A cura di
De l'infinito, universo e
mondi
Epistola proemiale
1
PROEMIALE EPISTOLA, SCRITTA
ALL'ILLUSTRISSIMO SIGNOR MICHEL DI CASTELNOVO.
Signor di Mauvissiero, Concressalto e di Ionvilla, Cavallier de
l'ordine del Re Cristianissimo, Conseglier del suo privato Conseglio, Capitano
di 50 uomini d'arme ed Ambasciator alla Serenissima Regina d'Inghilterra.
2 Se io, illustrissimo Cavalliero, contrattasse l'aratro,
pascesse un gregge, coltivasse un orto, rassettasse un vestimento, nessuno mi
guardarebbe, pochi m'osservarebono, da rari sarei ripreso e facilmente potrei
piacere a tutti. Ma per essere delineatore del campo de la natura, sollecito
circa la pastura de l'alma, vago de la coltura de l'ingegno e dedalo circa gli
abiti de l'intelletto, ecco che chi adocchiato me minaccia, chi osservato
m'assale, chi giunto mi morde, chi compreso mi vora; non è uno, non son pochi,
son molti, son quasi tutti. Se volete intendere onde sia questo, vi dico che la
caggione è l'universitade che mi dispiace, il volgo ch'odio, la moltitudine che
non mi contenta, una che m'innamora: quella per cui son libero in suggezione,
contento in pena, ricco ne la necessitade e vivo ne la morte; quella per cui non
invidio a quei che son servi nella libertà, han pena nei piaceri, son poveri ne
le ricchezze e morti ne la vita, perché nel corpo han la catena che le stringe,
nel spirto l'inferno che le deprime, ne l'alma l'errore che le ammala, ne la
mente il letargo che le uccide; non essendo magnanimità che le delibere, non
longanimità che le inalze, non splendor che le illustre, non scienza che le
avvive. Indi accade che non ritrao, come lasso, il piede da l'arduo camino; né,
come desidioso, dismetto le braccia da l'opra che si presenta; né, qual
disperato, volgo le spalli al nemico che mi contrasta; né, come abbagliato,
diverto gli occhi dal divino oggetto; mentre, per il più, mi sento riputato
sofista, più studioso d'apparir sottile che di esser verace; ambizioso, che più
studia di suscitar nova e falsa setta che di confirmar l'antica e vera;
ucellatore, che va procacciando splendor di gloria con porre avanti le tenebre
d'errori; spirto inquieto, che subverte gli edificii de buone discipline e si fa
fondator di machine di perversitade. Cossì, Signor, gli santi numi disperdano da
me que' tutti che ingiustamente m'odiano, cossì mi sia propicio sempre il mio
Dio, cossì favorevoli mi sieno tutti governatori del nostro mondo, cossì gli
astri mi faccian tale il seme al campo ed il campo al seme ch'appaia al mondo
utile e glorioso frutto del mio lavoro con risvegliar il spirto ed aprir il
sentimento a quei che son privi di lume: come io certissimamente non fingo e, se
erro, non credo veramente errare e, parlando e scrivendo, non disputo per amor
de la vittoria per se stessa (perché ogni riputazione e vittoria stimo nemica a
Dio, vilissima e senza punto di onore, dove non è la verità), ma per amor della
vera sapienza e studio della vera contemplazione m'affatico, mi crucio, mi
tormento. Questo manifestaranno gli argumenti demostrativi, che pendeno da
vivaci raggioni, che derivano da regolato senso, che viene informato da non
false specie che, come veraci ambasciatrici, si spiccano da gli suggetti de la
natura, facendosi presenti a quei che le cercano, aperte a quei che le rimirano,
chiare a chi le apprende, certe a chi le comprende. Or ecco, vi porgo la mia
contemplazione circa l'infinito, universo e mondi innumerabili.
3 Argomento del primo dialogo. Avete dunque nel primo
dialogo prima, che l'inconstanza del senso mostra che quello non è principio di
certezza e non fa quella se non per certa comparazione e conferenza d'un
sensibile a l'altro ed un senso a l'altro; e s'inferisce come la verità sia in
diversi soggetti.
4
Secondo, si comincia a dimostrar l'infinitudine
de l'universo, e si porta il primo argumento tolto da quel, che non si sa finire
il mondo da quei che con l'opra de la fantasia vogliono fabricargli le muraglia.
Terzo, da che è inconveniente dire che il mondo sia finito e che sia in se
stesso, perché questo conviene al solo immenso, si prende il secondo argumento.
Appresso si prende il terzo argumento dall'inconveniente ed impossibile
imaginazione del mondo come sia in nessun loco, perché ad ogni modo seguitarrebe
che non abbia essere, atteso che ogni cosa, o corporale o incorporal che sia, o
corporale- o incorporalmente, è il loco. Il quarto argumento si toglie da una
demostrazione o questione molto urgente che fanno gli epicurei:
Nimirum
si iam finitum constituatur
omne quod est spacium, si quis procurrat ad
oras
Ultimus extremas iaciatque volatile telum,
Invalidis utrum contortum
viribus ire
Quo fuerit missum mavis longeque volare,
An prohibere
aliquid censes obstareque posse?
Nam sive est aliquid quod prohibeat
officiatque,
Quominu' quo missum est veniat finique locet se,
Sive foras
fertur, non est ea fini profecto.
5 Quinto, da che la definizion del
loco che poneva Aristotele non conviene al primo, massimo e comunissimo loco, e
che non val prendere la superficie prossima ed immediata al contenuto, ed altre
levitadi che fanno il loco cosa matematica e non fisica; lascio che tra la
superficie del continente e contenuto che si muove entro quella, sempre è
necessario spacio tramezante a cui conviene più tosto esser loco; e se vogliamo
del spacio prendere la sola superficie, bisogna che si vada cercando in infinito
un loco finito. Sesto, da che non si può fuggir il vacuo ponendo il mondo
finito, se vacuo è quello nel quale è niente.
6 Settimo, da che, sicome
questo spacio nel quale è questo mondo, se questo mondo non vi si trovasse, se
intenderebbe vacuo; cossì dove non è questo mondo, se v'intende vacuo. Citra il
mondo, dunque, è indifferente questo spacio da quello: dunque, l'attitudine
ch'ha questo, ha quello; dunque, ha l'atto, perché nessuna attitudine è eterna
senz'atto; e però eviternamente ha l'atto gionto; anzi essalei è atto, perché
nell'eterno non è differente l'essere e posser essere.
7 Ottavo,
da quel che nessun senso nega l'infinito, atteso che non lo possiamo negare per
questo, che non lo comprendiamo col senso; ma da quel, che il senso viene
compreso da quello e la raggione viene a confirmarlo lo doviamo ponere. Anzi se
oltre ben consideriamo, il senso lo pone infinito; perché sempre veggiamo cosa
compresa da cosa, e mai sentiamo, né con esterno né con interno senso, cosa non
compresa da altra o simile.
Ante oculos etenim rem res finire videtur:
Aer dissepit colleis atque aera montes,
Terra mare et contra mare terras
terminat omneis:
Omne quidem vero nihil est quod finiat extra.
Usque
adeo passim patet ingens copia rebus,
Finibus exemptis, in cunctas undique
parteis.
8 Per quel dunque, che veggiamo, più tosto doviamo argumentar
infinito, perché non ne occorre cosa che non sia terminata ad altro e nessuna
esperimentiamo che sia terminata da se stessa. Nono, da che non si può negare il
spacio infinito se non con la voce, come fanno gli pertinaci, avendo considerato
che il resto del spacio, dove non è mondo e che si chiama vacuo o si finge
etiam niente, non si può intendere senza attitudine a contenere non minor
di questa che contiene. Decimo, da quel che, sicome è bene che sia questo mondo,
non è men bene che sia ciascuno de infiniti altri. Undecimo, da che la bontà di
questo mondo non è comunicabile ad altro mondo che esser possa, come il mio
essere non è comunicabile al di questo e quello. Duodecimo, da che non è
raggione né senso che, come si pone un infinito individuo, semplicissimo e
complicante, non permetta che sia un infinito corporeo ed esplicato.
Terzodecimo, da che questo spacio del mondo che a noi par tanto grande, non è
parte e non è tutto a riguardo dell'infinito, e non può esser suggetto de
infinita operazione, ed a quella è un non ente quello che dalla nostra
imbecillità si può comprendere, e si risponde a certa instanza, che noi non
ponemo l'infinito per la dignità del spacio, ma per la dignità de le nature;
perché per la raggione, da la quale è questo, deve essere ogni altro che può
essere, la cui potenza non è attuata per l'essere di questo, come la potenza de
l'essere di Elpino non è attuata per l'atto dell'essere di Fracastorio.
Quartodecimo da che, se la potenza infinita attiva attua l'esser corporale e
dimensionale, questo deve necessariamente essere infinito; altrimente si deroga
alla natura e dignitade di chi può fare e di chi può essere fatto. Quintodecimo,
da quel, che questo universo conceputo volgarmente non si può dir che comprende
la perfezion di tutte cose altrimente che come io comprendo la perfezione di
tutti gli miei membri e ciascun globo tutto quello che è in esso: come è dire,
ognuno è ricco a cui non manca nulla di quel ch'ha. Sestodecimo, da quel, che in
ogni modo l'efficiente infinito sarrebe deficiente senza l'effetto e non
possiamo capir che tale effetto solo sia lui medesimo. Al che si aggiunge che
per questo, se fusse o se è, niente si toglie di quel che deve essere in quello
che è veramente effetto, dove gli teologi nominano azione ad extra e
transeunte, oltre la immanente; perché cossì conviene che sia infinita l'una
come l'altra.
9 Decimo settimo, da quel, che, dicendo il mondo interminato,
nel modo nostro séguita quiete nell'intelletto, e dal contrario sempre
innumerabilmente difficultadi ed inconvenienti. Oltre, si replica quel ch'è
detto nel secondo e terzo. Decimo ottavo, da quel che, se il mondo è sferico, è
figurato, è terminato, e quel termine che è oltre questo terminato e figurato
(ancor che ti piaccia chiamarlo niente), è anco figurato di sorte che il suo
concavo è gionto al di costui convesso; perché onde comincia quel tuo niente è
una concavità indifferente almeno dalla convessitudinale superficie di questo
mondo. Decimo nono, s'aggiunge a quel che è stato detto nel secondo. Ventesimo,
si replica quello che è stato detto nel decimo.
10 Nella seconda parte di
questo dialogo, quello ch'è dimostrato per la potenza passiva de l'universo, si
mostra per l'attiva potenza de l'efficiente, con più raggioni: de le quali la
prima si toglie da quel, che la divina efficacia non deve essere ociosa; e tanto
più ponendo effetto extra la propria sustanza (se pur cosa gli può esser extra),
e che non meno è ociosa ed invidiosa producendo effetto finito che producendo
nulla. La seconda da la prattica, perché per il contrario si toglie la raggione
della bontade e grandezza divina, e da questo non séguita inconveniente alcuno
contra qualsivoglia legge e sustanza di teologia. La terza è conversiva con la
duodecima de la prima parte; e si apporta la differenza tra il tutto infinito e
totalmente infinito. La quarta, da che non meno per non volere che per non
possere la omnipotenza vien biasimata d'aver fatto il mondo finito e di essere
agente infinito circa suggetto finito. La quinta induce che, se non fa il mondo
infinito, non lo può fare; e se non ha potenza di farlo infinito, non può aver
vigore di conservarlo in infinito; e che, se lui secondo una raggione è finito,
viene ad essere finito secondo tutte le raggioni, perché in lui ogni modo è
cosa, e ogni cosa e modo è uno e medesimo con l'altra e l'altro. La sesta è
conversiva de la decima de la prima parte. E s'apporta la causa per la quale gli
teologi defendeno il contrario non senza espediente raggione, e de l'amicizia
tra questi dotti e gli dotti filosofi.
11 La settima, dal proponere la
raggione che distingue la potenza attiva da l'azioni diverse, e sciorre tale
argumento. Oltre, si mostra la potenza infinita intensiva-ed estensivamente più
altamente che la comunità di teologi abbia giamai fatto. La ottava, da onde si
mostra che il moto di mondi infiniti non è da motore estrinseco ma da la propria
anima, e come con tutto ciò sia un motore infinito. La nona, da che si mostra
come il moto infinito intensivamente si verifica in ciascun de' mondi. Al che si
deve aggiongere che da quel, che un mobile insieme insieme si muove ed è mosso,
séguita che si possa vedere in ogni punto del circolo che fa col proprio centro;
ed altre volte.sciorremo questa obiezione, quando sarà lecito d'apportar la
dottrina più diffusa.
12
Argomento del secondo dialogo. Séguita
la medesima conclusione il secondo dialogo. Ove, primo, apporta quattro
raggioni, de quali la prima si prende da quel, che tutti gli attributi de la
divinità sono come ciascuno. La seconda, da che la nostra imaginazione non deve
posser stendersi più che la divina azione. La terza, da l'indifferenza de
l'intelletto ed azion divina, e da che non meno intende infinito che finito. La
quarta, da che, se la qualità corporale ha potenza infinita attiva, la qualità,
dico, sensibile a noi, or che sarà di tutta che è in tutta la potenza attiva e
passiva absoluta? Secondo, mostra da che cosa corporea non può esser finita da
cosa incorporea, ma o da vacuo o da pieno; ed in ogni modo estra il mondo è
spacio, il quale al fine non è altro che materia e l'istessa potenza passiva,
dove la non invida ed ociosa potenza attiva deve farsi in atto. E si mostra la
vanità dell'argomento d'Aristotele dalla incompossibilità delle dimensioni.
Terzo, se insegna la differenza che è tra il mondo e l'universo, perché chi dice
l'universo infinito uno, necessariamente distingue tra questi dui nomi. Quarto,
si apportano le raggioni contrarie, per le quali si stima l'universo finito:
dove Elpino referisce le sentenze tutte di Aristotele, e Filoteo le va
essaminando. Quelle sono tolte altre dalla natura di corpi semplici, altre da la
natura di corpi composti; e si mostra la vanità di sei argumenti presi dalla
definizione de gli moti che non possono essere in infinito, e da altre simili
proposizioni, le quali son senza proposito e supposito, come si vede per le
nostre raggioni. Le quali più naturalmente faran vedere la raggione de le
differenze e termino di moto, e, per quanto comporta l'occasione e loco,
mostrano la più reale cognizione dell'appulso grave e lieve; perché per esse
mostramo come il corpo infinito non è grave né lieve, e come il corpo finito
riceve differenze tali, e come non. Ed indi si fa aperta la vanità de gli
argomenti di Aristotele, il quale, argumentando contra quei che poneno il mondo
infinito, suppone il mezzo e la circonferenza, e vuole che nel finito o infinito
la terra ottegna il centro. In conclusione, non è proposito grande o picciolo
che abbia amenato questo filosofo per destruggere l'infinità del mondo, tanto
dal primo libro Del cielo e mondo quanto dal terzo De la fisica
ascoltazione, circa il quale non si discorra assai più che a bastanza.
13 Argomento del terzo dialogo. Nel terzo dialogo
primieramente si niega quella vil fantasia della figura, de le sfere e diversità
di cieli; e s'affirma uno essere il cielo, che è uno spacio generale
ch'abbraccia gl'infiniti mondi; benché non neghiamo più, anzi infiniti cieli,
prendendo questa voce secondo altra significazione; per ciò che come questa
terra ha il suo cielo, che è la sua regione nella quale si muove e per la quale
discorre, cossì ciascuna di tutte l'altre innumerabili. Si manifesta onde sia
accaduta la imaginazione di tali e tanti mobili deferenti e talmente figurati
che abbiano due superficie esterne ed una cava interna; ed altre ricette e
medicine che dànno nausea ed orrore agli medesimi che le ordinano e le
esequiscono, e a que' miseri che se le inghiottiscono.
14 Secondo,
si avertisce che il moto generale e quello de gli detti eccentrici e quanti
possono riferirse al detto firmamento, tutti sono fantastici: che realmente
pendeno da un moto che fa la terra con il suo centro per l'ecliptica e quattro
altre differenze di moto che fa circa il centro de la propria mole. Onde resta,
che il moto proprio di ciascuna stella si prende da la differenza che si può
verificare suggettivamente in essa come mobile da per sé per il campo spacioso.
La qual considerazione ne fa intendere, che tutte le raggioni del mobile e moto
infinito son vane e fondate su l'ignoranza del moto di questo nostro globo.
Terzo, si propone come non è stella che non si muova come questa ed altre che,
per essere a noi vicine, ne fanno conoscere sensibilmente le differenze locali
di moti loro; ma che altrimente se muoveno gli soli che son corpi dove predomina
il foco, altrimente le terre ne le quali l'acqua è predominante; e quindi si
manifesta onde proceda il lume che diffondeno le stelle, de quali altre luceno
da per sé altre per altro.
15
Quarto, in qual maniera corpi distantissimi dal
sole possano equalmente come gli più vicini partecipar il caldo; e si riprova la
sentenza attribuita ad Epicuro, come che vuole un sole esser bastante
all'infinito universo; e s'apporta la vera differenza tra quei astri che
scintillano e quei che non. Quinto s'essamina la sentenza del Cusano circa la
materia ed abitabilità di mondi e circa la raggion del lume. Sesto, come di
corpi, benché altri sieno per sé lucidi e caldi, non per questo il sole luce al
sole e la terra luce alla medesima terra ed acqua alla medesima acqua; ma sempre
il lume procede dall'apposito astro, come sensibilmente veggiamo tutto il mar
lucente da luoghi eminenti, come da monti; ed essendo noi nel mare, e quando
siamo ne l'istesso campo, non veggiamo risplendere se non quanto a certa poca
dimensione il lume del sole e della luna ne si oppone. Settimo, si discorre
circa la vanità delle quinte essenze: e si dechiara che tutti corpi sensibili
non sono altri e non costano d'altri prossimi e primi principii che questi, che
non sono altrimente mobili tanto per retto quanto per circulare. Dove tutto si
tratta con raggioni più accomodate al senso commune, mentre Fracastorio
s'accomoda all'ingegno di Burchio; e si manifesta apertamente che non è
accidente che si trova qua che non si presuppona là, come non è cosa che si vede
di là da qua, la quale, se ben consideriamo, non si veda di qua da là; e
conseguentemente, che quel bell'ordine e scala di natura è un gentil sogno ed
una baia da vecchie ribambite. Ottavo, che, quantunque sia vera la distinzione
de gli elementi, non è in nessun modo sensibile o intelligibile tal ordine di
elementi quale volgarmente si pone; e secondo il medesimo Aristotele, gli
quattro elementi sono equalmente parti o membri di questo globo, se non vogliamo
dire che l'acqua eccede; onde degnamente gli astri son chiamati or acqua or
fuoco tanto da veri naturali filosofi quanto da profeti divini e poeti; li
quali, quanto a questo, non favoleggiano né metaforicheggiano, ma lasciano
favoleggiare ed impuerire quest'altri sofossi. Cossì li mondi se intendeno
essere questi corpi eterogenei, questi animali, questi grandi globi, dove non è
la terra grave più che gli altri elementi, e le particelle tutte si muoveno e
cangiano di loco e disposizione non altrimente che il sangue ed altri umori e
spiriti e parte minime, che fluiscono, refluiscono, influiscono ed effluiscono
in noi ed altri piccioli animali. A questo proposito s'amena la comparazione,
per la quale si trova che la terra, per l'appulso al centro de la sua mole, non
si trova più grave che altro corpo semplice che a tal composizion concorre; e
che la terra da per sé non è grave né ascende né discende; e che l'acqua è
quella che fa l'unione, densità, spessitudine e gravità.
16 Nono, da
che è visto il famoso ordine de gli elementi vano, s'inferisce la raggione di
questi corpi sensibili composti che, come tanti animali e mondi, sono nel
spacioso campo che è l'aria o cielo o vacuo. Ove son tutti que' mondi che non
meno contegnono animali ed abitatori che questo contener possa, atteso che non
hanno minor virtù né altra natura. Decimo, dopo che è veduto come sogliano
disputar gli pertinacemente additti ed ignoranti di prava disposizione, si fa
oltre manifesto in che modo per il più delle volte sogliono conchiudere le
disputazioni; benché altri sieno tanto circonspetti che, senza guastarsi punto,
con un ghigno, con un risetto, con certa modesta malignità, quel che non
vagliono aver provato con raggioni né lor medesimi possono donarsi ad intendere,
con queste artecciuole di cortesi dispreggi, la ignoranza in ogni altro modo
aperta vogliono non solo cuoprire, ma rigettarla al dorso dell'antigonista;
perché non vegnono a disputar per trovare o cercar la verità, ma per la vittoria
e parer più dotti e strenui defensori del contrario. E simili denno essere
fuggiti da chi non ha buona corazza di pazienza.
17 Argumento del
quarto dialogo. Nel seguente dialogo prima si replica quel ch'altre volte è
detto, come sono infiniti gli mondi, come ciascun di quelli si muova e come sia
formato. Secondo, nel modo con cui, nel secondo dialogo, si sciolsero le
raggioni contra l'infinita mole o grandezza de l'universo, dopo che nel primo
con molte raggioni fu determinato l'inmenso effetto dell'inmenso vigore e
potenza; al presente, dopo che nel terzo dialogo è determinata l'infinita
moltitudine de mondi, si scioglieno le molte raggioni d'Aristotele contro
quella, benché altro significato abbia questa voce mondo appresso Aristotele,
altro appresso Democrito, Epicuro ed altri.
18 Quello dal moto
naturale e violento, e raggioni de l'uno e l'altro che son formate da lui, vuole
che l'una terra si derrebe muovere a l'altra; e con risolvere queste persuasioni
prima, si poneno fondamenti di non poca importanza per veder gli veri principii
della natural filosofia. Secondo, si dechiara che, quantunque la superficie
d'una terra fusse contigua a l'altra, non averrebe che le parti de l'una si
potessero muovere a l'altra, intendendo de le parti eterogenee o dissimilari,
non de gli atomi e corpi semplici; onde si prende lezione di meglio considerare
circa la natura del grave e lieve. Terzo, per qual caggione questi gran corpi
sieno stati disposti da la natura a tanta distanza, e non sieno più vicini gli
uni e gli altri, di sorte che da l'uno si potesse far progresso a l'altro; e
quindi, da chi profondamente vede, si prende raggione per cui non debbano esser
mondi come nella circonferenza dell'etere, o vicini al vacuo tale in cui non sia
potenza, virtù ed operazione; perché da un lato non potrebono prender vita e
lume. Quarto, come la distanza locale muta la natura del corpo, e come non; ed
onde sia che, posta una pietra equidistante da due terre, o si starebbe ferma, o
determinarebbe di moversi più tosto a l'una che a l'altra. Quinto, quanto
s'inganni Aristotele per quel che in corpi, quantunque distanti, intende appulso
di gravità o levità de l'uno all'altro; ed onde proceda l'appetito di
conservarsi nell'esser presente, quantunque ignobile, ne le cose: il quale
appetito è causa della fuga e persecuzione. Sesto, che il moto retto non
conviene né può esser naturale a la terra o altri corpi principali, ma a le
parti di questi corpi che a essi da ogni differenza di loco, se non son molto
discoste, si muoveno. Settimo, da le comete si prende argomento che non è vero
che il grave, quantunque lontano, abbia appulso o moto al suo continente. La
qual raggione corre non per gli veri fisici principii, ma dalle supposizioni
della filosofia d'Aristotele, che le forma e compone da le parti che sono vapori
ed exalazioni de la terra. Ottavo, a proposito d'un altro argomento, si mostra
come gli corpi semplici, che sono di medesima specie in altri mondi
innumerabili, medesimamente si muovano; e qualmente la diversità numerale pone
diversità de luoghi, e ciascuna parte abbia il suo mezzo e si referisca al mezzo
commune del tutto; il quale mezzo non deve essere cercato nell'universo. Nono,
si determina che gli corpi e parti di quelli non hanno determinato su e giù, se
non in quanto che il luogo della conversazione è qua o là. Decimo, come il moto
sia infinito, e qual mobile tenda in infinito ed a composizioni innumerabili, e
che non perciò séguita gravità o levità con velocità infinita; e che il moto de
le parti prossime, in quanto che serbino il loro essere, non può essere
infinito; e che l'appulso de parti al suo continente non può essere se non infra
la regione di quello.
19
Argomento del quinto dialogo. Nel
principio del quinto dialogo si presenta un dotato di più felice ingegno; il
qual, quantunque nodrito in contraria dottrina, per aver potenza di giudicar
sopra quello ch'ave udito e visto, può far differenza tra una ed un'altra
disciplina, e facilmente si rimette e corregge. Si dice chi sieno quei a' quali
Aristotele pare un miracolo di natura, atteso che coloro che malamente
l'intendeno e hanno l'ingegno basso, magnificamente senteno di lui. Perché
doviamo compatire a simili, e fuggir la lor disputazione, per ciò che con essi
non vi è altro che da perdere.
20 Qua Albertino, nuovo
interlocutore, apporta dodici argumenti, ne li quali consiste tutta la
persuasione contraria alla pluralità e moltitudine di mondi. Il primo si prende
da quel, che estra il mondo non s'intende loco né tempo né vacuo né corpo
semplice, né composto. Il secondo, da l'unità del motore. Il terzo, da luoghi de
corpi mobili. Il quarto, dalla distanza de gli orizonti dal mezzo. Il quinto,
dalla contiguità de più mondi orbiculari. Il sesto, da spacii triangulari che
causano con il suo contatto. Il settimo, dall'infinito in atto, che non è, e da
un determinato numero, che non è più raggionevole che l'altro. Da la qual
raggione noi possiamo non solo equalmente, ma e di gran vantaggio inferire, che
per ciò il numero non deve essere determinato, ma infinito. L'ottavo, dalla
determinazione di cose naturali e dalla potenza passiva de le cose, la quale
alla divina efficacia ed attiva potenza non risponde. Ma qua è da considerare
che è cosa inconvenientissima, che il primo ed altissimo sia simile ad uno ch'ha
virtù di citarizare e, per difetto ci citara, non citareggia; e sia uno che può
fare, ma non fa, perché quella cosa che può fare, non può esser fatta da lui. Il
che pone una più che aperta contradizione, la quale non può essere non
conosciuta, eccetto che da quei che conoscono niente. Il nono dalla bontà civile
che consiste nella conversazione. Il decimo, da quel, che per la contiguità d'un
mondo con l'altro séguita, che il moto de l'uno impedisca il moto de l'altro.
L'undecimo, da quel, che, se questo mondo è compìto e perfetto, non è dovero che
altro o altri se gli aggiunga o aggiungano.
21 Questi son que' dubii
e motivi, nella soluzion delli quali consiste tanta dottrina, quanta sola basta
a scuoprir gl'intimi e radicali errori de la filosofia volgare ed il pondo e
momento de la nostra. Ecco qua la raggione, per cui non doviam temere che cosa
alcuna diffluisca, che particolar veruno o si disperda o veramente inanisca o si
diffonda in vacuo che lo dismembre in adni[c]hilazione. Ecco la raggion della
mutazion vicissitudinale del tutto, per cui cosa non è di male da cui non
s'esca, cosa non è di buono a cui non s'incorra, mentre per l'infinito campo,
per la perpetua mutazione, tutta la sustanza persevera medesima ed una. Dalla
qual contemplazione, se vi sarremo attenti, avverrà che nullo strano accidente
ne dismetta per doglia o timore, e nessuna fortuna per piacere o speranza ne
estoglia: onde aremo la via vera alla vera moralità, saremo magnanimi,
spreggiatori di quel che fanciulleschi pensieri stimano; e verremo certamente
più grandi che que' dei che il cieco volgo adora, perché dovenerremo veri
contemplatori dell'istoria de la natura, la quale è scritta in noi medesimi, e
regolati executori delle divine leggi, che nel centro del nostro core son
inscolpite. Conosceremo che non è altro volare da qua al cielo che dal cielo
qua, non altro ascendere da qua là che da là qua, né è altro descendere da l'uno
a l'altro termine. Noi non siamo più circonferenziali a essi che essi a noi;
loro non sono più centro a noi che noi a loro; non altrimente calcamo la stella
e siamo compresi noi dal cielo, che essi loro.
22 Eccone, dunque, fuor
d'invidia; eccone liberi da vana ansia e stolta cura di bramar lontano quel
tanto bene che possedemo vicino e gionto. Eccone più liberi dal maggior timore
che loro caschino sopra di noi, che messi in speranza che noi caschiamo sopra di
loro; perché cossì infinito aria sustiene questo globo come quelli, cossì questo
animale libero per il suo spacio discorre ed ottiene la sua reggione come
ciascuno di quegli altri per il suo. Il che considerato e compreso che arremo,
oh a quanto più considerare e comprendere ne diportaremo! Onde per mezzo di
questa scienza otteneremo certo quel bene, che per l'altre vanamente si cerca.
23 Questa è quella filosofia che apre gli sensi, contenta il
spirto, magnifica l'intelletto e riduce l'uomo alla vera beatitudine che può
aver come uomo, e consistente in questa e tale composizione; perché lo libera
dalla sollecita cura di piaceri e cieco sentimento di dolori, lo fa godere
dell'esser presente, e non più temere che sperare del futuro; perché la
providenza o fato o sorte, che dispone della vicissitudine del nostro essere
particolare, non vuole né permette che più sappiamo dell'uno che ignoriamo
dell'altro, alla prima vista e primo rancontro rendendoci dubii e perplessi. Ma
mentre consideramo più profondamente l'essere e sustanza di quello in cui siamo
inmutabili, trovaremo non esser morte, non solo per noi, ma né per veruna
sustanza; mentre nulla sustanzialmente si sminuisce, ma tutto, per infinito
spacio discorrendo, cangia il volto. E perché tutti soggiacemo ad ottimo
efficiente, non doviamo credere, stimare e sperare altro, eccetto che come tutto
è da buono; cossì tutto è buono, per buono ed a buono; da bene, per bene, a
bene. Del che il contrario non appare se non a chi non apprende altro che
l'esser presente, come la beltade dell'edificio non è manifesta a chi scorge una
minima parte di quello, come un sasso, un cemento affisso, un mezzo parete; ma
massime a colui che può vedere l'intiero e che ha facultà di far conferenza di
parti a parti. Non temiamo che quello che è accumulato in questo mondo, per la
veemenza di qualche spirito errante o per il sdegno di qualche fulmineo Giove,
si disperga fuor di questa tomba o cupola del cielo, o si scuota ed emuisca come
in polvere fuor di questo manto stellifero; e la natura de le cose non
altrimente possa venire ad inanirsi in sustanza, che alla apparenza di nostri
occhi quell'aria ch'era compreso entro la concavitade di una bolla, va in casso;
perché ne è noto un mondo, in cui sempre cosa succede a cosa senza che sia
ultimo profondo, da onde, come da la mano del fabro, irreparabilmente emuiscano
in nulla. Non sono fini, termini, margini, muraglia che ne defrodino e
suttragano la infinita copia de le cose. Indi feconda è la terra ed il suo mare;
indi perpetuo è il vampo del sole, sumministrandosi eternamente esca a gli
voraci fuochi ed umori a gli attenuati mari; perché dall'infinito sempre nova
copia di materia sottonasce. Di maniera che megliormente intese Democrito ed
Epicuro che vogliono tutto per infinito rinovarsi e restituirsi, che chi si
forza di salvare eterno la costanza de l'universo, perché medesimo numero a
medesimo numero sempre succeda e medesime parti di materia con le medesime
sempre si convertano. Or provedete, signori astrologi, con li vostri pedissequi
fisici, per que' vostri cerchi che vi discriveno le fantasiate nove sfere
mobili; con le quali venete ad impriggionarvi il cervello di sorte che me vi
presentate non altrimente che come tanti papagalli in gabbia, mentre raminghi vi
veggio ir saltellando, versando e girando entro quelli. Conoscemo che sì grande
imperatore non ha sedia sì angusta, sì misero solio, sì arto tribunale, sì poco
numerosa corte, sì picciolo ed imbecille simulacro, che un fantasma parturisca,
un sogno fracasse, una mania ripare, una chimera disperda, una sciagura
sminuisca, un misfatto ne toglia, un pensiero ne restituisca; che con un soffio
si colme e con un sorso si svode; ma è un grandissimo ritratto, mirabile
imagine, figura eccelsa, vestigio altissimo, infinito ripresentante di
ripresentato infinito, e spettacolo conveniente all'eccellenza ed eminenza di
chi non può esser capito, compreso, appreso. Cossì si magnifica l'eccellenza de
Dio, si manifesta la grandezza de l'imperio suo: non si glorifica in uno, ma in
soli innumerabili: non in una terra, un mondo, ma in diececento mila, dico in
infiniti. Di sorte che non è vana questa potenza d'intelletto, che sempre vuole
e puote aggiungere spacio a spacio, mole a mole, unitade ad unitade, numero a
numero, per quella scienza che ne discioglie da le catene di uno angustissimo, e
ne promove alla libertà d'un augustissimo imperio, che ne toglie dall'opinata
povertà ed angustia alle innumerevoli ricchezze di tanto spacio, di sì
dignissimo campo, di tanti coltissimi mondi; e non fa che circolo d'orizonte,
mentito da l'occhio in terra e finto da la fantasia nell'etere spacioso, ne
possa impriggionare il spirto sotto la custodia d'un Plutone e la mercé d'un
Giove. Siamo exempti da la cura d'un tanto ricco possessore e poi tanto parco,
sordido ed avaro elargitore, e dalla nutritura di sì feconda e tuttipregnante e
poi sì meschina e misera parturiscente natura.
24 Altri molti sono i
degni ed onorati frutti che da questi arbori si raccoglieno, altre le messe
preciose e desiderabili che da questo seme sparso riportar si possono. Le quali,
per non più importunamente sollecitar la cieca invidia de gli nostri adversarii,
non ameniamo a mente, ma lasciamo comprendere dal giudizio di quei che possono
comprendere e giudicare. Li quali, da per se medesimi, potranno facilmente a
questi posti fondamenti sopraedificar l'intiero edificio de la nostra filosofia;
gii cui membri, se cossì piacerà a chi ne governa e muove, e se l'incominciata
impresa non ne verrà interrotta, ridurremo alla tanto bramata perfezione, a fine
che quello, che è seminato ne gli dialogi De la causa, principio ed uno,
per altri germoglie, per altri cresca, per altri si mature, per altri, mediante
una rara mietitura, ne addite e, per quanto è possibile, ne contente; mentre
(avendolo sgombrato de le veccie, de gli lolii e de le raccolte zizanie) di
frumento meglior che possa produr terreno de la nostra coltura, verremo ad
colmar il magazzino de studiosi ingegni.
25 Tra tanto, benché son certo che
non è bisogno de lo raccomandarvi, non lasciarò pure, per far parte del debito
mio, di procurar che vi sia veramente raccomandato quello che non intrattenete
tra vostri familiari come uomo di cui avete bisogno, ma come persona che ha
bisogno di voi per tante e tante caggioni che vedete; considerando che, per aver
appresso di voi tanti che vi serveno, non siete differente da plebei, borsieri e
mercanti; ma, per aver alcunamente degno che da voi sia promosso, difeso ed
aggiutato, sète, come sempre vi siete mostrato e fuste, conforme a' principi
magnanimi, eroi e Dei, li quali hanno ordinati pari vostri per la difesa de gli
loro amici. E vi ricordo quel che so che non bisogna ricordarvi: che non potrete
al fine esser tanto stimato dal mondo e gratificato da Dio, per essere amato e
rispettato da principi quantosivoglia grandi de la terra, quanto per amare,
difendere e conservare un di simili. Perché non è cosa che quelli che con la
fortuna vi son superiori, possono fare a voi che molti di lor superate con la
virtude, che possa durare più che gli vostri pareti e tapezzarie; ma tal cosa
voi possete fare ad altri, che facilmente vegna scritta nel libro
dell'eternitade, o sia quello che si vede in terra o sia quell'altro che si
crede in cielo: atteso che quanto che ricevete da altri, è testimonio de
l'altrui virtute, ma il tanto che fate ad altro, è segno ed indizio espresso de
la vostra. Vale.
Sonetto 1
1
Mio passar solitario, a quelle parti,
2 A quai drizzaste già l'alto pensiero,
3 Poggia
infinito, poi che fia mestiero
4 A l'oggetto agguagliar l'industrie
e l'arti.
5 Rinasci là; là su vogli' allevarti
6 Gli tuoi
vaghi pulcini, omai ch'il fiero
7 Destin av'ispedito il corso
intiero
8 Contra l'impresa, onde solea ritrarti.
9 Vanne da
me, che più nobil ricetto
10
Bramo ti godi; e arrai per guida un dio,
11 Che da chi nulla vede è cieco detto.
12 Il ciel
ti scampi, e ti sia sempre pio
13 Ogni nume di questo ampio
architetto;
14 E non tornar a me, se non sei mio.
Sonetto 2
1
Uscito de priggione angusta e nera,
2 Ove tant'anni error stretto m'avinse,
3 Qua
lascio la catena, che mi cinse
4 La man di mia nemica invid'e fera.
5 Presentarmi a la notte fosca sera
6 Oltre non mi potrà,
perché chi vinse
7 Il gran Piton, e del suo sangue tinse
8 L'acqui
del mar, ha spinta mia Megera.
9 A te mi volgo e assorgo, alma mia
voce:
10 Ti ringrazio, mio sol, mia diva luce;
11 Ti
consacro il mio cor, eccelsa mano,
12 Che m'avocaste da quel graffio
atroce,
13 Ch'a meglior stanze a me ti festi duce,
14 Ch'il
cor attrito mi rendeste sano.
Sonetto 3
1
E chi mi impenna, e chi mi scalda il core?
2 Chi non mi fa temer fortuna o morte?
3 Chi le
catene ruppe e quelle porte,
4
Onde rari son sciolti ed escon fore?
5 L'etadi, gli anni, i mesi, i giorni e l'ore
6 Figlie ed
armi del tempo, e quella corte
7 A cui né ferro, né diamante è
forte,
8 Assicurato m'han dal suo furore.
9 Quindi l'ali sicure a
l'aria porgo;
10 Né temo intoppo di cristallo o vetro,
11 Ma fendo
i cieli e a l'infinito m'ergo.
12 E mentre dal mio globo a gli
altri sorgo,
13 E per l'eterio campo oltre penetro:
14 Quel
ch'altri lungi vede, lascio al tergo.
Dialogo 1
Interlocutori: Elpino, Filoteo, Fracastorio,
Burchio.
1
\ ELP.\ Come è possibile che
l'universo sia infinito?
2
\ FIL.\ Come è possibile che l'universo sia
finito?
3 \ ELP.\ Volete voi che si possa dimostrar questa
infinitudine?
4 \ FIL.\ Volete voi che si possa dimostrar questa finitudine?
5 \ ELP.\ Che dilatazione è questa?
6 \ FIL.\ Che margine è
questa?
7 \ FRAC.\ Ad rem, ad rem, si iuvat; troppo a lungo ne
avete tenuto suspesi.
8
\ BUR.\ Venite presto a qualche raggione,
Filoteo, perché io mi prenderò spasso de ascoltar questa favola o fantasia.
9 \ FRAC.\ Modestius, Burchio: che dirai, se la verità
ti convincesse al fine?
10
\ BUR.\ Questo ancor che sia vero, io non lo
voglio credere; perché questo infinito non è possibile che possa esser capito
dal mio capo, né digerito dal mio stomaco; benché, per dirla, pure vorrei che
fusse cossì come dice Filoteo, perché se, per mala sorte, avenesse che io
cascasse da questo mondo, sempre trovarei di paese.
11 \ ELP.\ Certo, o
Filoteo, se noi vogliamo far il senso giudice o pur donargli quella prima che
gli conviene per quel che ogni notizia prende origine da lui, trovaremo forse
che non è facile di trovar mezzo per conchiudere quel che tu dici, più tosto che
il contrario. Or, piacendovi, cominciate a farmi intendere.
12 \ FIL.\
Non è senso che vegga l'infinito, non è senso da cui si richieda questa
conchiusione; perché l'infinito non può essere oggetto del senso; e però chi
dimanda di conoscere questo per via di senso, è simile a colui che volesse veder
con gli occhi la sustanza e l'essenza; e chi negasse per questo la cosa, perché
non è sensibile o visibile, verebe a negar la propria sustanza ed essere. Però
deve esser modo circa il dimandar testimonio del senso; a cui non doniamo luogo
in altro che in cose sensibili, anco non senza suspizione, se non entra in
giudizio gionto alla raggione. A l'intelletto conviene giudicare e render
raggione de le cose absenti e divise per distanza di tempo ed intervallo di
luoghi. Ed in questo assai ne basta ed assai sufficiente testimonio abbiamo dal
senso per quel, che non è potente a contradirne e che oltre fa evidente e
confessa la sua imbecillità ed insufficienza per l'apparenza de la finitudine
che caggiona per il suo orizonte, in formar della quale ancora si vede quanto
sia incostante. Or, come abbiamo per esperienza, che ne inganna nella superficie
di questo globo in cui ne ritroviamo, molto maggiormente doviamo averlo suspetto
quanto a quel termine che nella stellifera concavità ne fa comprendere.
13 \ ELP.\ A che dunque ne serveno gli sensi? Dite.
14 \ FIL.\ Ad eccitar la raggione solamente, ad accusare, ad
indicare e testificare in parte, non a testificare in tutto, né meno a
giudicare, né a condannare. Perché giamai, quantunque perfetti, son senza
qualche perturbazione. Onde la verità, come da un debile principio, è da gli
sensi in picciola parte, ma non è nelli sensi.
15 \ ELP.\ Dove dunque?
16 \ FIL.\ Ne l'oggetto sensibile come in un specchio, nella
raggione per modo di argumentazione e discorso, nell'intelletto per modo di
principio o di conclusione, nella mente in propria e viva forma.
17 \ ELP.\
Su dunque, fate vostre raggioni.
18 \ FIL.\ Cossì farò. Se il mondo è
finito ed estra il mondo è nulla, vi dimando: ove è il mondo? ove è l'universo?
Risponde Aristotele: è in se stesso. Il convesso del primo cielo è loco
universale; e quello, come primo continente, non è in altro continente, perché
il loco non è altro che superficie ed estremità di corpo continente; onde chi
non ha corpo continente, non ha loco. - Or che vuoi dir tu, Aristotele, per
questo, che "il luogo è in se stesso?", che mi conchiuderai per "cosa estra il
mondo?". Se tu dici che non v'è nulla; il cielo, il mondo, certo, non sarà in
parte alcuna;
-19 \ FRAC.\ Nullibi ergo erit mundis. Omne erit in nihilo.
20 \ FIL.\ - il mondo sarà qualcosa che non si trova. Se dici
(come certo mi par che vogli dir qualche cosa, per fuggir il vacuo ed il niente)
che estra il mondo è uno ente intellettuale e divino, di sorte che Dio venga ad
esser luogo di tutte le cose, tu medesimo sarai molto impacciato per farne
intendere come una cosa incorporea, intelligibile e senza dimensione possa esser
luogo di cosa dimensionata. Che se dici quello comprendere come una forma ed al
modo con cui l'anima comprende il corpo, non rispondi alla questione dell'estra
ed alla dimanda di ciò che si trova oltre e fuor de l'universo. E se tu vuoi
escusare con dire, che dove è nulla e dove non è cosa alcuna, non è anco luogo,
non è oltre, né extra, per questo non mi contentarai; perché queste sono paroli
ed iscuse che non possono entrare in pensiero. Perché è a fatto impossibile che
con qualche senso o fantasia (anco se si ritrovassero altri sensi ed altre
fantasie) possi farmi affirmare, con vera intenzione, che si trove tal
superficie, tal margine, tal estremità, extra la quale non sia o corpo o vacuo:
anco essendovi Dio, perché la divinità non è per impire il vacuo, e per
conseguenza non è in raggione di quella, in modo alcuno, di terminare il corpo;
perché tutto lo che se dice terminare, o è forma esteriore, o è corpo
continente. Ed in tutti i modi che lo volessi dire, sareste stimato
pregiudicatore alla dignità della natura divina ed universale.
21 \ BUR.\
Certo, credo che bisognarebe dire a costui che, se uno stendesse la mano oltre
quel convesso, che quella non verrebe essere in loco, e non sarebe in parte
alcuna, e per consequenza non arebe l'essere.
22 \ FIL.\ Giongo a
questo qualmente non è ingegno che non concepa questo dire peripatetico come una
implicata contradizione. Aristotele ha definito il loco, non come corpo
continente, non come certo spacio, ma come una superficie di continente corpo; e
poi il primo e principal e massimo luogo è quello a cui meno ed a fatto niente
conviene tal diffinizione. Quello è la superficie convessa del primo cielo, la
quale è superficie di corpo; e di tal corpo, il quale contiene solamente, e non
è contenuto. Or a far che quella superficie sia luogo, non si richieda che sia
di corpo contenuto, ma che sia di corpo continente. Se è superficie di corpo
continente, e non è gionta e continuata a corpo contenuto, è un luogo senza
locato; atteso che al primo cielo non conviene esser luogo, se non per la sua
su[per]ficie concava, la qual tocca la convessa del secondo. Ecco, dunque, come
quella definizione è vana e confusa ed interemptiva di se stessa. Alla qual
confusione si viene per aver quell'inconveniente, che vuol che estra il cielo
sia posto nulla.
23
\ ELP.\ Diranno i peripatetici che il primo
cielo è corpo continente per la superficie concava, e non per la convessa; e,
secondo quella, è luogo.
24
\ FRAC.\ Ed io soggiongo che dunque si trova
superficie di corpo continente la quale non è loco.
25 \ FIL.\ In somma, per
venir direttamente al proposito, mi par cosa ridicola il dire che estra il cielo
sia nulla, e che il cielo sia in se stesso, e locato per accidente, e loco per
accidente, idest per le sue parti. Ed intendasi quel che si voglia per il
suo per accidente; che non può fuggir che non faccia de uno doi; perché sempre è
altro ed altro quel che è continente e quel che è contenuto; e talmente altro ed
altro che, secondo lui medesimo, il continente è incorporeo ed il contenuto è
corpo; il continente è inmobile, il contenuto è mobile; il continente
matematico, il contenuto fisico. Or sia che si voglia di quella superficie,
constantemente dimandarò: che cosa è oltre quella? Se si risponde che è nulla,
questo dirò io esser vacuo, essere inane; e tal vacuo e tal inane che non ha
modo, né termine alcuno olteriore; terminato però citeriormente. E questo è più
difficile ad imaginare, che il pensar l'universo essere infinito ed immenso.
Perché non possiamo fuggire il vacuo, se vogliamo ponere l'universo finito.
Veggiamo adesso, se conviene che sia tal spacio in cui sia nulla. In questo
spacio infinito si trova questo universo (o sia per caso o per necessità o per
providenza, per ora non me ne impaccio). Dimando se questo spacio che contiene
il mondo, ha maggiore aptitudine di contenere un mondo, che altro spacio che sia
oltre.
26 \ FRAC.\ Certo mi par che non; perché dove è nulla, non è
differenza alcuna; dove non è differenza, non è altra ed altra aptitudine: e
forse manco è attitudine alcuna dove non è cosa alcuna.
27 \ ELP.\
Né tampoco inepzia alcuna. E delle due più tosto quella che questa.
28 \ FIL.\
Voi dite bene. Cossì dico io che, come il vacuo ed inane (che si pone
necessariamente con questo peripatetico dire) non ha aptitudine alcuna a
ricevere, assai meno la deve avere a ributtare il mondo. Ma di queste due
attitudini noi ne veggiamo una in atto, e l'altra non la possiamo vedere a
fatto, se non con l'occhio della raggione. Come dunque in questo spacio, equale
alla grandezza del mondo (il quale da platonici è detto materia), è questo
mondo, cossì un altro può essere in quel spacio ed in innumerabili spacii oltre
questo equali a questo.
29
\ FRAC.\ Certo, più sicuramente possiamo
giudicar in similitudine di quel che veggiamo e conoscemo, che in modo contrario
di quel che veggiamo e conoscemo. Onde, perché per il nostro vedere ed
esperimentare l'universo non si finisce, né termina a vacuo ed inane e di quello
non è nuova alcuna, raggionevolmente doviamo conchiuder cossì; perché, quando
tutte l'altre raggioni fussero equali, noi veggiamo che l'esperimento è
contrario al vacuo e non al pieno. Con dir questo, saremo sempre iscusati; ma
con dir altrimente, non facilmente fugiremo mille accusazioni ed inconvenienti.
Seguitate, Filoteo.
30
\ FIL.\ Dunque, dal canto del spacio infinito,
conosciamo certo che è attitudine alla recepzione di corpo, e non sappiamo
altrimente. Tutta volta mi bastarà avere che non ripugna a quella; almeno per
questa caggione, che dove è nulla, nulla oltraggia. Resta ora vedere se è cosa
conveniente che tutto il spacio sia pieno, o non. E qua, se noi consideriamo
tanto in quello che può essere quanto in quello che può fare, trovaremo sempre
non sol raggionevole, ma ancora necessario, che sia. Questo acciò sia manifesto,
vi dimando se è bene che questo mondo sia.
31 \ ELP.\ Molto bene.
32 \ FIL.\
Dunque è bene che questo spacio, che è equale alla dimension del mondo (il quale
voglio chiamar vacuo, simile ed indifferente al spacio, che tu direste esser
niente oltre la convessitudine del primo cielo), sia talmente ripieno. \ &R
ELP.\ Cossì è.
33 \ FIL.\ Oltre, te dimando: credi tu che sicome in questo
spacio si trova questa machina, detta mondo, che la medesima arebe possuto o
potrebe essere in altro spacio di questo inane?
34 \ ELP.\ Dirò de sì,
benché non veggio come nel niente e vacuo possiamo dire differenza di altro ed
altro.
35 \ FRAC.\ Io son certo che vedi, ma non ardisci di affirmare,
perché ti accorgi dove ti vuol menare.
36 \ ELP.\ Affirmatelo pur
sicuramente; perché è necessario dire ed intendere che questo mondo è in un
spacio; il quale, se il mondo non fusse, sarebe indifferente da quello che è
oltre il primo vostro mobile.
37 \ FRAC.\ Seguitate.
38 \ FIL.\
Dunque, sicome può ed ha possuto ed è necessariamente perfetto questo spacio per
la continenza di questo corpo universale, come dici; niente meno può ed ha
possuto esser perfetto tutto l'altro spacio.
39 \ ELP.\ Il concedo;
che per questo? Può essere, può avere: dunque è? dunque ha?
40 \ FIL.\
Io farò che, se vuoi ingenuamente confessare, che tu dica che può essere e che
deve essere e che è. Perché come sarebe male che questo spacio non fusse pieno,
cioè che questo mondo non fusse; non meno, per la indifferenza, è male che tutto
il spacio non sia pieno; e per consequenza l'universo sarà di dimensione
infinita e gli mondi saranno innumerabili.
41 \ ELP.\ La causa perché denno
essere tanti, e non basta uno?
42 \ FIL.\ Perché, se è male che
questo mondo non sia o che questo pieno non si ritrove, è al riguardo di questo
spacio o di altro spacio equale a questo?
43 \ ELP.\ Io dico che è male al
riguardo di quel che è in questo spacio, che indifferentemente si potrebe
ritrovare in altro spacio equale a questo.
44 \ FIL.\ Questo, se ben consideri,
viene tutto ad uno; perché la bontà di questo essere corporeo che è in questo
spacio o potrebe essere in altro equale a questo, rende raggione e riguarda a
quella bontà conveniente e perfezione che può essere in tale e tanto spacio,
quanto è questo, o altro equale a questo, e non ad quella che può essere in
innumerabili altri spacii, simili a questo. Tanto più che, se è raggione che sia
un buono finito, un perfetto terminato; improporzionalmente è raggione che sia
un buono infinito; perché, dove il finito bene è per convenienza e raggione,
l'infinito è per absoluta necessità.
45 \ ELP.\ L'infinito buono
certamente è, ma è incorporeo.
46 \ FIL.\ In questo siamo
concordanti, quanto a l'infinito incorporeo. Ma che cosa fa che non sia
convenientissimo il buono, ente, corporeo infinito? O che repugna che
l'infinito, implicato nel simplicissimo ed individuo primo principio, non venga
esplicato più tosto in questo suo simulacro infinito ed interminato, capacissimo
de innumerabili mondi, che venga esplicato in sì anguste margini, di sorte che
par vituperio il non pensare che questo corpo, che a noi par vasto e
grandissimo, al riguardo della divina presenza non sia che un punto, anzi un
nulla?
47 \ ELP.\ Come la grandezza de Dio non consiste nella
dimensione corporale in modo alcuno (lascio che non li aggionge nulla il mondo),
cossì la grandezza del suo simulacro non doviamo pensare che consista nella
maggiore e minore mole di dimensioni.
48 \ FIL.\ Assai bene dite, ma non
rispondete al nervo della raggione; perché io non richiedo il spacio infinito, e
la natura non ha spacio infinito, per la dignità della dimensione o della mole
corporea, ma per la dignità delle nature e specie corporee; perché
incomparabilmente meglio in innumerabili individui si presenta l'eccellenza
infinita, che in quelli che sono numerabili e finiti. Però, bisogna che di un
inaccesso volto divino sia un infinito simulacro, nel quale, come infiniti
membri, poi si trovino mondi innumerabili, quali sono gli altri. Però, per la
raggione de innumerabili gradi di perfezione, che denno esplicare la eccellenza
divina incorporea per modo corporeo, denno essere innumerabili individui, che
son questi grandi animali (de quali uno è questa terra, diva madre che ne ha
parturiti ed alimenta e che oltre non ne riprenderà), per la continenza di
questi innumerabili si richiede un spacio infinito. Nientemeno dunque è bene che
siano, come possono essere, innumerabili mondi simili a questo, come ha possuto
e può essere ed è bene che sia questo.
49 \ ELP.\ Diremo che questo mondo
finito, con questi finiti astri, comprende la perfezione de tutte cose.
50 \ FIL.\ Possete dirlo, ma non già provarlo; perché il mondo
che è in questo spacio finito, comprende la perfezione di tutte quelle cose
finite che son in questo spacio; ma non già dell'infinite che possono essere in
altri spacii innumerabili.
51
\ FRAC.\ Di grazia, fermiamoci, e non facciamo
come i sofisti li quali disputano per vencere, e mentre rimirano alla lor palma,
impediscono che essi ed altri non comprendano il vero. Or io credo che non sia
perfidioso tanto pertinace, che voglia oltre calunniare, che per la raggion del
spacio che può infinitamente comprendere, e per la raggione della bontà
individuale e numerale de infiniti mondi che possono essere compresi niente meno
che questo uno che noi conosciamo, hanno ciascuno di essi raggione di
convenientemente essere. Perché infinito spacio ha infinita attitudine, ed in
quella infinita attitudine si loda infinito atto di existenza; per cui
l'efficiente infinito non è stimato deficiente, e per cui l'attitudine non è
vana. Contentati dunque, Elpino, di ascoltar altre raggioni, se altre occorreno
a Filoteo.
52 \ ELP.\ Io veggio bene, a dire il vero, che dire il mondo,
come dite voi l'universo, interminato non porta seco inconveniente alcuno, e ne
viene a liberar da innumerabili angustie nelle quali siamo avilupati dal
contrario dire. Conosco particolarmente che ne bisogna con i peripatetici tal
volta dir cosa che nella nostra intenzione non tiene fondamento alcuno: come,
dopo aver negato il vacuo, tanto fuori quanto dentro l'universo, vogliamo pur
rispondere alla questione che cerca dove sia l'universo; e dire quello essere ne
le sue parti, per tema di dire che lo non sia in loco alcuno; come è dire
nullibi, nusquam. Ma non si può togliere che in quel modo è
bisogno di dire le parti ritrovarsi in qualche loco, e l'universo non essere in
loco alcuno né in spacio; il qual dire, come ognun vede, non può essere fondato
sopra intenzione alcuna, ma significa espressamente una pertinace fuga, per non
confessar la verità con ponere il mondo ed universo infinito, o con ponere il
spacio infinito; da le quali ambe posizioni séguita gemina confusione a chi le
tiene. Affermo dunque che, se il tutto è un corpo, e corpo sferico, e per
consequenza figurato e terminato, bisogna che sia terminato in spacio infinito;
nel quale, se vogliamo dire che sia nulla, è necessario concedere che sia il
vero vacuo: il quale, se è, non ha minor raggione in tutto che in questa parte
che qua veggiamo capace di questo mondo; se non è, deve essere il pieno, e
consequentemente l'universo infinito. E non meno insipidamente siegue il mondo
essere alicubi, avendo detto che estra quello è nulla, e che vi è nelle
sue parti, che se uno dicesse Elpino essere alicubi, perché la sua mano è
nel suo braccio, l'occhio nel suo volto, il piè nella gamba, il capo nel suo
busto. Ma, per venire alla conclusione e per non portarmi da sofista fissando il
piè su l'apparente difficoltadi, e spendere il tempo in ciancie, affermo quel
che non posso negare: cioè, che nel spacio infinito o potrebono essere infiniti
mondi simili a questo, o che questo universo stendesse la sua capacità e
comprensione di molti corpi, come son questi, nomati astri; ed ancora che (o
simili o dissimili che sieno questi mondi) non con minor raggione sarebe bene a
l'uno l'essere che a l'altro; perché l'essere de l'altro non ha minor raggione
che l'essere de l'uno, e l'essere di molti non minor che de l'uno e l'altro, e
l'essere de infiniti che di molti. Là onde, come sarebe male la abolizione ed il
non essere di questo mondo, cossì non sarebe buono il non essere de innumerabili
altri.
53 \ FRAC.\ Vi esplicate molto bene, e mostrate di comprender
bene le raggioni e non esser sofista, perché accettate quel che non si può
negare.
54 \ ELP.\ Pure vorei udire quel che resta di raggione del
principio e causa efficiente eterna: se a quella convegna questo effetto di tal
sorte infinito, e se per tanto in fatto tale effetto sia.
55 \ FIL.\
Questo è quel che io dovevo aggiongere. Perché, dopo aver detto l'universo dover
essere infinito per la capacità ed attitudine del spacio infinito, e per la
possibilità e convenienza dell'essere di innumerabili mondi, come questo; resta
ora provarlo e dalle circostanze dell'efficiente che deve averlo produtto tale,
o, per parlar meglio, produrlo sempre tale, e dalla condizione del modo nostro
de intendere. Possiamo più facilmente argumentare che infinito spacio sia simile
a questo che veggiamo, che argumentare che sia tale quale non lo veggiamo né per
essempio né per similitudine né per proporzione né anco per imaginazione alcuna
la quale al fine non destrugga se medesima. Ora, per cominciarla: perché
vogliamo o possiamo noi pensare che la divina efficacia sia ociosa? perché
vogliamo che la divina bontà la quale si può communicare alle cose infinite e si
può infinitamente diffondere, voglia essere scarsa ed astrengersi in niente,
atteso che ogni cosa finita al riguardo de l'infinito è niente? perché volete
quel centro della divinità, che può infinitamente in una sfera (se cossì si
potesse dire) infinita amplificarse, come invidioso, rimaner più tosto sterile
che farsi comunicabile, padre fecondo, ornato e bello? voler più tosto
comunicarsi diminutamente e, per dir meglio, non comunicarsi, che secondo la
raggione della gloriosa potenza ed esser suo? perché deve esser frustrata la
capacità infinita, defraudata la possibilità de infiniti mondi che possono
essere, pregiudicata la eccellenza della divina imagine che deverebe più
risplendere in uno specchio incontratto e secondo il suo modo di essere
infinito, immenso? perché doviamo affirmar questo che, posto, mena seco tanti
inconvenienti e, senza faurir leggi, religioni, fede o moralità in modo alcuno,
destrugge tanti principii di filosofia? Come vuoi tu che Dio, e quanto alla
potenza e quanto a l'operazione e quanto a l'effetto (che in lui son medesima
cosa), sia determinato, e come termino della convessitudine di una sfera, più
tosto che, come dir si può, termino interminato di cosa interminata? Termino,
dico, senza termine, per esser differente la infinità dell'uno da l'infinità
dell'altro: perché lui è tutto l'infinito complicatamente e totalmente, ma
l'universo è tutto in tutto (se pur in modo alcuno si può dir totalità, dove non
è parte né fine) explicatamente, e non totalmente; per il che l'uno ha raggion
di termine, l'altro ha raggion di terminato, non per differenza di finito ed
infinito, ma perché l'uno è infinito e l'altro è finiente secondo la raggione
del totale e totalmente essere in tutto quello che, benché sia tutto infinito,
non è però totalmente infinito; perché questo ripugna alla infinità
dimensionale.
56 \ ELP.\ Io vorrei meglio intender questo. Però mi farete
piacere di esplicarvi alquanto per quel che dite essere tutto in tutto
totalmente, e tutto in tutto l'infinito e totalmente infinito.
57 \ FIL.\
Io dico l'universo tutto infinito, perché non ha margine, termino, né
superficie; dico l'universo non essere totalmente infinito, perché ciascuna
parte che di quello possiamo prendere, è finita, e de mondi innumerabili che
contiene, ciascuno è finito. Io dico Dio tutto infinito, perché da sé esclude
ogni termine ed ogni suo attributo è uno ed infinito; e dico Dio totalmente
infinito, perché tutto lui è in tutto il mondo, ed in ciascuna sua parte
infinitamente e totalmente: al contrario dell'infinità de l'universo, la quale è
totalmente in tutto, e non in queste parti (se pur, referendosi all'infinito,
possono esser chiamate parti) che noi possiamo comprendere in quello.
58 \ ELP.\ Io intendo. Or seguite il vostro proposito.
59 \ FIL.\ Per tutte le raggioni, dunque, per le quali se dice
esser conveniente, buono, necessario questo mondo compreso come finito, deve
dirse esserno convenienti e buoni tutti gli altri innumerabili; a li quali, per
medesima raggione, l'omnipotenza non invidia l'essere; e senza li quali quella,
o per non volere o per non possere, verrebe ad esser biasimata per lasciar un
vacuo o, se non vuoi dir vacuo, un spacio infinito; per cui non solamente
verrebe suttratta infinita perfezione dello ente, ma anco infinita maestà
attuale allo efficiente nelle cose fatte se son fatte, o dependenti se sono
eterne. Qual raggione vuole che vogliamo credere, che l'agente che può fare un
buono infinito, lo fa finito? E se lo fa finito, perché doviamo noi credere che
possa farlo infinito, essendo in lui il possere ed il fare tutto uno? Perché è
inmutabile, non ha contingenzia nella operazione, né nella efficacia, ma da
determinata e certa efficacia depende determinato e certo effetto
inmutabilmente; onde non può essere altro che quello che è; non può esser tale
quale non è; non può posser altro che quel che può; non può voler altro che quel
che vuole; e necessariamente non può far altro che quel che fa; atteso che
l'aver potenza distinta da l'atto conviene solamente a cose mutabili.
60 \ FRAC.\ Certo, non è soggetto di possibilità o di potenza
quello che giamai fu, non è e giamai sarà; e veramente, se il primo efficiente
non può voler altro che quel che vuole, non può far altro che quel che fa. E non
veggo come alcuni intendano quel che dicono della potenza attiva infinita, a cui
non corrisponda potenza passiva infinita, e che quello faccia uno e finito che
può far innumerabili ne l'infinito ed inmenso, essendo l'azion sua necessaria,
perché procede da tal volontà quale, per essere inmutabilissima, anzi la
immutabilità istessa, è ancora la istessa necessità; onde sono a fatto medesima
cosa libertà, volontà, necessità, ed oltre il fare col volere, possere ed
essere.
61 \ FIL.\ Voi consentite, e dite molto bene. Adunque, bisogna
dir una de due: o che l'efficiente, possendo dependere da lui l'effetto
infinito, sia riconosciuto come causa e principio d'uno inmenso universo che
contiene mondi innumerabili; e da questo non siegue inconveniente alcuno, anzi
tutti convenienti, e secondo la scienza e secondo le leggi e fede; o che,
dependendo da lui un finito universo, con questi mondi (che son gli astri) di
numero determinato, sia conosciuto di potenza attiva finita e determinata, come
l'atto è finito e determinato; perché quale è l'atto, tale è la volontà, tale è
la potenza.
62 \ FRAC.\ Io completto ed ordino un paio di sillogismi in
questa maniera. Il primo efficiente, se volesse far altro che quel che vuol
fare, potrebe far altro che quel che fa; ma non può voler far altro che quel che
vuol fare; dunque non può far altro che quel che fa. Dunque, chi dice l'effetto
finito, pone l'operazione e la potenza finita. Oltre (che viene al medesimo): il
primo efficiente non può far se non quel che vuol fare; non vuol fare se non
quel che fa; dunque, non può fare se non quel che fa. Dunque, chi nega l'effetto
infinito, nega la potenza infinita.
63 \ FIL.\ Questi, se non son
semplici, sono demostrativi sillogismi. Tutta volta lodo che alcuni degni
teologi non le admettano; perché, providamente considerando, sanno che gli rozzi
popoli ed ignoranti con questa necessità vegnono a non posser concipere come
possa star la elezione e dignità e meriti di giusticia; onde, confidati o
desperati sotto certo fato, sono necessariamente sceleratissimi. Come talvolta
certi corrottori di leggi, fede e religione, volendo parer savii, hanno
infettato tanti popoli, facendoli dovenir più barbari e scelerati che non eran
prima, dispreggiatori del ben fare ed assicuratissimi ad ogni vizio e
ribaldaria, per le conclusioni che tirano da simili premisse. Però non tanto il
contrario dire appresso gli sapienti è scandaloso e detrae alla grandezza ed
eccellenza divina, quanto quel che è vero, è pernicioso alla civile
conversazione e contrario al fine delle leggi, non per esser vero, ma per esser
male inteso, tanto per quei che malignamente il trattano, quanto per quei che
non son capaci de intenderlo senza iattura di costumi.
64 \ FRAC.\
Vero. Non si è trovato giamai filosofo, dotto ed uomo da bene che, sotto specie
o pretesto alcuno, da tal proposizione avesse voluto tirar la necessità delli
effetti umani e destruggere l'elezione. Come, tra gli altri, Platone ed
Aristotele, con ponere la necessità ed immutabilità in Dio, non poneno meno la
libertà morale e facultà della nostra elezione; perché sanno bene e possono
capire, come siano compossibili questa necessità e questa libertà. Però alcuni
di veri padri e pastori di popoli toglieno forse questo dire ed altro simile per
non donare comodità, a scelerati e seduttori nemici della civilità e profitto
generale, di tirar le noiose conclusioni abusando della semplicità ed ignoranza
di quei che difficilmente possono capire il vero e prontissimamente sono
inclinati al male. E facilmente condonaranno a noi di usar le vere proposizioni,
dalle quali non vogliamo inferir altro che la verità della natura e
dell'eccellenza de l'autor di quella; e le quali non son proposte da noi al
volgo, ma a sapienti soli che possono aver accesso all'intelligenza di nostri
discorsi. Da questo principio depende che gli non men dotti che religiosi
teologi giamai han pregiudicato alla libertà de filosofi; e gli veri, civili e
bene accostumati filosofi sempre hanno faurito le religioni; perché gli uni e
gli altri sanno che la fede si richiede per l'instituzione di rozzi popoli che
denno esser governati, e la demostrazione per gli contemplativi che sanno
governar sé ed altri.
65
\ ELP.\ Quanto a questa protestazione è detto
assai. Ritornate ora al proposito.
66 \ FIL.\ Per venir, dunque, ad
inferir quel che vogliamo, dico che, se nel primo efficiente è potenza infinita,
è ancora operazion da la quale depende l'universo di grandezza infinita e mondi
di numero infinito.
67
\ ELP.\ Quel che dite, contiene in sé gran
persuasione, se non contiene la verità. Ma questo che mi par molto verisimile,
io lo affermarò per vero, se mi potrete risolvere di uno importantissimo
argomento per il quale è stato ridutto Aristotele a negar la divina potenza
infinita intensivamente, benché la concedesse estensivamente. Dove la raggione
della negazione sua era che, essendo in Dio cosa medesima potenza e atto,
possendo cossì movere infinitamente, moverebbe infinitamente con vigore
infinito; il che se fusse vero, verrebe il cielo mosso in istante; perché, se il
motor più forte muove più velocemente, il fortissimo muove velocissimamente,
l'infinitamente forte muove istantaneamente. La raggione della affirmazione era,
che lui eternamente e regolatamente muove il primo mobile, secondo quella
raggione e misura con la quale il muove. Vedi dunque per che raggione li
attribuisce infinità estensiva - ma non infinità absoluta - ed intensivamente
ancora. Per il che voglio conchiudere che, sicome la sua potenza motiva infinita
è contratta all'atto di moto secondo velocità finita, cossì la medesima potenza
di far l'inmenso ed innumerabili è limitata dalla sua voluntà al finito e
numerabili. Quasi il medesimo vogliono alcuni teologi, i quali, oltre che
concedeno la infinità estensiva con la quale successivamente perpetua il moto
dell'universo, richiedeno ancora la infinità intensiva con la quale può far
mondi innumerabili, muovere mondi innumerabili, e ciascuno di quelli e tutti
quelli insieme muovere in uno istante: tutta volta, cossì ha temprato con la sua
voluntà la quantità della moltitudine di mondi innumerabili, come la qualità del
moto intensissimo. Dove, come questo moto, che procede pure da potenza infinita,
nulla obstante, è conosciuto finito, cossì facilmente il numero di corpi mondani
potrà esser creduto determinato.
68 \ FIL.\ L'argumento in vero è di
maggior persuasione ed apparenza che altro possa essere; circa il quale è detto
già a bastanza per quel, che si vuole che la volontà divina sia regolatrice,
modificatrice e terminatrice della divina potenza. Onde seguitano innumerabili
inconvenienti, secondo la filosofia al meno; lascio i principii teologali, i
quali con tutto ciò non admetteranno che la divina potenza sia più che la divina
volontà o bontà, e generalmente che uno attributo secondo maggior raggione
convegna alla divinità che un altro.
69 \ ELP.\ Or perché dunque hanno
quel modo di dire, se non hanno questo modo di intendere?
70 \ FIL.\
Per penuria di termini ed efficaci resoluzioni.
71 \ ELP.\ Or dunque voi,
che avete particular principii, con gli quali affermate l'uno, cioè che la
potenza divina è infinita intensiva ed estensivamente; e che l'atto non è
distinto dalla potenza, e che per questo l'universo è infinito e gli mondi sono
innumerabili; e non negate l'altro, che in fatto ciascuno de li astri o orbi,
come ti piace dire, vien mosso in tempo e non in instante; mostrate con quai
termini e con che risoluzione venete a salvar la vostra, o togliere l'altrui
persuasioni, per le quali giudicano, in conclusione, il contrario di quel che
giudicate voi.
72 \ FIL.\ Per la risoluzion di quel che cercate, dovete
avertire prima che, essendo l'universo infinito ed immobile, non bisogna cercare
il motor di quello. Secondo che, essendo infiniti gli mondi contenuti in quello,
quali sono le terre, li fuochi ed altre specie di corpi chiamati astri, tutti se
muoveno dal principio interno, che è la propria anima, come in altro loco
abbiamo provato; e però è vano andar investigando il lor motore estrinseco.
Terzo che questi corpi mondani si muoveno nella eterea regione non affissi o
inchiodati in corpo alcuno più che questa terra, che è un di quelli, è affissa;
la qual però proviamo che dall'interno animale instinto circuisce il proprio
centro, in più maniere, e il sole. Preposti cotali avertimenti secondo gli
nostri principii, non siamo forzati a dimostrar moto attivo né passivo di vertù
infinita intensivamente; perché il mobile ed il motore è infinito, e l'anima
movente ed il corpo moto concorreno in un finito soggetto; in ciascuno, dico, di
detti mondani astri. Tanto, che il primo principio non è quello che muove; ma,
quieto ed immobile, dà il posser muoversi a infiniti ed innumerabili mondi,
grandi e piccoli animali posti nell'amplissima reggione de l'universo, de quali
ciascuno, secondo la condizione della propria virtù, ha la raggione di mobilità,
motività ed altri accidenti.
73
\ ELP.\ Voi siete fortificato molto, ma non già
per questo gittate la machina delle contrarie opinioni. Le quali tutte hanno per
famoso e come presupposto, che l'Optimo Massimo muove il tutto. Tu dici che dona
il muoversi al tutto che si muove; e però il moto accade secondo la virtù del
prossimo motore. Certo, mi pare più tosto raggionevole di vantaggio che meno
conveniente questo tuo dire che il comune determinare; tutta volta, - per quel
che solete dire circa l'anima del mondo e circa l'essenza divina, che è tutta in
tutto, empie tutto ed è più intrinseca alle cose che la essenzia propria de
quelle, perché è la essenzia de le essenzie, vita de le vite, anima de le anime,
- però non meno mi par che possiamo dire lui movere il tutto, che dare al tutto
il muoversi. Onde il dubio già fatto par che anco stia su li suoi piedi.
74 \ FIL.\ Ed in questo facilmente posso satisfarvi. Dico,
dunque, che nelle cose è da contemplare, se cossì volete doi principii attivi di
moto: l'uno finito secondo la raggione del finito soggetto, e questo muove in
tempo; l'altro infinito secondo la raggione dell'anima del mondo, overo della
divinità, che è come anima de l'anima, la quale è tutta in tutto e fa esser
l'anima tutta in tutto; e questo muove in istante. La terra dunque ha dui moti.
Cossì tutti gli corpi che si muoveno, hanno dui principii di moto; de quali il
principio infinito è quello che insieme insieme muove ed ha mosso; onde, secondo
quella raggione, il corpo mobile non meno è stabilissimo che mobilissimo. Come
appare nella presente figura, che voglio significhe la terra; che è mossa in
instante in quanto che ha motore di virtù infinita. Quella, movendosi con il
centro da A in E, e tornando da E in A, e questo essendo in uno instante,
insieme insieme e in A ed in E ed in tutti gli luoghi tramezzanti; e però
insieme insieme è partita e ritornata; e questo essendo sempre cossì, aviene che
sempre sia stabilissima. Similmente, quanto al suo moto circa il centro, dove è
il suo oriente I, il mezzo giorno V, l'occidente K, il merinozio O; ciascuno di
questi punti circuisce per virtù di polso infinito; e però ciascuno di quelli
insieme insieme è partito ed è ritornato; per consequenza è fisso sempre, ed è
dove era. Tanto che, in conclusione, questi corpi essere mossi da virtù infinita
è medesimo che non esser mossi; perché movere in instante e non movere è tutto
medesimo ed uno. Rimane, dunque, l'altro principio attivo del moto, il quale è
dalla virtù intrinseca, e per conseguenza è in tempo e certa successione; e
questo moto è distinto dalla quiete. Ecco, dunque, come possiamo dire Dio
muovere il tutto; e come doviamo intendere, che dà il muoversi al tutto che si
muove.
75 \ ELP.\ Or che tanto alta ed efficacemente mi hai tolta e
risoluta questa difficoltà, io cedo a fatto al vostro giudizio, e spero oltre
sempre da voi ricevere simili resoluzioni; perché, benché in poco sin ora io
v'abbia pratticato e tentato, ho pur ricevuto e conceputo assai; e spero di gran
vantaggio più; perché, benché a pieno non vegga l'animo vostro, dal raggio che
diffonde scorgo che dentro si rinchiude o un sole oppure un luminar maggiore. E
da oggi in poi, non con speranza di superar la vostra sufficienza, ma con
dissegno di porgere occasione a vostre elucidazioni, ritornarò a proporvi, se vi
dignarete di farvi ritrovar per tanti giorni alla medesima ora in questo loco,
quanti bastaranno ad udir ed intender tanto che mi quiete a fatto la mente.
76 \ FIL.\ Cossì farò.
77 \ FRAC.\ Sarai gratissimo, e vi
saremo attentissimi auditori.
78 \ BUR.\ Ed io, quantunque poco
intendente, se non intenderò li sentimenti, ascoltarò le paroli; se non
ascoltarò le paroli, udirò la voce. Adio!
Dialogo 2
1
\ FIL.\ Perché il primo
principio è simplicissimo, però, se secondo uno attributo fusse finito, sarebe
finito secondo tutti gli attributi; o pure, secondo certa raggione intrinseca
essendo finito e secondo certa infinito, necessariamente in lui si intenderebe
essere composizione. Se, dunque, lui è operatore de l'universo, certo è
operatore infinito e riguarda effetto infinito; effetto dico, in quanto che
tutto ha dependenza da lui. Oltre, sicome la nostra imaginazione è potente di
procedere in infinito, imaginando sempre grandezza dimensionale oltra grandezza
e numero oltra numero, secondo certa successione e, come se dice, in potenzia,
cossì si deve intendere che Dio attualmente intende infinita dimensione ed
infinito numero. E da questo intendere séguita la possibilità con la convenienza
ed opportunità, che ponemo essere: dove, come la potenza attiva è infinita,
cossì, per necessaria conseguenza, il soggetto di tal potenza è infinito;
perché, come altre volte abiamo dimostrato, il posser fare pone il posser esser
fatto, il dimensionativo pone il dimensionabile, il dimensionante pone il
dimensionato. Giongi a questo che, come realmente si trovano corpi dimensionati
finiti, cossì l'intelletto primo intende corpo e dimensione. Se lo intende, non
meno lo intende infinito; se lo intende infinito ed il corpo è inteso infinito,
necessariamente tal specie intelligibile è; e per esser produtta da tale
intelletto, quale è il divino, è realissima; e talmente reale, che ha più
necessario essere che quello che attualmente è avanti gli nostri occhi
sensitivi. Quando, se ben consideri, aviene che, come veramente è uno individuo
infinito simplicissimo, cossì sia uno amplissimo dimensionale infinito, il quale
sia in quello, e nel quale sia quello, al modo con cui lui è nel tutto, ed il
tutto è in lui. Appresso, se per la qualità corporale veggiamo che un corpo ha
potenza di aumentarsi in infinito; come si vede nel fuoco, il quale, come ognun
concede, si amplificarebe in infinito, se si gli avicinasse materia ed esca;
qual raggion vuole, che il fuoco, che può essere infinito e può esser per
conseguenza fatto infinito, non possa attualmente trovarsi infinito? Certo non
so, come possiamo fengere nella materia essere qualche cosa in potenza passiva
che non sia in potenza attiva nell'efficiente, e per conseguenza in atto, anzi
l'istesso atto. Certo, il dire che lo infinito è in potenza ed in certa
successione e non in atto necessariamente apporta seco che la potenza attiva
possa ponere questo in atto successivo e non in atto compito; perché l'infinito
non può esser compito. Onde seguitarebe ancora che la prima causa non ha potenza
attiva semplice, absoluta ed una; ma una potenza attiva a cui risponde la
possibilità infinita successiva, ed un'altra a cui responde la possibilità
indistinta da l'atto. Lascio che, essendo terminato il mondo, e non essendo modo
di imaginare come una cosa corporea venga circonferenzialmente a finirsi ad una
cosa incorporea, sarebe questo mondo in potenza e facultà di svanirsi ed
annullarsi: perché, per quanto comprendemo, tutt'i corpi sono dissolubili.
Lascio, dico, che non sarebe raggion che tolga che tal volta l'inane infinito,
benché non si possa capire di potenza attiva, debba assorbire questo mondo come
un nulla. Lascio che il luogo, spacio ed inane ha similitudine con la materia,
se pur non è la materia istessa; come forse non senza caggione tal volta par che
voglia Platone e tutti quelli che definiscono il luogo come certo spacio. Ora,
se la materia ha il suo appetito, il quale non deve essere in vano, perché tale
appetito è della natura e procede da l'ordine della prima natura, bisogna che il
loco, il spacio, l'inane abbiano cotale appetito. Lascio che, come è stato di
sopra accennato, nessun di questi che dice il mondo terminato, dopo aver
affirmato il termine, sa in modo alcuno fingere come quello sia; ed insieme
insieme alcun di questi, negando il vacuo ed inane con le proposte e paroli, con
l'esecuzione poi ed effetto viene a ponerlo necessariamente. Se è vacuo ed
inane, è certo capace di ricevere; e questo non si può in modo alcuno negare,
atteso che - per tal raggione medesima, per la quale è stimato impossibile che
nel spacio dove è questo mondo, insieme insieme si trove contenuto un altro
mondo - deve esser detto possibile che nel spacio fuor di questo mondo, o in
quel niente, se cossì dir vuole Aristotele quello che non vuol dir vacuo, possa
essere contenuto. La raggione, per la quale lui dice dui corpi non possere
essere insieme, è l'incompossibilità delle dimensioni di uno ed un altro corpo:
resta, dunque, per quanto richiede tal raggione, che dove non sono le dimensioni
de l'uno, possono essere le dimensioni de l'altro. Se questa potenza vi è,
dunque il spacio in certo modo è materia; se è materia, ha l'aptitudine; se ha
l'aptitudine, per qual raggione doviamo negargli l'atto?
2 \ ELP.\
Molto bene. Ma di grazia, procediate in altro; fatemi intendere come differenza
fate tra il mondo e l'universo.
3 \ FIL.\ La differenza è molto
divolgata fuor della scola peripatetica. Gli stoici fanno differenza tra il
mondo e l'universo, perché il mondo è tutto quello che è pieno e costa di corpo
solido; l'universo è non solamente il mondo, ma oltre il vacuo, inane e spacio
extra di quello: e però dicono il mondo essere finito, ma l'universo infinito.
Epicuro similmente il tutto ed universo chiama una mescuglia di corpi ed inane;
ed in questo dice consistere la natura del mondo, il quale è infinito: e nella
capacità dell'inane e vacuo e, oltre, nella moltitudine di corpi che sono in
quello. Noi non diciamo vacuo alcuno, come quello che sia semplicemente nulla;
ma secondo quella raggione, con la quale ciò che non è corpo che resista
sensibilmente, tutto suole esser chiamato, se ha dimensione, vacuo: atteso che
comunmente non apprendeno l'esser corpo, se non con la proprietà di resistenza;
onde dicono che, sicome non è carne quello che non è vulnerabile, cossì non è
corpo quello che non resiste. In questo modo diciamo esser un infinito, cioè una
eterea regione inmensa, nella quale sono innumerabili ed infiniti corpi, come la
terra, la luna ed il sole; li quali da noi son chiamati mondi composti di pieno
e vacuo: perché questo spirito, questo aria, questo etere non solamente è circa
questi corpi, ma ancora penetra dentro tutti, e viene insito in ogni cosa.
Diciamo ancora vacuo secondo quella raggione, per la quale rispondemo alla
questione che dimandasse dove è l'etere infinito e gli mondi; e noi
rispondessimo: in un spacio infinito, in un certo seno nel quale ed è e
s'intende il tutto, ed il quale non si può intendere né essere in altro.
4 Or qua Aristotele, confusamente prendendo il vacuo secondo
queste due significazioni ed un'altra terza, che lui fenge e lui medesimo non sa
nominare né diffinire, si va dibattendo per togliere il vacuo: e pensa con il
medesimo modo di argumentare destruggere a fatto tutte le opinioni del vacuo. Le
quali però non tocca, più che se, per aver tolto il nome di qualche cosa, alcuno
pensasse di aver tolta la cosa; perché destrugge, se pur destrugge, il vacuo
secondo quella raggione la quale forse non è stata presa da alcuno: atteso che
gli antichi e noi prendiamo il vacuo per quello in cui può esser corpo e che può
contener qualche cosa ed in cui sono gli atomi e gli corpi; e lui solo
diffinisce il vacuo per quello che è nulla, in cui è nulla e non può esser
nulla. Laonde, prendendo il vacuo per nome ed intenzione secondo la quale
nessuno lo intese, vien a far castelli in aria e destruggere il suo vacuo e non
quello di tutti gli altri che han parlato di vacuo e si son serviti di questo
nome vacuo. Non altrimenti fa questo sofista in tutti gli altri propositi, come
del moto, infinito, materia, forma, demostrazione, ente; dove sempre edifica
sopra la fede della sua definizion propria e nome preso secondo nova
significazione. Onde ciascun che non è a fatto privo di giudizio, può facilmente
accorgersi quanto quest'uomo sia superficiale circa la considerazion della
natura de le cose, e quanto sia attaccato alle sue non concedute, né degne
d'esserno concedute, supposizioni, più vane nella sua natural filosofia che
giamai si possano fingere nella matematica. E vedete che di questa vanità tanto
si gloriò e si compiacque che, in proposito della considerazion di cose
naturali, ambisce tanto di esser stimato raziocinale o, come vogliam dire
logico, che, per modo d'improperio, quelli che son stati più solleciti della
natura, realità e verità, le chiama fisici. Or, per venire a noi, atteso che nel
suo libro Del vacuo né diretta né indirettamente dice cosa che possa
degnamente militare contra la nostra intenzione, lo lasciamo star cossì,
rimettendolo forse a più ociosa occasione. Dunque, se ti piace, Elpino, forma ed
ordina quelle raggioni, per le quali l'infinito corpo non viene admesso da gli
nostri adversarii, ed appresso quelle, per le quali non possono comprendere
essere mondi innumerabili.
5
\ ELP.\ Cossì farò. Io referirò le sentenze
d'Aristotele per ordine, e voi direte circa quelle ciò che vi occorre. "È da
considerare", dice egli, "se si trova corpo infinito, come alcuni antichi
filosofi dicono, o pur questo sia una cosa impossibile; ed appresso è da vedere
se sia uno over più mondi. La risoluzion de le quali questioni è
importantissima: perché l'una e l'altra parte della contradizione son di tanto
momento, che son principio di due sorte di filosofare molto diverso e contrario:
come, per essempio, veggiamo, che da quel primo error di coloro che hanno poste
le parti individue, hanno chiuso il camino di tal sorte, che vegnono ad errare
in gran parte della matematica. Snodaremo dunque proposito di gran momento per
le passate, presenti e future difficultadi; perché, quantunque poco di
trasgressione che si fa nel principio, viene per diecemila volte a farsi
maggiore nel progresso; come, per similitudine, nell'errore che si fa nel
principio di qualche camino, il quale tanto più si va aumentando e crescendo,
quanto maggior progresso si fa allontanandosi dal principio, di sorte che al
fine si viene ad giongere a termine contrario a quello che era proposto. E la
raggion di questo è, che gli principii son piccioli in grandezza e grandissimi
in efficacia. Questa è la raggione della determinazione di questo dubio".
6 \ FIL.\ Tutto lo che dice è necessarissimo, e non meno degno
di esser detto da gli altri che da lui; perché, sicome lui crede, che da questo
principio mal inteso gli aversarii sono trascorsi in grandi errori, cossì, a
l'apposito, noi credemo e veggiamo aperto, che dal contrario di questo principio
lui ha pervertita tutta la considerazion naturale.
7 \ ELP.\ Soggionge:
"Bisogna dunque, che veggiamo, se è possibile, che sia corpo semplice di
grandezza infinita; il che primeramente deve esser mostrato impossibile in quel
primo corpo, che si muove circularmente; appresso, negli altri corpi; perché,
essendo ogni corpo o semplice o composto, questo, che è composto, siegue la
disposizion di quello che è semplice. Se, dunque, gli corpi semplici non sono
infiniti né di numero né di grandezza, necessariamente non potrà esser tale
corpo composto".
8 \ FIL.\ Promette molto bene; perché, se lui provarà, che il
corpo il quale è chiamato continente e primo, sia continente, primo e finito,
sarà anco soverchio e vano di provarlo appresso di corpi contenuti.
9 \ ELP.\
Or prova che il corpo rotondo non è infinito. "Se il corpo rotondo è infinito,
le linee, che si partono dal mezzo, saranno infinite, e la distanza d'un
semidiametro da l'altro (gli quali, quanto più si discostano dal centro, tanto
maggior distanza acquistano) sarà infinita; perché dalla addizione delle linee
secondo la longitudine è necessario che siegua maggior distanza; e però, se le
linee sono infinite, la distanza ancora sarà infinita. Or è cosa impossibile,
che il mobile possa trascorrere distanza infinita: e nel moto circolare è
bisogno, che una linea semidiametrale del mobile venga al luogo dell'altro ed
altro semidiametro".
10
\ FIL.\ Questa raggione è buona, ma non è a
proposito contra l'intenzione de gli aversarii. Perché giamai s'è ritrovato sì
rozzo e d'ingegno sì grosso, che abbia posto il mondo.infinito e magnitudine
infinita, e quella mobile. E mostra lui medesimo essersi dismenticato di quel
che riferisce nella sua Fisica: che quei che hanno posto uno ente ed uno
principio infinito, hanno posto similmente inmobile; e né lui ancora, né altro
per lui, potrà nominar mai alcun filosofo o pur uomo ordinario che abbia detto
magnitudine infinita mobile. Ma costui, come sofista, prende una parte della sua
argumentazione dalla conclusione dell'aversario, supponendo il proprio
principio, che l'universo è mobile, anzi che si muove, e che è di figura
sferica. Or vedete, se de quante raggioni produce questo mendico, se ne ritrove
pur una che argumente contra l'intenzione di quei, che dicono uno infinito,
inmobile, infigurato, spaciosissimo continente de innumerabili mobili, che son
gli mondi, che son chiamati astri da altri, e da altri sfere; vedete un poco in
questa ed altre raggioni, se mena presuppositi conceduti da alcuno.
11 \ ELP.\
Certo, tutte le sei raggioni sono fondate sopra quel presupposito, cioè che
l'aversario dica, che l'universo sia infinito, e che gli admetta, che quello
infinito sia mobile: il che certo è una sciocchezza, anzi una irrazionalità, se
pur per sorte non vogliamo far concorrere in uno l'infinito moto e l'infinita
quiete, come mi verificaste ieri in proposito di mondi particolari.
12 \ FIL.\
Questo non voglio dire in proposito de l'universo, al quale, per raggion veruna,
gli deve essere attribuito il moto; perché questo non può, né deve convenire, né
richiedersi a l'infinito; e giamai, come è detto, si trovò chi lo imaginasse. Ma
questo filosofo, come quello che avea caristia di terreno, edifica tai castelli
in aria.
13 \ ELP.\ Certo, desiderarei un argumento, che impugnasse
questo che dite; perché cinque altre raggioni, che apporta questo filosofo,
tutte fanno il medesimo camino, e vanno con gli medesimi piedi. Però mi par cosa
soverchia di apportarle. Or, dopo che ebbe prodotte queste, che versano circa il
moto mondano e circolare, procede a proponer quelle, che son fondate sopra il
moto retto; e dice parimente "essere impossibile, che qualche cosa sia mobile di
infinito moto verso il mezzo, o al basso, oltre verso ad alto dal mezzo"; ed il
prova prima dal canto di moti proprii di tai corpi, e questo sì quanto a gli
corpi estremi, sì quanto agli tramezzanti. "Il moto ad alto", dice egli, "ed il
moto al basso son contrarii: ed il luogo de l'un moto è contrario al luogo de
l'altro moto. De gli contrarii ancora, se l'uno è determinato, bisogna che sia
determinato ancor l'altro; ed il tramezzante, che è partecipe de l'uno e l'altro
determinato, convien che sia tale ancor lui; perché non da qualsivoglia, ma da
certa parte bisogna che si parta quello che deve passar oltre il mezzo, perché è
un certo termine, onde cominciano, ed è un altro termine, ove si finisceno i
limiti del mezzo. Essendo dunque determinato il mezzo, bisogna che sieno
determinati gli estremi; e se gli estremi son determinati, bisogna che sia
determinato il mezzo; e se gli luoghi son determinati, bisogna che gli corpi
collocati sieno tali ancora, perché altrimente il moto sarà infinito. Oltre,
quanto alla gravità e levità, il corpo, che va verso alto, può devenire a
questo, che sia in tal luogo: perché nessuna inclinazion naturale è in vano.
Dunque, non essendo spacio del mondo infinito, non è luogo, né corpo infinito.
Quanto al peso ancora, non è grave e leve infinito; dunque, non è corpo
infinito: come è necessario, che, se il corpo grave è infinito, la sua gravità
sia infinita. E questo non si può fuggire; perché, se tu volessi dire, che il
corpo infinito ha gravità infinita, seguitarebono tre inconvenienti. Primo, che
medesima sarebe la gravità o levità di corpo finito ed infinito; perché al corpo
finito grave, per quanto è sopraavanzato dal corpo infinito, io farrò addizione
e suttrazione di altro ed altro tanto, fin che possa aggiungere a quella
medesima quantità di gravità e levità. Secondo, che la gravità della grandezza
finita potrebe esser maggiore che quella de l'infinita; perché con tal raggione,
per la quale gli può essere equale, gli può ancora essere superiore, con
aggiungere quanto ti piace più di corpo grave, o suttrarre di questo, o pur
aggiongere di corpo lieve. Terzo, che la gravità della grandezza finita ed
infinita sarebbe equale; e perché quella proporzione, che ha la gravità alla
gravità, la medesima ha la velocità alla velocità, seguitarebe similmente, che
la medesima velocità e tardità si potrebero trovare in corpo finito ed infinito.
Quarto, che la velocità del corpo finito potrebe esser maggiore di quella de
l'infinito. Quinto, che potrebe essere equale; o pur, sicome il grave eccede il
grave, cossì la velocità excede la velocità: trovandosi gravità infinita, sarà
necessario che si muova per alcun spacio in manco tempo, che la gravità finita;
o vero non si muova, perché la velocità e tardità séguita la grandezza del
corpo. Onde, non essendo proporzione tra il finito ed infinito, bisognarà al
fine, che il grave infinito non si muova; perché, s'egli si muove, non si muove
tanto velocemente, che non si trove gravità finita, che nel medesimo tempo, per
il medesimo spacio, faccia il medesimo progresso".
14 \ FIL.\ È impossibile
di trovare un altro che, sotto titolo di filosofo, fengesse più vane
supposizioni e si fabricasse sì stolte posizioni al contrario, per dar luogo a
tanta levità quanta si vede nelle raggioni di costui. Or, per quanto appartiene
a quel che dice de' luoghi proprii di corpi e del determinato alto, basso ed
infra, vorei sapere contra qual posizione argumente costui. Perché tutti quelli
che poneno corpo e grandezza infinita, non poneno mezzo né estremo in quella.
Perché chi dice l'inane, il vacuo, l'etere infinito, non gli attribuisce
gravità, né levità, né moto, né regione superiore, né inferiore, né mezzana; e
ponendo poi quelli in cotal spacio infiniti corpi, come è questa terra, quella e
quell'altra terra, questo sole, quello e quell'altro sole, tutti fanno gli lor
circuiti dentro questo spacio infinito per spacii finiti e determinati o pur
circa gli proprii centri. Cossì noi che siamo in terra, diciamo la terra essere
al mezzo, e tutti gli filosofi moderni ed antichi, sieno di qualsivoglia setta,
diranno questa essere in mezzo senza pregiudicare a' suoi principii; come noi
diciamo al riguardo dell'orizonte magiore di questa eterea regione che ne sta in
circa, terminata da quello equidistante circolo, al riguardo di cui noi siamo
come al centro. Come niente manco coloro che sono nella luna, s'intendeno aver
circa questa terra, il sole ed altre ed altre stelle, che sono circa il mezzo ed
il termine de gli proprii semidiametri del proprio orizonte; cossì non è più
centro la terra che qualsivoglia altro corpo mondano, e non son più certi
determinati poli alla terra che la terra sia un certo e determinato polo a
qualch'altro punto dell'etere e spacio mondano; e similmente de tutti gli altri
corpi; li quali medesimi, per diversi riguardi, tutti sono e centri e punti di
circunferenza e poli e zenithi ed altre differenze. La terra, dunque, non è
absolutamente in mezzo de l'universo, ma al riguardo di questa nostra reggione.
15 Procede, dunque, questo disputante con petizione di
principio e presupposizione di quello che deve provare. Prende, dico, per
principio l'equivalente all'opposito della contraria posizione; presupponendo
mezzo ed estremo contra quelli che, dicendo il mondo infinito, insieme insieme
negano questo estremo e mezzo necessariamente e per consequenza il moto ad alto
e supremo luogo, ed al basso ed infimo. Vederno dunque gli antichi, e veggiamo
ancor noi, che qualche cosa viene alla terra ove siamo, e qualche cosa par che
si parta della terra o pur dal luogo dove siamo. Dove, se diciamo e vogliam dir
che il moto di tal cose è ad alto ed al basso, se intende in certa regione, in
certi rispetti; di sorte che, se qualche cosa, allontanandosi da noi, procede
verso la luna, come noi diciamo che quella ascende, color che sono nella luna
nostri anticefi, diranno che descende. Que' moti, dunque, che sono
nell'universo, non hanno differenza alcuna di su, di giù, di qua, di là al
rispetto dell'infinito universo, ma di finiti mondi che sono in quello, o presi
secondo le amplitudini di innumerabili orizonti mondani o secondo il numero di
innumerabili astri; dove ancora la medesima cosa, secondo il medesimo moto, al
riguardo de diversi, si dice andar da alto e da basso. Determinati corpi,
dunque, non hanno moto infinito, ma finito e determinato circa gli proprii
termini. Ma de l'indeterminato ed infinito non è finito né infinito moto, e non
è differenza di loco né di tempo.
16 Quanto poi all'argomento che fa
dalla gravità e levità, diciamo che questo è un de' più bei frutti che potesse
produrre l'arbore della stolida ignoranza. Perché gravità, come dimostraremo nel
luogo di questa considerazione, non si trova in corpo alcuno intiero e
naturalmente disposto e collocato; e però non sono differenze che denno
distinguere la natura di luoghi e raggion di moto. Oltre che mostraremo, che
grave e lieve viene ad esser detta medesima cosa secondo il medesimo appulso e
moto al riguardo di diversi mezzi; come anco al rispetto di diversi, medesima
cosa se dice essere alta e bassa, muoversi su e giù. E questo dico quanto a gli
corpi particulari e mondi particulari; de quali nessuno è grave o lieve: e ne
gli quali le parti, allontanandosi e diffondendosi da quelli, si chiamano lievi;
e ritornando a gli medesimi, si chiamano gravi; come le particole de la terra o
di cose terrestri verso la circonferenza de l'etere se dicono salire, e verso il
suo tutto se dicono descendere. Ma quanto all'universo e corpo infinito, chi si
ritrovò giamai che dicesse grave o lieve? o pur chi puose tai principii e delirò
talmente che per conseguenza possa inferirse dal suo dire, che l'infinito sia
grave o lieve? debbia ascendere, montare o poggiare? Noi mostraremo come de
infiniti corpi che sono, nessuno è grave, né lieve. Perché queste qualitadi
accadeno alle parti per quanto tendeno al suo tutto e luogo della sua
conservazione, e però non hanno riguardo all'universo, ma agli proprii mondi
continenti ed intieri; come ne la terra, volendo le parti del fuoco liberarsi e
poggiar verso il sole, menano sempre seco qualche porzione de l'arida e de
l'acqua a cui son congionte; le quali, essendono moltiplicate sopra o in alto,
cossì con proprio e naturalissimo appulso ritornano al suo luogo. Oltre e per
conseguenza rinforzate, che gli gran corpi sieno gravi o lievi non è possibile,
essendo l'universo infinito; e per tanto non hanno raggione di lontananza o
propinquità dalla o alla circonferenza o centro; indi non è più grave la terra
nel suo luogo, che il sole nel suo, Saturno nel suo, la tramontana nel suo.
Potremo però dire che, come sono le parti della terra che ritornano alla terra
per la loro gravità, - ché cossì vogliamo dire l'appulso de le parti al tutto, e
del peregrino al proprio loco, - cossì sono le parti de li altri corpi, come
possono esser infinite altre terre o di simile condizione, infiniti altri soli o
fuochi o di simile natura. Tutti si moveno dalli luoghi circonferenziali al
proprio continente, come al mezzo: onde seguitarebe che sieno infiniti corpi
gravi secondo il numero. Non però verrà ad essere gravità infinita, come in un
soggetto ed intensivamente, ma come in innumerabili soggetti ed estensivamente.
E questo è quello che séguita dal dire di tutti gli antichi e nostro; e contra
questo non ebbe argumento alcuno questo disputante. Quel, dunque, che lui dice
dell'impossibilità dell'infinito grave, è tanto vero ed aperto che è vergogna a
farne menzione; ed in modo alcuno non appartiene a destruggere l'altrui e
confirmar la propria filosofia; ma son propositi tutti e paroli gittati al
vento.
17 \ ELP.\ La vanità di costui nelle predette raggioni è più
che manifesta, di sorte che non bastarebbe tutta l'arte persuasiva di escusarla.
Or udite le raggioni che soggionge per conchiudere universalmente che non sia
corpo infinito. "Or", dice lui, "essendo manifesto a quelli che rimirano alle
cose particolari, che non è corpo infinito, resta di vedere al generale, se sia
questo possibile. Perché potrebe alcuno dire che, sicome il mondo è cossì
disposto circa di noi, cossì non sia impossibile che sieno altri più cieli. Ma,
prima che vengamo a questo, raggioniamo generalmente dell'infinito. È dunque
necessario, che ogni corpo o sia infinito; e questo o sia tutto di parte
similari, o di parte dissimilari; e queste o costano di specie finite, o pur di
specie infinite. Non è possibile, che coste de infinite specie, se vogliamo
presupponere quel ch'abbiamo detto, cioè che sieno più mondi simili a questo;
perché, sicome è disposto questo mondo circa noi, cossì sia disposto circa
altri, e sieno altri cieli. Perché, se son determinati gli primi moti, che sono
circa il mezzo, bisogna che sieno determinati li moti secondi; e per tanto, come
già distinguemo cinque sorte di corpi, de quali dui son semplicemente gravi o
lievi, e dui mediocremente gravi o lievi, ed uno né grave, né lieve, ma agile
circa il centro, cossì deve essere ne gli altri mondi. Non è dunque possibile,
che coste d'infinite specie. Non è ancora possibile che coste di specie finite".
E primieramente prova, che non costa di specie finite dissimilari, per quattro
raggioni, de quali la prima è, che "ciascuna di queste parti infinite sarà acqua
o fuoco, e per consequenza cosa grave o lieve. E questo è stato dimostrato
impossibile, quando si è visto, che non è gravità, né levità infinita".
18 \ FIL.\ Noi abbiamo assai detto, quando rispondevamo a
quello.
19 \ ELP.\ Io lo so. Soggionge la seconda raggione, dicendo,
che "bisogna che di queste specie ciascuna sia infinita, e per consequenza il
luoco di ciascuna deve essere infinito: onde seguitarà che il moto di ciascuna
sia infinito; il che è impossibile. Perché non può essere, che un corpo che va
giù, corra per infinito al basso; il che è manifesto da quel che si trova in
tutt'i moti e trasmutazioni. Come nella generazione non si cerca di fare quel
che non può esser fatto, cossì nel moto locale non si cerca il luogo, ove non si
possa giunger mai; e quello che non è possibile che sia in Egitto, è impossibile
che si muova in verso Egitto; perché la natura nessuna cosa opra in vano.
Impossibile è, dunque, che cosa si muova verso là dove non può pervenire".
20 \ FIL.\ A questo si è risposto assai; e diciamo che son
terre infinite, son soli infiniti, è etere infinito; o secondo il dir di
Democrito ed Epicuro, è pieno e vacuo infinito; l'uno insito ne l'altro. E son
diverse specie finite, le une comprese da le altre, e le une ordinate a le
altre. Le quali specie diverse tutte se hanno come concorrenti a fare un intiero
universo infinito, e come ancora infinite parti de l'infinito, in quanto che da
infinite terre simili a questa proviene in atto terra infinita, non come un solo
continuo, ma come un compreso dalla innumerabile moltitudine di quelle.
Similmente se intende de le altre specie di corpi, sieno quattro o sieno due o
sieno tre o quante si voglia (non determino al presente); le quali, come che
sono parte (in modo che si possono dir parte) de l'infinito, bisogna che sieno
infinite, secondo la mole che resulta da tal moltitudine. Or qui non bisogna che
il grave vada in infinito al basso. Ma come questo grave va al suo prossimo e
connatural corpo, cossì quello al suo, quell'altro al suo. Ha questa terra le
parti che appartengono a lei; ha quella terra le parti sue appartenenti a sé.
Cossì ha quel sole le sue parti che si diffondeno da lui e cercano di ritornare
a lui; ed altri corpi similmente riaccoglieno naturalmente le sue parti. Onde,
sì come le margini e le distanze de gli uni corpi a gli altri corpi son finite,
cossì gli moti son finiti; e sicome nessuno si parte da Grecia per andare in
infinito, ma per andar in Italia o in Egitto, cossì, quando parte di terra o di
sole si move, non si propone infinito, ma finito e termine. Tutta volta, essendo
l'universo infinito e gli corpi suoi tutti trasmutabili, tutti per conseguenza
diffondeno sempre da sé e sempre in sé accoglieno, mandano del proprio fuora e
accogliono dentro del peregrino. Non stimo che sia cosa assorda ed
inconveniente, anzi convenientissima e naturale, che sieno transmutazion finite
possibili ad accadere ad un soggetto; e però de particole de la terra vagar
l'eterea regione e occorrere per l'inmenso spacio ora ad un corpo ora ad un
altro, non meno che veggiamo le medesime particole cangiarsi di luogo, di
disposizione e di forma, essendono ancora appresso di noi. Onde questa terra, se
è eterna ed è perpetua, non è tale per la consistenza di sue medesime parti e di
medesimi suoi individui, ma per la vicissitudine de altri che diffonde, ed altri
che gli succedeno in luogo di quelli; in modo che, di medesima anima ed
intelligenza, il corpo sempre si va a parte a parte cangiando e rinovando. Come
appare anco ne gli animali, li quali non si continuano altrimente se non con gli
nutrimenti che riceveno, ed escrementi che sempre mandano; onde chi ben
considera saprà che giovani non abbiamo la medesima carne che avevamo fanciulli,
e vecchi non abbiamo quella medesima che quando eravamo giovani; perché siamo in
continua trasmutazione, la qual porta seco che in noi continuamente influiscano
nuovi atomi e da noi se dipartano li già altre volte accolti. Come circa il
sperma, giongendosi atomi ad atomi per la virtù dell'intelletto generale ed
anima (mediante la fabrica in cui, come materia, concorreno), se viene a formare
e crescere il corpo, quando l'influsso de gli atomi è maggior che l'efflusso, e
poi il medesimo corpo è in certa consistenza quando l'efflusso è equale a
l'influsso, ed al fine va in declinazione, essendo l'efflusso maggior che
l'influsso. Non dico l'efflusso ed influsso assolutamente, ma l'efflusso del
conveniente e natio e l'influsso del peregrino e sconveniente; il quale non può
esser vinto dal debilitato principio per l'efflusso; il quale è pur continuo del
vitale come del non vitale. Per venir, dunque, al punto, dico che per cotal
vicissitudine non è inconveniente, ma raggionevolissimo dire, che le parti ed
atomi abbiano corso e moto infinito per le infinite vicissitudini e
transmutazioni tanto di forme quanto di luoghi. Inconveniente sarebbe se, come a
prosimo termine prescritto di transmutazion locale, over di alterazione, si
trovasse cosa che tendesse in infinito. Il che non può essere, atteso che, non
sì tosto una cosa è mossa da uno che si trove in un altro luogo, è spogliata di
una che non sia investita di un'altra disposizione, e lasciato uno che non abbia
preso un altro essere; il quale necessariamente séguita dalla alterazione; la
quale necessariamente séguita dalla mutazion locale. Tanto che il soggetto
prossimo e formato non può muoversi se non finitamente, perché facilmente
accoglie un'altra forma se muta loco. Il soggetto primo e formabile se muove
infinitamente, e secondo il spacio e secondo il numero delle figurazioni; mentre
le parti della materia s'intrudeno ed extrudeno da questo in quello e in
quell'altro loco, parte e tutto.
21 \ ELP.\ Io intendo molto bene.
Soggionge per terza raggione, che, "se si dicesse l'infinito discreto e
disgionto, onde debbano essere individui e particolari fuochi infiniti, e
ciascun di quelli poi essere finito, nientemanco accaderà, che quel fuoco, che
resulta da tutti gl'individui, debba essere infinito".
22 \ FIL.\
Questo ho già conceduto; e per sapersi questo, lui non dovea forzarsi contra di
ciò da che non séguita inconveniente alcuno. Perché, se il corpo vien disgiunto
o diviso in parte localmente distinte, de le quali l'una pondere cento, l'altra
mille, l'altra diece, seguitarà che il tutto pondere mille cento e diece. Ma ciò
sarà secondo più pesi discreti, e non secondo un peso continuo. Or noi e gli
antichi non abbiamo per inconveniente che in parti discrete se ritrove peso
infinito; perché da quelle resulta un peso logicamente, o pur aritmetrica o
geometricamente, che vera e naturalmente non fanno un peso, come non fanno una
mole infinita, ma fanno infinite mole e pesi finiti. Il che dire, imaginare ed
essere, non è il medesimo, ma molto diverso. Perché da questo non séguita che
sia un corpo infinito di una specie, ma una specie di corpo in infiniti finiti;
né è però un pondo infinito, infiniti pondi finiti, atteso che questa
infinitudine non è come di continuo, ma come di discreti; li quali sono in un
continuo infinito, che è il spacio, il loco e dimensione capace di quelli tutti.
Non è dunque inconveniente che sieno infiniti discreti gravi, quali non fanno un
grave; come infinite acqui le quali non fanno un'acqua infinita, infinite parti
di terra che non fanno una terra infinita: di sorte che sono infiniti corpi in
moltitudine, li quali fisicamente non componeno un corpo infinito di grandezza.
E questo fa grandissima differenza; come proporzionalmente si vede nel tratto
della nave, la quale viene tratta da diece uniti, e non sarà mai tirata da
migliaia de migliaia disuniti e per ciascuno.
23 \ ELP.\ Con questo ed
altro dire mille volte avete risoluto lo che pone per quarta ragione; la qual
dice che, "se s'intende corpo infinito, è necessario che sia inteso infinito
secondo tutte le dimensioni; onde da nessuna parte può essere qualche cosa extra
di quello: dunque non è possibile che in corpo infinito sieno più dissimili, de
quali ciascuno sia infinito".
24 \ FIL.\ Tutto questo è vero e non
contradice a noi, che abbiamo tante volte detto che sono più dissimili finiti in
uno infinito, ed abbiamo considerato come questo sia. Forse proporzionalmente,
come se alcun dicesse esser più continui insieme, come per essempio e
similitudine in un liquido luto, dove sempre ed in ogni parte l'acqua è
continuata a l'acqua, e la terra a la terra; dove, per la insensibilità del
concorso de le minime parti di terra e minime parti d'acqua, non si diranno
discreti né più continui, ma uno continuo, il quale non è acqua, non è terra, ma
è luta. Dove indifferentemente ad un altro può piacere di dire, che non
propriamente l'acqua è continuata a l'acqua, e la terra a la terra, ma l'acqua a
la terra, e la terra a l'acqua; e può similmente venire un terzo, che, negando
l'uno e l'altro modo di dire, dica il luto esser continuato al luto. E secondo
queste raggioni può esser preso l'universo infinito come un continuo, nel quale
non faccia più discrezione l'etere interposto tra sì gran corpi, che far possa
nella luta quello aria che è traposto ed interposto tra le parti de l'acqua e de
l'arida, essendo differenza solo per la pocagine de le parti, e minorità ed
insensibilità che è nella luta, e la grandezza, maggiorità e sensibilità delle
parti che sono nell'universo: sì che gli contrarii e gli diversi mobili
concorreno nella constituzione di uno continuo immobile, nel quale gli contrarii
concorreno alla constituzion d'uno, ed appartengono ad uno ordine, e finalmente
sono uno. Inconveniente certo ed impossibile sarrebe ponere dui infiniti
distinti l'uno da l'altro; atteso non sarebe modo de imaginare come, dove
finisce l'uno, cominci l'altro, onde ambi doi venessero ad aver termine l'uno
per l'altro. Ed è oltre difficilissimo trovar dui corpi finiti in uno estremo,
ed infiniti ne l'altro.
25
\ ELP.\ Pone due altre raggioni, per provar che
non sia infinito di simili parte. "La prima è, perché bisognarebe, che a quello
convenesse una di queste specie di moto locale; e però o sarebe una gravità, o
levità infinita, overo una circulazione infinita; il che tutto, quanto sia
impossibile, abbiamo demostrato".
26 \ FIL.\ E noi ancora abbiamo
chiarito quanto questi discorsi e raggioni sieno vani; e che l'infinito in tutto
non si muove, e che non è grave né lieve, tanto esso quanto ogni altro corpo nel
suo luogo naturale: né pure le parti separate, quando saranno allontanate oltre
certi gradi dal proprio loco. Il corpo dunque infinito, secondo noi, non è
mobile, né in potenza né in atto; e non è grave né lieve in potenza né in atto;
tanto manca ch'aver possa gravità o levità infinita secondo gli principii nostri
e di altri contra gli quali costui edifica sì belle castella.
27 \ ELP.\
La seconda raggione per questo è similmente vana; perché vanamente dimanda, "se
si muove l'infinito naturale o violentemente", a chi mai disse che lo si mova,
tanto in potenzia quanto in atto. Appresso prova che non sia corpo infinito per
le raggioni tolte dal moto in generale; dopo che ha proceduto per raggion tolta
dal moto in comune. Dice dunque, che il corpo infinito non può aver azione nel
corpo finito, né tampoco patir da quello; ed apporta tre proposizioni. Prima che
"l'infinito non patisce dal finito"; perché ogni moto, e per conseguenza ogni
passione, è in tempo; e se è cossì, potrà avenire che un corpo di minor
grandezza potrà aver proporzionale passione a quella; però, sicome è proporzione
del paziente finito all'agente finito, verrà ad esser simile del paziente finito
allo agente infinito. Questo si vede, si poniamo per corpo infinito A, per corpo
finito B; e perché ogni moto è in tempo, sia il tempo G, nel qual tempo A o
muove o è mosso. Prendiamo appresso un corpo di minor grandezza, il quale è B; e
sia la linea D agente circa un altro corpo (il qual corpo sia H) compitamente,
nel medesimo tempo G. Da questo veramente si vedrà, che sarà proporzione di D
agente minore a B agente maggiore, sicome è proporzione del paziente finito H
alla parte finita A, la qual parte sia AZ. Or quando muteremo la proporzione del
primo agente al terzo paziente, come è proporzione del secondo agente al quarto
paziente, cioè sarà proporzione di D ad H, come è la proporzione di B ad AZ; B
veramente, nel medesimo tempo G, sarà agente perfetto in cosa finita e cosa
infinita, cioè in AZ parte de l'infinito ed A infinito. Questo è impossibile;
dunque il corpo infinito non può essere agente né paziente, perché doi pazienti
equali patiscono equalmente nel medesimo tempo dal medesimo agente, ed il
paziente minore patisce dal medesimo agente in tempo minore, il maggiore
paziente in maggior tempo. Oltre, quando sono agenti diversi in tempo equale e
si complisce la lor azione, verrà ad essere proporzione dell'agente all'agente,
come è proporzione del paziente al paziente. Oltre, ogni agente opra nel
paziente in tempo finito (parlo di quello agente, che viene a fine della sua
azione, non di quello, di cui il moto è continuo, come può esser solo il moto
della translazione), perché è impossibile che sia azione finita in tempo
infinito. Ecco dunque primieramente manifesto, come il finito non può aver azion
compita nell'infinito. [...]
28
Secondo, si mostra medesimamente, che
"l'infinito non può essere agente in cosa finita". Sia l'agente infinito A, ed
il paziente finito B, e ponemo, che A infinito è agente in B finito, in tempo G.
Appresso sia il corpo finito D agente nella parte di B, cioè BZ, in medesimo
tempo G. Certamente sarà proporzione del paziente BZ a tutto B paziente, come è
proporzione di D agente all'altro agente finito H; ed essendo mutata
proporzione, di D agente a BZ paziente, sicome la proporzione di H agente a
tutto B. Per conseguenza B sarà mosso da H