E. DE MARTINO: MONDO MAGICO, FINE DEL MONDO ED ETNOCENTRISMO CRITICO
di Diego Fusaro
1.
La critica allo “storicismo pigro”.
“Il mondo magico costituisce un eccellente
agone in cui il pensiero storicistico può cimentare se stesso, e conquistare
combattendo più larga coscienza delle proprie possibilità e delle proprie
virtù”[1].
Due sono i punti nodali della riflessione che
Ernesto De Martino svolge ne Il mondo
magico sui quali soffermeremo la nostra attenzione: la polemica condotta
contro lo “storicismo pigro”, incapace di aprirsi alla comprensione di ciò che
è situato oltre i confini della civiltà occidentale, e il tema della “presenza”
nel “mondo magico”. Si tratta di due temi strettamente connessi, che, nel loro
richiamarsi reciproco, vengono da De Martino costantemente intrecciati, con la
conseguenza che non è possibile affrontare l’uno senza occuparsi anche
dell’altro. Li analizzeremo anche alla luce delle riflessioni successive che su
di essi De Martino svolge nei frammenti sparsi poi editi con il titolo La fine del mondo. E soprattutto in
riferimento a questo scritto, inoltre, sfioreremo, seppur solo tangenzialmente,
il problema del rapporto intrattenuto da De Martino col marxismo.
Per potersi addentrare nel vivo della
polemica demartiniana contro il metodo occidentale di porsi verso le altre
culture, occorre prendere le mosse dalla prima delle due prefazioni con cui si
apre Il mondo magico: in essa,
l’autore mette in luce come il compito fondamentale dell’etnologia
storicistica, già tratteggiato in Naturalismo
e storicismo, consista nella “possibilità di porre problemi la cui soluzione conduca
all’allargamento dell’autocoscienza della nostra civiltà”[2]; a
questo ambizioso obiettivo si oppone lo storicismo di Benedetto Croce e dei
suoi discepoli, ai quali De Martino imputa l’aggravante di aver preferito
elaborare una sorta di “scolastica” crociana, volta a sistematizzare l’idealismo
del filosofo napoletano, anziché cercarne sviluppi verso nuove e più alte
direzioni. Il loro “storicismo pigro”[3] e
“sermoneggiante”[4],
dogmatico e intento a tramutare ogni verità in verità spirituale e statica, è
assolutamente incapace di guardare al di là della civiltà occidentale, nei cui
confini resta imprigionato. Croce stesso, dopo aver fatto valere l’identità tra
storia e filosofia all’interno del proprio sistema, aveva prospettato
un’immagine della storia dai confini troppo angusti: infatti, intendendola come
lo “sfondo omogeneo su cui si stagliano le battaglie che uno Spirito uno e
identico combatte attraverso le sue quattro forme”[5], egli
l’aveva di fatto identificata con la storia della cultura occidentale, nella
convinzione che al di là di essa non si desse storia. È, non a caso, proprio
nelle pagine de Il mondo magico che
si consuma la frattura demartiniana con la filosofia di Croce, di cui fino ad
allora s’era considerato allievo. Allo storicismo crociano, De Martino oppone
quello “storicismo eroico”[6] che,
rigettando l’inerzia su cui riposava quello dei Crociani, si concentra
eminentemente sul “fare” e sul “plasmare” propri dell’uomo, assumendo ogni
“incompreso” e ogni “immediato” come spunti di confronto e di allargamento
della consapevolezza storiografica.
Uno storicismo di questo genere, che alla
staticità preferisce l’attività e il progredire, deve misurarsi col mondo
magico: e non in maniera fine a se stessa, bensì per ampliarsi e per prendere
coscienza dei propri limiti. È per questa ragione che, ne Il mondo magico, De Martino intreccia senza posa i due momenti
dell’analisi del mondo magico e dello studio del modo occidentale di porsi nei
confronti di quel mondo. E, in realtà, è soprattutto intorno al secondo dei
problemi che orbita l’interesse del filosofo napoletano. Benché in tutta
l’opera l’espressione non compaia neppure una volta, De Martino ha già almeno
in parte fatta sua quella prospettiva che, negli scritti successivi e ne La fine del mondo, qualificherà con
l’etichetta di “etnocentrismo critico”, contrapponendolo tanto
all’irrazionalismo quanto al relativismo: in opposizione a quanti, come Croce e
Hegel, propugnano un’assoluta superiorità della civiltà occidentale,
superiorità in forza della quale il confronto con le altre culture sarebbe
inutile e ozioso, e a quanti liquidano sbrigativamente il problema ponendo
sullo stesso piano tutte le culture, De Martino è fermamente convinto della
grandezza della civiltà occidentale ma al tempo stesso ritiene che tale
grandezza si manifesti nella capacità di tale civiltà, l’unica a possederla, di
spingersi al di là delle proprie colonne d’Ercole, aprendosi al confronto con
le altre civiltà. Come sottolinea acutamente Cesare Cases, nell’ottica
demartiniana la civiltà occidentale “non può inverarsi se non negandosi”. Se
volgiamo lo sguardo a La fine del mondo,
tra le molteplici definizioni di “etnocentrismo critico” che possiamo
rinvenire, ve n’è una che chiarisce in maniera particolarmente esaustiva, oltre
che icastica, il concetto: De Martino asserisce che l’etnocentrismo critico è
l’atteggiamento di chi “pone in causa il proprio etnos nel confronto con gli
altri etne”[7]
e “si apre alla prospettiva di un umanesimo molto più ampio di quello
tradizionale”[8],
che il nostro autore, ne Il mondo magico,
aveva qualificato come “umanesimo ristretto” perché limitato alla cultura
occidentale. L’etnocentrismo è inevitabile – precisa De Martino ne La fine del mondo – nella misura in cui
il giudizio che noi occidentali formuliamo intorno alle culture extraoccidentali
“non può non essere etnocentrico”[9],
ossia fondato su categorie elaborate all’interno della nostra civiltà; ma deve
essere critico, ossia non dogmatico e consapevole della limitatezza strutturale
del proprio giudizio. In particolare, la presa di coscienza dell’inevitabilità
dell’etnocentrismo non dev’essere assunta come la prova dell’impossibilità né
della comunicazione tra culture intese come organismi chiusi (Oswald Spengler)
né dell’allargamento dei confini dell’umanesimo: a ciò si oppone infatti il
“postulato della comune umanità”[10] in
base al quale, a prescindere dalle etnie di appartenenza, siamo tutti
ugualmente uomini. Questo, che ai tempi de Il
mondo magico è un motivo che innerva il pensiero demartiniano in maniera,
per così dire, sotterranea e priva di una formulazione sistematica, diventa ne La fine del mondo un metodo
programmatico e consapevole di sé.
Nella prospettiva dell’“etnocentrismo
critico”, lo studio del mondo magico è simile allo studio dell’umanità classica
condotto dagli Umanisti, il cui ritorno ai “classici” mediò la scoperta di
un’umanità più profonda: “il nostro ritorno al magico deve mediare il progresso
dell’autocoscienza della cultura occidentale”[11],
affinché essa esca fuori di sé non per negarsi ma piuttosto per fare ritorno in
se stessa arricchita e, hegelianamente, aufgehoben,
“innalzata” in virtù del confronto con l’alterità delle culture non
occidentali. Sempre nella prefazione a Il
mondo magico, De Martino spiega come il metodo dello “storicismo eroico”
che intende seguire sia scandito in due momenti: in prima battuta, si muove
dalla “angustia di una Einstellung culturale non consapevole di sé”[12],
incapace di affrontare il problema del mondo magico in modo adeguato; in un
secondo momento, dopo aver fatto scricchiolare i pregiudizi sul mondo magico
dei quali si sostanzia la cultura occidentale, si “acquista coscienza dei
limiti del proprio orizzonte storiografico”[13] e si
sottopone ad analisi non solo il mondo magico, ma anche il modo occidentale di
accostarsi ad esso, smascherandone uno dopo l’altro i vizi interpretativi.
In particolare, il presupposto acritico col
quale la cultura occidentale (e De Martino fa anche nomi e cognomi dei
destinatari della sua critica, tra i quali spiccano Lehmann, Frazer, Clodd,
Lang, Lévy-Bruhl) si accosta al “problema dei poteri magici” consiste,
paradossalmente, nel non porsi neppure il problema, dando già per scontata
l’irrealtà dei poteri magici: e ciò non deve stupire, alla luce del fatto che
le categorie scientifiche tramite le quali opera la nostra cultura
presuppongono inevitabilmente una natura “purificata da tutte le ‘proiezioni’
psichiche della magia”[14], in
opposizione alle quali è sorta la stessa scienza moderna. Infatti, la pretesa
fondamentale avanzata dalla magia – la sospensione delle leggi di natura al
fine di operare in essa a vantaggio dei singoli individui empirici – è in se
stessa la negazione tout court
dell’assunto su cui poggia la scienza. Dunque, “proprio la resistenza ad
accettare il problema deve diventare a sua volta un problema per il pensiero”[15].
Sicché, dall’iniziale critica indirizzata
allo storicismo, De Martino approda a una più ampia critica del metodo con cui
la cultura occidentale interpreta le altre, costringendole entro i suoi schemi
e, in ciò, compiendo una vera e propria “violenza”[16]
che la rende imputabile di un etnocentrismo che è acritico in misura non
inferiore a quello dei popoli primitivi che non riconoscono altra cultura
all’infuori della propria. Accostandoci al mondo magico con le nostre categorie
interpretative, che si sono storicamente sviluppate in opposizione a quel
mondo, non possiamo che travisarlo, o negando la realtà dei poteri magici –
liquidati alla stregua di meri errori frutto di una “struttura mentale” – o,
nella migliore delle ipotesi, ammettendoli ma nel quadro della nostra natura,
come fenomeni dati all’interno della legalità della natura. Nel primo come nel
secondo caso, si assolutizza la cultura occidentale e la si immagina
anacronisticamente già valida nel passato del mondo magico, come se quegli
uomini da noi così distanti fossero vissuti nella nostra stessa epoca senza
però raggiungere il nostro grado di cultura. Si tratterà allora di far valere
il punto di vista dell’“etnocentrismo critico”, che alla domanda “esistono i
poteri magici?” non risponde in maniera scontata con un “no”, ma distingue tra
la loro irrealtà nel nostro mondo culturale e la loro realtà nel mondo magico,
alla luce dei diversi concetti di realtà che animano le due diverse epoche
storiche. Spetta a noi moderni interrogarci sul senso del mondo magico, che
naturalmente sfuggiva ai suoi attori: in questo senso, il motto di Croce
secondo cui “ogni storia è storia contemporanea”, è valido anche per De
Martino, a patto che lo si concepisca come uno sforzo immane per recuperare un
mondo tramontato e, rispetto al quale, il nostro è, per così dire, un
capovolgimento.
2.
Il tema della presenza.
“L’uomo magico è esposto al
rischio della labilità nelle sue solitarie peregrinazioni, allorché la solitudine,
la stanchezza connessa al lungo peregrinare, la fame e la sete, l’apparizione
improvvisa di animali pericolosi, il prodursi di eventi inaspettati ecc.,
possono mettere a dura prova la resistenza del ‘ci sono’. L’anima andrebbe
facilmente ‘perduta’ se attraverso una creazione culturale e utilizzando una
tradizione accreditata non fosse possibile risalire la china che si inabissa
nell’annientamento della presenza”[17].
La “violenza” del modo occidentale di
accostarsi al “mondo magico” risulta evidente soprattutto se si considera
quello che De Martino definisce il “dramma della presenza”, concetto che segna
il suo avvicinamento all’esistenzialismo heideggeriano (ancorché si tratti,
come rileva Cases, di un esistenzialismo visto “da un’angolazione idealistica”[18]):
sono infatti mutuate da Martin Heidegger le nozioni di “esserci” (Dasein), inteso non jaspersianamente
come l’insieme delle cose presenti nel mondo, bensì come lo specifico essere al
mondo proprio dell’uomo, e di “presenza” (Vorhandenheit), concepita come
l’“essere alla mano” delle cose nel senso della loro “utilizzabilità” (Zuhandenheit). Di queste due nozioni, De Martino fornisce
una declinazione molto specifica e, a tratti, polemica verso Heidegger. In
quell’epoca dai contorni ben definiti che è il “mondo magico”, l’esserci nel
mondo non è certo né garantito, ma è piuttosto “una realtà condenda”[19],
sempre esposta al rischio della labilità e dell’annullamento, a cimenti
tremendi che “possono mettere a dura prova la resistenza del ‘ci sono’”[20],
al pericolo di perdere l’anima e di non esserci più. Esattamente in questo
risiede il “dramma storico” che caratterizza il mondo magico. E la volontà di
esserci come presenza davanti al rischio di non esserci è l’angoscia che
accompagna sempre e di nuovo l’uomo di quel mondo. A questa prospettiva erano
approdati anche i cosiddetti “irrazionalisti” (Lévy-Bruhl, Klages, Dacqué), che
però ad essa si erano arrestati, senza accorgersi che il mondo magico è anche
percorso dallo sforzo di sottrarsi al rischio di non esserci. In vista di ciò,
è la magia a elaborare sempre nuove strategie (guarentigie,
compromessi, compensi) per garantire la presenza umana nel mondo, per agire in esso anziché essere agiti da esso. In particolare, sventare
il rischio della scomparsa della presenza è compito di quello che De Martino
chiama “l’eroe della presenza, il Cristo magico, cioè lo stregone”, il
quale vive la dissoluzione e il riscatto della sua
presenza anche per gli altri. In questo senso, l’esserci quale appare nella
riflessione di De Martino assume l’aspetto di un “dover esserci” il cui
orizzonte è tracciato da un limite dinamico e costruito socialmente: non si
tratta, dunque, di un limite statico, quale è il Dasein heideggeriano, con il quale De Martino polemizza fortemente
ne La fine del mondo[21],
quando afferma che “il fondamento dell’umana esistenza non è l’essere ma il
dover essere”[22]
contro il rischio di non essere più. La polemica anti-heideggeriana era già
presente ne Il mondo magico, là dove
De Martino metteva in luce come, in opposizione alla prospettiva heideggeriana,
secondo la quale il Dasein trova
sempre e universalmente[23]
dinanzi a sé un oggetto stabile e l’angoscia sorge dal timore di perderlo, nel
“mondo magico” la presenza è qualcosa di incerto, che deve essere continuamente
fondato. Questa concezione della presenza è antitetica rispetto a quella della
cultura occidentale, per la quale l’“io” è un dato che cade al di là di ogni
possibile dubbio: dai Greci in poi, passando per il Cristianesimo, siamo
abituati a considerare la presenza come l’esserci elementare, fondato e
condizionato dal principio – tematizzato da Immanuel Kant – dell’atto della
funzione sintetica trascendentale: così intesa, la presenza si mantiene in
quanto capace di trascendere, attraverso l’atto, qualsiasi contenuto
esistenziale, qualsiasi accadimento emozionale della vita individuale o
collettiva. A differenza di noi, che riportiamo immediatamente tutte le nostre
percezioni a un “io” trascendentale e stabile, gli uomini del mondo magico non
operano tale sintesi e per loro, in forza di questo mancato riferimento a
un’unità, i contenuti esperienziali diventano pericolosi per la presenza, in
quanto caotici e disordinati, e devono dunque essere disciplinati attraverso la
magia. In particolare, la crisi è plasmata e controllata attraverso la
ripetizione di gesti e tecniche che costituiscono il patrimonio collettivo e
storico del “così si fa”, nel quale sembra affiorare la categoria heideggeriana
dell’anonima indeterminatezza del man;
come del resto a Heidegger rimandano le nozioni di “deiezione”[24]
(il Verfallen heideggeriano) e di
“carattere fattizio”[25] (la Faktizität
heideggeriana).
Si tratta però di sfuggire alle secche in cui s’è arenata buona parte della
ricerca degli “irrazionalisti”, i quali hanno surrettiziamente inteso come
equivalenti l’antica magia e la moderna schizofrenia: è senz’altro vero che lo
schizofrenico, non meno dell’uomo del mondo magico, avverte costantemente in
pericolo il proprio esserci e si adopera per scongiurare tale rischio; tuttavia,
a differenza della magia antica, che rientra a pieno titolo in una “storicità
autentica” e che cementa la comunità riaffermando la presenza, la schizofrenia
è una “caduta dal piano storico-culturale” che isola l’individuo in una sorta
di crisi irrecuperabile in cui non si fa ricorso a tecniche magiche.
Ora l’inossidabile pregiudizio
che vizia l’approccio occidentale al mondo magico è quello di aver
assolutizzato, come se fosse l’unica possibile, la propria concezione della
presenza intesa come un qualcosa di certo e fondata sulla nozione cristiana di
persona: per questa ragione, se le credenze e i riti dell’uomo del mondo magico
ci paiono superstiziosi, “ciò accade perché indebitamente (antistoricamente) le
commisuriamo al ‘ci sono’ deciso e garantito del nostro mondo culturale”[26].
Le nostre categorie storiche sono
del tutto inadatte per comprendere un mondo storico entro il quale
l’individuazione è ancora un compito che esprime il dramma della presenza: non
c’è allora da meravigliarsi che la nostra cultura non abbia affatto colto il
dramma proprio di quel mondo e abbia visto in esso, come nel caso paradigmatico
di Adolfo Omodeo, soltanto un negativo di cui non si dà storia. De Martino, ne Il mondo magico, è convinto che il
“mondo magico” corrisponda a una precisa epoca storica, che ci siamo
irrimediabilmente lasciati alle spalle. Più precisamente, quel mondo scompare
quando la crisi della presenza non è più problema primario nell’esistenza
individuale e collettiva, perché la presenza è ormai stata fissata,
consolidata, garantita. I limiti di questa prospettiva sono messi in evidenza
da Enzo Paci[27],
il quale argomenta in favore dell’eternità del magico, presente in ogni epoca
storica alla stregua dell’arte o della morale: anche in virtù di questa
critica, ne La fine del mondo il
mondo magico perde il suo carattere storico e diventa qualcosa di “eterno”, che
può essere ascritto nella più generale Weltuntergangserlebnis[28], ossia nell’“esperienza di fine del mondo”
dinanzi alla quale l’uomo si mobilita per salvare il proprio esserci. Ciò non
di meno, De Martino mantiene saldamente la distinzione tra schizofrenia e
pratiche magiche. Lo stesso esistenzialismo heideggeriano è, ne La fine del mondo, largamente presente, integrato con quello
“positivo” di Nicola Abbagnano e con quello sartreano, anche in forza
dell’avvenuto avvicinamento demartiniano al marxismo. Anche Karl Jaspers, il
grande assente de Il mondo magico, è
ora un interlocutore privilegiato di De Martino, anche se in veste di psicologo
più che di filosofo dell’esistenza. Affiora anche il tema di una presenza che è
avvertita come a rischio oggi non meno di duemila anni fa: venendo meno in De
Martino la storicità del mondo magico, il rischio della presenza è esteso
all’intero arco storico ed è concepito nei termini dell’esistenzialismo. In
questo senso, la “fine del mondo” a cui fa ora riferimento De Martino è una
riproposizione della “crisi della presenza” di cui aveva parlato ne Il mondo magico. L’uomo quale lo intende
il nostro autore nei frammenti de La fine
del mondo, contrassegnato da una finitudine costitutiva, è un esserci
radicato in una “situazionalità”
inaggirabile ed è in costante trascendimento rispetto ad una realtà massiccia
e, insieme, opaca: come aveva insegnato Sartre ne L’essere e il nulla, la coscienza umana è costantemente impegnata
ad opporsi alla datità dell’essere nullificandola.
3.
La critica di Croce e il marxismo
“La lotta moderna contro ogni
forma di alienazione dei prodotti del
lavoro umano presuppone come condizione storica l’umana fatica per salvare la
base elementare di questa lotta, la
presenza che sta garantita nel mondo”[29].
In una prima recensione de Il mondo magico, Croce aveva tessuto le
lodi dello scritto, qualificandolo encomiasticamente come “ricco
nell’informazione, acuto e solido nella dimostrazione e lucido nella
esposizione”[30],
pur dissentendo dalla convinzione demartiniana secondo cui le categorie con cui
si interpreta l’accadere storico, lungi dall’avere un valore assoluto,
sarebbero storicamente determinate. Tuttavia, in una seconda e ben più ampia
recensione dell’opera, il filosofo napoletano aveva radicalmente mutato
giudizio, sottoponendo ad una critica impietosa quell’ammissione demartiniana
della storicità delle categorie che, nella prima recensione, era stata
rimproverata solo di sfuggita e in maniera quasi benevola. L’errore
imperdonabile commesso da De Martino è da Croce ravvisato in un indebito
capovolgimento della prospettiva del “vero” storicismo: dimenticandosi che è lo
spirito a creare la storia, De Martino ha ammesso l’esatto contrario, facendo
dello spirito un qualcosa di creato dalla storia nel suo incessante avanzare.
L’aspetto forse più interessante di questa querelle
è che Croce, nel formulare la sua condanna del metodo demartiniano, lo accosta alla
“prequarantottesca spiritosa invenzione”[31] del
marxismo, che, interessato a trasformare il mondo anziché a conoscerlo, ha
storicizzato le categorie interpretative: e non esclude che De Martino sia
rimasto abbagliato da questa filosofia che lo stesso Giovanni Gentile aveva
bollato come “uno dei più sciagurati deviamenti dell’hegelismo”[32].
Sembrerebbe, a tutta prima, un’accusa infondata, alla luce del fatto che De
Martino, ne il Mondo magico, non fa
ancora professione di marxismo e la sua stessa adesione al partito comunista
avverrà solo due anni più tardi, nel 1950. Eppure egli sembra già orientarsi,
in qualche misura, con le coordinate fissate da Karl Marx: non solo per quel
che concerne la storicizzazione delle categorie interpretative, ma anche e soprattutto
per il finale dell’opera, in cui il richiamo a Marx è evidente:
“la lotta moderna contro ogni
forma di alienazione dei prodotti del
lavoro umano presuppone come condizione storica l’umana fatica per salvare la
base elementare di questa lotta, la presenza
che sta garantita nel mondo”[33].
Come nel caso dell’“etnocentrismo critico”,
anche in quello del marxismo ci troviamo dinanzi a un orizzonte di pensiero già
presente sullo sfondo ma che tuttavia non dice ancora il suo nome né ha piena
coscienza di sé: spetterà agli scritti successivi dispiegare ciò che ne Il mondo magico è presente ancora in
forma embrionale. Ma si tratterà di un dispiegamento tutt’altro che lineare, se
si considera che De Martino abbraccerà il marxismo abbandonando però la storicità
delle categorie e, in ciò, “riconvertendosi”[34] alla
filosofia crociana, con la quale continuerà ad intrattenere un rapporto di odi et amo. In particolare, se volgiamo
ancora una volta lo sguardo a La fine del
mondo, possiamo constatare come De Martino abbia ridotto la distanza
siderale che lo separava da Croce ai tempi de Il mondo magico, riassumendo nuovamente l’assolutezza delle
categorie, ma al tempo stesso non si identifichi in pieno con le posizioni del
suo maestro, nella misura in cui resta fedele al marxismo: certo, un marxismo
eterodosso e, se vogliamo, “eretico”, contraddistinto dal rifiuto di
quell’“imbarbarimento positivisico”[35] che
riduceva ogni esperienza culturale e religiosa a mera emanazione meccanica
della struttura economica. Un marxismo che De Martino, certo non insensibile
alle suggestioni di Karl Löwith e di Ernst Bloch, rileggeva soprattutto come
secolarizzazione di antichi temi religiosi – la speranza nella salvezza finale,
il popolo eletto, la lotta tra due princìpi contrapposti – più che come sistema
scientifico portatore di certezze incrollabili. Addirittura, un marxismo
coniugato col pensiero di Maurice Merleau-Ponty e incentrato sul problema della
“immensa responsabilità”[36]
dell’uomo.
Diego
Fusaro
4.
Bibliografia
-
B. Croce, Recensione al Mondo magico, in “Quaderni
della Critica”, 1948, n. 10, pp. 79 ss; anche presente in E. De Martino, Il mondo magico, Appendici, cit., pp. 241-253.
-
E. De Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia
del magismo, Bollati Boringhieri, Torino 1997.
-
E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali,
Einaudi, Torino 1977.
-
G. Gentile, La filosofia di Marx, Pisa 1989.
-
M. Heidegger, Sein und Zeit, Tübingen, 1927;
tr. it. Essere e tempo,
Longanesi, Milano 1976, a cura di P. Chiodi.
-
K. Jaspers, Philosophie,
1932; tr. it. Filosofia, Mursia, Milano 1972-1978, a cura di U. Galimberti, 3 voll.
-
I. Kant, Kritik der reinen Vernunft,
1781-1787; tr. it. Critica della ragion pura, Laterza, Roma – Bari 2000.
-
E. Paci, Il nulla e il problema dell’uomo, Torino
1950, in E. De Martino, Il mondo magico,
Appendici, cit., pp. 254-262.
-
J. P. Sartre, L’être et le néant, Paris 1943; tr. it. L’essere
e il nulla, Il Saggiatore, Milano 2002, a cura di G. Del Bo.
[1] E. De Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Bollati Boringhieri, Torino 1997, p. 4.
[2] Ivi, p. 3.
[3] Ivi, p. 4.
[4] Ibidem.
[5] C. Cases, in E. De Martino, Il mondo magico, cit., p. 22.
[6] E. De Martino, Il mondo magico, cit. p. 4.
[7] E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977, p. 333.
[8] Ibidem.
[9] Ivi, p. 394.
[10] Ivi, p. 395.
[11] E. De Martino, Il mondo magico, cit., p. 5.
[12] Ivi, p. 6.
[13] Ibidem.
[14] Ivi, p. 52.
[15] Ivi, p. 22.
[16] Ivi, p. 213.
[17] Ivi, p. 82.
[18] Ivi, p. 29.
[19] Ivi, p. 97.
[20] Ivi, p. 105.
[21] E. De Martino, La fine del mondo, cit., pp. 669 ss.
[22] Ivi, p. 668.
[23] Già Karl Löwith aveva messo in luce come l’esistenza che Heidegger, in Essere e tempo, presenta come universale sia in realtà la specifica esistenza del borghese cristiano del tempo.
[24] E. De Martino, La fine del mondo, cit., p. 160.
[25] Ibidem.
[26] E. De Martino, Il mondo magico, cit., p. 76.
[27] E. Paci, Il nulla e il problema dell’uomo, Torino 1950, in E. De Martino, Il mondo magico, Appendici, cit., pp. 254-262.
[28] E. De Martino, La fine del mondo, cit., p. 236.
[29] E. De Martino, Il mondo magico, cit., p. 222.
[30] B. Croce, Recensione al Mondo magico, in “Quaderni della Critica”, 1948, n. 10, pp. 79 ss; anche presente in E. De Martino, Il mondo magico, Appendici, cit., p. 241.
[31] Ivi, p. 243.
[32] G. Gentile, La filosofia di Marx, Pisa 1989.
[33] E. De Martino, Il mondo magico, cit., p. 222.
[34] È Cesare Cases a parlare espressamente di “riconversione”: cfr. E. De Martino, Il mondo magico, Introduzione, cit., p. 34.
[35] E. De Martino, La fine del mondo, cit., p. 431.
[36] Ivi, p. 441.