Implicazioni epistemologiche del ‘principio di indeterminazione’

di Werner Heisenberg

 

di Davide Guerra

 

 

 

 

La crisi delle scienze fisiche

 

A inizio Novecento, l’Europa intera è attraversata da quella che si è soliti definire crisi delle scienze fisiche. Tutta una serie di esperimenti basati sulla radiazione emessa dagli atomi aveva infatti mostrato l’insufficienza della vecchia meccanica newtoniana nell’indagine della natura. Se, da un lato, la teoria einsteiniana era andata a colmare le lacune della fisica classica per quanto riguardava le grandi masse e le grandi distanze, dall’altro si continuava a avvertire la necessità di un nuovo modello, in grado di rendere conto dei comportamenti delle unità costitutive della materia: gli atomi. Paul Dirac, Wolfgang Pauli e Louis de Broglie - solo per ricordare alcuni nomi tra i più celebri - si misero al lavoro, nel tentativo di sbriciolare completamente le acquisizioni tradizionali sulla materia. L’obiettivo era di sostituire a esse delle teorie fisiche che, a dispetto di un possibile carattere fortemente controintuitivo, fossero tuttavia in grado di superare le discrepanze osservate tra previsioni teoriche e risultati sperimentali. Tra di esse, un ruolo di assoluta centralità spetta al cosiddetto principio di indeterminazione, teorizzato dal fisico tedesco Werner Heisenberg.

Formulato in un celebre articolo comparso nel 1927 presso la «Zeitschrift für Physik»[1], il principio heisenberghiano comporta senza dubbio alcuno «una delle più sconcertanti rivoluzioni del sapere umano, che darà solide radici al mondo turbolento della nuova meccanica e le cui implicazioni fisiche e filosofiche saranno materia di discussione per tutto il Novecento»[2].

Un colloquio con Einstein

 

Nonostante la sua originalità, bisogna tuttavia riconoscere come la riflessione heisenberghiana nasconda al proprio interno alcuni debiti profondi contratti nei confronti di alcuni «illustri predecessori».

Primo fra tutti, Einstein. Non è certo un mistero il malcelato scetticismo che il padre della relatività sempre mostrò nei confronti della nuova meccanica quantistica. Eppure è Heisenberg stesso a riconoscere l’importanza avuta da Einstein nella formulazione del principio di indeterminazione. Egli racconta infatti di una conversazione che i due ebbero il 28 aprile 1926 a Berlino, subito dopo una conferenza tenuta da Heisenberg al Kolloquium di fisica:

 

«Una sera mi tornarono improvvisamente alla mente le parole di Einstein: “È la teoria a decidere cosa possiamo osservare. Il problema andava formulato in un altro modo: la meccanica quantistica è in grado di rappresentare il fatto che un elettrone si trova approssimativamente in un punto dato e che si sposta approssimativamente a una velocità data? E poi: siamo in grado di calcolare posizione e velocità in modo sufficientemente approssimato da non andare incontro a difficoltà sperimentali? »[3].

 

La domanda era chiara. Se Einstein aveva veramente ragione, occorreva necessariamente porsi in maniera problematica di fronte al nuovo modo di descrivere la realtà. Occorreva cioè ricercare quali limiti la teoria quantistica portasse con sé.

 

 

Il «punto oscuro» di Pauli

 

La riflessione heisenberghiana è di molto debitrice anche a una serie di osservazioni compiute da Pauli sulla collisione tra elettroni, interpretati come onde materiali. In una lettera indirizzata a Heisenberg[4], Pauli lo informava delle sue scoperte: quando due elettroni si trovavano distanti, le variabili p e q - che indicano rispettivamente il momento e la posizione di ciascun elettrone - si comportavano secondo le previsioni della fisica classica: gli elettroni, in altre parole, agivano semplicemente come onde piane. Questo smetteva di essere vero quando i due elettroni venivano a trovarsi a distanza ridotta, in prossimità di una collisione o all’interno di un atomo: in questo caso, infatti, a prevalere era il loro comportamento quantisitico. Pauli non esitava a parlare di «punto oscuro», intendendo che, qualora si assumesse una delle due variabili come controllata, occorreva tuttavia rassegnarsi all’idea che l’altra fosse indeterminabile. Diventava così impossibile fissare in maniera definitiva la traiettoria della particella indagata, che restava in questo modo incontrollata. Il che, molto semplicemente, sta a significare che di essa non si potava sapere nulla.

 

 

Le relazioni di indeterminazione

 

È da questa nozione di «punto oscuro» elaborata da Pauli che occorre partire per comprendere il principio heisenberghiano di indeterminazione. Pauli, infatti, riteneva erroneamente che l’«incontrollabilità» si potesse predicare di una sola delle due variabili. Ma, come Heisenberg intendeva mostrare, la realtà era ben più complessa: entrambe le variabili lo erano, reciprocamente. È la natura stessa a porre questo limite conoscitivo: il problema non sta pertanto nell’impossibilità di misurare una certa grandezza fisica. Ciò che Heisenberg mostra chiaramente è l’impossibilità di conoscere il prodotto delle due variabili coniugate.

Nell’articolo del 1927 Heisenberg formulava questo limite in termini matematici attraverso due celebri relazioni:

 

1. Δp Δqh/2π

2. ΔE Δth/2π

 

in cui p e q rappresentano - come già detto - il momento e la posizione di un elettrone, mentre h sta a indicare la costante di Planck.

La prima relazione, esplicitata, mostra che, qualora misurassimo nel medesimo istante la posizione e il momento di una particella, con un certo errore di precisione Δp e Δq, l’imprecisione della misura simultanea sarebbe tale da rendere il prodotto dei due errori almeno uguale a una quantità certo assai piccola (h/2π, dove h è pari a 6,6·10-34 Js), ma in ogni caso mai nulla. Il che sta a significare, in altre parole, che sebbene sia possibile specificare con grande precisione la posizione di un elettrone in un istante dato, ci si deve comunque rassegnare a un’imprecisione nella misura del suo momento: sarà pertanto impossibile stabilire con precisione la traiettoria che questo si trova a percorrere.

Allo stesso modo, la seconda relazione esplicita l’indeterminazione nelle transizioni elettroniche all’interno di sistemi atomici. Quando un elettrone passa da uno stato di energia E2 a uno stato energetico minore E1 in un certo intervallo di tempo - processo che, stando alla meccanica quantistica, dà luogo all’emissione di un fotone -, quanto più precisa è la misurazione dell’energia, tanto meno potremo sapere sulla durata della transizione energetica.

Il significato di entrambe le relazioni di indeterminazione è ben chiarito da Heisenberg attraverso l’ausilio di un celebre «esperimento mentale». Il fisico tedesco immagina cioè di dover localizzare con precisione la posizione di un elettrone illuminandolo con un microscopio dal forte potere risolutivo, in grado di sfruttare delle brevi lunghezze d’onda. Quando un fotone collide con l’elettrone, quest’ultimo subisce una forte variazione nel momento p, poiché gli viene trasferito parte del momento del fotone. Inoltre, il momento del fotone è inversamente proporzionale alla sua lunghezza d’onda. E poiché l’esperimento mentale intende individuare con la massima precisione possibile la posizione dell’elettrone, il momento trasferito risulterà veramente considerevole.

Questa difficoltà evidentemente non dipende dagli strumenti di misurazione utilizzati. In quanto mentale, l’esperimento di Heisenberg tralascia gli aspetti puramente tecnici della questione, ipotizzando in partenza di poter disporre di un microscopio dal potere risolutivo pressoché infinito. Ma, come appena mostrato, maggiore è la capacità dello strumento di osservare l’elettrone, tanto maggiore sarà il disturbo introdotto dall’osservazione nel momento della particella.

 

 

Una prima interpretazione: la crisi della legge di causalità

    

Qualche mese più tardi - aprile 1927 - Heisenberg affronta una prima interpretazione delle relazioni di indeterminazione, in un articolo apparso sulla «Forschungen und Fortschritte» dal titolo Sui principi fondamentali della meccanica quantistica[5]. Se fino a inizio Novecento la fisica si era mossa nel solco della meccanica newtoniana e dell’elettromagnetismo di Maxwell, una prima incrinatura nell’edificio del sapere scientifico era stata la teoria einsteiniana della relatività che, riformulando in modo drastico le nozioni di spazio e di tempo, aveva mostrato l’insufficienza della meccanica classica nella descrizione della realtà. Allo stesso modo, la ‘rivoluzione quantistica’ intendeva porsi come nuovo paradigma dominante nell’indagine del comportamento delle particelle elementari. La meccanica dei quanti si proponeva come valida alternativa alle teorie precedenti nell’esame del mondo microscopico degli atomi. Smetteva in questo modo di avere senso la tradizionale rappresentazione degli elettroni attraverso i concetti, ormai logori, di posizione, velocità e quantità di moto. La nuova meccanica - e più nello specifico il principio heisenberghiano - nega infatti la possibilità stessa di tracciare con precisione assoluta la traiettoria delle particelle elementari, privilegiando una descrizione del loro moto nel termine di salti.

È proprio a questo articolo a carattere divulgativo che occorre rivolgersi per interpretare correttamente la portata rivoluzionaria di quella che non è eccessivo chiamare ‘rivoluzione epistemologica’. Lo stesso Heisenberg riconosce qui che il reale contenuto di una teoria fisica va ben al di là della sua formulazione matematica. L’importanza di un’elaborazione teorica sta soprattutto nei nuovi concetti a cui essa dà origine[6]. E, effettivamente, il lavoro sul principio di indeterminazione va a intaccare nientemeno che la legge di causalità e, di conseguenza, la stessa possibilità della previsione, fino a allora garante di scientificità delle discipline della natura.

Seconda la nota formulazione elaborata da Laplace, infatti, una volta conosciute la posizione e la velocità di una particella in un istante dato, e conoscendo tutte le forze agenti su di essa, diventava per ciò stesso possibile calcolare con precisione la posizione e la velocità della medesima particella in ogni altro istante. In altre parole, la legge di causalità si situava alla base di una visione oggettivistica, e per certi versi deterministica, della realtà.

«Se conosciamo il presente, possiamo calcolare il futuro»[7]. Eppure, aggiunge Heisenberg, «nella formulazione rigorosa della legge di causalità non è la conclusione a essere sbagliata, bensì la premessa»[8]. In realtà, nel suo studio sulla natura, lo scienziato introduce sempre un elemento estraneo che perturba il sistema così diligentemente costruito: la sua stessa persona. Le relazioni di indeterminazione rendono totalmente nulla la visione tradizionale. È impossibile ricavare una traiettoria continua del moto dell’elettrone. Al massimo si può determinare una successione di punti. Le leggi della meccanica quantistica non sono pertanto leggi esatte. Cadono, al contrario, nel regno della probabilità. Nell’osservazione di eventi atomici, è impossibile applicare una qualsivoglia forma di previsione. Il risultato della misurazione sarà sempre compreso entro un determinato intervallo di probabilità, tanto minore quanto maggiore sarà la precisione degli strumenti utilizzati, ma in ogni caso mai nullo. Il fisico non può conoscere nulla di più di ciò che è effettivamente in grado di misurare.

E tuttavia, come Heisenberg stesso afferma nell’articolo del ’27, l’elemento statistico soggiacente alla teoria meccanica dei quanti non va mai considerato come un elemento a priori. In altre parole, la descrizione in termini probabilistici non è parte costitutiva della natura, ma è un elemento introdotto dal fisico nell’atto stesso di indagare questa natura. Quando si appresta a misurare una delle proprietà dell’oggetto di indagine, lo scienziato è costretto a scegliere una delle diverse possibilità. L’esperimento mentale illustrato precedentemente lo mostra assai bene: è il fisico a scegliere di illuminare l’elettrone per individuarne la posizione. Ma quest’atto ne disturba la velocità. La formulazione laplaciana della legge di causalità risulta pertanto contraddetta: è impossibile predire in maniera esatta la sequenza di posizioni assunta nello spazio dall’elettrone, poiché la sua posizione e la velocità presenti non sono mai note con assoluta certezza.

Fisica e filosofia: una nuova causalità

 

Le osservazioni epistemologiche espresse da Werner Heisenberg possono sostanzialmente essere ricondotte a tre argomenti di fondo: il principio di identità, il rapporto di causa-effetto e l’interazione inevitabile tra soggetto osservante e oggetto osservato, messo chiaramente in rilievo dal principio di indeterminazione.

Il principio di identità trova nel principio di indeterminazione una confutazione pressoché definitiva. Si è già visto come ogni esperimento sia connotato da un forte limite oggettivo, che il semplice progresso tecnologico non può in alcun modo annullare grazie al perfezionamento degli strumenti di misurazione. È infatti un limite di principio: lo scienziato è del tutto impossibilitato a stabilire l’entità - e quindi l’identità - dell’oggetto posto sotto analisi. Non potendo essere identificato con assoluta certezza, quest’ultimo non può neppure essere definito nei termini di particella o di onda[9].

Con questo si assiste a una vera e propria svolta epistemologica, che elimina la nozione di certezza sostituendole quella di probabilità. È in virtù di ciò che Heisenberg si trova a ripensare il concetto di causa-effetto in termini diversi rispetto al senso riduttivamente deterministico tipico del meccanicismo newtoniano.

 

«Storicamente, l’uso del concetto di causalità per la legge di causa ed effetto è relativamente recente. Nella filosofia antica la parola causa aveva un significato assai più generale di quanto non abbia oggi. Per esempio gli scolastici, ricollegandosi a Aristotele, parlavano di quattro forme di causa: la causa formalis, che oggi si designerebbe piuttosto come la struttura o il contenuto ideale di una cosa; la causa materialis, vale a dire la materia di cui una cosa consiste; la causa finalis, il fine per il quale la cosa è creata, ed infine la causa efficiens. Soltanto quest’ultima corrisponde press’a poco a quello che noi oggi intendiamo con la parola causa»[10].

 

 La progressiva riduzione delle quattro cause aristoteliche alla sola causa efficiente viene così a manifestarsi, nella fisica classica, come la progressiva identificazione della causalità con un rigoroso determinismo. E questo non smette di essere vero fino alla fine del XIX secolo, dominato dai fermenti positivistici e dall’ingenua credenza di poter descrivere, prevedere e in ultima analisi imbrigliare ogni aspetto della realtà.

Il centro nevralgico del principio di indeterminazione è per l’appunto questa messa in questione della causalità rigorosa e, soprattutto, la consapevolezza di Heisenberg di non poter più fare riferimento alla nozione di causa intesa nel senso classico. Questo rende Heisenberg assai più moderno di altri grandi fisici che hanno radicalmente mutato il nostro modo di porci dinnanzi alla realtà. In primo luogo Einstein, il quale non rinunciò mai a questo presupposto per abbracciare l’interpretazione quantistica fornita dai protagonisti della Scuola di Copenaghen. Ma, a differenza di Einstein, Heisenberg si rendeva perfettamente conto di tutte le implicazioni che questo nuovo modo di vedere portava con sé. La critica alla nozione classica di causalità doveva infatti necessariamente accompagnarsi alla definizione di un concetto sostitutivo. E ciò, agli occhi del grande fisico tedesco, appariva possibile unicamente instaurando un fecondo dialogo tra la scienza fisica e l’epistemologia filosofica.

Questo inscindibile rapporto risulta tanto più evidente dalla necessità del fisico tedesco di confrontarsi con la filosofia di Immanuel Kant: la Critica della ragion pura, nel tentativo di determinare le condizioni di possibilità di una scienza oggettiva, faceva infatti interamente appoggio sulla fisica newtoniana[11]. Come è Heisenberg stesso a scrivere, «Kant afferma che ogni qualvolta osserviamo un evento, noi presumiamo che esiste un evento precedente da cui il primo deve seguire secondo una certa regola»[12]. Eppure, di fronte ai profondi cambiamenti verificatisi nel campo delle scienze fisiche, «gli argomenti di Kant a favore del carattere a priori della legge di causalità non possono più ritenersi validi»[13].

Se da queste poche righe è certamente possibile evincere una dura messa in discussione della causalità newtoniana, è tuttavia necessario evidenziare come la posizione heisenberghiana sia, tutto sommato, assai meno rigida di quanto non possa apparire in un primo momento. Il fisico tedesco, tutt’altro che sprovveduto, era infatti consapevole del fatto che, privando la fisica del principio di causalità, venisse con ciò stesso meno la possibilità di fare scienza. Infatti, «la legge di causalità si risolve nel metodo stesso della ricerca scientifica: è la condizione che rende possibile la scienza. Giacché noi in effetti applichiamo questo metodo, la legge di causalità è a priori e non derivata dall’esperienza»[14].

È facile pensare, posti di fronte a queste poche righe, che Heisenberg - posto di fronte alla scelta tra critica delle acquisizioni tradizionali e possibilità di salvaguardare la ricerca scientifica -non abbia potuto evitare di cadere in contraddizione con se stesso. Ma l’aporia viene presto risolta qualora si consideri come ciò che il fisico tedesco intendesse fare non era eliminare la causalità scientifica in toto. Ciò che davvero contava era riconsiderare gli ambiti di applicabilità di questa nozione. Sotto un punto di vista teoretico, infatti, il principio di indeterminazione non può che condurre a un drastico ridimensionamento della legge di causalità, che dalla certezza passa all’ambito della probabilità. Eppure la causalità continua a conservare intatto il proprio valore sotto il profilo pratico: in altre parole, della causalità viene evidenziato l’irrinunciabile valore euristico. Prova di ciò è l’ambito macroscopico, nel quale essa continua a sussistere nel suo senso classico. Ben diverso è l’ambito del microscopico. La causalità riceve qui un brusco ridimensionamento: è impossibile spiegare un evento atomico facendo ricorso alla singola causa. Meglio è descriverlo nei termini, assai meno deterministici, dell’interazione di cause. Prima fra le quali è il soggetto osservante.

 

«Nel mondo della nostra esperienza quotidiana noi possiamo osservare qualunque fenomeno e farne delle misure quantitative senza influire in modo rilevante sul fenomeno stesso [...]. Ma su scala atomica non possiamo trascurare la perturbazione prodotta dall’introduzione dello strumento di misura»[15].

 

 

Un ruolo attivo dell’osservatore, dunque. Il cui intervento resta però limitato, significativamente, nell’ambito del regno microscopico. Ma queste limitazioni portano in ogni caso a sottolineare un profondo cambiamento nel nostro modo di porci di fronte alla realtà. Heisenberg è molto chiaro in proposito, quando afferma che «per la prima volta nel corso della storia l’uomo ha di fronte a sé solo se stesso»[16]. In altri termini, la natura e le sue leggi, lungi dall’essere qualcosa di obiettivo - e, quindi, da scoprire -, sono piuttosto condizionate dal soggetto che le osserva. Il che, forse forzando un po’ la mano, non è molto distante dal dire che sono una nostra invenzione.

 

 

Conclusioni

 

Il principio di indeterminazione si configura pertanto come una profonda ridefinizione del nostro modo di concepire il rapporto tra soggetto e oggetto. Già Niels Bohr colse tutte queste sfaccettature quando scrisse che l’uomo «è al contempo spettatore e attore nel grande dramma dell’esistenza»[17]. Una profonda rivoluzione scientifica e epistemologica, dunque. Una drastica rivalutazione della soggettività nell’indagine naturale che, lungi dall’inibire ogni pretesa scientifica, propone un nuovo - e, per certi, versi meno ingenuo - modo di porci di fronte alla realtà.



[1]  W. Heisenberg, Über den anschaulichen Inhalt quantentheoretischen Kinetik und Mechanik, in « Zeitschrift für Physik», XLIII, 1927, pp. 172-198. Tr. it. Sul contenuto osservabile della cinematica e della meccanica quantoteoretiche, in W. Heisenbreg, Indeterminazione e realtà, Guida, Napoli, 1991.

[2] M. Cattaneo, Heisenberg, in I grandi della scienza, «Le scienze», novembre 2000. Ristampato in I grandi della scienza, vol. II, La biblioteca di Repubblica, 2005, p. 613.

[3] W. Heisenberg, Fisica e oltre. Non ho potuto controllare direttamente questo testo, ma ho trovato la citazione in M. Cattaneo, Heisenberg, cit., p. 614.

[4] Pauli a Heisenberg, 19 ottobre 1926, cit. in D. Cassidy, tr. it. Un’estrema solitudine. La vita e l’opera di Werner Heisenberg, Bollati Boringhieri, Torino, 1996, p. 254.

[5] W. Heisenberg, Über die Grundprinzipien der «Quantenmechanik», in «Forschungen und Fortschritte», III, 1927.

[6] Ivi, p. 83.

[7] W. Heisenberg, Sul contenuto osservabile della cinematica e della meccanica quantoteoretiche, cit., p. 66.

[8] Ibidem.

[9] Questa annosa questione sulla dicotomia onda - corpuscolo venne risolta compiutamente solo dall’enunciazione del principio di complementarietà di Bohr. «Non abbiamo a che fare con descrizioni contraddittorie dei fenomeni, bensì con descrizioni complementari che, considerate nel loro insieme, offrono una generalizzazione naturale del modo di descrizione classico». N. Bohr, Teoria dell’atomo e conoscenza umana, Boringhieri, Torino, 1961, p. 327.

[10] Heisenberg, Natura e fisica moderna, Garzanti, Milano, 1985, p. 58.

[11] Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari, 1996.

[12] W. Heisenberg, Fisica e filosofia, Il Saggiatore, Milano, 1998, p. 108.

[13] Ivi, p. 109.

[14] Ivi, p. 108.

[15] G. Gamow, Biografia della fisica, Mondadori, Milano, 1998, p. 252.

[16] W. Heisenberg, Natura e fisica moderna, cit., p. 35.

[17] N. Bohr, Teoria dell’atomo e conoscenza umana, cit., p. 375.

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