A cura di Giuseppe Tortora
Esposizione del suo pensiero
1. I conti con Hegel
Qualunque sia il giudizio sui movimenti politici che essa ha ispirato e sull'influsso che ha avuto sugli eventi storici, non v'è dubbio che la dottrina di Karl Marx, per la diffusione che ha avuto, per l'incidenza che ancora esercita, direttamente o indirettamente, sulla vita dei popoli e degli Stati, merita uno sforzo autentico di conoscenza; cioè merita ben altro che la sua riduzione a formule stereotipe, usate a proposito e a sproposito, o a slogans che, pur se efficaci sul piano pratico, spesso mortificano la sua ricchezza, la sua articolazione e la sua profondità. Nato il 5 maggio 1818 a Treviri, s'iscrisse, a 17 anni, alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Bonn; ma completò i suoi studi all'Università di Jena con una tesi sulla Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e di Epicuro. Come studente non fu molto partecipe alla vita accademica; tuttavia, in questo periodo, si dedicò abbondantemente, secondo le sue personali esigenze, a letture di argomenti filosofici, letterari, storici e naturalmente giuridici. Soprattutto ebbe contatti col gruppo di Bauer e Ruge, coi quali approfondí la conoscenza del pensiero di Hegel.
Per l'involuzione reazionaria della politica prussiana, che si fece sentire anche nell'ambiente accademico con l'esonero dall'insegnamento di Bauer, Marx, dopo la laurea, accantonò il suo progetto di carriera universitaria, e si dedicò al lavoro di giornalista politico presso la "Gazzetta renana", che, proprio nel periodo in cui egli fu redattore capo, acquistò in diffusione e autorevolezza.
Quando nel 1843 il governo prussiano vietò la pubblicazione della rivista per le sue posizioni critiche nei confronti della vigente politica repressiva, Marx, insieme alla moglie Jenny von Westphalen, si trasferí a Parigi. Qui, in collaborazione con Ruge, diede alle stampe il primo e unico numero degli "Annali franco-tedeschi", sul quale, accanto agli scritti di Heine, Engels ed altri, pubblicò la sua Introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel e il saggio La questione ebraica.
Nella Critica della filosofia hegeliana del diritto viene sottoposto a severo esame critico il procedimento filosofico di Hegel. Non ci soffermeremo, tuttavia, su questo aspetto del discorso marxiano, che ritroveremo, in termini piú o meno identici, anche in opere successive. Qui conviene piuttosto sottolineare che Marx riconosce ad Hegel il merito di aver adoperato il metodo dialettico, che, consentendo di scoprire nel reale l'opposizione tra le varie determinazioni concrete, è particolarmente utile nell'analisi degli Stati moderni. Infatti esso rivela, al di là della loro apparente unità e omogeneità, le loro interne contraddizioni; ne scopre l'autentica essenza.
Lo stato borghese è contraddistinto dall'ineliminabile separazione tra "società civile" (ossia l'organizzazione economica e sociale) e "organizzazione politica". Questi due elementi sono opposti tra loro; ma la loro opposizione è una vera contraddizione dialettica; ossia ogni elemento, nell'opporsi all'altro, allo stesso momento lo genera, lo tiene in vita e lo garantisce come separato da sé. Questa opposizione dialettica sta a fondamento di altre opposizioni, come quella ad esempio tra l'uguaglianza proclamata sul piano giuridico-politico e la disuguaglianza tra gli uomini che sta alla base dell'ordinamento economico in cui la borghesia prospera.
Grazie al metodo dialettico Hegel ha compreso molte di queste cose; tuttavia, rileva Marx, egli ritiene che la contraddizione sussista tra le essenze ideali di società e di stato; e poiché queste essenze sono momenti dell'articolazione del Pensiero, dell'Idea, che nel suo procedere supera la loro opposizione, egli ritiene allora che gli opposti reali sono destinati ad essere conciliati in una nuova unità. Per Marx invece non c'è sintesi che superi, integrandole, le contraddizioni. La contraddizione non è ideale, ma materiale; sussiste tra forze ed elementi concreti, empirici; per cui essa può essere dissolta solo con l'azione; anzi con un'azione che rivoluzioni l'assetto materiale, economico che la produce.
Nella Questione ebraica si ritrovano gli stessi temi fondamentali della Critica, organizzati però secondo un nuovo ordine sistematico. Degno di nota è il fatto che qui Marx stravolge il significato dei "diritti" delle società borghesi, maturati nella lotta antifeudale della Rivoluzione Francese e codificati nella Dichiarazione del 1791. I diritti dell'uomo e del cittadino, su cui si fondano le società liberali moderne - egli dice - sono "astratti", prescindono dalle reali condizioni materiali d'esistenza degli uomini, e "travestono", dando loro nobiltà politica, i cardini dell'ordinamento socio-economico del mondo borghese. Essi, infatti sono i diritti dell'individuo "chiuso in se stesso", egoista, "astratto" dalla sua stessa specie e dalla società. Sono espressioni dell'atomismo sociale che caratterizza la borghesia. Essi dunque non sono i diritti dell'uomo in quanto tale, né di tutti gli uomini, ma del borghese che rivendica la sua indipendenza dagli altri e, in generale, da ogni potere, religioso politico sociale; che chiede allo stato solo di essere tutelato nel suo "isolamento"; e che concepisce come unico nesso con gli altri quello basato sull'interesse privato.
La società borghese dunque è solo "una cornice esterna agli individui"; i quali non si identificano in essa, come non si identificano nello Stato in cui essa si esprime; tanto è vero che negli ordinamenti liberali vige il sistema rappresentativo con cui i cittadini non riconoscono a se stessi un'immediata identità politica, ma eleggono dei loro "rappresentanti" ai quali solo riconoscono la facoltà di esercitare le funzioni politiche. In questo periodo, evidentemente, Marx pensa alla società come a una comunità armonica e compatta, in cui l'uguaglianza si fonda sulla solidarietà; in cui quindi non c'è separazione tra "stati sociali"; in cui l'individuo si identifica col corpo sociale, che ne costituisce l'essenza.
Per giungere a questo tipo di società Marx individua fin da ora la necessità dell'abolizione della proprietà privata, fonte di tutte le contraddizioni tipiche delle società borghesi e principale ostacolo per l'attuazione di un'autentica uguaglianza.
2. La critica dell'economia politica
L'anno 1844 fu molto fecondo per Marx: fece la conoscenza di Engels, con cui iniziò un'intensa collaborazione che sfociò nella redazione di La sacra famiglia; stabilí contatti con la "Lega dei Giusti", una "società segreta" con ideali comunisti; tenne rapporti stabili con Proudhon; prese le definitive distanze da Ruge; e infine diede corpo al frutto della ricerca a cui in quel periodo s'era dedicato, redigendo i Manoscritti economico-filosofici.
Quest'opera nacque dallo studio attento e critico dell'"economia politica", la "scienza" che ha avuto i suoi pilastri in A. Smith e D. Ricardo. Essa presenta temi che Marx non abbandonò piú, e che anzi rifluirono, sia pure parzialmente modificati e con veste scientifica piú rigorosa, nelle opere "mature".
Il mondo borghese, che finora era stato analizzato sotto l'aspetto socio-politico, viene qui esaminato nelle sue articolazioni economiche. La società borghese moderna è, dal punto di vista economico, società capitalistica; il capitale, dunque, imponendo certi tipi propri di rapporti economici tra gli uomini, genera nella società ogni scissione e ogni contraddizione. La stessa società borghese, però, ha elaborato una "scienza economica" che occulta quelle scissioni e propone una visione mistificante di una società naturalmente armonica: il suo principio è che l'egoismo dei singoli è il fondamento della felicità collettiva; proprio in vista di questo obiettivo il lavoro degli operai si armonizza naturalmente con la proprietà dei mezzi di produzione dei capitalisti; quest'armonia produce la ricchezza della nazione; col crescere di tale ricchezza, aumenta il benessere della società, con il quale è assicurata la felicità di tutti gli individui; bisogna allora "lasciar fare", lasciare che le leggi "naturali" che presiedono ai fenomeni economici si esplichino senza limitazioni; bisogna assicurare libertà d'azione sia sul piano del commercio che su quello della produzione; infatti il perseguimento di un piú alto profitto spingerà i capitalisti ad arricchire il patrimonio tecnico e le tecniche di produzione, e, correlativamente, a razionalizzare l'attività produttiva con la divisione del lavoro, che, aumentando la capacità produttiva, procura maggiore ricchezza sociale.
Ma, osserva Marx, l'economia politica si regge su un equivoco di fondo: essa propone semplicemente come "economia" un determinato tipo di economia, quella capitalistica; essa propone se stessa quindi come una "scienza" che individua leggi obiettive, naturali, eterne ed immutabili e non, come sarebbe giusto, come modello per interpretare e guidare il nuovo assetto socio-economico della società borghese. A dirla in breve: essa è il frutto teorico degl'interessi dei capitalisti; per cui si spiega bene perché essa nasconda a se stessa le contraddizioni che la società capitalistica produce.
Marx quindi procede all'analisi dell'assetto capitalistico utilizzando e criticando, insieme, gli stessi concetti, le stesse leggi dell'economia politica, cioè della scienza con cui la borghesia ha razionalizzato il suo predominio, risolvendo le proprie interne contraddizioni nella "necessità" delle leggi economiche.
Lo stesso economista - rileva Marx - ci dice che perché sia assicurato il profitto al capitalista, al lavoratore spetta del prodotto "solo quanto è necessario affinché egli esista non come uomo, bensí come lavoratore", cioè solo quanto permetta la riproduzione della sua forza produttiva; che il capitale è lavoro accumulato, cioè lavoro che il capitalista ha comprato e che il lavoratore ha venduto al solo fine della sopravvivenza. La divisione del lavoro "impoverisce il lavoratore fino a fame una macchina"; il lavoratore è condannato ad una "miseria stazionaria", perché "nello stato progressivo della società", il lavoro dell'operaio produce quella ricchezza che "domina" la sua esistenza e la tiene nella condizione della miseria, mentre "nello stato di declino della società" è il lavoratore che, come elemento piú debole della società, "pena durissimamente", paga i costi della crisi. Insomma:
l'economia politica considera come lavoratore soltanto il proletario, cioè colui che, senza capitale e rendita fondiaria, vive puramente del suo lavoro, di un lavoro unilaterale, astratto. Essa può quindi stabilire il principio che il lavoratore deve, come un cavallo, guadagnarsi tanto da poter lavorare. Non lo considera come uomo nel tempo in cui non lavora, ma lascia questa considerazione alla giustizia criminale, ai medici, alla religione, alle tabelle statistiche, alla politica e agli sbirri dell'accattonaggio.
(Manoscritti economico-filosofici)
In altre parole: nella società borghese l'operaio è considerato merce; il salario è il prezzo della schiavitù; il lavoro ha valore solo in funzione del capitale; il capitale è il risultato dello sfruttamento; la miseria dell'operaio è proporzionale al suo potere produttivo e alla quantità della sua produzione; il rapporto capitale-lavoro e capitalista-operaio non può essere se non conflittuale; la società borghese e quindi scissa immediabilmente in due classi, quella dei capitalisti e quella dei proletari; la "concorrenza", che è la legge su cui si fonda l'ordinamento capitalistico, determina la progressiva scomparsa dei capitalisti "piú deboli", cioè determina l'accumulazione del capitale in poche mani, e la progressiva estensione quantitativa dell'area proletaria.
Tutto ciò deriva, per Marx, "dall'essenza della proprietà privata"; bisogna indagare dunque come questa produca questi fenomeni; ma allora bisogna introdurre nell'analisi il "metodo dialettico", abbandonando quello della "scienza economica". Solo con tale metodo si riesce a cogliere la contraddizione tra lavoro e capitale e la contraddizione interna sia al lavoro che al capitale.
Che cos'è infatti il lavoro salariato? lavoro vivente che genera capitale. E che cos'è il capitale? lavoro morto, accumulato, detenuto dal capitalista, che genera e sostiene il lavoro vivente. Dunque il lavoratore produce il capitalista e il capitalista produce il lavoratore.
È vero, allora, che lavoro e capitale sono interdipendenti, ma sono anche radicalmente opposti; è vero che si generano l'un l'altro, ma è pur vero che si negano reciprocamente. Pertanto la società borghese si fonda sul conflitto tra operaio e capitalista, tra lavoro e capitale. Per eliminare questa contraddizione - poiché non è possibile alcuna conciliazione - bisogna eliminare uno dei due termini opposti; ma in tal caso non c'è scelta: non resta che distruggere il capitale.
3. L'alienazione
Nei Manoscritti, poi, Marx si sofferma sulla condizione di "alienazione" dell'operaio nel suo concreto rapporto di lavoro; condizione che viene esaminata nei suoi quattro aspetti diversi ma correlativi e simultanei. Il lavoratore infatti viene estraniato a) rispetto al prodotto del suo lavoro b) rispetto alla sua attività lavorativa c) rispetto alla sua stessa essenza d'uomo d) rispetto agli altri uomini con cui convive. Seguiamo dunque il discorso di Marx.
a) Alienazione rispetto al prodotto
Questo fatto non esprime altro che questo: che l'oggetto prodotto dal lavoro, prodotto suo, sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente.
(Manoscritti economico-filosofici)
Il lavoro infatti si oggettiva, si cristallizza nel prodotto; ma poiché il lavoro è stato acquistato dal capitalista, il prodotto non appartiene all'operaio, ma al capitalista. Non solo. Poiché l'oggetto prodotto arricchisce il capitalista - producendo capitale -, esso rafforza allora il potere di questi sull'esistenza dell'operaio. Pertanto l'oggetto - prodotto dall'operaio - produce anche il suo "spogliamento", la sua "schiavitù".
La realizzazione del lavoro si palesa tale privazione, che l'operaio è spogliato fino alla morte per fame. L'oggettivazione si palesa tale perdita dell'oggetto, che l'operaio è derubato non solo degli oggetti piú necessari alla vita, ma anche degli oggetti piú necessari al lavoro... L'operaio mette nell'oggetto la sua vita e questa non appartiene piú a lui, bensí all'oggetto.
L'alienazione dell'operaio nel suo oggetto si esprime... in modo che, quanto piú l'operaio produce, tanto meno ha da consumare; e quanto piú crea dei valori, tanto piú egli è senza valore e senza dignità; e quanto piú il suo prodotto ha forma, tanto piú l'operaio è deforme; e quanto piú è potente il lavoro, tanto piú impotente diventa l'operaio, e quanto piú è spiritualmente ricco il lavoro, tanto piú l'operaio è divenuto senza spirito e schiavo della natura.
(Manoscritti economico-filosofici)
b) Alienazione rispetto all'attività lavorativa
Se infatti il lavoratore si sente estraneo al suo prodotto, ciò avviene perché egli è estraniato da se stesso nell'attività di produzione.
In che cosa consiste ora l'espropriazione del lavoro? Primieramente in questo: che il lavoro resta esterno all'operaio, cioè non appartiene al suo essere, e che l'operaio quindi non si afferma nel suo lavoro, bensí si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, bensí mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito. L'operaio si sente quindi con se stesso soltanto fuori del lavoro, e fuori di sé nel lavoro... Il suo lavoro non è volontario, bensí forzato, è lavoro costrittivo. Il lavoro non è quindi la soddisfazione di un bisogno, bensí è soltanto un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni ad esso... Il lavoro esterno, il lavoro in cui l'uomo si espropria, è un lavoro-sacrificio, un lavoro-mortificazione. Finalmente l'esteriorità del lavoro al lavoratore si palesa in questo: che il lavoro non è cosa sua ma di un altro; che non gli appartiene, e che in esso egli non appartiene a sé, bensí ad un altro...
Il risultato è che l'uomo (il lavoratore) si sente libero ormai soltanto nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare, nel bere e nel generare, tutt'al piú nell'avere una casa, nella sua cura corporale ecc., e che nelle funzioni umane si sente solo piú una bestia. Il bestiale diventa l'umano e l'umano il bestiale.
(Manoscritti economico-filosofici)
c) Alienazione dall'essenza umana
Qual è l'essenza dell'uomo, rispetto a quella dell'animale? Il produrre liberamente e consapevolmente.
Invero anche l'animale produce: esso si costruisce un nido, delle abitazioni, come le api, i castori, le formiche ecc. Ma esso produce soltanto ciò di cui abbisogna immediatamente per sé e per i suoi nati; produce parzialmente, mentre l'uomo produce universalmente; produce solo sotto il dominio del bisogno fisico immediato, mentre l'uomo produce anche libero dal bisogno fisico e produce veramente soltanto nella libertà dal medesimo. L'animale produce solo se stesso, mentre l'uomo riproduce l'intera natura; il prodotto dell'animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l'uomo conforma libero il prodotto. L'animale forma cose solo secondo la misura e il bisogno della specie cui appartiene, mentre l'uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e dappertutto sa conferire all'oggetto la misura inerente, quindi l'uomo forma anche secondo le leggi della bellezza.
(Manoscritti economico-filosofici)
Ma allorché l'uomo viene espropriato del suo prodotto e del suo stesso lavoro, dal momento che in essi egli ripone tutta la sua essenza d'uomo, egli viene espropriato della sua essenza stessa. E infatti il suo produrre e i suoi prodotti non sono il suo fine, ma solo un mezzo per la soddisfazione del bisogno di conservazione dell'esistenza fisica.
d) Alienazione dall'altro uomo
Se il prodotto del lavoro mi è estraneo, e mi sta di fronte come una potenza straniera, a chi esso appartiene allora? Se la mia propria attività non mi appartiene, ma è estranea e coartata attività, a chi appartiene allora? Ad un ente altro da me. Chi è questo ente? la Divinità? ... L'ente estraneo, al quale appartiene il lavoro e il prodotto del lavoro, al servizio del quale sta il lavoro e per il godimento del quale sta il prodotto del lavoro, può essere soltanto l'uomo stesso. Quando il prodotto del lavoro non appartiene all'operaio e gli sta di fronte come una potenza estranea, ciò è solo possibile in quanto esso appartiene ad un altro uomo estraneo all'operaio. Quando la sua attività gli è penosa, essa dev'essere godimento per un altro, gioia di vivere di un altro. Non gli Dei, non la natura, soltanto l'uomo stesso può essere questa potenza estranea sopra all'uomo.
(Manoscritti economico-filosofici)
Perché dunque il lavoro è alienante? Perché, dice Marx, è in funzione del profitto.
L'impiego piú utile del capitale è per il capitalista quello che a pari sicurezza rende maggior profitto... Le operazioni più importanti del lavoro sono regolate e condotte secondo i piani e le speculazioni di coloro che impiegano i capitali, e lo scopo ch'essi si propongono... è il profitto.
(Manoscritti economico-filosofici)
La logica del profitto fa sí che il capitalista solleciti nell'uomo nuovi bisogni; quindi lo costringe a nuovi sacrifici, cioè lo riduce in nuova dipendenza.
E un eunuco non lusinga piú bassamente il suo despota, e non cerca con dei mezzi piú infami di eccitarne la ottusa facoltà di godimento, per carpirgli un favore, di come l'eunuco dell'industria, il produttore, per carpire la moneta d'argento o cavar fuori l'uccellino d'oro dalle tasche del prossimo cristianamente amato, si piega ai capricci piú bassi dell'altro, fa da mezzano fra questi e il suo bisogno, eccita in lui desideri morbosi, spia ogni sua debolezza, per poi chiedere il compenso per questo affettuoso servizio.
(Manoscritti economico-filosofici)
Tutto ciò il capitalista fa per conquistare denaro, che nella Il denaro società borghese dà nuova essenza al suo possessore.
Ciò che è mio mediante il denaro, ciò che io posso, cioè può il denaro comprare, ciò sono io, il possessore del denaro stesso. Tanto grande la mia forza quanto grande la forza del denaro. Le proprietà del denaro sono mie, di me suo possessore... Ciò che io sono e posso, dunque, non è affatto determinato dalla mia individualità... Io sono, come individuo, storpio, ma il denaro mi dà 24 gambe: non sono dunque storpio...
(Manoscritti economico-filosofici)
La proprietà privata è dunque la vera fonte dell'alienazione del lavoro e di ogni altra alienazione. Per realizzare la disalienazione dell'uomo bisogna sopprimere la proprietà privata. Ma ciò è possibile solo con l'instaurazione del comunismo.
Il comunismo come soppressione positiva della proprietà privata... e quindi come reale appropriazione dell'essenza dell'uomo mediante l'uomo e per l'uomo; perciò come ritorno dell'uomo per sé, dell'uomo come essere sociale, cioè umano, ritorno completo, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico sino ad oggi. Questo comunismo... è la vera risoluzione dell'antagonismo tra la natura e l'uomo e tra l'uomo e l'uomo... È la soluzione dell'enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione... L'intero movimento della storia è quindi l'atto reale di generazione del comunismo.
(Manoscritti economico-filosofici)
4. Materialismo contro idealismo
La sacra famiglia fu la prima opera che Marx scrisse in collaborazione con Engels, e nacque dalla polemica con Bruno Bauer e il suo gruppo di "hegeliani". Schematizzando si può dire che in essa si intrecciano tre temi fondamentali: la critica del metodo idealistico, la storia del materialismo, e la teoria della rivoluzione del proletariato. La critica all'hegelismo viene condotta sulla linea delle argomentazioni già addotte nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Seguiamone il procedimento attraverso le stesse parole di Marx.
Se io, dalle mele, pere, fragole, mandorle - reali - mi formo la rappresentazione generale "frutto", se vado oltre e immagino che il "frutto" - la mia rappresentazione astratta, ricavata dalle frutta reali - sia un'essenza esistente fuori di me, sia anzi l'essenza vera della pera, della mela, ecc., io dichiaro - con espressione speculativa - che "il frutto" è la "sostanza" della pera, della mela, della mandorla ecc. Io dico quindi che per la pera non è essenziale essere pera, che per la mela non è essenziale essere mela. L'essenziale, in queste cose, non sarebbe la loro esistenza reale, sensibilmente intuibile, ma l'essenza che io ho astratto da esse e ad esse ho attribuito.
(La sacra famiglia)
Dunque, l'hegeliano svaluta la realtà empirica e attribuisce valore di realtà solo alla "essenza", solo al risultato del processo di astrazione mentale. Egli, perciò,
vede nella mela la stessa cosa che nella pera, e nella pera la stessa cosa che nella mandorla, cioè "il frutto". Le particolari frutta reali non valgono piú che come frutta parventi, la cui vera essenza è "la sostanza".
(La sacra famiglia)
Vale a dire, egli svuota il reale della ricchezza delle sue determinazioni empiriche, depaupera una cosa di quelle caratteristiche specifiche che la distinguono da un'altra cosa dello stesso genere. È evidente però che a questo punto gli si pone il problema di
come avviene che "il frutto" mi si presenti ora come mela, ora come pera, ora come mandorla; ... donde venga questa parvenza della molteplicità.
(La sacra famiglia)
Anche a questo problema, però, egli trova una soluzione.
Questo avviene, risponde il filosofo speculativo, perché "il frutto" non è un'essenza morta, indistinta, immobile, ma un'essenza vivente, auto-distinguentesi, in moto... Le diverse frutta profane sono estrinsecazioni vitali diverse dell'"unico frutto", sono cristallizzazioni che "il frutto" stesso forma. Il filosofo... ha compiuto un miracolo, ha prodotto dall'essere intellettuale irreale "il frutto", gli esseri naturali reali, la mela, la pera, ecc.; cioè, dal suo proprio intelletto astratto - che egli si rappresenta come un soggetto assoluto esistente fuori di sé - ... ha creato queste frutta...
(La sacra famiglia)
A giudizio di Marx, dunque, il metodo hegeliano è mistificante; esso è inadatto specialmente a comprendere la realtà sociale e la storia. Infatti riduce le forme reali, generate dalle condizioni concrete, in pure "categorie", in "concetti"; trasforma "catene reali, oggettive, esistenti fuori di me, in catene solo ideali, solo soggettive, esistenti solo in me". Cosí, grazie a questo procedimento di alchimia filosofica, nella concezione di Bruno Bauer e del suo gruppo "tutte le lotte esterne sensibili" si trovano trasformate "in pure lotte di pensiero".
Colui che ha smascherato la mistificazione del metodo hegeliano è stato Feuerbach, che ha rivendicato giustamente il valore di realtà al concreto, al reale, all'empirico. Egli
ha messo al posto della vecchia robaccia... non "il significato dell'uomo" (come se l'uomo avesse un altro significato oltre a quello di essere uomo) ma l'uomo reale vivente.
(La sacra famiglia)
Il che ha aperto la strada alla considerazione dell'uomo nei suoi rapporti materiali di esistenza. Perciò - scrive Marx - "non so se deliberatamente" Feuerbach "ha dato al socialismo una base filosofica". Il socialismo, infatti, trova la sua coerente fondazione filosofica, piuttosto che nell'idealismo, nel materialismo, i cui principi hanno avuto compiuta formulazione già in epoca illuministica.
Se si muove dalle dottrine del materialismo sulla bontà originaria degli uomini e sulla loro eguale capacità intellettuale, sull'onnipotenza dell'esperienza, dell'abitudine, dell'educazione, sull'influsso delle circostanze esterne sull'uomo, sulla grande importanza dell'industria, sul diritto al godimento, ecc., non occorre una grande acutezza per cogliere la connessione necessaria del materialismo con il comunismo e il socialismo.
(La sacra famiglia)
Ponendosi allora nell'ottica di una concezione materialistica della storia, l'uomo viene considerato nella trasformazione dei concreti rapporti materiali, cioè dei rapporti economici, con i quali esso è legato alla natura e agli altri uomini e per i quali, nella società, ogni uomo si identifica in una classe che si colloca in opposizione ad un'altra, sua antagonista. Proprietari e proletari dunque costituiscono una totalità.
Ma tale totalità non è e non può essere armonica; in essa sussiste una contraddizione dialettica per la quale la proprietà genera e insieme nega il proletariato, e questo, a sua volta, genera e insieme nega la proprietà. Ognuno dei due termini sussiste mantenendo in vita il suo opposto, e, insieme, il suo sussistere si risolve nel tentare di distruggerlo. Ma mentre la classe proprietaria vuole distruggere il proletariato per conservare la proprietà privata (classe conservatrice), il proletariato vuole distruggere, con la classe proprietaria, la stessa proprietà privata (classe distruttrice); cioè mentre la prima vuole eliminare il conflitto conservando l'opposizione, la seconda vuole annientare, insieme al conflitto, anche l'opposizione. Sicché proprio quando la proprietà privata genera e sostiene la classe proletaria, genera con ciò l'elemento distruttore della sua stessa essenza. E, all'inverso, il proletariato non fa che eseguire, con la rivoluzione, la condanna a morte che la stessa classe proprietaria ha pronunciato per se stessa.
E quando con la rivoluzione cadrà il rapporto dialettico proprietari-proletari, nello stesso momento in cui scomparirà il proprietario, sparirà anche la figura del proletario; perché questo avrà liberato se stesso dalle condizioni della sua alienazione e della sua schiavitú; cioè avrà negato in se stesso la sua essenza di proletario.
5. Importanza e limiti del discorso di Feuerbach
L'antihegelismo di Feuerbach e la sua rivendicazione della "realtà naturale dell'uomo" sono oggetto di interessata e ammirata considerazione da parte di Marx.
Il limite del discorso feuerbachiano tuttavia sta, per Marx, nel fatto che la sua antropologia nasce dalla polemica con la teologia; quindi il tema dell'alienazione viene ristretto nell'ambito del fenomeno religioso; il che implica l'illusione, ancora idealistica, che l'uomo possa disalienarsi "riconoscendosi" realtà naturale, riappropriandosi "spiritualmente" di se stesso. Le cose non stanno cosí, per Marx. L'alienazione religiosa è solo un aspetto di una piú radicale alienazione, quella economico-sociale.
Queste idee sono state delineate da Marx già nella Critica della filosofia hegeliana del diritto. Qui infatti egli sostiene che Feuerbach ha colto, certo, un elemento importante della religione:
Il fondamento della critica religiosa è: l'uomo fa la religione e non la religione l'uomo. Infatti la religione è la consapevolezza e la coscienza dell'uomo che non ha ancora acquisito o ha di nuovo perduto se stesso.
(Critica della filosofia del diritto di Hegel)
Ma, rileva Marx,
l'uomo non è un essere astratto, isolato dal mondo. L'uomo è il mondo dell'uomo, lo Stato, la società. Questo Stato, questa società, producono la religione, una coscienza capovolta del mondo, proprio perché essi sono un mondo capovolto. La religione è la teoria generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo point-d'honneur spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo completamento solenne, la sua fondamentale ragione di consolazione e di giustificazione. Essa è la realizzazione fantastica dell'essenza umana, perché l'essenza umana non possiede una vera realtà... Essa è l'oppio del popolo.
(Critica della filosofia del diritto di Hegel)
Pertanto, la critica filosofica contro la religione ha, certo, un intrinseca importanza:
La lotta contro la religione è, quindi, indirettamente la lotta contro quel mondo del quale la religione è l'aroma spirituale... La soppressione della religione in quanto felicità illusoria del popolo è il presupposto della sua vera felicità. La necessità di rinunciare alle illusioni sulla propria condizione è la necessità di rinunciare a una condizione che ha bisogno di illusioni.
(Critica della filosofia del diritto di Hegel)
Ma ciò, per Marx, non basta.
È, dunque, compito della storia, una volta scomparso l'al di là della verità, di ristabilire la verità dell'al di qua... La critica del cielo si trasforma cosí in critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica...
(Critica della filosofia del diritto di Hegel)
Nelle Tesi su Feuerbach, pubblicate nel 1845, Marx poi prende sempre piú distanza da Feuerbach, precisando meglio la sua critica alla "critica religiosa".
Feuerbach prende le mosse dal fatto che la religione rende l'uomo estraneo a se stesso e sdoppia il mondo in un mondo religioso immaginario, e in un mondo reale. Il suo lavoro consiste nel dissolvere il mondo religioso nella sua base mondana. Egli non s'accorge che, compiuto questo lavoro, la cosa principale resta ancora da fare. Il fatto stesso che la base mondana si distacca da sé e si stabilisce nelle nuvole come regno indipendente non si può spiegare se non con la dissociazione interna e con la contraddizione di questa base mondana con se stessa. Questa deve pertanto essere compresa prima di tutto nella sua contraddizione e poi, attraverso la rimozione della contraddizione, rivoluzionata praticamente.
(Tesi su Feuerbach, IV)
Egli non ha colto la contraddizione interna alla base mondana perché l'impostazione del suo discorso è ancora idealistica. Ha considerato, sí, l'uomo come ente naturale, ma non lo ha considerato nell'attività pratica con cui esso si procura la sua esistenza materiale, attività che comporta sempre, in ogni epoca della storia, un determinato rapporto con la natura e uno specifico rapporto con gli altri uomini. Non lo ha esaminato, cioè, nell'insieme dei rapporti economico-sociali. Insomma ha indugiato a "contemplare" l'uomo naturale "astratto", nella sua "essenza", nel suo "genere", fuori di ogni contesto storico; ed è caduto in una sorta di "moderno platonismo".
Feuerbach risolve l'essere religioso nell'essere umano. Ma l'essere umano non è un'astrazione immanente all'individuo singolo. Nella sua realtà, esso è l'insieme dei rapporti sociali. Feuerbach, che non si addentra nella critica di questo essere reale, è perciò costretto:
l) a fare astrazione dal corso della storia, a fissare il sentimento religioso per sé e a presupporre un individuo umano astratto, isolato.
2) per lui perciò l'essere umano può essere concepito solo come "specie", come generalità interna, muta, che unisce in modo puramente naturale la molteplicità degli individui.
(Tesi su Feuerbach, VI)
Perciò il suo "materialismo" è ancora rozzo; ancora filosofico e non pratico; ancora astratto e non storico; esso propone, sí, una rivoluzione, ma solo teoretica, una rivoluzione nello spirito, nel pensiero, che, per Marx, non è sufficiente. L'autentica disalienazione dell'uomo si può attuare soltanto sul piano pratico, rovesciando quelle condizioni materiali che determinano la sua schiavitú e la estraniazione di sé a se stesso che si manifesta anche a livello religioso. Infatti esso vive sempre in una determinata forma di organizzazione sociale; e poiché "la vita sociale è essenzialmente pratica", essa non si muta con la "teoria", ma con "l'azione".
I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; ora si tratta però di mutarlo.
(Tesi su Feuerbach, XI)
Ne L'Ideologia tedesca, poi, Marx articola piú compiutamente le sue argomentazioni ed approfondisce l'aspetto "idealistico" del materialismo di Feuerbach, per concludere:
Naturalmente non ci daremo la pena d'illuminare i nostri sapienti filosofi sul fatto che la liberazione dell'uomo non è ancora avanzata di un passo quando essi abbiano risolto la filosofia, la teologia, la sostanza, e tutta l'immondizia, nell' "autocoscienza"...; che non è possibile attuare una liberazione reale se non nel mondo reale e con mezzi reali...; che in generale non si possono liberare gli uomini finché essi non sono in grado di procurarsi cibo e bevanda, abitazione e vestiario in qualità e quantità completa. La liberazione è un atto storico, non un atto ideale...; in realtà per il materialista pratico, cioè per il comunista, si tratta di rivoluzionare il mondo esistente, di mettere mano allo stato di cose incontrato e di trasformarlo.
(L'Ideologia tedesca)
6. La concezione materialistica della storia
Nel 1845 Marx, espulso ufficialmente dalla Francia, fu costretto ad abbandonare Parigi e a trasferirsi a Bruxelles. In quell'anno stesso poi egli compí, insieme a Engels, un viaggio a Londra, dove incontrò alcuni membri della "Lega dei Giusti". Ritornato a Bruxelles, si dedicò, nel corso del 1846, alla formazione di "comitati comunisti", che nel suo progetto dovevano trasmettersi notizie sulle loro attività teoriche e indicazioni sulle loro attività pratiche. Ma il biennio 1845-46 fu anche quello in cui Marx compose, in collaborazione con Engels, L'Ideologia tedesca, che molti ritengono una svolta nel suo pensiero. L'errore comune di Hegel e dei suoi seguaci da una parte, e di Feuerbach dall'altra, sta nell'aver svuotato l'uomo "storico" di tutti i suoi concreti rapporti - sempre storicamente determinati - con la natura e con gli altri uomini; di aver creduto cioè di individuarne la vera natura nella Idea, gli uni, nell'essenza, l'altro, e di aver dedotto i caratteri dell'uomo concreto ricavandoli rispettivamente da quella Idea e da quella essenza astratte. Entrambe queste posizioni dunque muovono, come Marx dice, da "presupposti arbitrari", da "dogmi". Per riportare nei termini della concretezza e della correttezza il discorso sull'uomo e sulla storia bisogna allora che questo trovi fondamento nell'analisi dei fatti specifici reali e positivi che individuano la condizione umana effettiva, ossia bisogna partire da "presupposti... constatabili per via puramente empirica". Se ci si pone in questa prospettiva, allora un dato primario risulta subito evidente.
Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza... Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale.
(L'Ideologia tedesca)
Tale produrre - ecco un secondo dato - implica necessariamente un rapportarsi dell'uomo alla natura e agli altri uomini, che assume forma propria e specifica in ogni epoca dello sviluppo storico, distinta quindi da quella di altre epoche.
Inoltre i due rapporti uomo-natura e uomo-uomo sono connessi tra loro, interdipendenti; infatti il modo in cui l'uomo si adatta alle condizioni geologiche oro-idrografiche climatiche, cioè il modo in cui esso trasforma la realtà naturale per "appropriarsene", per trame i mezzi di sussistenza, è condizionato dal modo in cui gli uomini si relazionano tra di loro, vale a dire dal tipo di rapporto di proprietà che essi hanno stabilito, dal tipo di organizzazione dato alla produzione (divisione del lavoro), dall'organizzazione sociale (divisione in classi), ecc; e viceversa, cioè il modo di rapportarsi degli uomini tra di loro determina quello col quale essi agiscono sulla natura.
Si tratta, come si vede, di due elementi, di due aspetti connessi, reciproci e interagenti, della condizione umana effettiva: quello economico e quello sociale. Se si prescinde dal considerarne uno, non solo non si comprende l'altro, ma si giunge ad una concezione astratta dell'uomo, della società e della storia.
Andando piú in profondità, Marx specifica, anche negli scritti posteriori a L'Ideologia tedesca, che la "produzione" è la risultante della reciproca azione di forze produttive (elemento economico), cioè di macchine, denaro, conoscenze scientifiche, tecniche di produzione, organizzazione del lavoro e, naturalmente, di braccia che lavorano; e di rapporti di produzione (elemento sociale), cioè dei rapporti tra le classi sociali che trovano il punto-cardine nella formalizzazione giuridica del tipo di proprietà, ma che, piú in generale, esprimono l'organizzazione che la società, in una determinata epoca, si è data in corrispondenza e in coerenza col grado di sviluppo delle forze produttive, al fine di favorire l'espandersi di quelle forze. Dunque, per Marx, è erroneo considerare la società cioè i rapporti tra gli uomini - indipendentemente dalle condizioni delle forze produttive, cioè dalla sua base economica. Sul fatto che, anzi, la società sia corrispondente e funzionale alle forze produttive, Marx scriveva, proprio nel 1846, in una lettera a P. Annenkov:
Sono gli uomini liberi di scegliersi questa o quest'altra forma di società? Affatto. Scegliete uno stadio particolare di sviluppo delle forze produttive dell'uomo ed avrete una forma particolare di commercio e di consumo. Scegliete stadi particolari di sviluppo della produzione e avrete una organizzazione corrispondente della famiglia, degli ordini o classi, in una parola, una società civile corrispondente. Presupponete una società civile particolare e avrete condizioni politiche particolari, che sono soltanto l'espressione ufficiale della società civile.
(Lettera del 28.12.1846)
L'insieme di forze produttive e di rapporti di produzione, dunque, costituiscono per Marx la base reale della società. L'insieme delle teorie giuridiche e politiche, dell'attività culturale, delle concezioni morali e delle visioni religiose che caratterizzano una data società nel suo aspetto "spirituale" e che trovano concretamento nelle sue istituzioni, ne rappresentano le ideologie che variano al variare della base reale, perché sussistono in corrispondenza e in dipendenza da essa. Ma in quale modo varia la base reale? La vita di una società, sostiene Marx, è determinata dal rapporto dialettico tra forze produttive e rapporti di produzione. Essa resterà stabile finché le forze produttive e i rapporti di produzione sono in equilibrio dinamico, riescono ad adeguarsi reciprocamente in modo da essere reciprocamente funzionali. Quando poi lo sviluppo delle forze produttive, determinato dall'"industria" dell'uomo, trova un limite invalicabile nei rapporti di produzione, cioè quando questi rapporti non solo non favoriscono piú la crescita di quelle forze, ma ne diventano le catene che frenano il loro naturale espandersi, allora si verifica la rivoluzione della base materiale; a cui, naturalmente, corrisponde, di conseguenza, lo sconvolgimento dell'assetto ideologico della società.
Questi sono dunque i capisaldi della concezione materialistica della storia, che riproponiamo in questo "riassunto" che Marx redasse nella Prefazione a Per la critica dell'economia politica, che fu pubblicata parecchi anni dopo L'Ideologia tedesca, ma che conserva di quest'opera gli elementi fondamentali.
Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona in generale il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge piú o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura... Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dar corso, nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza.
(Prefazione a Per la critica dell'economia politica)
7. Idee dominanti e classi dominanti
Quando si parla dunque del "materialismo" di Marx non bisogna intendere questo termine nel senso che esso ha assunto nella tradizione filosofica, come concezione che, opponendo "metafisicamente" spirito e materia, ritiene questa come causa esclusiva e principio unico dell'esistenza e della trasformazione di tutta la realtà, e che da questo principio fa discendere la negazione della realtà spirituale dell'uomo e la riduzione delle funzioni "spirituali" a pure funzioni materiali.
Non è questo l'orizzonte della riflessione marxiana. Il suo oggetto di discorso non è l'astratto "principio del reale", ma l'uomo concreto, nella sua dimensione storico-sociale, studiato sulla base di dati empiricamente rilevabili. Il materialismo di Marx pertanto si definisce come tentativo di spiegare tutta la vita dell'uomo a partire dalle imprescindibili condizioni della sua esistenza materiale, cioè a partire dal tessuto dei rapporti socio-economici in cui esso necessariamente si trova nell'azione per la produzione della sua vita fisica. In tal senso esso nasce piuttosto come radicale antitesi alla pretesa idealistica di spiegare le condizioni concrete dell'uomo come manifestazioni empiriche dell'Idea, e di dedurre i caratteri delle società e delle epoche che si sono succedute nel tempo dalle loro ideologie, cioè dalle rappresentazioni teoriche che gli uomini hanno dato di se stessi, dal "concetto" di uomo che essi hanno formulato e in base a cui hanno formalizzato i loro rapporti e modellato le loro istituzioni. Non a caso infatti ne L'Ideologia tedesca Marx mette a punto, nell'ambito del discorso sul materialismo storico, quello sul rapporto tra base materiale e ideologie, contrapponendo il suo metodo a quello idealistico. Rispetto a questo, la concezione materialistica della storia rappresenta anzitutto un'inversione di tendenza nel procedimento speculativo; essa infatti non "discende dal cielo sulla terra" - egli dice -, ma "sale dalla terra al cielo", cioè "non spiega la prassi partendo dall'idea", ma "restando saldo costantemente sul terreno storico reale", "spiega le formazioni delle idee partendo dalla prassi". Poiché non si può pensare alle attività spirituali dell'uomo come se l'uomo non avesse corpo, non dovesse provvedere quotidianamente ai bisogni della sua esistenza fisica, non si trovasse, per soddisfare questi bisogni, in relazioni concrete con la natura e con gli altri uomini. Le ideologie, dunque, non hanno una propria autonomia, una propria vita separata, disancorata, indipendente dalla realtà effettiva degli uomini che le producono. Esse, anzi, non sono che le espressioni "spirituali" delle oggettive condizioni "materiali".
La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata all'attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini... Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini appaiono qui ancora come emanazione diretta del loro comportamento materiale. Ciò vale allo stesso modo per la produzione spirituale, quale essa si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale, della religione, della metafisica, ecc. di un popolo. Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli uomini reali, operanti, cosí come sono condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi corrispondono... Di conseguenza la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non conservano oltre la loro parvenza di autonomia.
(L'Ideologia tedesca)
Sicché - sottolinea Marx - non è neppure legittimo parlare di né hanno storia della filosofia, o della religione, o del diritto, ecc., perché il succedersi nel tempo delle ideologie filosofiche, religiose, ecc., non avviene in virtú di un loro autonomo e intrinseco processo di sviluppo. Esse, dice testualmente Marx,
non hanno storia, non hanno sviluppo; ma gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero.
(L'Ideologia tedesca)
Pertanto è assurdo pensare che esse abbiano il potere di produrre la trasformazione della base reale. Se il produrre la propria vita materiale è il fatto fondamentale che caratterizza la realtà umana, non sono allora i principi giuridici, la forma politica dello stato, le produzioni culturali, le concezioni morali o le rappresentazioni religiose gli elementi che "costituiscono" l'uomo in un determinato luogo e in un determinato tempo; non sono essi gli elementi che ne determinano il modo di produrre e quindi i rapporti con la natura e con gli altri uomini; ma, al contrario, sono proprio quel modo di produrre, quegli specifici rapporti uomo-natura e uomo-uomo che determinano i caratteri ideologici di una società.
Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza.
(L'Ideologia tedesca)
Ed è parimenti assurdo pensare che l'assetto ideologico di una società possa essere trasformato con la pura critica razionale; tale trasformazione, infatti, può aver luogo solo col rovesciamento della struttura economico-sociale:
non la critica, ma la rivoluzione è forza motrice della storia, anche della storia della religione, della filosofia e di ogni altra teoria.
(L'Ideologia tedesca)
Ma qual è la funzione e lo scopo delle ideologie nella vita sociale? Esse - dice Marx - svolgono il compito di giustificare "spiritualmente" e di stabilizzare socialmente, attraverso le istituzioni che le incarnano, i rapporti di produzione. Pertanto ogni idea, ogni teoria, è uno strumento che la classe dominante si è creato per motivare razionalmente il proprio predominio, per conservare il potere.
Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti cioè la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l'espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l'espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio.
(L'Ideologia tedesca)
In linea con questi principi, Marx giudica Hegel e Feuerbach gli ideologi della moderna società borghese. L'"idealismo" non è che l'espressione teorica dei "rapporti di produzione" di questa Società Perché - si chiede Marx - questi filosofi hanno separato il mondo del pensiero dal mondo empirico, e hanno individuato nel primo l'essenza del secondo? La ragione di questa separazione sta nella "divisione del lavoro" che caratterizza l'ordinamento socio-economico della società borghese e che, al tempo dei filosofi in questione, si riproduce anche all'interno della stessa classe dominante.
La divisione del lavoro, che abbiamo già visto come una delle forze principali della storia finora trascorsa, si manifesta anche nella classe dominante come divisione del lavoro intellettuale e manuale; cosicché all'interno di questa classe una parte si presenta costituita dai pensatori della classe (i suoi ideologi attivi, concettivi, i quali dell'elaborazione dell'illusione di questa classe su se stessa fanno il loro mestiere principale), mentre gli altri, nei confronti di queste idee e di queste illusioni, hanno un atteggiamento piú passivo e piú ricettivo, giacché in realtà sono i membri attivi di questa classe e hanno meno tempo di farsi delle idee e delle illusioni su se stessi.
(L'Ideologia tedesca)
Avvenuta la separazione sociale degli "ideologi", questi quindi hanno separato, a loro volta, le "idee dominanti" dai rapporti che caratterizzano lo stadio del modo di produzione della loro società, pervenendo alla convinzione che "nella storia dominano sempre le idee"; da ciò, operando un'ulteriore astrazione, hanno ricavato la conclusione che l'"idea" è una realtà in sé, autonoma e incondizionata rispetto alla realtà empirica, di cui, tuttavia, è l'essenza, la legge, la forza motrice. È per questa ragione che Hegel ha concepito la storia come processo dell'Idea, e le idee degli uomini, le stesse realtà umane e i rapporti tra gli uomini, come "autodeterminazioni" dell'Idea; ed è per questa ragione che Feuerbach ha creduto di poter dire che cos'è l'uomo derivandolo dal "concetto" di uomo.
Della società borghese, dunque, Marx ha rivelato quelli che a suo giudizio erano i meccanismi nascosti e "raffinati". Ma ne L'Ideologia tedesca egli si chiede pure quale ne sarà il destino. Le sue forze produttive, in particolare le macchine ed il denaro, egli dice, diventeranno sempre piú "forze distruttive"; si accentuerà cosí il distacco tra la classe dominante e quella subalterna, "che deve sopportare tutti i pesi della società", e in cui sempre piú "prende le mosse la coscienza della necessità di una rivoluzione che vada al fondo, la coscienza comunista"; questa coscienza si esprimerà quindi in una "lotta rivoluzionaria" contro la classe dominante e contro la forma di stato che ne garantisce il dominio. Tuttavia la rivoluzione comunista avrà caratteri specifici e del tutto nuovi rispetto ad altri eventi rivoluzionari del passato; infatti:
in tutte le rivoluzioni sinora avvenute non è mai stato toccato il tipo di attività; e si è trattato soltanto di un'altra distribuzione di queste attività, di una nuova distribuzione del lavoro ad altre persone, mentre 12 rivoluzione comunista si rivolge contro il modo dell'attività che si è avuto finora, sopprime il lavoro alienato e abolisce il dominio di tutte le classi insieme con le classi stesse.
(L'Ideologia tedesca)
Ma è indispensabile la rivoluzione comunista? Sí, risponde Marx:
la rivoluzione non è necessaria soltanto perché la classe dominante non può essere abbattuta in nessun'altra maniera, ma anche perché la classe che l'abbatte può riuscire solo in una rivoluzione a levarsi di dosso tutto il vecchio sudiciume e diventare capace di fondare su basi nuove la società.
(L'Ideologia tedesca)
8. Il Manifesto del partito comunista
Nell'inverno tra il 1846 e il 1847 Marx redige la Miseria della filosofia, con cui prende le distanze da Proudhon, che egli accusa di aver usato lo stesso metodo astrattivo di Hegel, in quanto ha scisso ; l'elemento sociale da quello economico nell'analisi della società borghese, riducendo il primo a una serie di astratti "principi", a "categorie sociali", e deducendo da questi i rapporti materiali. Proudhon, cosí, ha svuotato il concreto, rifugiandosi in un mondo di astrazioni, credendo che queste siano le essenze della realtà. Ma c'è di piú: Proudhon ha offerto un'imitazione volgare e meschina del metodo hegeliano, in quanto ha snaturato la dialettica hegeliana di quell'aspetto fecondo che è la contraddizione, che sul piano storico i` è rappresentato dall'antagonismo delle classi. Egli dunque non ha visto la lotta tra le classi, non ha visto nel proletariato l'opposizione reale alla borghesia, e quindi non ha individuato in esso la forza che sola può produrre, con la rivoluzione, la nascita di una nuova società.
Nel '47 Marx ed Engels aderirono ufficialmente alla "Lega dei Giusti" che, con opportune trasformazioni, assunse il nome di "Lega dei Comunisti", sul cui mandato Marx compose insieme ad Engels il Manifesto del partito comunista, che fu pubblicato nel febbraio del 1848, alle soglie della rivoluzione, appunto del '48, in Francia.
Il Manifesto è una sorta di summa dell'elaborazione economica sociale e politica del movimento organizzato nella "Lega dei Comunisti". In quest'opera pertanto si intrecciano motivi molteplici e di natura diversa, di cui qui, tuttavia, verranno esposti, in forma necessariamente riduttiva, i piú rilevanti e qualificanti.
A differenza delle classi dominanti delle epoche pre-borghesi, che nell'ambito delle rispettive società costituivano la forza conservatrice dello status quo economico-sociale, la borghesia, dacché è apparsa sulla ribalta della storia, si è configurata sempre come "forza rivoluzionaria"; ciò per sua intrinseca necessità; infatti perseguendo la logica del profitto, che richiede una continua crescita economica, essa ha provocato sempre un continuo rinnovamento e accrescimento degli strumenti di produzione e quindi, contestualmente, il rinnovamento dei rapporti di produzione, dell'intero assetto sociale e della sovrastruttura ideologica. La borghesia, insomma, nel perseguire i suoi stessi interessi materiali, è stata costretta sempre a sconsacrare, come dice Marx, ogni cosa sacra; essa è dunque, per sua natura, "critica". Questo suo carattere "rivoluzionario" le ha consentito di produrre progressi, nella società umana, quali non si erano mai visti in millenni di storia. In un solo secolo, l'ultimo, ha prodotto trasformazioni che hanno cambiato l'aspetto del mondo a misura dei propri progetti e conformemente ai propri interessi; al punto che può dirsi che il mondo attuale sia una sua creazione. Ha sviluppato tutte le capacità creative dell'uomo e le sue potenzialità produttive; ha creato nuovi e sempre piú efficienti strumenti di produzione e di scambio; ha esteso e potenziato la rete e i mezzi di comunicazione; ha assoggettato la campagna alla città, ha sviluppato la vita cittadina e ha favorito, con l'inurbamento, l'acculturazione degli ex-contadini. Inoltre essa s'è diffusa su tutto il globo terrestre, rendendo cosmopoliti la produzione e il commercio; infatti elabora in un luogo materie prime provenienti da altre zone, esporta in tutto il mondo merci ch'essa produce in una determinata area; con la creazione di un mercato mondiale, ha incivilito nazioni "barbare", ha creato un'effettiva interdipendenza tra le diverse nazioni; anzi ha abbattuto le barriere nazionali, provocando una unificazione di fatto del genere umano e universalizzando la cultura.
Il suo potere "rivoluzionario" ha però raggiunto il culmine. Ha sviluppato a tal punto le forze produttive che esse non s'adeguano piú ai vigenti rapporti di produzione. Il rapporto di proprietà che le è essenziale, e che finora le ha consentito di crescere, ora determina la sua morte progressiva. La logica del profitto, che la caratterizza, e che finora ha accresciuto la sua ricchezza, ora provoca inevitabilmente la sua rovina. Essa è chiusa in un circolo assurdo, in una condizione contraddittoria. Per ricavare profitto, deve intensificare la produzione; cosí entra però in crisi di sovrapproduzione, cioè è costretta a produrre piú di quanto il mercato esistente è capace di assorbire; esaurita la ricerca di nuovi mercati, e sfruttati piú massicciamente i mercati già esistenti, è costretta a distruggere gran parte della produzione e delle stesse forze produttive per poter sopravvivere; deve insomma distruggere ricchezza per produrre altra ricchezza; deve provocare miseria per permettere al capitale di crescere.
Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta una gran parte non solo dei prodotti già ottenuti, ma anche delle forze produttive che erano già state create. Nelle crisi scoppia un'epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un controsenso: l'epidemia della sovrapproduzione. La società si trova improvvisamente ricacciata in uno stato di momentanea barbarie; una carestia, una guerra generale di sterminio sembrano averle tolto tutti i mezzi di sussistenza; l'industria, il commercio sembrano annientati, e perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio.
(Manifesto del partito comunista)
Quelli che pagano l'alto costo sociale di queste crisi sono gli operai, che sono ridotti in condizioni sempre piú accentuate di indigenza, anche perché il regime di concorrenza tra i capitalisti spinge costoro ad immettere sul mercato merci a prezzi piú bassi, e, quindi, per poter ricavare il profitto, a rendere piú intenso lo sfruttamento dei lavoratori. In tal modo la borghesia capitalista produce e alimenta la forza rivoluzionaria della classe operaia, e con ciò produce la sua stessa fine, naturalmente ed inevitabilmente. Infatti l'operaio è, per il capitalista, essenzialmente forza-lavoro; e questa forza-lavoro è per lui merce da acquistare; quindi c'è un mercato del lavoro in cui il prezzo della forza-lavoro è determinato dalle leggi del mercato, o più precisamente dalla legge della domanda e dell'offerta; esso s'abbassa a mano a mano che si amplia l'offerta della forza-lavoro; sicché la concorrenza con la forza-lavoro delle donne, dei fanciulli, e dei ceti medi proletarizzati rende sempre piú basso il salario di tutti gli operai. A queste condizioni oggettive l'operaio non può sottrarsi; egli è costretto a vendersi per assicurarsi i mezzi di sussistenza per sé e per la propria famiglia. Questa è la caratteristica che ne fa un "proletario". Ma ai danni derivatigli dalla concorrenza della sua forza-lavoro con altra forza-lavoro sempre disponibile, alla precarietà del salario determinato dalle crisi di sovrapproduzione, al sempre piú intenso sfruttamento del suo lavoro per il regime di concorrenza tra capitalisti, gli si aggiunge anche la pena della precarietà delle sue condizioni di lavoro: egli è appendice, accessorio della macchina; la sua opera è ridotta ad atti semplici, puramente ripetitivi, estremamente parcellizzati; la sua azione produttiva è sottoposta a ritmi duri e a disciplina di tipo militaresco; insomma il suo lavoro è insieme pesante e insignificante; la sua intelligenza creativa ed operativa è costantemente mortificata. In queste condizioni la classe proletaria si presenta come classe irriducibilmente antagonista a quella dei capitalisti, come quella che sovvertirà le basi materiali della società borghese spontaneamente e irreversibilmente.
Ad accentuare questo antagonismo è lo stesso ordinamento capitalistico, attraverso anche la proletarizzazione dei ceti medi, piccoli industriali, negozianti, titolari di piccole rendite, artigiani, agricoltori. Infatti il loro piccolo capitale soccombe nella concorrenza col capitale piú solido; le loro mera soccombono nella concorrenza commerciale con quelle prodotte dalla grande industria che, con` lo sfruttamento del lavoro, diminuisce il costo di produzione del prodotto, immettendolo sul mercato a prezzo inferiore. Sicché dapprima i ceti intermedi si costituiscono come piccola borghesia oscillante tra il proletariato e la grande borghesia; poi finiscono per precipitare inevitabilmente nella classe proletaria. Pertanto l'ordinamento capitalistico provoca due fenomeni concomitanti e connessi: da una parte, assorbe i capitali piú deboli, riduce sempre piú il numero dei capitalisti, e rende sempre piú potente la forza di dominio del capitale; dall'altra, riducendo il numero dei piccoli imprenditori, fino alla loro scomparsa, allarga sempre piú la classe proletaria, che acquista sempre piú carattere di massa, e con ciò piú potere di eversione. Quando la classe operaia sarà giunta alle condizioni di piena maturità, essa attuerà la lotta rivoluzionaria, in cui praticherà l'"espropriazione degli espropriatori", e instaurerà il comunismo.
Marx sottolinea che i mali della società borghese capitalistica sono stati ben individuati sia dal "socialismo piccolo-borghese" che dal "comunismo critico-utopistico"; perciò essi hanno avuto il merito di aprire gli occhi alla classe proletaria. Inoltre hanno individuato obiettivi in sé buoni, come l'abolizione del contrasto città-campagna (Owen), l'eliminazione dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, l'abolizione del contrasto uomo-macchina, l'instaurazione del principio che ciascuno contribuisca secondo le sue capacità e sia compensato secondo il suo lavoro (Saint-Simon), la soppressione dello Stato come realtà che produce politica e la sua trasformazione in strumento di amministrazione e di gestione della produzione. Ma queste ideologie e questi movimenti sono affetti da mali incurabili. Il socialismo utopistico è espressione dei ceti intermedi, di quei piccoli borghesi che sono alle soglie della proletarizzazione, e che volendosi sottrarre alla loro inevitabile fine, sí contrappongono alla borghesia, ma con spirito conservatore, anzi reazionario. Non meno utopistico è, poi, il comunismo elaborato da Saint-Simon, Fourier, Owen, che, tuttavia, è espressione delle esigenze reali del proletariato. Il suo limite sta in ciò: individuato nel proletariato la classe sofferente, spinto dal desiderio di "aiutarlo", si propone progetti di rigenerazione della società, delineando modelli ideali, non aderenti alla realtà e senza possibilità di attuazione.
Marx, naturalmente, prospetta il "suo" comunismo come qualcosa di totalmente diverso. Il movimento operaio deve non sottrarsi alla lotta di classe, né attenuarla, ma esasperarla, assumendo il suo ruolo rivoluzionario al fine di impadronirsi del potere per attuare il rovesciamento dei rapporti di produzione capitalistici. Perché possa riuscire nell'impresa già sussistono le condizioni oggettive. Il capitalismo, infatti, non solo accresce la classe proletaria, ma la concentra, a grandi masse, in pochi luoghi; il che consente agli operai di contattarsi. Inoltre favorisce il sentimento di uguaglianza tra i lavoratori, sia perché li impegna in un lavoro alle macchine semplice e uguale per tutti, che annulla le differenze tra gli individui; sia perché corrisponde salari uguali per tutti, e ai limiti inferiori, cioè alle soglie della sopravvivenza, generando in tutti il senso della propria precarietà e della propria dipendenza. Ancora: questo senso di precarietà esso alimenta con le ricorrenti crisi commerciali e con le conseguenze della lotta concorrenziale tra imprenditori, che portano i proletari sempre piú vicini al limite della rottura dei rapporti di produzione. E poi, i mezzi di comunicazione, che la borghesia ha creato per i suoi interessi, consentono che anche una piccola lotta locale assuma il valore di lotta nazionale e la funzione di lotta di classe, cioè di lotta politica. Con tutto ciò, insomma, il capitalismo pone oggettivamente le condizioni dell'unità del proletariato e della nascita della sua coscienza di classe.
C'è bisogno dunque che maturino le condizioni soggettive perché l'impresa rivoluzionaria sia portata a compimento. Infatti la borghesia fa di tutto perché il movimento operaio non si costituisca in forza politica. È necessario allora che questo passi dalla spontaneità all'organizzazione della sua azione, attraverso la creazione di un partito che promuova e favorisca la coscienza e l'unità di classe, annulli le tendenze disgregatrici che la borghesia provoca nella classe, diffonda la coscienza della necessità dell'azione rivoluzionaria, proponga obiettivi a breve e a lungo termine di tale azione, preveda le possibili contraddizioni e le opposizioni alla marcia verso il socialismo, insomma prepari il proletariato sia teoricamente che organizzativamente. Tale partito deve porsi come espressione organica di tutta la classe operaia, pur essendo animato e guidato dalla sua avanguardia piú cosciente, che sola può riuscire ad utilizzare ai fini rivoluzionari gli strumenti culturali (quali ad esempio la dialettica hegeliana, l'economia politica) che finora hanno sancito anche teoricamente la supremazia della borghesia, e che ora, cambiati di segno, possono diventare strumenti di una concezione veramente scientifica della storia e, nello stesso momento, strumenti capaci di dare base scientifica alla prassi rivoluzionaria.
9. Dalle società preborghesi alla società comunista
Nel marzo del `48, allo scoppio della rivoluzione in Francia, Marx corre a Parigi, che però abbandonerà presto, per recarsi quando gli eventi rivoluzionari si estendono anche in Germania - a Colonia. Qui fonda la "Nuova Gazzetta Renana", che tuttavia resta in vita per un solo anno; infatti viene soppressa nel `49, nell'ondata restauratrice che s'abbatte su tutta l'Europa. Espulso quindi dalla Germania, Marx torna per brevissimo tempo in Francia, per poi trasferirsi definitivamente a Londra, dove, nel 1850, pubblica, su una rivista da lui stesso fondata, alcuni studi sul significato degli eventi del `48; studi che verranno poi riuniti in volume col titolo Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850. Frattanto si dedica pure alla fondazione della "Società Universale dei Comunisti", il cui scopo è, naturalmente, l'attuazione del comunismo; ma poiché in essa vengono presto alla luce dissidi tra l'ala marxiana e quella blanquista, che scalpitava per l'organizzazione a breve termine di concrete azioni rivoluzionarie, Marx, dopo poco tempo, fa in modo da scioglierla di fatto. Quindi si ritira dall'impegno politico attivo e si dedica al lavoro, scarsamente redditizio, presso il British Museum. Ma non attenua il suo lavoro intellettuale; infatti pubblica nel 1852, su un giornale di New York, alcuni articoli sul colpo di stato bonapartista dell'anno precedente; articoli che, insieme, costituiranno l'opera Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte. Dal 1857 al 1859 scrive i Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, che passano ormai, per consolidata consuetudine, col nome abbreviato di Grundrisse.
Quest'opera contiene i temi di fondo che Marx svilupperà nel Capitale; su di essi, pertanto, non ci soffermeremo ora.
Qui conviene piuttosto centrare l'attenzione sul disegno dello sviluppo storico della società umana, che Marx presenta come il succedersi "necessario" di tre stadi che sono l'uno opposto radicalmente all'altro per i suoi caratteri fondamentali, e che sono tuttavia connessi dialetticamente. Ognuno non presenta un carattere monolitico, omogeneo, ma è caratterizzato da un movimento interno che lo trasforma nello stadio successivo. Schematizzando si può dire che Marx, riprendendo echi hegeliani, distingue un primo stadio, quello delle società pre-borghesi, caratterizzato originariamente dall'unità dell'uomo con la natura e con gli altri uomini; un secondo, quello delle società borghesi in cui quell'unità immediata si scinde; e un terzo, ancora inesistente - ma che necessariamente s'attuerà -, in cui quell'unità verrà ricostituita in forma piú ricca e piú complessa, cioè a un grado piú alto, nella società comunista.
Si diceva che Marx non presenta questi momenti come omogenei in sé. Infatti egli distingue, nel primo stadio, tre "forme di produzione" particolari. La prima forma è quella del "comunismo primitivo", in cui l'umanità passa dalla appropriazione diretta dei beni di sussistenza alla appropriazione collettiva, perché l'individuo si identifica con una comunità costituita da una collettività fondata su un vincolo naturale, di sangue (famiglia, poi tribú, poi unione fra tribú), con una comunità non organizzata in stato perché non sussiste divisione del lavoro e quindi non c'è divisione tra le classi. La seconda forma insorge quando nasce l'esigenza dello scambio dei prodotti: essa s'articola in una variante asiatica, che è la piú vicina a quella delle "comunità naturali", in cui la proprietà è ancora comune e la collettività è autosufficiente, in una variante antico- classica (greco-romana) in cui, accanto alla proprietà di stato si presenta la proprietà privata dei mezzi di produzione, a cominciare dalla terra stessa, e in una variante germanica, in cui non c'è una vera società, perché sussistono varie tribú distanziate localmente fra loro, unite dall'accordo tra i loro capi; e in ogni tribú la proprietà è del capo, a cui spetta il compito della divisione del lavoro. La terza forma, quella feudale, è costituita da una società agricola in cui l'unità economica è il feudo guidato da un signore che detiene la proprietà privata della terra e gestisce il potere politico in quanto rappresenta "lo stato", e in cui domina la condizione della servitú della gleba come condizione giuridica ed economica degli addetti al lavoro agricolo-artigianale.
Si verifica cosí all'interno dello stadio pre-feudale un cammino dalla produzione di semplici valori d'uso a quella di valori di scambio; dal rapporto immediato dell'uomo con la natura, o meglio con la terra e con gli attrezzi del lavoro, al rapporto mediato dai detentori della proprietà privata dei mezzi di produzione; dal rapporto immediato e "naturale" del singolo con gli altri uomini, allo smembramento della comunità.
Questo cammino sfocia dunque nel secondo stadio in cui quelle scissioni, anticipate nelle società pre-borghesi, diventano caratteri distintivi della società borghese, anche se raggiungono il loro acme nella società borghese moderna, per essere poi annullate, negate, attraverso la lotta di classe tra proletariato e capitalisti, fino alla instaurazione della società comunista, nel terzo stadio, in cui viene ricostituita l'unità uomo-natura e quella uomo-uomo.
Contemporaneamente ai Grundrisse Marx scrisse, nel 1857, l'Introduzione alla Critica dell'economia politica. In essa Marx assimila gli economisti classici ad Hegel. Essi commettono lo stesso errore: trascendono le condizioni empiriche della produzione, cioè quelle condizioni che fanno sí che la produzione borghese, ad esempio, sia diversa da quella feudale; estrapolano un modello "astratto" di produzione, che contiene quei caratteri comuni sia alla produzione borghese che a quella feudale (produzione come appropriazione della natura attraverso strumenti di lavoro); indicano quel modello come l'essenza della produzione in epoca borghese, dando un "corpo" alla loro astrazione; concludono che la produzione borghese è la produzione, qualcosa di eterno, immutabile, indipendente dall'evoluzione storica, e che le sue leggi sono leggi oggettive, "naturali", universali, immodificabili. Con ciò pongono la produzione e l'uomo che produce fuori della società e fuori della storia. Evidentemente, si deve, per Marx, capovolgere questo metodo, che comporta altre gravi conseguenze e distorsioni. Infatti - è questo l'altro tema di rilievo dell'Introduzione del '57 - gli economisti classici distinguono arbitrariamente la produzione, che produce oggetti adeguati ai bisogni, e che è retta da leggi eterne, dalla distribuzione, che invece è guidata dalle leggi proprie di una specifica società, che sola determina il grado di partecipazione del singolo all'utilizzazione dei prodotti. Quindi per loro la distribuzione, a differenza della produzione, è modificabile, e si modifica effettivamente lungo il corso della storia. Inoltre essi distinguono ancora lo scambio, con cui si attua la redistribuzione dei beni in relazione ai bisogni individuali, e il consumo, che è il momento in cui l'individuo gode effettivamente del bene prodotto. Per gli economisti classici questi quattro elementi della vita economica sono non solo distinti logicamente, ma separati realmente. Ed è qui, secondo Marx, il loro errore. Questa separazione è artificiosa.
E dopo aver criticato analiticamente quella separazione, esponendo dettagliatamente le ragioni per le quali egli la giudica "artificiosa", Marx conclude: il risultato al quale perveniamo non è che produzione, distribuzione, scambio, consumo, siano identici, ma che essi rappresentino i membri di una totalità, differenze di una unità. Una produzione determinata determina quindi un consumo, una distribuzione, uno scambio determinati, nonché i determinati rapporti tra questi diversi momenti.
10. Merce, valore, lavoro
Dopo aver pubblicato, nel 1859, l'opera Per la critica dell'economia politica, Marx, nel 1861, fece un viaggio in Europa, durante il quale incontrò Ferdinand Lassalle (1825-1864), un agitatore socialista che rivendicava suffragio universale, diritti dell'uomo, legislazione diretta, ecc. Ma i rapporti con lui si ruppero appena un anno dopo. Nel 1862-3 Marx compose poi Teorie sul plusvalore, e nel 1864 contribuí alla fondazione dell'"Associazione Internazionale dei lavoratori", di cui redasse gli Statuti. Nel 1866 si dedicò alla stesura del I libro del Capitale; di quest'opera il II e il III libro non videro mai la luce durante l'esistenza del suo autore, e furono pubblicati postumi, rispettivamente nel 1885 e nel 1895, a cura di Engels.
Considerato nel suo insieme Il Capitale è un'opera complessa, riccamente articolata. Ci soffermeremo allora solo su alcuni suoi temi di fondo, premettendo che ogni sua presentazione sintetica non può se non essere "riduttiva".
Marx dà inizio al suo discorso sul "modo capitalistico di produzione" e sui corrispondenti "rapporti di produzione e di scambio" con l'analisi della merce, che, com'egli dice, appare "come la forma elementare" della ricchezza nelle società borghesi.
Quando i membri di un'azienda rustica a dimensione familiare producono beni in relazione ai loro bisogni e destinati quindi ad esser da loro stessi consumati, questi prodotti non sono merci. Essi acquistano invece forma di merce solo quando siano destinati allo scambio con altri prodotti.
Dunque la merce ha in comune con il prodotto di quell'azienda rustica il fatto ch'essa è un valore d'uso, cioè è un "oggetto esterno" che per le sue "proprietà fisiche", ossia per le qualità inerenti al suo stesso "corpo", ha la capacità di soddisfare, quando lo si consuma, "bisogni umani di qualunque specie", siano essi "naturali", o anche "spirituali". Ma ciò che caratterizza un prodotto come merce è il fatto che il suo "corpo" è depositario anche di un altro valore che ne permette la scambiabilità, in determinate quantità, con altre quantità definite di altri prodotti; è depositario cioè di un valore di scambio. Dunque una determinata merce ha insieme un valore d'uso, in relazione alla sua qualità, e un valore di scambio, in relazione alla sua quantità; il primo sussiste rispetto al consumo, il secondo rispetto allo scambio. Ad esempio se un uomo possiede ferro ed ha bisogno di grano, il valore d'uso del ferro non può soddisfare il bisogno di grano; egli può tuttavia scambiare il ferro col grano di un altro. Detto per inciso, lo scambio avviene sempre e necessariamente tra valori d'uso diversi tra loro, cioè tra merci che hanno proprietà specifiche e differenti fra loro (che senso, infatti, avrebbe scambiare grano con grano?). Ma su quale base avviene lo scambio? Non su quella della qualità, ma su quella della quantità; infatti la diversità dei valori d'uso di ferro e grano costituiscono solo la motivazione dello scambio, ma non sono le qualità del ferro e del grano che determinano quanto ferro bisogna cedere per avere una certa quantità di grano. Comunque su questo punto torneremo tra breve. Sta di fatto che due merci sono permutabili solo ponendo tra loro un rapporto quantitativo, che prescinde dalle loro intrinseche qualità; ossia ponendo un rapporto tra i loro valori di scambio. Per avere un quarter di grano, dunque, bisogna cedere mezza tonnellata di ferro, perché a livello di mercato, mezza tonnellata di ferro "vale" quanto un quarter di grano. Detto in altro modo, mezza tonnellata di ferro ha uguale valore (naturalmente, di scambio) di un quarter di grano; o meglio ancora, queste due diverse quantità di merci hanno uguale valore, per cui esse sono equivalenti.
Questo rapporto quantitativo tra merci, tuttavia, "muta in continuazione coi tempi e coi luoghi". Può accadere infatti che in altre circostanze, per avere un quarter di grano, bisogna cedere non piú mezza, ma una tonnellata di ferro. Il che significa che il valore incorporato nella singola merce - in questo caso, nel grano - è relativo e non fisso. Inoltre, il rapporto quantitativo tra merci varia a seconda del tipo di merce. Infatti si può scambiare mezza tonnellata di ferro con dieci libbre di thè; ma con la stessa quantità di ferro si possono ottenere ben quaranta libbre di caffe.
In ogni caso, è caratteristica del mercato che una stessa quantità di merce può essere scambiata con determinate quantità - diverse da caso a caso - di qualsiasi altra merce. Cioè, ad esempio, in un determinato tempo e in un determinato luogo, si può permutare mezza tonnellata di ferro, oltre che con dieci libbre di thè, anche con un abito o con due once d'oro, o con venti braccia di tela, e cosí via. Il che allora significa che ognuna di queste merci, nelle quantità indicate, è scambiabile con una qualsiasi altra; infatti, in quanto valori di scambio, si possono sostituire l'una all'altra, perché la grandezza dei loro valori è identica.
Ma perché in determinate circostanze di tempo e di luogo, una certa quantità x di grano è scambiabile con una certa quantità y di ferro, e la quantità y di ferro è permutabile con la quantità z di oro? Che cosa hanno in comune queste tre quantità di merci per cui esse hanno uguale valore e quindi sono scambiabili? Ovvero, in altri termini, che cosa determina il loro valore di scambio, per il quale x grano "vale" y ferro? Marx risponde: la stessa quantità di lavoro impiegato per produrle e in esse cristallizzato. Qui evidentemente non si tratta di lavoro determinato, ad esempio quello del sarto o del contadino, o del minatore, o del fabbro. Come il valore di scambio delle merci non è determinato dalle sue intrinseche qualità, cosí non è determinato dalla qualità o dal tipo di lavoro. Una merce, in quanto valore di scambio, è permutabile con un'altra merce perché entrambe incorporano, nelle rispettive quantità, uguale lavoro indistinto, lavoro inteso semplicemente come dispendio di energia, lavoro in quanto tale, lavoro astratto.
Dunque la grandezza di valore di una merce è determinata dalla quantità di lavoro astratto in essa materializzato. Per misurare la grandezza di valore bisogna allora misurare la quantità di lavoro. Come? Misurando, dice Marx, il tempo di lavoro impiegato per produrre quella merce, attraverso determinate frazioni di tempo, come l'ora, il giorno, ecc Sicché si può dire: a) "tutte le merci, come valori, sono solo misure determinate di tempo di lavoro congelato", b) l'equivalenza delle merci - cioè l'uguaglianza del loro valore - è data dall'uguaglianza del tempo di lavoro astratto impiegato nel produrle.
E non vale, osserva Marx, l'obiezione che allora la singola merce prodotta da un operaio piú lento o piú pigro ha maggiore valore della stessa merce prodotta da un lavoratore piú svelto o piú solerte. Il valore di scambio è determinato dalla quantità di lavoro astratto, astratto anche dal tempo particolare impiegato dal singolo operaio; ossia è dato dalla quantità di lavoro socialmente necessario per produrre quella merce; o, in altri termini, dal tempo medio che occorre ad un operaio di media abilità per produrla nelle normali condizioni ambientali, sociali e produttive; cioè dal tempo medio impiegato relativamente al grado di sviluppo tecnologico dell'attività produttiva, alla efficacia dei mezzi di produzione, alle abituali condizioni naturali del luogo in cui si produce, e al livello di organizzazione della società in cui il lavoro viene effettuato.
Ma perché possa aver luogo effettivamente lo scambio, bisogna ch'esso avvenga attraverso la moneta. Infatti, com'è possibile ottenere, ad esempio, cinque libbre di thè se il suo valore di scambio è solo una parte del valore dell'abito che io posso cedere per ottenere quello di cui io ho bisogno? Per superare inconvenienti di tal genere, l'attività di mercato, nelle condizioni evolute, avviene, appunto, attraverso la moneta. Che cos'è la moneta? Sappiamo che è possibile stabilire l'equivalenza tra valori di scambio di merci diverse. Dunque si può assumere anche una di quelle merci come equivalente universale di tutte le altre merci, e come misura per determinare la grandezza dei valori di scambio di tutte le altre merci. Questa merce particolare allora svolgerà il ruolo di moneta; ma deve avere dei requisiti specifici perché possa compiere tale funzione; cioè, ad esempio, deve avere molto valore in piccolo corpo, dev'essere divisibile anche in quantità piccolissime, ecc. Storicamente si sono affermati come moneta i metalli preziosi: in particolare l'oro. Dunque, l'oro è, insieme, una merce particolare, col suo valore d'uso e il suo valore di scambio (in quanto incorpora pur sempre forza-lavoro per produrlo), ed è una merce universale, che rappresenta la "forma comune" di valore di tutte le merci; e, d'altra parte, tutte le merci, nelle loro definite quantità, rappresentano nello scambio una determinata quantità d'oro. Sia oro o argento, in ogni caso la moneta è merce. E reciprocamente, ogni merce è moneta; o meglio, a livello di mercato, assume forma di moneta. Quindi la moneta è l'equivalente universale delle merci, e le merci sono gli equivalenti particolari della moneta.
11. Plus-lavoro e plus-valore
Che cosa avviene, allora, nello scambio? Una metamorfosi della merce. Seguiamo, dice Marx, un tessitore di lino sul teatro del processo di scambio, cioè nel mercato delle merci; egli possiede venti braccia di tela che valgono due sterline; le vende e ottiene le sue due sterline; ma, da uomo di vecchio stampo, permuta di nuovo le due sterline, acquistando una Bibbia di ugual prezzo. Dunque la tela, la sua merce, "depositaria di valore", viene ceduta in cambio delle due sterline d'oro, che sono la "figura di valore" della tela; poi cede questa "figura di valore" in cambio di una Bibbia che viene acquistata dal tessitore per soddisfare i bisogni di elevazione spirituale della sua famiglia. Dunque, osserva Marx, in questo processo si sono verificate "due metamorfosi" opposte che si integrano a vicenda: trasformazione della merce in denaro, e ritrasformazione del denaro in merce. La formula è M-D-M, dove M-D rappresenta la vendita e D-M rappresenta l'acquisto. Lo scambio delle merci, secondo questa formula, è sintetizzabile, nella sua totalità, con l'espressione: "vendere per acquistare". In esso il valore iniziale (venti braccia di tela = M) è uguale al valore finale (Bibbia = M); solo che la merce acquistata (Bibbia) ha diversa utilità rispetto a quella venduta; detto in modo diverso, alla fine del processo, il tessitore, cioè, ha una merce di ugual valore di scambio, ma di diverso valore d'uso.
Contestualmente alla circolazione delle merci si verifica anche la circolazione del denaro, la cui formula è D-M-D; anche qui c'è l'acquisto (D-M) e la vendita (M-D), solo che ora l'acquisto precede la vendita; il processo tutt'intero è pertanto sintetizzabile con l'espressione "acquistare per vendere". Lo scopo di questa doppia trasformazione, ora, è non, come nel caso precedente, un valore d uso, ma il denaro; infatti il denaro iniziale si trasforma in merce, con l'acquisto, per ritrasformarsi in denaro, con la vendita.
Ma mentre colui che possiede merce la vende per acquistare un oggetto d'uso di uguale valore (M = M), colui che possiede denaro compirebbe azione insensata se comprasse merce che, venduta, gli procurerebbe la stessa quantità di denaro (D = D). Perché la circolazione del denaro costituisca un affare, il denaro acquisito alla fine del processo deve essere maggiore di quello detenuto al suo inizio. Dunque, dice Marx, "la forma compiuta di questo processo è perciò D-M-D', in cui D' = D +[[Delta]]D"; dove [[Delta]]D rappresenta un "incremento", "un'eccedenza" rispetto al valore iniziale, cioè un plus-valore. Sicché "il valore originariamente anticipato" non solo si mantiene nella circolazione, ma in essa aumenta pure la sua grandezza di valore, aggiunge un plus-valore, cioè si valorizza. E questo movimento lo trasforma in capitale. È evidente che colui che investe il suo denaro, mettendolo a rischio, non mira semplicemente ad avere maggiore quantità di denaro con cui acquistare un valore d'uso; egli mira piuttosto a reinvestire il capitale perché produca un maggiore e ulteriore plus-valore: il movimento "acquistare per vendere", dice Marx, è un "movimento senza fine". Il possessore di 100 lire sterline acquista cotone che, venduto, gli procura 100 + 10 lire sterline; egli reinvestirà questo capitale di 110 lire sterline, acquistando magari ancora cotone, perché gli produca 110 + 15 sterline. E cosí via. Lo scopo del denaro come capitale è infatti quello di crescere infinitamente su se stesso, quello di valorizzarsi continuamente; è "acquistare per vendere" indefinitamente. Ma, nota Marx, il movimento D-M-D' "sembra essere la forma propria soltanto di una specie di capitale, del capitale commerciale". In realtà, egli fa notare, "pure il capitale industriale è denaro che si trasforma in merce e che, a seguito della vendita di quest'ultima, si riconverte in maggior denaro". Dunque - egli conclude - "in pratica D-M-D' è la formula generale del capitale". Donde nasce allora il plus-valore nella produzione industriale? Con una parte del suo denaro il capitalista acquista materie prime e strumenti di produzione (fattori oggettivi della produzione) in cui il suo denaro sta come capitale costante, perché esso non s'accresce in valore nel processo produttivo; con l'altra acquista forza-lavoro (fattore soggettivo della produzione), che rappresenta il suo capitale variabile, in quanto è proprio questo l'elemento che nell'attività produttiva produce eccedenza di valore: infatti nella merce ch'esso produce, riproduce se stesso e, in piú, dà plus-valore. Ma come?
Poniamo che nelle condizioni medie di produzione la forza-lavoro di un operaio può essere impiegata per dodici ore giornaliere; il capitalista l'acquista per il suo valore d'uso, cioè per utilizzarla tutta. Tuttavia la paga secondo il suo valore di scambio; questo corrisponde a sei ore di lavoro: infatti basta il salario percepito per sei ore di lavoro perché l'operaio acquisti quei mezzi di sussistenza che gli consentono di riprodurre la sua energia lavorativa. Dunque il capitalista corrisponde il salario per sei ore. Le altre sei ore lavorate dall'operaio, e per le quali egli non percepisce salario, costituiscono per lui un plus-lavoro, e per il capitalista la fonte del plus-valore. Infatti, la merce prodotta in un giorno dall'operaio conterrà incorporato in sé - oltre al valore della materia prima e a quello corrispondente al consumo dei mezzi di produzione - il valore delle prime sei ore di lavoro, regolarmente retribuite, e un plus-valore corrispondente alle altre sei ore non retribuite. Quindi il capitale s'è accresciuto, perché quando la merce sarà venduta, il capitalista avrà recuperato il capitale investito, e si troverà in tasca il plus-valore, che, rileva Marx, è il frutto dello sfruttamento dell'operaio.
Il capitale industriale, come quello commerciale, ha però esigenza di crescere ancora; il capitalista induce perciò il lavoratore a produrre ulteriore plus-valore. Come? Dilatando la giornata lavorativa, ad esempio, fino a quattordici ore; e - per dir cosí - ciò è nel suo "diritto", perché ha acquistato la forza-lavoro giornaliera dell'operaio. Ricaverà in tal caso altro plus-valore corrispondente alle altre due ore di plus-lavoro. Ma tale dilatazione ha un limite che, per quanto variabile, è invalicabile; cioè oltre un certo numero t di ore di lavoro, la forza-lavoro diventa scarsamente produttiva e, inoltre, l'operaio, nel tempo di riposo, non riesce a riprodurre l'energia lavorativa per il giorno seguente. Sembrerebbe allora che giunti a quel limite, non sia possibile ricavare altro plus-valore. Ma osserva Marx - non è possibile ricavare piú plus-valore assoluto. Ma il capitalista s'industria d'ottenere plus-valore relativo. Egli cioè fa in modo da retribuire il lavoro dell'operaio non per sei ore ma per cinque. Ma non semplicemente con una riduzione arbitraria del salario, che sarebbe un cattivo affare per il capitalista, in quanto un salario piú basso non permetterebbe all'operaio di reintegrare completamente quella forza-lavoro che egli deve impiegare il giorno seguente. Bisogna, insomma, che il salario minore sia sempre equivalente al valore di scambio della forza-lavoro; allora bisogna fare in modo da diminuire quel valore di scambio; cioè bisogna che alla forza-lavoro basti il salario di cinque ore di lavoro perché si riproduca; ciò è ottenibile diminuendo i prezzi dei mezzi di sussistenza. Sicché la diminuzione del prezzo delle merci legittima quella del tempo necessario di lavoro perché la forza-lavoro si riproduca; e la riduzione di tale tempo necessario legittima la diminuzione del salario. Pertanto il valore di quell'ora di lavoro non piú "necessaria" all'operaio è ulteriore plus-lavoro che frutta al capitalista il plus-valore relativo. In tal modo risulta ingrandito il saggio del plus-valore, cioè il rapporto tra plus-valore e capitale variabile, che poi altro non è che il rapporto tra plus-lavoro e lavoro necessario (altra cosa è il saggio di profitto, che, invece, è il rapporto tra il plus-valore e l'intero capitale investito).
Ma com'è possibile abbassare il prezzo delle merci? Aumentando la produttività e quindi la produzione. Ad esempio, introducendo strumenti di lavorazione piú efficaci, perché piú differenziati e piú specialistici. Sicché con strumenti piú adatti e adeguati alle diverse fasi della lavorazione, lo stesso lavoratore, nello stesso tempo di lavoro, produce una quantità maggiore di merce (è piú produttivo). Poiché la quantità maggiore di merci prodotta in un solo giorno ha un costo di produzione uguale a quello che precedentemente aveva una quantità minore di merci lavorate con i vecchi arnesi, allora ogni singola unità di merce avrà costo di produzione minore; pertanto è possibile abbassarne il prezzo; cosí il "costo della vita" sarà inferiore per l'operaio, e ciò consentirà al capitalista la riduzione del suo salario e l'appropriazione del plus-valore relativo.
12. La divisione del lavoro e la grande industria
Ma l'esigenza del capitalista è quella di produrre ancora plus-valore. Bisogna incrementare ancora la produttività. Egli allora organizza in modo nuovo il lavoro dei suoi operai, introducendo la cooperazione, con cui la produzione capitalistica - nota Marx - entra nella sua fase matura. Con essa nasce la manifattura, cioè un organismo produttivo in cui ogni singolo operaio è addetto ad una singola fase dell'intero ciclo produttivo della merce. La manifattura nasce unificando e coordinando nello stesso luogo il lavoro che prima diversi operai compivano, secondo il loro mestiere artigianale, in modo separato e indipendente, oppure dividendo in momenti distinti l'unico processo di lavorazione effettuato, prima. da ogni singolo operaio. Nella manifattura, dunque, domina la divisione del lavoro; ogni lavoratore compie un'operazione elementare; tecnicamente semplice, e solo quella. Però la cooperazione moltiplica la forza produttiva dei singoli operai; infatti, ad esempio, tempi di produzione di una merce vengono depurati da tutti gl'intervalli improduttivi, necessari quando l'intero processo lavorativo era compiuto da un singolo operaio; pertanto la forza-lavoro viene utilizzata in modo piú intensivo. Ciò consente, evidentemente, di generare altro margine di plus-lavoro e quindi nuovo plus-valore relativo. Infatti alla fine della giornata il capitalista troverà prodotte, col lavoro cooperativo, piú merci di quante ne otteneva prima senza cooperazione, con lo stesso numero di lavoratori; il che significa che la cooperazione ha potenziato la singola forza-lavoro, ch'è divenuta piú produttiva; tuttavia egli non retribuisce quella forza-lavoro in modo adeguato alla sua capacità produttiva incrementata attraverso la cooperazione; il che vuol dire che la merce ha inferiore costo di produzione perché essa incorpora maggiore plus-lavoro. Sicché il capitalista mette sul mercato le merci a prezzo inferiore, legittimando cosí la riduzione del tempo necessario di lavoro e quindi quella del salario; operazione con cui egli intasca ulteriore plus-valore relativo.
Marx si sofferma sulle condizioni di lavoro degli operai nella manifattura. Essi devono eseguire un lavoro piú intenso, soggetto a controllo rigoroso, per evitare pause improduttive; inoltre il loro lavoro è semplice, ripetitivo, per nulla inventivo, e quindi poco soddisfacente. Peraltro, con la divisione del lavoro, non viene diviso solo il ciclo produttivo, ma anche il lavoratore stesso, il quale deve scindere in sé la limitata abilità richiestagli da tutto il resto della sua umanità, cioè dalle sue antiche competenze, dalle sue disposizioni naturali, dalla sua intelligenza, dalla sua immaginazione; col che egli, degradato nella sua personalità, finisce col dipendere sempre piú strettamente dai voleri e dagli obiettivi del capitalista.
Ma l'avanzata del capitale procede ancora oltre. Bisogna generare ulteriore plus-valore aumentando ancora la produttività. Sicché L'industri; la manifattura si trasforma in industria meccanizzata con l'introduzione, nel ciclo di lavorazione, delle macchine, che sostituiscono sempre piú il dispendio di energia fisica e i vecchi arnesi di lavoro. Con esse aumenta notevolmente la quantità di merce prodotta nello stesso tempo con lo stesso numero di operai; perciò le merci saranno poste sul mercato a prezzo ancora inferiore. Ma il lavoratore subisce un'ulteriore degradazione; egli è solo un mezzo per far funzionare le macchine: è un loro servo; svalorizza la sua forza-lavoro fino all'estremo limite; anche il suo salario raggiunge i limiti minimi, mentre è massimo il plus-lavoro ed è massimo quindi il plus-valore. Anche le operazioni da svolgere sono ridotte ad estrema semplicità, il che, unito al livello minimo dei salari, genera l'immissione, nel processo di produzione, anche della forza-lavoro delle donne e dei bambini, in concorrenza con quella degli uomini Infatti il salario percepito precedentemente dal capo famiglia, che prima copriva l'esigenza dell'intera famiglia, ora, ridotto al minimo, non basta piú; richiede d'essere integrato da quello degli altri membri della stessa famiglia. Cosí si allarga il numero dei lavoratori e con ciò s allarga lo sfruttamento del lavoro, s'incrementa ulteriormente il plusvalore, e si amplia e s'intensifica il dominio sociale del capitale.
Inoltre la logica dell'uso capitalistico delle macchine, che è quella di rendere piú produttiva la stessa quantità di forza-lavoro, comporta la progressiva intensificazione del lavoro sia mediante l'aumento della velocità dei macchinari, sia mediante l'ampliamento del volume del macchinario posto sotto il controllo del singolo operaio. Sicché si configura un rapporto inevitabilmente conflittuale fra lavoratore e macchina, che è forma particolare del conflitto tra lavoratore e capitale.
In ogni caso, con le macchine, l'attività produttiva giunge al suo acme. Peraltro non convivono piú industrie e manifatture, perché i prezzi delle merci manifatturiere non possono esser competitivi con quelli delle merci industriali. Sembra, questa, una condizione paradisiaca per il capitalista. Ma in realtà il perseguimento del profitto genera un regime di concorrenza tra capitalisti per conquistare i mercati, inondati ormai di merci. Per fronteggiare questa concorrenza si impone il rinnovamento tecnologico delle macchine; il che comporta una perdita temporanea per il capitalista che sostituisce il vecchio macchinario senza averlo utilizzato per tutto il tempo possibile. Inoltre l'acquisto di nuovo macchinario piú efficace, cioè capace di sostituire il piú possibile la forza-lavoro umana muta la composizione organica del capitale investito; infatti il capitale costante aumenta, quello variabile diminuisce; e poiché quello variabile produce immediatamente plusvalore, la sua riduzione provoca la caduta temporanea del livello del profitto. E poiché è necessità insita al regime capitalistico aumentare di continuo il capitale costante rispetto a quello variabile, Marx parla di una caduta tendenziale del saggio di profitto, cioè del rapporto tra plusvalore e tutto il capitale investito. Tuttavia il capitalista recupera presto questo svantaggio, facendo emigrare i propri capitali in zone ove i saggi di profitto sono piú vantaggiosi e, soprattutto, intensificando, proprio attraverso i nuovi macchinari, lo sfruttamento del lavoro del numero, ridotto forzosamente, degli operai occupati.
Con l'incremento della produttività, aumenta la produzione globale di tutte le merci, che ormai saturano i mercati; i loro prezzi sono al minimo, ma non ci sono piú compratori; si è giunti cioè ad una fase in cui l'anarchia della produzione ha prodotto la crisi di sovrapproduzione, che comporta la necessità di operare una drastica riduzione del numero dei lavoratori attivi, perché si diminuisca la quantità di merci prodotte. Il capitale sembra in crisi, ma non muore; anzi esso risorge piú forte in virtú della stessa crisi. L'alternarsi di fasi critiche con fasi di ripresa - le fluttuazioni cicliche - è una costante dell'assetto capitalistico industriale. Nel regime di concorrenza le industrie piú deboli chiudono i battenti o falliscono; il loro capitale viene fagocitato da quello piú solido, che quindi, proprio con la crisi, si irrobustisce e giunge a un livello maggiore di prosperità. Insomma si verifica un processo caratterizzato dalla progressiva concentrazione dei capitali (e del loro potere sociale) attraverso la progressiva concentrazione delle imprese (le piú deboli infatti vengono acquisite dalle piú forti), le quali diminuiscono di numero, ma si estendono in grandezza; il che favorisce l'incremento della loro capacità produttiva e quindi assicura la produzione di ulteriore plusvalore. Contestualmente, in virtú dell'adeguamento tecnologico delle macchine, e per far fronte alla caduta del saggio di profitto, di cui già abbiamo parlato, s'allarga l'area dell'esercito industriale di riserva, cioè il numero dei lavoratori disoccupati a cui i capitalisti possono attingere forza-lavoro nel momento della ripresa produttiva; è un esercito che cresce sempre piú nella misura in cui, nella fase di incremento produttivo, i capitalisti introducono macchine piú perfezionate che sostituiscono sempre piú il lavoro muscolare dei lavoratori. Questo esercito svolge un doppio ruolo: nei momenti di crescita economica, in cui c'è maggior bisogno di forza-lavoro, con la concorrenza ch'esso esercita rispetto ai lavoratori occupati, ne frena l'ascesa salariale; nei momenti di stagnazione economica, la stessa concorrenza ch'esso esercita ne frena le rivendicazioni. Quindi anche quando i salari dei lavoratori occupati son piú alti in senso assoluto (ma in realtà son cresciuti in modo piú contenuto rispetto al plusvalore prodotto), non si ferma il fenomeno della miseria crescente della società; quanto piú l'industria si attrezza per l'incremento produttivo, con l'introduzione di nuove macchine, tanto piú si diffonde la miseria nella società; e non solo nel senso che aumenta il numero dei disoccupati, ma anche in quello che i salari, per quanto incrementati, non corrispondono all'aumento del "costo della vita" determinato, nelle fasi crescenti dell'attività economica, dall'innalzamento dei prezzi delle merci, divenute piú scarse sul mercato, per la riduzione produttiva conseguente alla crisi di sovrapproduzione. A questo punto non seguiremo piú il discorso di Marx. Ricorderemo solo che la miseria crescente della classe operaia porta alla polarizzazione della società in due classi antagoniste; per cui si acuiscono le contraddizioni della società borghese finché non si verifica l'espropriazione degli espropriatori, che non è un ideale etico delle masse, ma il risultato oggettivamente necessario dello sviluppo interno della società capitalista.
13. La collaborazione con Engels
Dopo il 1866 Marx, oltre a redigere scritti "minori", tra i quali è da segnalare La guerra civile in Francia - in cui analizza l'esperienza della Comune di Parigi -, fu impegnato a fronteggiare l'opposizione che nell'Internazionale gli veniva mossa contro dall'anarchico Bakunin; opposizione che divenne cosí accentuata che Marx, col trasferimento della sede dell'Associazione a New York, ne decretò lo scioglimento di fatto. Contro Bakunin tuttavia compose gli Appunti sul libro di Bakunin "Stato e anarchia", in cui svolse in modo agile un'aspra critica delle tesi dell'anarchico. E quando, poi, fu indetto un congresso per sancire l'unificazione dei "lassalliani" con il movimento capeggiato da Bebel e Liebknecht, egli pubblicò la Critica al programma di Gotha, in cui appunto criticava il programma sulla base del quale doveva avvenire quell'unificazione. Infine, nel 1883, all'età di 65 anni, chiuse la sua feconda esistenza terrena.
Nella Critica al programma di Gotha Marx parla della "società dell'avvenire". Invero già nel 18 brumaio egli aveva indicato come fine della lotta di classe non già l'appropriazione dello Stato borghese, bensí la distruzione delle sue interne articolazioni; questo però era per lui un fine di "lungo termine", perché egli prevedeva tempi lunghi di lotta, in cui il passaggio alla meta finale della società comunista doveva compiersi attraverso la dittatura del proletariato sulla borghesia e l'attuazione del socialismo, che dovevano depurare la mente degli uomini dalla convinzione della ineluttabilità della proprietà privata, del privilegio, del parlamentarismo e cosí via.
Ma quale organizzazione avrebbe avuto la società comunista? Marx è restio a "prescrivere ricette per l'osteria dell'avvenire", per non cadere nella prospettiva utopistica. Le indicazioni che egli offre sono quindi indicazioni di massima. La società futura sarà senza classi, senza divisione del lavoro, e quindi senza sfruttamento dell'uomo sull'uomo; e senza stato, perché l'organizzazione statale ha senso solo quando è espressione del dominio di una classe sull'altra, e non lo ha quando sono scomparse le classi. Si tratta dunque di una società in cui vige l'uguaglianza reale tra gli uomini. Dice Marx, nella Critica al programma di Gotha:
In una fase piú elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico, dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l'angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni.
(Critica al programma di Gotha)
Collaboratore di Marx, Friedrich Engels (1820-1895), oltre a vari saggi giovanili, pubblicò, nel 1878, l'Antidühring, contro appunto il positivista tedesco KARL EUGEN DÜHRING (1833-1921), fautore di un "socialismo personalistico", di un socialismo cioè in cui il capitale e la proprietà privata dovevano armonizzarsi con i diritti della persona umana. Quindi redasse L'origine della famiglia della proprietà privata e dello stato, in cui erano esposti i lineamenti di una concezione materialistica della storia sulla base delle riflessioni maturate nello studio del saggio La società antica, pubblicato dall'americano Lewis Henry Morgan. Poi scrisse Feuerbach e la fine della filosofia classica tedesca. Ma solo dopo la sua morte fu pubblicata, nel 1925, la sua opera Dialettica della natura, che gli studiosi che vogliono sottolineare la diversità e l'autonomia del discorso engelsiano rispetto a quello marxiano giudicano l'opera maggiore. Egli rilevò che la storia della natura mostrava una sua interna trasformazione dialettica, che avveniva attraverso tre leggi fondamentali: a) conversione della quantità in qualità, e viceversa; b) compenetrazione reciproca degli opposti; c) negazione della negazione.
Certamente il discorso engelsiano sulla dialettica della natura rappresentava per lui un completamento "filosofico" della teoria di Marx. Forse è anche vero che Engels concepí "naturalisticamente" la trasformazione storica dell'uomo e il passaggio alla società comunista. Resta però il fatto che tra Marx ed Engels ci fu - al di là delle differenze di personalità, di interessi, ecc. - una piena identità di vedute, se, ad esempio, a proposito del Manifesto, WILHELM LIEBKNECHT (1826-1900), domandandosi "quale parte si deve attribuire a Engels e quale a Marx" risponde: "Questione oziosa! Esso è di un solo getto. Marx ed Engels sono un solo spirito, inseparabili... in tutta la loro attività". Tra i due infatti vi fu una collaborazione che maturò e si prolungò per quarant'anni circa, un'ammirazione reciproca, un clima di sincera amicizia (che portò Engels ad aiutare anche economicamente Marx in vari momenti critici), e una solidarietà nella comune militanza politica. Essi avevano comuni presupposti culturali, come l'iniziale entusiasmo per i "giovani hegeliani" e il distacco dall'hegelismo sotto l'influsso del pensiero di Feuerbach.
Sulla loro unitarietà di vedute dà testimonianza lo stesso Engels quando, nella prefazione all'opera di Marx Rivelazioni sul processo dei Comunisti in Colonia, ricordando l'esperienza da lui stesso fatta nell'ambiente operaio di Manchester, dice:
ho toccato con mano che i fatti economici ... sono nel mondo attuale una potenza storica decisiva; che essi sono il fondamento degli attuali contrasti di classe nei paesi in cui, grazie alla grande industria, si sono sviluppati completamente, come ad esempio in Inghilterra; sono la base della formazione dei partiti, delle lotte dei partiti, e con ciò di tutta la storia economica. Marx era giunto alle stesse conclusioni... Allorché nell'estate del 1844 io lo visitai a Parigi, ci accorgemmo della nostra piú completa concordanza in tutti i punti teorici, e da quel momento data il nostro comune lavoro.
(Rivelazioni sul processo dei Comunisti in Colonia)
Un comune lavoro che sfociò, da una parte, nella comune redazione del Manifesto, nella collaborazione, in fase di preparazione, a La sacra famiglia, e nella cooperazione alla stesura del Capitale, e, dall'altra, nell'apporto marxiano alla composizione dell'Antidühring.