Elementi di confronto tra Søren Kierkegaard e Blaise Pascal
di Barbara Fontana
Nella nostra Società della morte non si può parlare, morte è diventata una parola ostracizzata, tabù che di solito si evita scivolando in parafrasi del tipo “è venuto a mancare” “ci ha lasciati” “la dipartita del caro…”.[1]
Søren Kierkegaard scorge nel pensiero della morte la condizione che è in grado di risvegliare l’uomo dal suo torpore spirituale quotidiano: non è tanto la morte in sé stessa a suscitare una seria consapevolezza della nostra vita e del tempo che ci è stato in essa affidato quanto piuttosto il pensiero della morte che diventa angoscia e che funge come spinta di tutta la nostra esistenza. È forse opportuno vedere in questa morte che dà la vita il segno del paradosso, segno che non deve essere visto in negativo, non deve solo essere il simbolo di una contrapposizione ma deve assolutamente recare in sé il germe della speranza; il paradosso non va cioè considerato come posizione inconciliabile, in una accezione che per secoli è stata sentita come negativa, ma piuttosto come compendio dell’esistenza stessa[2].
Occorre qui una precisazione. Per quel che riguarda la lunga tradizione del paradosso basti pensare a Socrate. Per il filosofo greco a fondamento della virtù vi era la conoscenza essendo assolutamente evidente che gli uomini non possono – se lo conoscono – non aderire al Bene. Ma a Socrate tocca così l’onore di definire che cosa è l’intellettualismo: la illimitata fiducia nella ragione che implica parimenti l’annullamento della volontà umana. Ecco che, nel solco della etica greca, passando per Platone, Aristotele etc., viene disconosciuto il concetto del peccato che altro non è che la libera scelta fatta dall’uomo tra Bene e Male. Il rilievo di tale argomentazione è ben messo in evidenza da Giovanni Reale che scrive : “…l’etica greca […] se comparata all’etica connessa con il messaggio cristiano, risulta, nel suo complesso, intellettualistica. E non solo Socrate, con l’unilaterale sua scoperta, ma nemmeno i filosofi successivi sapranno rendere conto fino in fondo di quella drammatica esperienza umana che è il <peccato>, ossia il <male morale>; essi tenderanno sempre, sia pure in diversa misura, a ridurre il peccato ed il male morale a un errore della ragione o comunque a spiegarlo prevalentemente in tal senso. […] Kierkegaard, nell’opera La malattia mortale si domanda “…Se il peccato è ignorare che cosa è giusto, e fare quindi quello che non lo è, allora il peccato non esiste […] Qual è allora la determinazione che manca a Socrate per definire il peccato? Eccola: la volontà, l’ostinazione. […] Ciò che manca a Socrate è una determinazione dialettica circa il passaggio dal comprendere al fare. È in questo passaggio che comincia il Cristianesimo; e procedendo per questa via arriva a dimostrare che il peccato sta nella volontà[…]. L’uomo non fa il bene solo perché non è stato in grado di comprenderlo oppure perché non ha voluto essere in grado di comprenderlo?”[3]
Il peccato, dunque, esiste ed anzi esso in quanto frutto di libertà entra in gioco nel determinare lo stesso senso dell’esistenza umana. Dinanzi a Dio, nell’esistenza fatta di scelte e di aut-aut, l’uomo ci sta da peccatore. Mentre sceglie l’individuo si forma ma egli ha coscienza della libertà solo nell’angoscia del peccato. “L’esistenza, nella sua contraddittorietà, acquista tutto il suo senso sul piano religioso a partire dalla condizione esistenziale dell’angoscia quale presupposto, conseguenza ed essenza del peccato”[4].
È solo di fronte alla morte che si fa esperienza di Dio, che si vive sia l’eternità che l’istante, che si ha facoltà di operare la scelta, di aderire al divino, di far si che il singolo, l’individuo possa veramente e concretamente fare irruzione nel tempo dove il finito comprende l’infinito: evento, questo, che la ragione non potrà mai comprendere.
Anche nella vita (se pur breve) di un altro filosofo si abbracciano e si respirano analoghe problematiche: Blaise Pascal (1623 – 1662) incentra la sua ricerca filosofica su una concezione della visione umana che vede nell’Uomo, essere pensante che riflette la sua propria condizione, un soggetto allo stesso modo degno di amore e di disprezzo, un nodo di contraddizioni che è inerme ed impotente nella sua infinita piccolezza ma con la sua vicenda umana per quanto tragica, flebile e minuscola di fronte allo scorrere del tempo, alla eternità, ha la capacità di risollevarsi dal suo stato di miseria.
Pascal si pone al di fuori della filosofia dominante del suo tempo, così come anche si può dire per Kierkegaard, in quanto vive ed opera in un secolo dove vince il razionalismo (basti pensare che il Discorso sul metodo di Cartesio è pubblicato nel 1637) eppure la domanda fondamentale che si pone Pascal è – appunto - l’interrogativo sul senso della vita umana tanto che lo porterà a scrivere “Tutto quello che so è che debbo morire; ma quel che ignoro di più è, appunto, questa stessa morte, che non posso evitare”[5].
Sta proprio in questo la contraddizione e la problematicità del paradosso umano, nella sua infinita piccolezza l’Uomo possiede una infinita grandezza: di fronte al tempo che ci inghiotte, attimo dopo attimo in una fornace perenne, l’Uomo ha l’opportunità – inestimabile – di risollevarsi in virtù della dignità del suo spirito.
Di religione giansenista, geniale matematico, scienziato ed inventore, Blaise Pascal - vissuto una generazione dopo Cartesio, la cui filosofia aveva una radice meccanicista - si dedicò non alla dimostrazione della esistenza di Dio (come motore immobile), sulla quale molti filosofi si sono accaniti, ma piuttosto alla ricerca di Dio inteso come complemento (e completamento) della vita umana, come passione a cui tendere in quello sforzo del singolo che dall’immanente vuole giungere al trascendente.
Dunque non è tanto la “dimostrazione” della esistenza di Dio ma piuttosto il “pensiero di Dio” ad interessare la speculazione pascaliana.
Alla morte di Pascal fu possibile scoprire uno scritto che egli portava cucito addosso e che è il Memorial dove Pascal stesso chiarisce quale sia il suo Dio: “il Dio d’Abramo, d’Isacco, di Giacobbe non dei filosofi o degli scienziati”.
Analogamente a Søren Kierkegaard non è possibile capire il percorso filosofico del pensatore francese senza tenere conto delle vicissitudini personali.
La vita di Blaise Pascal, che morì all’età di 39 anni, certamente non meno tormentata ed intrisa di sofferenza al pari di quella di Søren Kierkegaard, ha portato il filosofo francese ad una generale riflessione sulla condizione umana che è essenzialmente una condizione di assoluta solitudine e di angoscia. Angoscia questa che, per essere delimitata, almeno apparentemente, ha bisogno del “divertessement” ossia del divertimento inteso, questo, nel senso etimologico del termine cioè allontanare, dal latino devertere. Pascal però mette in guardia da questa facile soluzione, l’uomo infatti per allontanare da sé questa idea di solitudine, di finitezza deve fare piuttosto leva su quella “scintilla di Dio” che è in ognuno di noi, deve avere il coraggio di “scommettere”, di credere all’assurdo direbbe Kierkegaard.
Si potrebbe azzardare che l’Uomo in generale non è però in grado di andare oltre il divertessement, di compiere quel salto “mortale” che lo conduce a Dio, rimane a quello stadio che S. Kierkegaard ha definito dell’Uomo Estetico.
Pascal è antesignano dell’esistenzialismo, cioè di quella corrente filosofica che si incentra sull’esistenza percepita come non indagabile dalla ragione. Affermerà Pascal: “L’ultimo progresso della ragione è di riconoscere che c’è una infinità di cose che la sorpassano; essa non è che debole cosa, se non giunge fino a conoscere questo. Ma, se le cose naturali la sorpassano, che dire di quelle soprannaturali?”.[6]
Il Cristo della fede e quello dei filosofi sono inconciliabili poiché essendo la fede un dono è richiesta una scelta non di tipo razionale bensì esistenziale.
Pascal pone accanto alla ragione cartesiana ed al suo razionalismo un particolare tipo di conoscenza umana che è lo spirito di finezza. Per Pascal accanto alla razionalità geometrica[7], che presuppone la piena visibilità degli oggetti intellettuali ai quali si riferisce e l’applicazione di argomentazioni analitiche, opera una razionalità sintetica che rivolge la sua attenzione non agli oggetti astratti della matematica ma ai principi e fenomeni che sono di uso comune e sa coglierli nella loro complessità interpellando gli strumenti “della visione di insieme”, dell’intuizione e del sentimento partecipativo. Nei Pensieri leggiamo a proposito dei “Principi delle cose di finezza: Bisogna cogliere la cosa di primo acchito e d’un solo sguardo, non per progresso di ragionamento, almeno sino ad un certo punto”[8]. L’indagine umana, dunque, non comprende solo i temi del sapere meccanicistico dell’epoca ma si estende fino ad inglobare i temi più nettamente esistenziali spesso considerati marginali. Tale estensione comporta l’abbandono delle pretese di fornire un modello onnicomprensivo e unitario del sapere; il sistema cartesiano, come quello hegeliano, non può essere una sorta di vademecum per categorie razionali in grado di rispondere a tutte le domande esistenziali dell’Uomo attraverso i tempi. La ragione pascaliana, dunque, si configura più varia ed elastica di quella Cartesiana, sempre consapevole dei limiti che caratterizzano le proprie argomentazioni. “E’ il cuore che sente Dio, e non la ragione. Ed ecco che cos’è la fede: Dio sensibile al cuore, non alla ragione”.[9]
L’uomo pascaliano, consapevole dei propri limiti intellettuali e dell’enorme varietà dell’esperienza umana e del mondo, vive i sentimenti dello “sbigottimento” e del “tremore” e della “silenziosa contemplazione”.
Questa consapevolezza dei limiti del conoscere porta Pascal a compiere una revisione della gnoseologia cartesiana e della sicurezza con cui il razionalismo cartesiano elevava i dati razionali a fondamento della conoscenza filosofica – scientifica.
Pascal è convinto che sensi e ragione si ingannino reciprocamente coesistendo dal punto di vista gnoseologico istanze contraddittorie rivolte ora alla totale fiducia dei propri atti cognitivi ora alla ridicola messa in discussione dei medesimi. Mentre la razionalità forte di Cartesio era convinta di cogliere certezze inconfutabili, la ragione debole di Pascal percepisce frammenti di verità sempre messi in discussione.
Così come Pascal si oppone al sistema cartesiano Kierkegaard si oppone al “sistema filosofico del suo tempo”: quello di Hegel; scriverà nel suo Diario “io stupido hegeliano”. Il motivo è lo stesso per entrambi i filosofi esistenzialisti: difendere l’intimità dell’uomo minacciata dal razionalismo e dalla astrazione. Il pensiero sistematico disconosce l’esistenza e le difficoltà della esistenza prescindendo dal concreto e facendo ciò elimina ogni contraddizione affogando la libertà individuale nella necessità storica, negando l’aut – aut interiore per l’et-et del divenire universale, precludendo la via all’etica intesa quale piena scelta, piena soggettività e piena passione. “Alla sistemazione totale si oppongono le Briciole Filosofiche”[10], alla Storia Universale si oppone la Storia Esistenziale.
Abbiamo così cercato di delineare un primo asse di paragone tra Kierkegaard e Pascal.
La vita difficile di entrambi in qualche modo costituì l’input di una riflessione filosofica che voleva dare conto del destino spirituale degli Uomini e del motivo dell’esistere della religiosità umana, al di là - si ripete ad abundantiam – del ragionamento e delle prove della esistenza di Dio. Singolare analogia sta anche nel fatto che la produzione scritta di questi due filosofi sia stata resa per lo più nella forma frammentaria e aperta o con gli aforismi o con gli scritti firmati da pseudonimi , non un’opera sistematica, come se si volesse sottolineare l’impossibilità di fornire un vademecum “di carattere esistenziale” da tirare fuori dalla tasca a risolvere dubbi e perplessità dell’animo umano quando viene sera.
Dopo – per entrambi – un periodo in cui cercarono risposte nella mondanità, status nel quale si annicchia la maggior parte degli uomini, oltrepassarono l’uno la soglia del divertessement, l’altro salì l’ulteriore scalino della consapevolezza che dallo stadio estetico lo condusse a quello etico ed infine a quello religioso.
Questi due pensatori in coerenza con la loro visione che pone l’accento sull’individuo furono entrambi in contrasto con la Chiesa Ufficiale del proprio tempo[11], tanto che Pascal scriverà le lettere conosciute come “Provinciali” e Kierkegaard attaccherà la gerarchia ecclesiastica con uno scritto dal titolo “Era il vescovo Mynster un testimonio della verità?”. Affermerà infatti Kiekegaard “La migliore definizione della cristianità è quella di Pascal: “Un’associazione di uomini i quali per via di alcuni sacramenti si dispensano dal dovere di amare Dio”[12]. Essi trovarono in Dio le risposte alle laceranti domande che avevano dentro: la dimensione del religioso per la prima volta non rispondeva ad una mera esigenza interna del sistema infatti non era né il primo atto né la formula di chiusura e neanche la facile scorciatoia alle falle del sistema (Deus ex machina).
Kierkegaard indica tre momenti essenziali della scelta: lo stadio estetico, lo stadio etico, lo stadio religioso. Nel primo stadio l’uomo essenzialmente è attirato da ogni cosa che lo porta al godimento, inteso sia come piacere fisico che come piacere intellettuale, per mantenere alto questo apparente stadio di felicità è però costretto a cambiare spesso oggetto del desiderio dunque anziché essere un uomo libero di fare ciò che più gli aggrada è in realtà solo schiavo di sé stesso e dello sforzo di allontanare la noia dalla propria vita (in Kierkegaard questo stadio è rappresentato dalla figura del Don Giovanni). Pascal sentenzia: “Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza hanno preso partito, per rendersi felici, di non pensarvi”. [13] Nello stadio etico (raffigurato da Agamennone[14]) invece l’uomo deve operare una scelta in quanto è posto di fronte al Bene ed al Male e deve aderire all’uno o all’altro, a differenza del precedente stadio può porsi però come soggetto e compiere un atto di volontà e in sostanza di libertà. Facendo ciò prima che operare una scelta tra bene e male sceglie di essere se stesso. L’ultimo stadio, detto religioso, vede l’uomo in rapporto personale con Dio, ossia con l’Assoluto. Qui la libertà è ad un livello più alto: figura emblematica di questo porsi in rapporto personale, singolare, autentico è Abramo. Abramo infatti, al di là dell’etica che lo vedrebbe solo come assassino del figlio, è il vero campione della fede che opera la sua scelta obbedendo a Dio, mettendosi in rapporto diretto con esso, credendo con tutto il cuore all’assurdo.
Anche in Pascal si possono ritrovare tre ordini di giudizio: quello dei falsi dotti i quali non comprendono né approvano il popolo nella sua continua ricerca di divertimento; quello dei dotti che comprendono tale ricerca poiché ne intuiscono la ragione profonda (ossia la fuga dal pensiero della morte che ci insegue senza tregua) e quello infine dei credenti i quali sono i soli ad avere una comprensione piena e autentica del problema e dunque cercano un rapporto con Dio. Nel pensiero 12/160 Pascal scrive ancora: “Non vi sono che tre categorie di persone: quelle che servono Dio, avendolo trovato; quelle che si adoperano a cercarlo, non avendolo trovato; quelle che vivono senza cercarlo né averlo trovato. Le prime sono ragionevoli e felici; le ultime sono folli e infelici; quelle di mezzo sono infelici e ragionevoli”. Importante è qui sottolineare che il passaggio da uno stadio all’altro non avviene mai come una necessità ma come libera scelta individuale.
Per Kierkegaard la fede dunque è un atto della volontà e non della ragione: avere fede significa scegliere di credere a ciò che oggettivamente è incerto. Credere comporta allora un rischio, un salto, una decisione. La fede, come aveva già compreso Pascal, è una scommessa[15]. Ecco dunque che la categoria dell’esistenza (del singolo) viene contrapposta a quella hegeliana di essenza; in aiuto viene anche l’etimologia della parola existo che letteralmente vuol dire vengo fuori …dal concetto, …dall’essere inquadrato in modo universale in una categoria (es. cosa è l’Uomo).
Analizziamo ora, anche se in modo sintetico, alcuni aspetti relativi a Dio ed alla religiosità come vengono affrontati dai due filosofi: il concetto di peccato, il nascondimento di Dio, le prove dell’esistenza di Dio.
Riprendendo il concetto di peccato, tenendo presente quanto già sopra evidenziato e della differenza con l’etica greca che lo attribuiva ad un errore dell’intelletto, Giorgio Penzo in un paragrafo intitolato “L’esistenziale della contemporaneità e la realtà del peccato” ci introduce al concetto di peccato in Kierkegaard. Per questi, spiega Penzo, “…il peccato deve essere interpretato sotto l’angolo visivo esistenziale e non già sotto l’aspetto morale, come per lo più si constata nel pensiero tradizionale. […] Non può esistere infatti un peccato dell’uomo in generale ma solo il peccato dell’uomo singolo. Di conseguenza non ha senso parlare di una realtà concettuale del peccato. […] Egli (Kierkegaard) fa presente che se si vuole spiegare la realtà del peccato originale con le categorie dell’intelletto conoscente si deve pensare che la peccaminosità precede il peccato […]il problema di Adamo non è altro che lo stesso problema del primo uomo che pecca. […] se si dice che il primo peccato di Adamo è la causa del fenomeno etico della peccaminosità si deve ammettere che ciascun uomo dopo Adamo presuppone la peccaminosità come conseguenza […] in altre parole Adamo è l’unico uomo che rimane fuori della storia del genere umano […] ciò implica considerare il peccato sotto l’angolo visivo della specie”.[16] Scrive Isabella Adinolfi “per Pascal, l’uomo è stato creato ad immagine di Dio e in ciò consiste la sua grandezza, ma con il peccato, la sua natura è divenuta simile agli animali e per ciò è misero”.[17]
Il peccato non appartiene, dunque, alla sostanza dell’uomo altrimenti verrebbe meno la libertà dell’uomo: la scelta ha luogo dunque nella dimensione dell’attimo. Il passato per Kierkegaard è quindi solo l’accaduto ma non il necessario (come per Hegel), se si ragionasse diversamente anche dal futuro (che diventerà passato) scomparirebbe la possibilità della libertà. La possibilità della libertà è la possibilità della scelta, dell’ aut – aut, dell’etica. È questo il senso profondo della storia: la possibile scelta individuale esistenziale. Il senso alberga nel futuro possibile che, se diviene scelta dell’oggi (scelta di fede) trasforma il passato richiamando nell’oggi l’eterno ancorato alla storicità di un fatto: l’incarnazione di Cristo. In questo modo, con la scelta di fede, la persona vive appieno il paradosso dell’unione tra il tempo umano e l’eterno salvifico; paradosso, dunque, e non sintesi. Tempo ed eterno, infatti, rimangono radicalmente e qualitativamente diversi ma convivono nella follia paradossale di una scelta intima “il paradosso è l’eternizzazione della realtà storica ed è la storicizzazione dell’eternità”.[18]
Dirà Pascal a proposito del tempo “Non stiamo mai nei limiti del tempo presente. Anticipiamo l’avvenire come se fosse troppo lento ad arrivare, quasi per affrettare il suo corso; oppure rievochiamo il passato per fermarlo; quasi troppo precipitoso; siamo così imprudenti da scorazzare in tempi che non ci appartengono e da non pensare all’unico tempo che ci appartiene; siamo così fatui da sognare i tempi che non esistono più e da fuggire senza riflettervi, il solo che sussiste. Perché, di solito, il presente ci tormenta […] [19].
Il rapporto tra tempo ed eterno viene risolto in base a riferimenti esistenziali ed ecco allora come è possibile che “Gesù come figura esistenziale insieme è presente nel tempo e fuori dal tempo. Si tratta di un evento che non è solo storico poiché si ripete in ogni cristiano. È storico ed insieme esistenziale. Questo continuo intreccio ha luogo nella realtà dell’attimo[20]. Di qui la distinzione di Kierkegaard tra cristiani «ammiratori» e cristiani «imitatori». I cristiani ammiratori sono seguaci di una dottrina, i cristiani imitatori sono invece seguaci di un modello di vita. Il poter essere un cristiano imitatore indica il poter considerare la propria esistenza appunto come contemporanea a quella di Cristo.”[21] L’imitatio Dei fa di un cristiano il vero credente e non solo il seguace di una dottrina, l’imitatio Dei unisce il presente all’eternità, la priorità del tempo sullo spazio (hic et nunc). Una concezione analoga si ritrova anche nell’ebraismo: è il soggetto a dover colmare, nel suo proprio presente, l’intervallo esistenziale tra dogma e vissuto.
Per quel che riguarda, infine, la presenza di Dio annota Pascal “Vedendo troppo per negare e troppo poco per essere certo, mi trovo in uno stato compassionevole, in cui ho cento volte desiderato che la Natura, se un Dio la sostiene, ce la indicasse senza equivoco; e che, se i segni che essa ne dà sono ingannevoli, li sopprimesse del tutto; che dicesse tutto o niente, affinché vedessi qual partito devo seguire”.[22] Kierkegaard si interroga anche sul silenzio di Dio nel mondo, sul suo restare annebbiato ma “il Dio Kierkegaardiano è il Deus absconditus, e questo suo starsene celato è il segno della nostra e non della sua imperfezione”.[23] Il punto su cui maggiormente differiscono questi pensatori sono i miracoli e le profezie compiuti da Gesù Cristo: per il francese essi sono le prove di Dio (prove non in senso filosofico-razionale ma storico) per il danese essi invece sono solo una spia luminosa che segnala la presenza del paradosso, egli, contrariamente a Pascal, nega alla storia ogni forza probante in materia di apologetica cristiana. Conseguentemente nessuna filosofia potrà mai rendere ragione di Dio, eppur se qualcuno – nelle ore del crepuscolo – si dedichi ad essa sappia, ammonisce Pascal che “prendersi gioco della filosofia, questo è filosofare veramente”.[24]
Abbiamo così visto come ai due filosofi, indipendentemente dal sapere se Dio esista veramente oppure no, interessi scorgere quale risvolto abbia per l’esistenza individuale di ognuno la possibilità della Fede, dell’incontro con Dio, in quanto Dio è l’unica via di uscita dall’angoscia[25]: la paura della morte si può vincere solo con la fede, all’uomo è dunque data come unica salvezza la ricerca di Dio ma Dio è anch’Esso alla ricerca dell’uomo?
BIBLIOGRAFIA
o Soren Kierkegaard Briciole filosofiche – Queriniana, Brescia 2001
o Soren Kierkegaard La Malattia per la Morte - Donzelli, Roma 1999
o Soren Kierkegaard Timore e Tremore – Bur, Firenze, 2001
o Soren Kierkegaard Diario
o Blaise PAscal, Pensieri
o Giorgio Penzo Kierkegaard. La verità eterna che nasce nel tempo - Ed. Messaggero, Padova 2000
o Aurelio Rizzacasa, Kierkegaard. Storia ed esistenza, Studium Roma 1984
o Isabella Adinolfi Il cerchio spezzato. Linee di antropologia in Pascal e Kierkegaard – Città Nuova Editrice, Roma 2000
o Giovanni Reale Socrate. Alla scoperta della esperienza umana – Bur Saggi, Milano 2001
o C. Ciancio – G. Ferretti – A. Pastore – U.Perone Filosofia: i testi, la storia – Voll. II e III – Editrice SEI, Torino 1991
[1] Sembra forse strano iniziare una tesina parlando di morte fisica ma in realtà sono convinta che il cercare il fondamento dell’uomo e ritrovarlo in Dio, mediante una scelta urgente, sia che si tratti del “salto” kierkegaardiano che della “scommessa” pascaliana, nasca appunto dal saperci esseri finiti e come tali temporali e per questo anelanti sia all’infinitezza che all’eternità. Non a caso, del resto, nel libro della Adinolfi si ritrova in copertina il fotogramma del film di Ingmar Bergman “Il Settimo sigillo” quello in cui il cavaliere giocando a scacchi con la morte esclama: “Perché non è possibile cogliere Dio con i propri sensi ? […]perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me sia pure in modo vergognoso e umiliante, anche se lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché, nonostante tutto continua ad essere per me uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi? […] io vorrei sapere, senza fede, senza ipotesi. Voglio la certezza, voglio che Dio mi tenda la mano e scopra il suo volto nascosto e voglio che mi parli”.
[2] Cfr. Giorgio Penzo Kierkegaard. La verità eterna che nasce nel tempo, pag. 19 sulla differenza tra principio di non-contraddizione e principio del paradosso.
[3] G. Reale, Socrate. Alla scoperta della sapienza umana, Milano 2001, pag. 245 e segg. Si noti che nella dedica iniziale del libro Giovanni Reale pone questi due frammenti: “Fuori dalla cristianità non c’è che Socrate. Tu, o natura nobile e semplice, tu eri veramente un riformatore” (Kierkegaard, Diario) e “Socrate – lo confesso - mi è talmente vicino, che devo quasi sempre combattere contro di lui” (Nietzsche, estate 1895).
[4] Aurelio Rizzacasa, Kiekegaard. Storia ed esistenza, Roma 1984, pag. 40
[5] Blaise Pascal, Pensieri.
[6] Blaise Pascal, Pensieri [267].
[7] Cfr. Blaise Pascal, Pensieri [1].
[8] Blaise Pascal, Pensieri.
[9] Blaise Pascal, Pensieri [278].
[10] Aurelio Rizzacasa, Kiekegaard. Storia ed esistenza, Roma 1984, pag. 31 nota 29: “L. Pareyson, Studi sull’esistenzialismo, Sanzoni, Firenze 1971, pag. 89”.
[11] Apologia di Cristo si, apologia della Chiesa no.
[12] Blaise Pascal, Pensieri [556]
[13] Blaise Pascal, Pensieri [168]
[14] Agamennone al pari di Abramo compie la scelta di uccidere la propria figlia Ifigenia ma differentemente dalla figura biblica il suo è un atto dovuto in quanto il sacrificio è necessario agli dei affinché la flotta possa ripartire: è dunque un atto preteso dalla collettività (il coro accompagna il sacrificio) non frutto di libera e intima scelta di aderire al divino.
[15] Cfr. Isabella Adinolfi Il cerchio spezzato. Linee di Antropologia in Pascal e Kierkegaard, pag. 49.
[16] Cfr. Giorgio Penzo Kierkegaard. La verità che nasce nel tempo, pagg.101-110.
[17] Isabella Adinolfi Il cerchio spezzato. Linee di Antropologia in Pascal e Kiekegaard, pag. 51.
[18] Soren Kiekegaard Briciole di Filosofia, in Briciole di Filosofia e postilla non scientifica.
[19] Blaise Pascal, Pensieri [172]
[20] Giorgio Penzo, Kierkegaard. La verità eterna che nasce nel tempo, pag. 88
[21] ibidem, pag. 91
[22] Blaise Pascal, Pensieri [449].
[23] Isabella Adinolfi Il cerchio spezzato. Linee di antropologia in Kierkegaard e Pascal, pag. 69 nota 62: “Remo Cantoni, La coscienza inquieta, cit. pag. 273”.
[24] Blaise Pascal, Pensieri [4].
[25] Gli esistenzialisti atei del Novecento rimprovereranno a Kierkegaard di aver tradito l’esistenzialismo ricorrendo a Dio come punto di arrivo, come porto sicuro in cui approdare e dunque di porre “riparo” al nulla, tipico della ricerca esistenzialista.