della questione, abbiamo
dovuto tralasciare: l’Iliade, ove abita la legge fondamentale
dell’Occidente, è il poema della lotta per la distruzione di Ilio, per
l’abbattimento delle sue solide mura. Ma, per quanto possa parere
paradossale, questa guerra, in Omero, non è affatto combattuta e nessuno dei
partecipanti pare realmente avvedersi del suo significato: non c’è differenza
tra Achei e Troiani, entrambi, come osservavamo, abitano il medesimo orizzonte,
per ragioni diverse sono entrambi abitatori della legge di Ilio, si battono per
i medesimi valori e condividendo il medesimo orizzonte. Ilio risorge,
proprio per questo, continua a risorgere, Omero ne canta la guerra, la lotta
per la sua espugnazione, ma questa guerra non riesce a penetrare nel cuore
sicuro, nell’essenza della città, non scalfisce la sua legge più profonda: la
guerra contro Ilio, in qualche modo, è ancora una speranza che ha da
venire. La legge stessa, anzi, pare del tutto taciuta, nascosta, occultata
sotto i fatti e gli accadimenti più esteriori. Si combatte sì sotto le porte
Scee, ma, in definitiva, sfugge il vero perché: in fondo non c’è differenza tra
assedianti e assediati, o, meglio, nessuno riesce a scorgere tale differenza, a
dirla.
E ciò accade proprio perché nessuno
potrebbe pensare o dire con sufficiente chiarezza quale sia
questa differenza: la legge dell’Occidente, in Omero, è un silenzio, un tacito
accordo che nessuno proferisce ma che tutti, necessariamente, presuppongono.
Ecco allora la storia che abbiamo tratteggiato: storia della costituzione
di questa legge, del suo emergere in forza e chiarezza, del suo prender vigore,
coraggio, traendosi fuori dall’oblio e dal nascondimento in cui la custodiva il
silenzio. La legge prende la parola, diventa Stato, Epistéme,
diventa Religione, Civitas Dei, si rivela pienamente come volontà di
potenza, Téchne.
Più la legge di fa chiara, più la sua parola si
fa netta e precisa, più il suo pensiero si fa radicale, più essa stessa è
capace di mettere identificare correttamente il suo nemico e dare alle fiamme
ardenti le sue eresie. Così Platone fa con Parmenide, così il Nichilismo con
Platone: ogni volta la legge dell’Occidente mette al bando ciò che della
primigenia Ilio resta come debolezza, ciò che nella sua ultima rifondazione era
rimasto imperfetto, ciò che ancora le impedisce di emergere come Assoluto. Io
sono questo e solo questo, oltre questo niente, o questo o niente: dunque
bisogna ammettere, contro Parmenide, che l’Essere sia molteplice e che ogni
cosa sia un non essere per l’altra, cioè che la molteplicità sia una pluralità
di cose separate e finite, ciascuna un “questo”, sicché, diventar altro
è andare nel nulla da ciò che si era. Ma se bisogna tener fermo che io sono
questo e solo questo e che o questo o niente, allora se mi si pone innanzi un Ente
Sommo che pretende di essere il Bene illimitato, l’infinito, l’aliquid
quo nihil maius cogitari possit, ebbene, bisognerà rispondere con tutta
coerenza, alla fine, che questo Ipsum Esse non può affatto
esistere e che, in quanto portatore di una Parola diversa, assedia e
minaccia alle radici la solidità della nostra esistenza, così ben protetta
dentro Ilio fiorente.
Anzi, potremmo aggiungere: proprio perché inizialmente si è voluto credere in ciò che questa Parola annunciava, e in cui la nostra legge ci legittimava a sperare, ebbene, la si è in un primo tempo lasciata accedere alla rocca, penetrare nel cuore della nostra Civiltà. Però «la parola non ha guarito la malattia dell’ascolto, ma ne è rimasta contagiata»[27], per questo, ad un certo punto, la scelta s’è fatta esiziale e questa parola essenzialmente nemica dell’Occidente, la si è dovuta uccidere.
Ciò che qui si sta dicendo non vuole essere una
banalizzazione della storia dell’Occidente ma semplicemente intende
riconoscere, nella complessità dello sviluppo cui è andata incontro tale storia
nel suo dispiegarsi, i punti di partenza e arrivo e i loro snodi fondamentali.
Il processo della costituzione della Civiltà Occidentale è la costante
rifondazione di Ilio dalle solide mura, ogni passo di questo processo
porta tale Civiltà a configurarsi sempre più chiaramente come una civiltà
della solitudine, ovvero come la conquista stessa dell’Assoluto, inteso
alla lettera come il totalmente sciolto da altro, come ciò al di fuori del
quale non resta niente.
Ma proprio oggi che questa legge è
proclamata con una solennità fino ad ora inaudita, proprio oggi diventa
chiaro qual’era il perché della guerra contro Ilio, il perché il poema che
cantava di questa città la cantasse in quanto città assediata e da espugnare,
da abbattere. La legge che da Omero al nostro oggi fonda la Civiltà Occidentale
in quanto civiltà della solitudine è una legge che nega nel modo più radicale
la verità stessa di ciò che vuole governare: la legge di Ilio si pone come
legge dell’esistenza e, al contempo, chiudendola nella schiavitù del “questo e
solo questo”, fa dell’esistenza una divagazione sopra l’abisso del niente. Per
tal motivo essa è una legge ingiusta, oltre che ontologicamente
infondata: ciò che chiede non esiste e non può esistere, se Essere e niente si
tengono come parole significanti. In quanto ontologicamente infondata, la legge
di Ilio impone all’uomo di esistere nella dimensione della non verità, della
menzogna, dell’errore. L’errore è, per usare le parole di Severino, l’isolamento,
il pretendere che l’esistenza sia lo star fermi nella rocca del proprio sé, il
tenersi stretto il proprio piccolo se stesso, il proclamare io sono
questo e solo questo, o questo o niente.
L’errore presuppone la
verità. Si pone il limite fermo e inviolabile delle mura e dentro questo
confine si pone la propria esistenza, perché solo così è possibile dominare
tale esistenza: la volontà di potenza, per dominare l’Essere, ha la necessità
di confinare l’Essere entro solide mura entro cui lo possa signoreggiare
come suo re. Ma poiché questo dominio è violenza e alienazione non potrà
mai assurgere a conquistarsi quella solidità che tuttavia sempre brama:
inventando il proprio nemico, un fuori separato ed estraneo a ciò che io sono,
la volontà di potenza non potrà mai liberarsi del suo assedio. L’assedio
è imposto dal fuori e da quel diventar altro che vien detta
essere la morte. Ma queste parole, sottratte alla schiavitù a cui la legge di
Ilio le sottopone, parlano, nella loro essenza, unicamente dell’impossibilità
che l’Essere sia davvero ciò che in Ilio si vuole credere e rivendicano
a questa parola ciò che per diritto le spetta come suo senso più autentico e inaudito:
l’infinitudine, cioè la libertà da ogni confine che imponga a chi
abita gli spazi dell’esistere di essere un “questo e solo questo”[28].
I Troiani, domatori di cavalli,
vengono sconfitti quando fanno entrare nella loro città il simulacro più
splendido di ciò amano, un cavallo. Così, nel momento in cui la legge di
Ilio scopre le carte della propria contraddizione e, con la massima coerenza,
afferma la contraddizione della propria insensatezza, tale legge cade e i suoi
ordini, pur continuando a risuonare e strepitare, diventano ineseguibili,
giacché comandano ciò che afferma di non poter essere comandato.
La storia dell’Occidente, dunque,
non è soltanto storia di un errore. La storia della Civiltà Occidentale
è il lungo poema che narra l’assedio e la guerra contro una città che comanda
all’uomo di esistere pensando quest’esistenza come una nullità, l’assedio e la
guerra di una città che tiene segregata e chiusa entro le sue solide mura
la vita e la bellezza dell’esistere, pretendendo che queste siano precisamente
quello stare lì e solo lì, quell’esser “questo stare e solo questo, o questo o
niente”. La storia dell’Occidente è un’Iliade che ancora non si è
compiuta.
Omero narra la caduta della città in un
diverso poema per mano di un diverso eroe. Così, pure, ora che si mostra in
tutta chiarezza come l’essenza dell’Occidente sia l’essenza stessa del
nichilismo, e come la sua legge sia la volontà che costringe a isolare
l’esistenza nel “questo”, facendo un Assoluto di ciò che assoluto non può
essere, ovvero destinandola unicamente ad assoluta solitudine, ebbene, è
davvero giunto il tempo di una svolta epocale che solo a questo punto può esser
pensata in tutta la sua portata, svolta come non ve ne furono altre nel corso
della nostra Iliade, dal momento che essa, essenzialmente, appartiene
già, come in Omero, ad un diverso poema.
Anzi, di più: appartiene ad un poema che deve
ancora essere scritto, le cui parole hanno ancora da essere pensate e il cui
senso resta ancora inaudito. L’Odissea, quella sorta di
fantastico seguito dell’Illiade, non fugge affatto dalla legge della
città che Odisseo ha fatto cadere: lui, guerriero che non ama la guerra e
navigante che non ama navigare, è costretto a mettersi in cammino, è
costretto ad andare errante sui mari, laddove invece la sua volontà sarebbe
quella di tornare a casa, sulla sua isola. Per l’Occidente, ogni viaggio
deve avere un fine, un telos, altrimenti è un errare, un errore:
Ilio ha domato Odisseo, affidando a lui il compito di portare seco sui
mari del tempo le parole della sua legge, o, meglio, la legge con cui domare
le parole. E se mai Odisseo avesse da desiderare di imbracciare i
remi per andare al di là del limite, mettersi per l’alto mare aperto, di
certo non potrebbe che sprofondare nell’errore e meritare quindi una divina
condanna, come Dante pure ci testimonia. Diverso poema dovrà dunque
essere quello con cui aprire una nuova pagina della storia dell’Occidente, e
avrà da iniziare proprio dando all’errare non più il senso dell’errore,
quanto quello dell’andare che liberato da ogni fine resta infinito nel suo
senso. Occorrerà una buona volta prendere sul serio quella parola che il
nichilismo alla fine ha dovuto riconoscere come un errore, è giunto
forse davvero il tempo di «rinascere dall’alto», dall’altro che ancora non
abbiamo saputo essere, che non abbiamo voluto.
Occidente: domatore di parole. Così
la legge di Ilio risuona costringendo il dire a dire il senso che la sua volontà
di potenza impone alle cose. Ma quale sarà allora il cavallo di Troia
per mezzo del quale cadranno finalmente le mura di questa città, quale se non
quello che parla una lingua diversa e che nel cuore più protetto della rocca
semina parole lì inaudite, nemiche della sua legge, giacché sicure prendono ad
affermare che l’Essere è sempre e libero nella sua infinitudine, e il
“questo” in quanto tale non è nulla?
Proprio perché la legge del
nichilismo intende l’Essere come qualcosa che si lascia domare e cavalcare dal
niente, proprio perché intende l’esistenza come l’esser-sempre-mio,
l’esser-sempre-sé, il raccogliere la molteplicità limitandola entro i confini
perfetti dell’Uno, ebbene, proprio per tal motivo, per espugnare la città
basterà riportare questa parola al suo senso originario, ovvero a quel senso
che rifiuta come impossibile e insensato ciò che la legge pure vorrebbe
imporgli di significare.
E’ questa una guerra che si gioca
tutta sul piano del dire. Ed è questa la guerra più radicale e tremenda che si
potrebbe condurre, giacché è pur sempre questo il piano del pensare, dunque il
luogo nel quale l’uomo pensa se medesimo e il suo esistere e il senso di tale
esistere, e in base a tale senso medita il modo, la misura e l’eventualità di
rapportarsi all’essere di tutte le cose. Sottrarre la terra e l’uomo con essa
all’isolamento e alla solitudine è possibile solo intraprendendo
un’opera radicale di emendazione della parola, riportando al dire la
capacità di nominare ogni cosa non in quanto questa cosa unica e finita,
sciolta e per sé esistente quando esiste o per sé inesistente quando non
esiste, ma piuttosto in quanto cosa essente a cui compete l’Essere non
come un attributo che può o non può darsi, ma come qualcosa di già da sempre,
per sempre, eternamente dato nella sua illimitatezza.
Si tratta, dunque, di una vera e
propria guerra di liberazione, essendo il suo perché orientato tutto
all’abbattimento delle solide mura con cui la legge dell’Occidente ha
preteso isolare la propria esistenza, trasformandola e traducendola nella
tracotanza della volontà di potenza. Tale guerra non si vincerà con
battaglie o scontri campali, se stiamo alla lettera di Omero sarà l’acuto
ingegno a determinare la vittoria. L’Iliade finiva con la morte di
Ettore, ovvero con la morte del più valoroso difensore di Ilio, così, restando
nel paragone, l’epoca del nichilismo assolutizzando e radicalizzando in massima
coerenza la legge fondamentale dell’Occidente, pure la scopre per ciò che è: follia.
La nostra Iliade terminerà con la morte del Dio che da sempre ci domina
e che ha assoggettato a sé ogni altra divinità: in questa morte avranno da
crollare le mura del tempio in cui è rinchiuso, imponendogli di aprirsi,
di accogliere il fuori, di risorgere, di rinascere.
La follia è quella che
dominando e soggiogando la parola alla propria volontà mira a render mute le
parole e ridurre l’uomo che le pensa alla pura idiozia. La guerra contro questa
follia è la guerra contro l’insignificanza del dire, diventa la lotta
che intende riportare ogni parola al suo significare l’”è” che di
diritto le appartiene e come tale appartiene già da sempre a ogni cosa, per
sempre. Far emergere il senso dell’essere di ciò che si dice, quel senso in cui
ciò che è detto può essere detto proprio in quanto da sempre è: tale è il
compito dell’emendazione, ovvero il piano della battaglia che ora
s’annuncia.
Questa battaglia è ancora tutta da
combattere. S’è costruito il cavallo, ma pure con ciò non si è che all’inizio.
E tuttavia possiamo già gettare lo sguardo innanzi e scorgere quale vittoria e
quale trionfo ci prospetta questa lotta a cui dobbiamo prepararci.
Pensare l’esistenza fuori dalla
legge del nichilismo, significa, forse, provare il più grande spaesamento che
l’uomo Occidentale possa concepire: trovarsi di colpo in mezzo ad uno spazio
sterminato, senza protezione, senza muri dietro cui rifugiarsi, senza ripari e
senza urne dorate entro cui mettere in salvo almeno le proprie ossa. Come
annota Nietzsche: «il principio del nichilismo: il distacco, la separazione
dalla terra natia, che comincia con lo spaesamento, che finisce con l’inquietudine»[29].
Eppure, se si avrà il coraggio di tener testa a
questo spaesamento, se si riuscirà a tener fermi gli occhi sulla linea
sconfinata dell’orizzonte, ebbene, allora, forse, sarà dato di conoscere
qualcosa come la libertà, quella parola che più di tutte la legge
dell’Occidente vieta di pronunciare nel suo senso autentico. Caduti i muri,
crollate le fortezze, cadono pure i confini e con loro ogni separazione tra
dentro e fuori, amico e nemico. Manca il fine: resta il senso, ovvero
non già la meta cui il nostro andare deve andare a finire, ma la direzione che
indica al nostro muovere il suo essere eternamente in cammino.
Libertà, come altrove s’è detto, non
è poter far essere le cose che si vogliono far essere o ridurre nel nulla ciò
che non si vuole che esista. In questo senso, la possibilità della scelta,
presupponendo che le alternative che ci si pongono innanzi siano qualcosa a cui
si ha da attribuire esistenza, giacché di per sé l’esistenza non compete loro,
ebbene, tale possibilità non è altro che il modo in cui la legge del nichilismo
domina e traduce nella sua lingua mendace il significato della parola
“libertà”.
Libero, ontologicamente, è invece
precisamente l’illimitato, ciò che non è costretto ad essere questo e solo
questo, ciò che è sempre anche questo ma mai solamente questo, ciò che
sta qui ma mai tutto qui e sempre è infinitamente più di ciò che sta qui,
giacché il suo essere è il cammino stesso che eternamente lo porta avanti a
sé, altrove. La libertà non nega la finitezza, intesa come essere un
qualcosa di determinato piuttosto che qualcos’altro, nega però a tale finitezza
il rango di assoluto, ovvero la strappa e la salva dalla sua solitudine. La
libertà è il contrario esatto dell’isolamento in cui ci confina l’essenza
del nichilismo.
E’ dunque venuto il momento in cui,
senza tema di esagerare, occorre decidersi ad assumere su di sé la
responsabilità di abitare l’Occidente non come i sacerdoti della sua legge, ma
come gli assedianti che mettendo in salvo la parola dall’insignificanza a cui
tale legge vuole ridurla, lottando per trovare il compimento di questa civiltà
della solitudine in una civiltà della Rinascenza, ovvero in quel
luogo senza confini e senza mura ove l’esistenza, in quanto priva di fine e
radicata unicamente nel suo senso, è chiamata costantemente a procedere
innanzi, ad essere il suo stesso procedere, il suo andare, il suo costante
aprirsi all’orizzonte che ad ogni passo arretra mostrando e disvelando i nuovi
doni dell’Essere alla terra non più isolata. Un’esistenza, quindi, che
non è più un essere-per-la-morte ma un costante rinascere alla
libertà di chi abita nell’infinito e che quindi si ritrova ad essere sempre
più di quello che ad ogni passo pure credeva di essere. Libertà tanto
radicale, diciamo, da saper dare alle parole che già un tempo abbiamo pensato e
pronunciato, un senso che a tutta prima suona inaudito, ma che suona
tale solo perché da tempo immemore ci eravamo abituati a non voler più
ascoltare.
L’invocazione del tramonto della solitudine invoca il tramonto del ‘mondo’, cioè della terra come opera dell’alienazione. Ma, come invocazione del tramonto, il pensiero che testimonia la verità dell’essere può incominciare a tendersi al riascolto della terra e di ogni parola della terra. Non si tratta di inventare cose nuove, ma di lasciare che le parole della terra dicano ciò che esse dicono da quando sono state offerte alla verità dell’essere[30].
La legge del nichilismo ha strappato
al Cristianesimo stesso la sua Parola originaria per seminare nel suo “Dio” una
forma, né la prima né l’ultima, della propria autoaffermazione: il
Cristianesimo, nel suo esser altro dall’Occidente e portatore d’altra parola,
fu vittima di Ilio. Fu prima accolto, poi rinchiuso e infine immolato,
sino a che il suo dire, sprofondato in questa alienazione, in questo peccato,
non finì per risultare del tutto assurdo, assolutamente incredibile.
Se giungiamo a riconoscere come il grande e vero
Dio nascosto che da sempre ha dominato sull’Occidente e di cui solo fu
possibile agli abitatori dell’Occidente dare testimonianza, fu il Dio della
Solitudine, dell’Isolamento e della Morte, ebbene, ecco allora l’autentica trasvalutazione
di tutti i valori, dettata non più dalla volontà di potenza ma
precisamente dal suo contrario, dal Destino della necessità: ritradurre e pensare come debbano suonare
nella lingua che parla della verità eterna dell’Essere le stesse di Nietzsche,
profeta del Nichilismo:
il maggiore degli
avvenimenti più recenti — che “Dio è morto”, che la fede nel Dio cristiano è
divenuta inaccettabile — comincia già a gettare le sue prime ombre sull’Europa.
Almeno a quei pochi, lo sguardo, la diffidenza di sguardo dei quali è
abbastanza forte e sottile per questo spettacolo, pare appunto che un qualche
sole sia tramontato, che una qualche antica, profonda fiducia si sia capovolta,
in dubbio: a costoro il nostro vecchio mondo dovrà sembrare ogni giorno più
crepuscolare, più sfiduciato, più estraneo, più “antico”. Ma in sostanza si può
dire, che l’avvenimento stesso è fin troppo grande, troppo distante, troppo
alieno dalla capacità di comprensione del maggior numero perché possa dirsi già
arrivata anche soltanto notizia di esso; e tanto meno, poi, perché molti
già si rendano conto di quel che propriamente è accaduto con questo
avvenimento — e di tutto quello che ormai, essendo sepolta questa fede, deve
crollare, perché su di essa era stato costruito, e in essa aveva trovato il suo
appoggio, e dentro di esse era cresciuto. […] In realtà, noi filosofi e
“spiriti liberi”, alla notizia che il vecchio Dio è morto, ci sentiamo come
illuminati dai raggi di una nuova aurora; il nostro cuore straripa di
riconoscenza, di meraviglia, di presentimento, d’attesa, — finalmente
l’orizzonte torna ad apparirci libero, anche ammettendo che non è sereno, —
finalmente possiamo di nuovo scioglier le vele alle nostre navi, muovere
incontro a ogni pericolo; ogni rischio dell’uomo della conoscenza è di nuovo
permesso; il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse
non vi è ancora mai stato un mare così “aperto”[31].
[1] Omero, Iliade, trad. it. a cura di Maria Grazia Ciani, Marsilio, Venezia 2000, p.118.
[2] Omero, Iliade, cit., p. 15.
[3] Ivi, p. 62.
[4] Ibidem.
[5] Ivi, p. 4.
[6] Ivi, p. 504.
[7] Ivi, p. 435.
[8] Ivi, p. 125.
[9] Ivi, p. 175.
[10] Ivi, pp.445-6.
[11] Ivi, p. 441.
[12] Platone, Repubblica, 606d-607a, trad. it. a cura di F. Sartori, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 675.
[13] Ivi, 607c, p. 675.
[14]
Ivi, 378d-e, p. 131.
[15] Platone, Filebo, 16c, trad. it., in Platone, Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 2000, p. 432.
[16] Platone, Repubblica, 462b, cit., p. 331.
[17] Ivi, 423d-424b, p. 237.
[18] Ivi, 443d-e, p. 289.
[19] Ivi, 611a, p. 685.
[20] Giovanni, 3, 1-15.
[21] Platone, Repubblica, 621c, cit., p. 707.
[22] F. Nietzsche, La volontà di potenza. Scritti postumi per un progetto [1887-1888], trad. it., in Id., Opere 1882-1895, Newton, Roma 1993, frammento 411, p. 1039.
[23] F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, aforisma 55, trad. it., in Id., Opere 1882-1895, cit., p. 469.
[24] E. Severino, La terra e l’essenza dell’uomo, in Id. Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 197.
[25] Ivi, p. 202.
[26] Ivi, pp. 205-6.
[27] E. Severino, Alienazione e salvezza della parola, in Id., Essenza del nichilismo, cit., p. 274.
[28] Cfr. A. Sangiacomo, La sfida di Parmenide. Verso la Rinascenza, Il Prato, Padova 2007, pp. 164-187.
[29] F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit., frammento 335, p. 1012.
[30] E. Severino, Alienazione e salvezza della parola, cit., p. 278.