Sui temi della trasparenza del pensiero, delle percezioni di cui non si è coscienti, dei pensieri che ci guidano nella vita senza che ne siamo consapevoli, ed in generale sui rapporti tra il pensiero cosciente e quello che, per diversi motivi, non può essere considerato tale, si svolge all’interno del cartesianesimo un dibattito che vede come principali protagonisti A. Arnauld, P. Nicole, e F. Lamy, ma che coinvolge, sebbene più indirettamente, anche altri filosofi e teologi tra i quali Malebranche, Poiret, La Forge e Regis.
Il punto di riferimento di tale dibattito è costituito da due distinte, ma connesse, definizioni date da Descartes. Secondo la prima l’Io è una «cosa pensante», ovvero «una cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche, e che sente» (1): da questa definizione si può dedurre che, in quanto è per essenza cosa pensante l'Io (o la mente) non può mai cessare di pensare, perché le proprietà essenziali non sono mai separate dal loro soggetto (2). La seconda definizione, integrando la prima, considera il pensiero sempre autocosciente, e attribuisce alla continua presenza della coscienza l'origine della trasparenza che lo contraddistingue (3). La reciproca essenzialità di pensiero e coscienza consente così a Descartes di dedurre dalla certezza psicologica di pensare quella ontologica di essere una cosa che pensa, deduzione che, se il pensiero non fosse accompagnato dalla coscienza non sarebbe possibile, perché pensare inconsapevolmente non conduce ad alcuna certezza di pensare.
Proprio per la funzione fondante che il «Cogito» ha nell'ambito del pensiero cartesiano, i seguaci di Cartesio considerano l'identificazione di pensiero e coscienza come un presupposto teorico la cui messa in discussione può radicalmente allontanare dalla prospettiva di quella filosofia di cui nutrono la loro speculazione. Anche chi non condivide del tutto tale identificazione, certamente non può fare a meno di vagliare attentamente e proporre con circospezione le proprie riserve, perché egli esiti di esse sono legate le soluzioni di controverse questioni teologiche e morali. Lo stesso Descartes era stato ripetutamente sollecitato dalle critiche di avversari o di estimatori a mettere in dubbio (o almeno a limitare) la validità di questi presupposti (4), che vengono però messi seriamente in discussione soltanto nelle polemiche tra i filosofi sopra ricordati sui fenomeni spirituali inconsapevoli.
In tali polemiche, mentre Arnauld risulta un difensore puntuale dei fondamenti del cartesianesimo, Nicole e Lamy, più liberi da riferimenti testuali alla filosofia di Descartes, contestano la validità dell’identificazione di pensiero e coscienza, parlando esplicitamente di « pensieri ai quali non si pensa » (5). Essi alimentano poi tale dibattito introducendo nozioni come quelle di «pensieri impercettibili», «pensieri accessori», «marginali» «clandestini» e «sordi», nozioni che implicano tutte, sebbene in misura diversa, una relativa assenza della coscienza.
La stretta relazione tra questi tipi di pensieri e ciò che G. Rodis-Lewis chiama «il problema dell'inconscio» (6) - termine che non è senz'altro da intendere qui nella sua accezione contemporanea, ma in un senso più lato e più prossimo a ciò che oggi intendiamo con i termini subconscio o preconscio, continua a sussistere in Leibniz, nella cui opera le «inclinazioni impercettibili» o «piccole percezioni» hanno un ruolo di primo piano.
Diverso è però il destino dell'espressione « pensieri sordi », cara a F. Lamy, che da Leibniz viene usata con significato nuovo ed originale, ed i cui rapporti con «l’inconscio», lungi dall'essere chiari o scontati, risultano invece vaghi e a prima vista quasi insussistenti. Mentre infatti per Nicole e Lamy i «pensieri sordi» o «clandestini» sono come «ospiti importuni nascosti nel fondo dell'anima», da dove, pur manifestandosi solo a tratti e lavorando da lontano sulle nostre determinazioni coscienti, « fanno abilmente giocare tutti i moventi della nostra condotta » (7), per Leibniz tali pensieri sono appercepiti ed esplicitamente formulati mediante caratteri o parole.
L'espressione « pensieri sordi » (pensées sourdes) compare per la prima volta negli scritti di Leibniz in una lettera alla principessa Sophia del maggio 1697, nella quale egli affermava di dubitare che si potesse concepire il pensiero senza riferirsi anche all'estensione. «Sono infatti d'accordo - scrive - che vi sono dei pensieri ai quali non corrispondono nello spirito né immagini né figure, e che alcuni di questi pensieri sono distinti. Ma non condivido tutti gli esempi che portano i cartesiani, perché la figura di mille angoli qui disegnata non è estesa più distintamente di un qualche grande numero: è un pensiero sordo, come nell'algebra, dove si pensa con simboli al posto delle cose. Così, spesso, per abbreviare s’impiegano le parole pensandole senza farne l'analisi, perché essa non è in tali circostanze necessaria » (8).
Basterebbe ora confrontare questo brano della lettera alla principessa Sophia con altri brani degli scritti di Leibniz in cui egli si riferisce all'esempio del poligono di mille lati, per comprendere che l'espressione francese «pensées sourdes» non è che la traduzione dell'espressione latina «cogitationes caecae», come Leibniz stesso farà notare esplicitamente nell'unico passo dei Nouveaux essais in cui egli cita quest'ultima. Essa compare per la prima volta nel De arte combinatoria, dove indica il pensiero che non è capace di cogliere con una visione perspicua il proprio oggetto (9).
Anche in quel testo egli si serve dell'esempio, già cartesiano, del poligono di mille lati o chiliagono: infatti questa figura, sebbene sia distintamente pensabile e definibile, non risulta immaginabile altrettanto analiticamente e perspicuamente; così che a tale nozione non corrisponde nella nostra mente alcuna immagine in grado di esprimere il ritratto logico fornito dalla sua definizione.
Oltre a quei brevi scritti nei quali Leibniz riprende la nozione di « pensiero cieco » per svilupparne gli aspetti matematico-linguistici (10), essa ricompare nell'importante saggio di argomento gnoseologico Meditationes de cognitione, veritate et ideis, del 1684, dove il suo significato viene descritto in modo più articolato ed il tipo di conoscenza che contraddistingue viene collocato da Leibniz quasi al vertice della gradazione che egli delinea della varietà della conoscenza (11). Da questi testi il pensiero cieco o simbolico risulta definibile come quello che, procedendo per segni o caratteri, evita di ricorrere ogni volta alle idee delle cose e che, se eventualmente riuscissimo a costruire un’adeguata Caratteristica universale, ci potrebbe permettere anche di ragionare con grande rigore, trasformando automaticamente in un errore di calcolo ogni errato paralogismo delle nostre argomentazioni nel linguaggio naturale. D’altra parte, se tale pensiero può rendere più agili e sicuri i nostri ragionamenti, essa tuttavia non è capace, per l'uso meccanico e passivo dei segni che comporta, d'individuare le contraddizioni che si celano in certi concetti, come per esempio quello di « moto più veloce » (12), od in certe serie di pensieri. Inoltre, a meno che la lingua con cui opera non ne predetermini la distinzione e la coerenza, a tale pensiero è impossibile sciogliere le confusioni causate dall'uso di parole di significato approssimativo ed ambiguo.
Pur essendo considerato da Leibniz il tipo di pensiero più frequente, perché caratterizza sia ogni specie di calcolo (algebrico, geometrico o logico - combinatorio), sia la riflessione degli uomini su gli argomenti più svariati quando essi si servono delle parole senza preoccuparsi di spiegarne il senso, non vi è nessun accenno nei suoi scritti a sviluppi d'ordine etico-psicologico di tale nozione. Questi emergeranno solo quando l'aggettivo latino «caecus» verrà sostituito da «sourd» nelle opere in francese: ciò pare l'unica plausibile spiegazione del fatto che la stretta correlazione tra le due espressioni, «cogitationes caecae» e «pensées sourdes», non sia stata rilevata e/o evidenziata dagli studiosi di Leibniz fino a poco tempo fa (13).
La problematica etico-psicologica nel cui ambito l'espressione «pensées sourdes» viene introdotta nei Nouveaux essais è centrata intorno ai rapporti tra intelletto e volontà. Nel XVII secolo tali rapporti avevano già trovato una sincretica formulazione nella citazione di un famoso verso ovidiano «Video meliora proboque, deteriora sequor» (14), cui, tra gli altri, anche Spinoza era ricorso nella sua Etica per introdurre allo studio dei rapporti tra la ragione e le passioni (15). Anche Leibniz cita nei Nouveaux Essais questo verso per riassumere le difficoltà che la ragione incontra nell'arginare o modificare le passioni, mettendolo in bocca a Filalete, il protagonista lockiano, il quale se ne serve per illustrare la situazione esemplare di un uomo che, dedito al bere, pur vedendo distintamente tutti gli aspetti negativi dai tale vizio, non riesce a rinunciarvi.
La contraddittoria impasse che il verso ovidiano mette in luce non deve tuttavia costituire, secondo Teofilo, il protagonista leibniziano dei Nouveaux Essais, un alibi morale, inducendoci a credere di dover abbandonare del tutto quegli antichi assiomi per i quali « la volontà segue il bene maggiore o fugge il male maggiore che sente. L'origine della scarsa sollecitudine verso i veri beni deriva in gran parte dal fatto che negli oggetti o nelle circostanze nelle quali i sensi non agiscono, i nostri pensieri sono, per così dire, sordi, (in latino li chiamo cogitationes caecas) - scrive Leibniz - privi cioè di percezione o di sentimento, consistenti nell'impiego puro e semplice di caratteri, come accade a coloro che, nel calcolo algebrico non considerano, di tanto in tanto, le figure geometriche delle quali si tratta, giacché le parole hanno un effetto analogo ai caratteri dell’aritmetica e dell'algebra. Spesso si ragiona senza quasi avere l'oggetto nello spirito. Ora, una conoscenza siffatta non ha efficacia; a commuovere occorre qualcosa di vivo » (16).
Questa collocazione in un ambito morale nuovo rispetto a quello che accoglie in sé, come nodo esplicativo, la nozione di «pensiero cieco», rivela così anche un nuovo limite del pensiero definibile genericamente come simbolico, quello di non riuscire, «toccando l'anima», a provocare scelte e comportamenti eticamente razionali. A tale incapacità fa riferimento anche l'unico passo degli Essais de Teodicée in cui Leibniz si serve dell'espressione «pensées sourdes» per fornire una spiegazione delle resistenze dell'anima alle verità che conosce e denuncia, resistenze che sono maggiori proprio quando « l'intelletto procede in gran parte con pensieri sordi » (17): questi infatti sono « poco capaci di toccare » (18) e dimostrano la precarietà del legame fra i giudizi della ragione e la volontà (19). Quando gli uomini pensano a Dio, alla Virtù e alla Felicità, spesso « ne parlano e ne ragionano senza idee esplicite: queste si trovano nel loro spirito, ma essi non si prendono la pena di approfondirne l'analisi. A volte hanno l'idea di un bene o di un male assenti, ma debolissime (...), così, se preferiamo le cose peggiori è perché sentiamo il bene e non il male che esse contengono, mentre non sentiamo il bene che è nel partito opposto. Noi supponiamo o crediamo, o piuttosto semplicemente ripetiamo fidandoci di altri o basandoci sulla memoria di nostre riflessioni passate, che il più gran bene è nel partito migliore ed il più gran male in quello contrario. Ma quando non ce li prospettiamo - continua Leibniz - i pensieri e i ragionamenti sono una specie di psittacismo che non offre nulla di attuale allo spirito, e se non prendiamo misure per porvi rimedio se li porta via il vento» (20).
Ripetendo i nostri ragionamenti pigramente e macchinalmente, uti psiptacus (21), l'anima non ne è infatti colpita e la volontà non ne è scossa, «cosicché non bisogna meravigliarsi se nella lotta fra la carne e lo spirito, lo spirito soccombe così spesso» (22): «questa lotta non è altro che l'opposizione delle differenti tendenze che si fanno spesso sentire chiaramente, mentre i pensieri distinti sono d’ordinario chiari solo in potenza: essi potrebbero esserlo, se volessimo prenderci la pena di penetrare il senso delle parole o dei caratteri, ma non facendolo, o per negligenza o per mancanza di tempo, opponiamo parole vuote e immagini deboli a sentimenti vivi»(23).
L'analisi del significato delle parole, costringendoci a conoscere ciò che da esso viene implicato, sembra viceversa essere in grado, secondo Leibniz, di farci vedere anche quali siano le conseguenze delle nostre scelte, consentendoci di percepire i mali o i beni che possono seguirne e spingendoci implicitamente ad optare per le soluzioni migliori. Quando invece le parole vengono usate in modo ripetitivo o « cieco » e non si riesce a vedere tutto ciò che il loro significato comporta, continuano ad avere in noi il sopravvento quelle inclinazioni o sensazioni che, sebbene percepite solo confusamente, ci colpiscono in modo più vivo. Dunque, il pensiero che dal punto di vista di una teoria della conoscenza è cieco, per la sua incapacità di individuare le contraddizioni che si nascondono in certi concetti o di considerare perspicuamente le implicazioni del loro significato all'interno di un ragionamento complesso (24), si rivela, in una prospettiva morale, sordo, nel senso soggettivo ed oggettivo di surdus in latino, ovvero sordo in quanto incapace sia di farsi sentire, sia di ascoltare.
Si possono infatti distinguere due diversi ordini di cause della sordità dei nostri pensieri. Il primo può essere considerato oggettivo, in quanto dipendente dalla arbitrarietà dei segni di cui ci serviamo rispetto al loro significato e dal fatto che mentre pensiamo, per procedere nel nostro ragionamento, siamo per lo più costretti ad ometterne l'analisi. Il secondo possiamo considerarlo soggettivo perché di esso siamo responsabili noi stessi che, anche quando potremmo e dovremmo approfondire le analisi del significato dei simboli, ci limitiamo a ripeterne pigramente la successione, rinunciando a considerare « le idee », « le percezioni » ed i « sentimenti » che tali simboli sono in grado di evocare. Se da un lato infatti il rapporto tra la relativa convenzionalità dei simboli e la simbolicità del pensiero determina un uso tendenzialmente passivo e ripetitivo delle parole, ciò non ci impedisce di formulate ragionamenti corretti, né di essere consapevoli della loro correttezza, dato che possiamo sempre ricordarci di averli controllati in altre circostanze e dato che il loro senso può sembrarci presemanticamente evidente.
Ma quando il fine delle nostre riflessioni non è solo conoscitivo, e si vogliono anzi motivare o modificare delle scelte morali, allora la negligenza nel prestare attenzione al senso delle parole che compongono i nostri pensieri costituisce la causa autentica ed eliminabile della loro inefficacia persuasiva.
Se quindi in un certo senso sono i pensieri stessi a non farsi ascoltare dall'anima, per l'arbitrarietà dei segni di cui si compongono rispetto alle percezioni o sentimenti che possono suscitare, in un senso opposto è proprio la ragione a celarsi dietro la propria sordità e inefficacia psicagogica quando, pur essendo alle prese con le passioni od i desideri più segreti, tenta di procedere affidandosi alla capacità autocombinatoria dei simboli, quasi fosse impegnata in un calcolo matematico od algebrico.
Si è visto che, secondo Leibniz, in quest'ultimo caso tale cieca maniera di procedere si rivela tanto corretta quanto necessaria, « perché il ragionamento può essere in qualche modo automatizzato e ridotto alla semplice manipolazione di segni » (25), e perché l'evocazione delle idee corrispondenti non risulta essenziale per il pensiero quando esso sia inteso come calcolo. Tuttavia proprio tale riduzione del pensiero a calcolo può rendere opache di senso le nostre parole e privi di percezioni e di sentimento i nostri pensieri. Se quindi con la nozione di « pensiero cieco » Leibniz vuole anche mettere in luce gli aspetti positivi di una riduzione del pensiero a « pensiero calcolante» (rechnendes Denken), ciò non implica, come sostiene Martin Heidegger (26), che Leibniz consideri una tale dimensione del pensiero priva di lacune, così da poter essere considerato il primo consapevole promotore di una tale riduzione. Anzi, con la nozione di pensiero sordo - nozione che rispetto alla prima è sinonimica e al tempo stesso speculare - Leibniz mostra distintamente i limiti di quella riduzione che, ancora secondo Heidegger, costituisce uno dei nuclei metafisici del pensiero moderno.
I pensieri sordi, non convincendoci a perseguire le azioni migliori e lasciandoci in balia delle passioni, permettono, secondo Leibniz, solo una conoscenza imperfetta (27): « essi non riescono infatti a vincere l'incredulità occulta che regna nelle anime degli uomini » (28), né a controllare quell'«inquietudine», o «desiderio» (29), che è la fonte principale della loro industriosità e attività, ma che si rivela una predisposizione al dolore se, pensando con immagini «labili o vane» (30), gli uomini non credono ai loro pensieri e non sanno esserne toccati (31). In questo caso l'intelletto non riesce a mediare ed a trasformare le «inclinazioni inconsapevoli» suscitate dall'inquietudine e contiene quindi « un’imperfezione o impotenza», perché si serve di parole prive di una spiegazione attuale (32).
Tuttavia, come si è visto, l'omissione di un'adeguata spiegazione dei termini che usiamo in un ragionamento è secondo Leibniz inevitabile qualora se ne voglia giungere alla conclusione con la fluidità e la destrezza necessarie. Infatti, poiché « noi pensiamo tutta insieme una grande quantità di cose, se ci prendessimo cura d'ognuna dovremmo pensare nello stesso tempo e con la stessa attenzione a tutte », perché sentiamo che « tutte fanno impressione sui nostri sensi » (33). Poiché, inoltre, « qualcosa dei nostri pensieri resta sempre e nulla può essere cancellato del tutto » (34), dovremmo anche pensare attualmente a tutto ciò che si è già pensato. Non è però possibile, «riflettere sempre in modo esplicito su tutti i nostri pensieri, altrimenti lo spirito farebbe una riflessione all'infinito senza poter mai passare ad un nuovo pensiero » (35).
Così, per esempio, « appercependo un pensiero presente, dovrei sempre pensare che vi penso, ed ancora pensare che penso di pensarlo, e così via all'infinito. Invece è necessario cessare di riflettere su tutte queste riflessioni e che vi sia infine un pensiero che si lasci passare senza pensarvi, altrimenti rimarremmo sempre fermi sulla medesima cosa» (36). Ciò costituirebbe l'assurda conseguenza del concepire l'appercezione come essenziale al pensiero, il quale, non potendosi, secondo quest'ipotesi, separare dal suo oggetto, sarebbe costretto a riprodurlo indefinitivamente in una riflessione su se stesso.
Ma proprio ciò che costituiva per Descartes un effetto della coessenzialità dell’io e del pensiero, cioè la continuità di quest'ultimo, per Leibniz sembra porre in discussione l'altro presupposto altrettanto fondamentale della filosofia cartesiana, costituito dall'identificazione di pensiero e coscienza. Postulando tale identificazione, si giungerebbe secondo Leibniz all'impossibilità paradossale di separare un qualsiasi pensiero da una catena di riflessioni nella quale esso si riprodurrebbe all'infinito come oggetto di una reiterata presa di coscienza.
Ogni riflessione sarebbe allora destinata a trasformare monotonamente ogni suo enunciato in una nuova enunciazione che lo incorpori come oggetto mediante l'aggiunta di un « io penso » in posizione di soggetto: infatti se pensare implicasse pensare di pensare, il dispositivo dell’appercezione provocherebbe la progressiva inclusione di ogni pensiero appercepito in un nuovo enunciato della riflessione, inducendoci a pensare univocamente di pensare di pensarlo, all'infinito. Essendo tale assurdità deducibile direttamente dalla sovrapposizione dei postulati cartesiani della continuità del pensiero e dell'identificazione di pensiero e coscienza, essa induce Leibniz, che si è sempre dichiarato d'accordo col primo, ad accettare quale pre-supposto della sua filosofia la negazione del secondo. Ma dalla negazione di questo, ovvero poiché pensare non implica per Leibniz l'esser coscienti di pensare, e dal mantenimento del primo, ovvero poiché pensiamo sempre, deriva necessariamente che esistono dei pensieri dei quali non si è consapevoli.
In questo modo egli giunge, per via meramente logica, ad una conclusione apparentemente analoga a quella cui erano pervenuti Nicole e Lamy. Per questi ultimi infatti l'esistenza di « pensieri ai quali non si pensa » era evidente almeno quanto l'esistenza di quei significati « accessori » delle parole che sono destinati a rimanere nell'ombra, dato che ogni singola linea denotazionale in cui le parole sono impegnate non è in grado di renderli tutti espliciti e consapevoli. Tuttavia i pensieri sordi per Leibniz non sono tali rispetto ad una coscienza intesa come nitida appercezione d'impressioni interne, cioè non perché poco distinti o solo confusamente percepiti. Al contrario, essi sono sordi perché incapaci di giungere al fondo dell'anima, dove muovendosi e opponendosi tutti i desideri dell'inquietudine, si trovano anche quei pensieri che l'opacità dei simboli o delle parole non solo non consente di rintracciare, ma tesse e sottintende all'insaputa dell’attività appercettiva.
La genesi della non consapevolezza di molti pensieri sembra infatti dovuta alla necessità di lasciare che le parole si succedano e combinino senza un’esplicitazione del loro significato e senza un’attenzione alle «immagini» o ai «sentimenti» che sono in grado di evocare. Da questo punto di vista, pensare sordamente comporta il «lasciar passare» anche quei pensieri che spiegherebbero il senso delle nozioni che nominiamo nei nostri ragionamenti, «lasciar passare» che equivale a quella stessa omissione di analisi che riduce a meri caratteri o nomi anche le parole del linguaggio naturale con le quali formuliamo i nostri propositi morali.
Cercando dunque di cogliere legami tra ciò che Leibniz chiama « pensieri sordi » e la loro attinenza alle attività impercettibili dello spirito, nonché, di conseguenza, al senso dell'espressione presso Lamy, è inevitabile porre l'accento sul diverso concetto d’inconscio che essa consente d'individuare nei due autori. In Leibniz non sono infatti i pensieri sordi stessi ad essere inconsapevoli od « oscuri e clandestini », ma essi presuppongono l'esistenza di altri pensieri che, non venendo formulati, sono costretti a restare almeno provvisoriamente non pensati. In quanto non evocati dalle parole, tali pensieri non appercepiti testimoniano dell’incompletezza della nostra attenzione alle determinazioni semantiche di esse, incompletezza che può ridurle ad entità meramente combinatorie, ovvero equivalenti ai segni dell'aritmetica e dell'algebra. Come questi infatti, le parole, quando sono usate sordamente, si succedono e combinano nella frase, lasciando trapelare del loro senso solo i costituenti essenziali alla totalità della stessa, ma lasciando «passare», al contrario, tutti gli altri che potrebbero gettare nuova luce sulle determinazioni psicologiche delle loro combinazioni. Proprio questi effetti « marginali », « accessori » o «connotativi» del senso delle parole sembrano presupporre, in un’ottica leibniziana, l'esistenza di una struttura sistematica sottostante ad ogni specifica combinazione di parole.
La stessa esigenza avvertita da Leibniz di rendere coerente e completa la struttura paradigmatica di una « lingua universale » pare infatti derivare solo dalla consapevolezza della preesistenza, rispetto ad ogni atto di parole, di un sistema linguistico che consenta d’interpretare ogni pensiero espresso come l'attualizzazione di una possibilità implicita in tale sistema stesso, oltre la quale continuano tuttavia a premere tutte le altre che essa include come suoi sviluppi analitici o connotazionali.
In termini odierni, la permanenza nel pensiero di una langue rispetto ad ogni atto di parole è ciò che può permettere ad ogni passo di un ragionamento di scomporlo nei suoi costituenti semantici e di ampliarlo in direzioni che non sono sospettabili prescindendo da tali scomposizioni. È questo infatti il caso della nozione di « moto più veloce », che secondo Leibniz cela dietro la sua distinta pensabilità le proprie implicazioni autocontraddittorie.
Tuttavia, ogni scomposizione analitica dei termini, come ogni passaggio dall'esplicito all'implicito, è anche ciò che garantisce per Leibniz un ampliamento connotazionale del senso di ogni frase, a sua volta capace di produrre un incremento della sua risonanza psicologica. I pensieri sordi di cui egli parla, in questo senso, non solo risultano una difesa inconsistente contro le più oscure sollecitazioni dell'anima, ma sono a loro volta produttori di altri pensieri possibili e attualmente non pensati. Ciò che infatti non viene formulato linguisticamente all'interno di un ragionamento, pare destinato a rimanere latente e fornisce tuttavia una prova della sua permanenza nel pensiero lasciando alle parole espresse soltanto il loro suono vuoto, od ai caratteri scritti le loro « immagini deboli e vane ».
La prospettiva morale che fa da sfondo negli scritti di Leibniz alla nozione di « pensieri sordi » ne cela dunque un'altra, più propriamente linguistica, in grado di suggerire le congetture più favorevoli ad una eliminazione o limitazione della sordità dei pensieri. Queste consistono infatti nell'incoraggiamento sia ad una più profonda e assidua analisi del significato delle parole, sia alla costruzione di una « lingua universale » i cui simboli, godendo di una maggiore trasparenza rispetto ai loro significati o ai loro referenti, siano in grado di arricchire la nostra immaginazione (37). Secondo Leibniz ciò dovrebbe consentire infatti anche una maggiore pertinenza dei pensieri morali a quelli stati interni che si propongono di descrivere o modificare, cogliendone i risvolti emotivi mediante l’enunciazione delle loro implicazioni o suggestioni semantiche.
Si è visto che i « pensieri sordi » di cui parla Lamy sanno « lavorare da lontano »: essi possono infatti modificare anche a distanza di tempo il nostro stato d'animo se ci impegniamo ad ascoltare gli effetti appena percettibili dei desideri che manifestano (38); come le «inclinazioni» o «disposizioni insensibili» di cui parla Leibniz, essi sembrano in grado di riaffiorare alla coscienza, ma ciò avviene solo qualora ci impegniamo ad «entrare di continuo nel profondo del cuore, ad osservarlo, assecondarlo, sondarlo, penetrarlo » (39), servendoci a tale scopo, come suggerisce Lamy in un passo del suo De la connaissance de soi même, di una tecnica psicologica del tutto assimilabile a quella oggi ben nota delle associazioni libere (40). Invece, il difetto che, nell’accezione leibniziana, denunciano i «pensieri sordi » è proprio quello di non sapere assecondare le inclinazioni segrete dell'anima, riferendo ad esse gli stessi propositi della ragione.
Tuttavia, Leibniz stesso riconosce che proprio come l'opera di uno scultore può essere agevolata, anziché ostacolata, dalle venature del blocco di marmo su cui lavora, purché sappia assecondarle, così se la ragione riuscisse ad assecondare le disposizioni dell'anima che si propone di controllare, il suo intervento risulterebbe senz’altro meno faticoso e più efficace. Essa dovrebbe far sì che quelle stesse inclinazioni che sono per loro natura suscettibili di opposti destini, si raccolgono intorno alle « serie di pensieri » che essa giudica migliori, trasformandole così in abitudini che ci renderebbero la virtù « gradita e quasi spontanea » (41).
Purtroppo però il cuore ha molti mezzi per resistere alle verità che lo spirito conosce e denuncia (42), almeno quante ne ha ancora oggi l’inconscio per vanificare quelle interpretazioni che, pur essendo riconosciute come corrette, non riescono ad agire sulla personalità del paziente in un trattamento analitico. Non a caso Freud sembra fornire, di tale inefficacia apparentemente ingiustificata, una spiegazione analoga a quella che la nozione di « pensieri sordi » fornisce nella psicologia leibniziana. Nello scritto del 1915 Das Unbewußte egli nota infatti che se « informiamo un paziente di una sua rappresentazione rimossa, in un primo tempo ciò non cambierà per nulla la sua situazione psichica »: infatti « la rimozione non viene abolita se prima la rappresentazione cosciente non si è congiunta con la traccia mnestica inconscia. Solo quando quest'ultima è divenuta anch'essa cosciente è raggiunto il successo... », e ciò perché « l'aver udito e l'aver vissuto sono due cose completamente diverse per natura psicologica » (43).
Quindi,
come per Freud non è sufficiente esprimere dei pensieri rimossi per ritenere di
averli sottratti al campo dell’inconscio, analogamente, i « pensieri sordi » di
cui parla Leibniz possono essere considerati - pur essendo appercepiti e
distintamente comprensibili - incapaci di congiungersi alle tracce psichiche
quasi sempre impercettibili che manifestano i desideri dell'inquietudine.
Tra
le due accezioni dell’espressione «pensieri sordi» – quella di Lamy e quella di
Leibniz – è possibile individuare comunque una stretta correlazione. Il fatto
che alcuni pensieri ne continuino altri, che traggano conclusioni che i primi
non hanno avuto modo o tempo di cogliere, conferma quanto sostengono entrambi i
nostri autori. Per poter infatti lasciare affiorare questi pensieri secondi, che da Lamy vengono definiti «marginali», «clandestini» o «sordi», bisogna che dei
pensieri primi si siano conclusi e
che vengano assunti, come Leibniz sostiene, quale nuovo oggetto di una
riflessione ulteriore. Questa ulteriore riflessione, tuttavia, come sostiene
Lamy, non si sviluppa sempre in modo cosciente, perché fa parte di un discorso
che a tratti prosegue inconsciamente. Poiché, come aveva sostenuto Cartesio,
noi pensiamo sempre, e tuttavia, come Leibniz ha poi precisato, non possiamo
essere coscienti di ogni nostro pensiero, perché altrimenti dovremmo sempre
rimanere fermi nella stessa reiterata riflessione, è necessario che alcuni
nostri pensieri continuino in una condizione «clandestina», «marginale» o
«sorda», e quindi almeno relativamente inconscia, con tutti le controindicazioni
psicologiche e morali che tale condizione può implicare e che la nozione
leibniziana di «pensieri sordi» mette bene in evidenza.
Questi infatti sono coscienti solo in quanto vengono appercepiti ed espressi, non perché siano capaci di superare le resistenze che separano il «cuore» dallo «spirito», ma solo quando tali resistenze sono state vinte, la coscienza diviene per Leibniz autentica e completa. Solo in questo caso, infatti, i pensieri riescono a condurre le loro ragioni là dove agiscono i desideri.
Tuttavia, nonostante questa anticipazione del pensiero freudiano - e nonostante la stessa influenza che Leibniz ha esercitato, specialmente attraverso Herbart, su Freud - la scoperta apportata dalla nozione di «pensieri sordi» alla storia del pensiero filosofico va al di là della dimensione etico-psicologica a cui tale nozione sembra riferirsi. Essa sembra infatti alludere ad una proprietà strutturale dello stesso pensiero umano, per la quale ogni pensiero attuale, ovvero considerato nel lasso di tempo in cui si forma e conclude, implica l’insorgenza di altri pensieri che sono destinati a rimanere, almeno provvisoriamente, inconsci, e questo non tanto per il loro contenuto, quanto, appunto, per gli effetti simbolici delle diverse catene significanti con le quali ogni pensiero è virtualmente correlato.
Se l’inconscio freudiano è caratterizzato dal suo contenuto - come testimonia l’aver optato, da parte di Freud, dopo le esitazioni dei primi tempi, per il temine inconscio (Unbewußte) piuttosto che subconscio (Unterbewußte), proprio per sottolineare che i contenuti in-consci si oppongono a quelli che risultano accettabili per l’orientamento cosciente dell’io (44) – la nozione di «pensieri sordi» sembra invece mostrare come dei pensieri inconsci nascano per ragioni che potremmo definire «solo simboliche» e quindi, nella terminologia leibniziana, «cieche» (45), perché tali pensieri sono in grado di svilupparsi indipendentemente da una riflessione consapevole sul loro significato. Essi costituiscono un effetto collaterale del pensiero cosciente, nonché il segno di una lacuna di senso che vi si manifesta. Ogni pensiero evoca e suggerisce infatti degli sviluppi destinati a rimanere relegati, almeno momentaneamente, in una dimensione sorda e clandestina, salvo lavorare di nascosto per poter riemergere al livello della coscienza e poter così continuare un discorso che, ad ogni sua svolta, è per ragioni strutturali costretto a restare, per altri versi, tronco e irrisolto.
Edizioni delle opere di Leibniz e delle traduzioni
italiane utilizzate con relative abbreviature.
G.W. Leibniz: Sämtliche Schriften und Briefe, a cura della Preussische Akademie (ora
Deutsche Akademie) der Wissenschaften zu Berlin, Leipzig, 1950 e segg. (=Ak.)
G. W. Leibniz: Die
Philosophischen Schriften, a cura di C.I. Gerhardt, in VII voll.,
Berlin, 1875-1890 (=Ger. Ph.)
G.
W. Leibniz: Textes
inedits d’aprés le manuscrits de la Bibliothéque Provinciale de Hanovre,
publiés et annotés par Gaston Grua, in II voll., Paris, 1948 (= Grua).
G.W. Leibniz: Scritti filosofici,
in II voll., trad. it. a cura di D. Omero Bianca, Torino, 1979; prima edizione
1967 (= OB.)
Note
1) R. Descartes, II Meditazione, in Oeuvres, ed. a cura di C. Adam e P.
Tannery (= AT), Paris 1897-1913, vol. IX, pp. 21-22.
2) A. Arnauld: «Atqui necessaríum videtur
ut mens semper actu cogitet: quia cogitatio constituit eius essentiam »; in
AT, vol. V, p. 193.
3) Mi riferisco qui alla trasparenza che
permette al pensiero di divenire, in quanto
autocosciente, immediato oggetto di riflessione. (Cfr. Descartes ,
AT, vol. V, p. 149).
4) Arnauld, facendosi interprete anche
di riserve di altri, scrive a Descartes che: «Cum ea sit natura cogitationis,
ut illius semper simus conscii, si semper actu cogitamus, debemus semper esse
conscii nos cogitare; at id experientiae repugnare videtur, maxime in somno ».
(Arnauld a Descartes, Luglio 1648, AT, vol. V, p. 214 e Quarte Obiezioni, AT, vol. VII, pag. 264).
5) F. Lamy,
De la connaissance de soi même, II
ed., Paris, 1701, in VI tomi; t. III, p. 375.
Lamy accenna così in tale passo ai
termini del problema in questione: «C'è stata negli ultimi tempi una grande
discussione per sapere se ci siano dei pensieri ai quali non si pensa. La sola
locuzione all'inizio è sembrata così ridicola a certi autori, che non hanno
avuto difficoltà a prenderla per uno scherzo. Ma in seguito a più approfondite
riflessioni su se stessi hanno considerato, con il tempo, questi pensieri non
solo sopportabili, ma persino piacevoli» (traduzione mia).
6) G.
Rodis-Lewis, Le problème de l'incoscient
et le cartesianisme, Paris, 1950.
7) F. Lamy,
De la connaissance de soi même, ed.
cit., t. III, p. 383.
8) G.W.
Leibniz, Ger. Ph., vol. VII, p. 555.
9) G.W. Leibniz, De arte combinatoria , Ger. Ph. vol. IV, p. 35.
10) Tali scritti, in ordine cronologico
sono: Commentaliuncula de judice
controversarum, in AK., VI R. I B, p. 551;
Demonstratio propositionum
primarium, in AK, VI R. II B, p. 481; Accessio
ad aritmeticam infinitorum , in AK,
II R. I B, p. 228.
11) Cfr.
G.W. Leibniz, Meditationes de cognitione,
veritate et ideis, Ger. Ph., vol. IV, p. 423.
12) Ivi, p.
424.
13) G. Micheletti, I pensieri sordi e l’inconscio, Roma, 1991; sulla stretta
correlazione tra le due espressioni si vedano, in particolare, le pp. 113-234.
14) Ovidio, Metamorfosi, libro VII, vv. 20 - 21, citato da Leibniz nei Noveaux Essais, libro II, cap.
21, §
35 ; Ger. Ph., V, p. 171; trad. it. OB. Vol. II, p. 311.
15) B. Spinoza, Etica, parte IV, proposizione XVII e prefazione; trad. it. Torino,
1978 (prima ed. 1959), rispettivamente p. 229 e pp. 211-212..
16) G.W. Leibniz, Nouveaux Essais, libro II, cap. 21, § 35 ; Ger. Ph., V, p.
171 ; trad. it. OB., vol. II, pp. 311-312.
17) G.W. Leibniz, Essais de Teodicée, art. 311 ; Ger. Ph., VII, p. 301; trad.
it. OB. Vol. I, p. 665.
18) Ibidem.
19) Ibidem.
20) G. W. Leibniz, Nouveaux Essais, libro II, cap. 21, § 35 ; Ger. Ph., V, p. 171; trad. it. OB., vol. II, p. 312.
21) G. W. Leibniz, Commentatiuncula de iudice controversarum, AK., VI R. I B, p. 551.
22) G.W. Leibniz: Nouveaux Essais, libro II, cap. 21, §
35 ; Ger. Ph. V, p. 171; trad. it. OB., vol. II, pp. 312-313.
23) Ibidem.
Una maggiore attenzione potrebbe rendere anche secondo Malebranche più chiare e
distinte le nostre percezioni e consentirci di vedere con una visione d'insieme
i legami necessari fra tutti i passaggi delle nostre deduzioni. Per riuscire in questo è però indispensabile
rendersi conto che lo spirito «non presta la stessa attenzione a tutte le cose
che percepisce, poiché si dedica molto di più a quelle che lo toccano, che lo
modificano e che lo coinvolgono, che a quelle che gli sono presenti, ma che non
lo toccano e non gli appartengono» (Malebranche, De la Recherche de la Vérité, Libro VI, parte I, cap. 2, Paris, 1979, pp. 594 – 595, traduzione
mia).
24) Cfr.
G.W. Leibniz , Meditationes de
cognitione, veritate et ideis, Ger. Ph., vol. IV, p. 423.
25) M.
Dascal , La semiologie de Leibniz,
Paris, 1978, p. 180.
26) M. Heidegger, Der Sats vom Grund, Tubingen 1958, pp. 168 e 192; cfr. A. Robinet, Leibniz und Heidegger, Atomzeitälter oder
Informatikzeitälter, in «Studia Leibnitiana» Band VIII/2, 1976, p. 255.
27) « Qualsiasi conoscenza non procuri a
chi conosce il massimo bene è imperfetta. Allo stesso modo qualsiasi
intellezione che non faciliti la visione o la fruizione dell’Ente Primo da
parte della creatura intelligente, è imperfetta » (Leibniz ad Altorf, 1663, AK,
VI R. I B, p. 159-160; traduzione mia).
28) G.W.
Leibniz, Nouveaux Essais, libro II,
cap. 21, § 36 ; Ger. Ph. V, p. 176; trad. it. OB., vol. II, p. 310.
29) Ivi, cap. 20, § 6 ; Ger. Ph., V, p. 150; trad. it.
OB., vol. II, p. 289.
30) Ivi, cap. 21, § 37; Ger. Ph., V, p. 176; trad. it. OB., vol. II, p.
316.
31)
Cfr. ibidem.
32) Ivi,
libro II, cap. 21, § 36; Ger. Ph. V, p. 175; trad. it. OB., vol. II, p. 316.
33) Ivi,
libro II, cap. 1, § 11, Ger. Ph. V, p. 103; trad. it. OB., vol. II, p. 236.
34) ibidem.
35) Ivi,
libro II, cap. 1, § 22 ; Ger. Ph., V, p. 108;
trad. it. OB.,
vol. II, p. 342.
36) Ibidem.
37) Cfr. Ivi, libro II, cap. 6, §
2 ; Ger. Ph., V, p. 379.
38) Cfr. F.
Lamy: De la connaissance de soi même, ed. cit., t. II, pp. 337-338.
39) Ivi, t. IV, pp. 74, 245-246, 272-273.
40) Cfr. Ivi, t. III, pp. 383 - 384.
41) Ivi,
libro II, cap. 21, § 35 ; Ger. Ph., V, p. 173;
trad. it. OB., vol. II, p. 314. Nello
stesso passo Teofilo sostiene di non voler fornire dei precetti di morale, ma
di tentare di scorgere «riflettendo sui procedimenti della nostra anima [...]
la fonte delle nostre debolezze, la cui conoscenza procura al tempo stesso la
scoperta dei rimedi» (ibidem)
42) Cfr. G.W. Leibniz, Essais de Teodicée, art. 311; Ger. Ph.
VI, p. 301; trad. it. OB., vol. I, p. 665.
43) S. Freud, L’inconscio, § 2,
trad. it. in Opere di S. Freud, Torino, 1976, vol. VIII, pp. 58-59.
44) Cfr. G. Micheletti: op. cit. pp.
186-188, nota 19; e J Laplanche e J. B: Pontalis: L’enciclopedia della
psicoanalisi, trad. it. Bari, 1973, alla voce «Inconscio».
45) Relativamente al rapporto che
sussiste in Leibniz tra le espressioni «conoscenza simbolica» e «conoscenza
cieca», vedi G. Micheletti, op. cit., in particolare pp. 147-149 e 150-164.
Appendice
I passi in cui compaiono le espressioni “pensiero cieco” o “pensieri
ciechi”, in ordine cronologico, sono:
De arte combinatoria
(1666); Ger. Ph. IV, p. 35.
Commentatiuncula de Judice controversiarum (1669-1671);
Ak., VI R., II B, p. 481.
Accessio ad Arithmeticam infinitorum, (Leibniz
a Jean Gallois, fine 1672); Ak. II R, I B, p. 228.
Meditationes de Cognizione, Veritate et Ideis (1684);
Ger. Ph. IV, p. 423.
Termini sempliciores (circa
1680-1684); Grua, p. 543.
L’espressione “pensiero sordo” o “pensieri sordi” compare nei luoghi
seguenti:
-
In una lettera alla Principessa Sofia del 1697;
Ger. Ph. VII, p. 555.
-
Nei Saggi di Teodicea,
seconda parte, al § 311 e nell’indice curato da Leibniz della stessa opera
(1610); Ger. Ph. VI, p. 301.
-
Nei Nuovi saggi sull’intelletto
umano ai passi seguenti:
libro
II, cap. XXI, § 35-37 e 63.
libro
II, cap. XXIX, § 11-12.
Libro
III, cap. I, § 1.
Libro
III, cap. II, § 2.
Libro
IV, cap. VI, § 2.