Sintesi della Cena delle ceneri
A cura di Maurizio Pancaldi
L'opera, pubblicata a Londra nel 1584, si apre con un breve carme dedicato "Al mal contento", cioè al lettore eccessivamente critico e insoddisfatto del contenuto: a lui Bruno consiglia di non attaccare un argomento evidentemente non alla sua portata e perciò non adeguatamente compreso, ma di seguire l'indicazione evangelica che impone di non spargere zizzania nel campo altrui.
Segue una lettera dedicatoria a Michel de Castelnau, signore di Mauvissière, l’ambasciatore francese presso la corte di Elisabetta I nella cui casa Bruno aveva soggiornato nel corso dei due anni passati in Inghilterra. Con il tono cerimonioso ed enfatico d'uso in queste occasioni, il Nolano invita il suo protettore ad un banchetto particolare, quello tenuto alla sera del primo giorno di quaresima del 1583 (appunto detto "delle ceneri" perché vi si celebra un apposito rito penitenziale dopo le festività del carnevale) nella casa londinese del nobiluomo Fulke Greville. Segue una breve ma vivace ed ironica esposizione del contenuto dei cinque dialoghi di cui si compone l’opera, nonché la contestuale presentazione dei personaggi partecipanti alla discussione. Bruno avverte che il dialogo è "istoriale", e che quindi vi si intrecciano vari motivi oltre quello scientifico: poesia, commedia, insegnamento, lode, dimostrazione, matematica, fisica, morale. Tutti però sono ugualmente importanti, in particolare le polemiche perché consentono d'"imparar a l’altrui spese". E qui naturalmente Bruno ha modo di lanciare una frecciata contro i professori di Oxford che, chiamati ad ascoltare e a discutere le idee di Bruno si sono mostrati tanto presuntuosi quanto ignoranti: dunque una cornice questa indegna delle dottrine ivi sostenute e certo non all’altezza del livello speculativo che Bruno avrebbe voluto tenere. La lettera si conclude con l’elogio di Enrico III, che Bruno aveva conosciuto nel precedente soggiorno a Parigi e a cui aveva dedicato il "De umbris idearum".
Dialogo primo
I personaggi di questo primo dialogo sono, oltre a Teofilo, il discepolo testimone degli avvenimenti che espone la teoria bruniana, Smitho, un personaggio certamente reale ma di difficile identificazione, certo un amico inglese (forse John Smith o il poeta William Smith) uomo di buon senso e privo di pregiudizi, Prudenzio, che rappresenta il tipo del pedante, e Frulla, anch'esso un personaggio di fantasia che, come suggerisce il nome, incarna la figura comica dell’uomo da poco ma dotato di ironia e di spirito che prende in giro il padrone per la sua noiosa cavillosità. Il dialogo si apre con Smitho che interroga Teofilo sull’incontro del Nolano con due professori dell’università di Oxford sulla nuova filosofia cosmologica cui egli ha assistito. Nel suo racconto Tofilo traccia un ritratto alquanto mediocre dei suoi interlocutori, che risultano ignoranti e di modi poco raffinati, dilungandosi anche in una lunga disquisizione con Frulla sul significato del numero due e con Prudenzio su quello del termine "tetralogo" (dialogo a quattro) e sul valore degli studi grammaticali. Dopo una rituale invocazione alle muse, Teofilo racconta come alcuni giorni prima fossero giunti presso il Nolano i messi di un nobile inglese che era desideroso di apprendere la sua interpretazione della teoria di Copernico e la nuova filosofia. Il Nolano rispose rivendicando la propria autonomia di pensiero rispetto a Copernico come a qualsiasi altro. Tuttavia, pur riconoscendo l’importanza del contributo matematico dell’astronomo polacco, egli paragona il suo lavoro a quello dei traduttori che traducono le parole da una lingua all’altra senza capire il senso complessivo del testo; o a quello dei contadini che fanno rapporto ad un ufficiale sulle manovre degli eserciti durante una battaglia, senza conoscere i principi dell’arte militare e quindi senza spiegarsi i motivi della vittoria dell’uno sull’altro. Così le apparenze dei fenomeni fisici e astronomici non possono essere intese se non dalla ragione. Nella risposta ad una precisa domanda di Smitho, Teofilo dichiara di ritenere Copernico meritevole per aver dissolto gli errori dell’antica concezione aristotelico-tolemaica (e come astronomo è stato perciò superiore a qualsiasi altro del passato e del presente), pur non essendosene molto allontanato in quanto si è mostrato più matematico che fisico e quindi non ha investigato i principi "costanti e certi" su cui edificare la nuova teoria del cosmo. Malgrado ciò gli deve essere riconosciuto il merito di essere andato contro corrente e di essersi opposto all’opinione generale, benché fosse privo di "vive raggioni" e possedesse solo alcuni frammenti delle antiche idee eliocentriche. Ad ogni modo la lode massima va al Nolano che ha liberato l’animo umano dall’ignoranza e dal vizio, egli "ch'ha varcato l’aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli argini del mondo fatte svanir le fantastiche muraglie de le ..sfere". A lui "che al cospetto di ogni senso e raggione, co' la chiave di solertissima inquisizione aperti que' chiostri de la verità, che da noi aprir si posseano, nudata la ricoperta e velata natura", viene dedicato un lungo e accorato elogio. Lui ha rinnovato infatti l’immagine della natura, mostrando la somiglianza degli altri corpi celesti con la nostra terra, aprendo i nostri occhi "a veder questo nume, questa nostra madre, che nel suo dorso ne alimenta e ne nutrisce, dopo averne produtti dal suo grembo, al qual di nuovo sempre ne raccoglie, e non pensar oltre lei essere un corpo senza alma e vita, ad anche feccia tra le sustanze corporali". Egli ci insegna come non vi sia che un unico cielo e "un' eterea raggione immensa" che regola il movimento degli astri; e così siamo indotti "a scuoprir l’infinito effetto dell’infinita causa, il vero e vivo vestigio de l’infinito vigore; ed abbiamo dottrina a non cercar la divinità rimossa da noi, se l’abbiamo appresso, anzi di dentro, più che noi medesimi siamo dentro a noi". La celebrazione di Bruno culmina con una lunga citazione da un poema di L. Tansillo che si conclude con l’esortazione "lasciate l’ombre e abbracciate il vero; / non cangiate il presente col futuro". Dunque in tal modo prosegue Teofilo "uno solo, benché solo, può e potrà vincere, ed al fine avrà vinto, e trionferà contra l’ignoranza generale ... co' la forza del regolato sentimento, il qual bisogna che conchiuda al fine". Quanto alla moltitudine, non solo non bisogna tenerne in conto né l’approvazione né il biasimo, ma non bisogna neppure ritenerla degna, lei che è sciocca, ignorante e presuntuosa, di comunicarle la verità per non incorrere nell’inconveniente già denunciato dal Vangelo di offrire perle ai porci. Del resto l’esperienza insegna che coloro che si ritengono "dotti e dottori" si adirano se qualcuno scopre la loro ignoranza e intende istruirli, mentre vogliono ostinatamente perseverare nell’errore di quello che una volta hanno pur malamente appreso. Solo a coloro che hanno "libero l’intelletto, terso il vedere e son prodotti dal cielo" è destinato il messaggio del Nolano. All’ostinazione ottusa di Prudenzio che dichiara di volersi attenere comunque all’autorità degli antichi perché "nell’antiquità è la sapienza", Teofilo ribatte "che noi siamo più vecchi ed abbiamo più lunga età, che i nostri predecessori", come peraltro dimostra lo stesso Copernico nei confronti degli astronomi antichi. Del resto ogni opinione, ancorché falsa, prima di essere antica era nuova all’epoca in cui fu espressa. Quanto all’ignoranza presuntuosa degli avversari, l’unico modo di combatterli è quello di confutare con opportune argomentazioni le loro false dottrine demolendo in tal modo la loro autostima e rendendoli semplici uditori della verità e, secondo l’uso della scuola pitagorica, senza il dirittto di interrogare. Gli ingegni più liberi e dotati potranno sì interrogare ma non esprimere giudizi sulla nuova filosofia prima di aver percorso tutti i gradi di essa, persuasi che le difficoltà cesseranno una volta che essa sia stata appresa nella sua interezza. Smitho non può trattenere a questo punto una perplessità: dato il grande numero di ignoranti che riempiono le accademie e le università, come sarà possibile a lui, che non sa nulla ed è indotto, distinguere il vero sapere dall’impostura, ciò che è degno da ciò che è indegno? La risposta di Teofilo è tutt'altro che rassicurante: "questo è dono degli dei, se ti guidano e dispensano la sorte da farte venir a l’incontro un uomo, che non tanto abbia l’estimazion di vera guida, quanto in verità sia tale, ed illuminano l’interno tuo spirto al far elezione de quel ch'è migliore". Smitho osserva che per lo più si segue il giudizio comune in modo che, in caso di errore, si sarà in compagnia e si godrà del favore generale. Perciò, ribatte Teofilo, i saggi sono pochi e ciò che è comune e generale è di scarso pregio, per cui "è più sicuro cercar il vero e conveniente fuor de la moltitudine". Persuaso, Smitho chiede di udire finalmente la filosofia del Nolano.
Dialogo secondo
Teofilo racconta come il Nolano fosse interpellato un giorno da Fulke Greville circa la ragioni da lui sostenute in favore del movimento della terra. Il Nolano rifiuta di rispondere perché non conosce il grado di preparazione del suo interlocutore, cui propone piuttosto di farlo incontrare con esponenti della concezione opposta alla sua per potersi confrontare con loro. "Con questo modo si potesse veder la virtù de' fondamenti di questa sua filosofia contra la volgare tanto megliormente, quanto maggior occasione gli verrebbe presentata di rispondere e dichiarare". Il Grivelle accetta di buon grado e fissa l’appuntamento "per mercoledì ad otto giorni, che sarà delle ceneri" (quindi per il 14 febbraio 1584). Il Nolano, mentre dichiare la sua disponibilità, si raccomanda al suo ospite, che gli fornisce ampie assicurazioni in proposito, di non farlo dialogare con "persone ignobili, mal create e poco intendenti in simili speculazioni". In giorno convenuto, il Nolano attende fin dopo pranzo l’invito, ma non essendo giunto si reca a visitare alcuni amici italiani residenti a Londra per affari; tornato verso sera, trova davanti alla porta di casa messer Florio (cioè Giovanni Florio, oriundo senese, nato a Londra da famiglia valdese rifugiatasi in Inghilterra per sfuggire alle persecuzioni religiose, insegnante di italiano e letterato) e maestro Guin (cioè Matteo Gwinne, medico e filosofo inglese) che lo stanno aspettando per accompagnarlo al luogo dell’incontro dove è atteso da "tanti cavalieri, gentilomini e dottori". "Orsù, disse il Nolano, andiamo e preghiamo Dio, che ne faccia accompagnare in questa sera oscura, a sì lungo camino, per sì poco sicure strade". In effetti il tragitto fino alla casa del Greville si rivela denso di peripezie: per fare prima, i tre cercano innanzitutto un battello per scendere lungo il Tamigi, ma "passammo tanto tempo, quanto avrebbe bastato a bell’agio di condurne per terra al loco determinato, ed aver spedito ancora qualche piccolo negozio"; trovatolo, si imbattono in un barcaiolo che sembra Caronte con una barca le cui parti "ti rispondevano ovonque la toccassi, e per ogni minimo moto risuonavano per tutto". Invece di affrettare la corsa, i tre vengono fatti approdare per forza presso il Tempio (cioè la sede dei Templari), quindi in un punto ancora lontano dalla meta: non c'è modo naturalmente di fare intendere ragioni al barcaiolo, che per di più pretende di essere pagato per intero. Avviatisi a piedi, si trovano in mezzo al fango e al buio e in queste condizioni devono procedere per un bel pezzo sbuffando, sospirando e bestemmiando. Finalmente giungono ad una strada ma fatti pochi passi si accorgono di essere vicini al punto in cui erano sbarcati. Stanchi, pensano di rinunciare e di tornare a casa, ma li trattiene il pensiero di essere attesi da una così nobile compagnia e di aver assicurato la loro presenza. "Venca dunque la perseveranza, perché, se la fatica è tanta, il premio non sarà mediocre. Tutte le cose preziose son poste nel difficile. Stretta e spinosa è la via de la beatitudine". Segue un lungo intermezzo in cui Teofilo tesse l’elogio di Elisabetta e del suo regno illuminato, nonché degli uomini più in vista della sua corte (dal conte di Leicester, cancelliere dell’Università di Oxford, a suo nipote Sir Philip Sidney, al potente Sir Francis Wolsingham) e dei circoli culturali ruotanti attorno ad essa; ad essi si contrappone il resto della società inglese, inospitale, rozza, sordida, ai limiti della bestialità. Il racconto riprende con il Nolano che, dopo le ultime peripezie del tragitto, giunge finalmente alla porta della casa di Greville, malamente accolto dalla servitù. I tre entrano nella sala dove gli altri si erano già seduti a tavola e prendono posto. Della disposizione dei commensali Teofilo fornisce una precisa descrizione: il Nolano siede avendo a destra lo stesso Teofilo, a sinistra il dottor Torquato, e di fronte il dottor Nundinio, che rappresentano il corpo docente oxoniense. Anche il comportamento dei commensali durante il pasto si rivela in linea con il profilo generale dei costumi evidenziati dagli inglesi in altre occasioni: tutt' altro che educato e del tutto privo di raffinatezze.
Dialogo terzo
Il dialogo si apre con Nundinio che domanda al Nolano se comprende l’inglese: un'occasione ulteriore per lanciare una bordata polemica contro l’ignoranza dei professori oxoniensi che non conoscono se non il loro idioma e un po' di latino. Dunque si converserà in quest'ultima lingua. Nundinio interroga il Nolano sulla teoria eliocentrica di Copernico, ma già dalla formulazione della domanda si capisce che non ne possiede una conoscenza di prima mano. In ogni caso ciò offre lo spunto a Teofilo per citare un lungo brano della lettera premessa da A. Osiander al "De revolutionibus", quale esempio di fraintendimento palese e di ignoranza scientifica, che induce il teologo luterano a ridurre la teoria copernicana a "suppositione" (ipotesi) buona "solamente per la facilità mirabile e artificiosa del computo", ma certo non a considerarla una oggettiva descrizione della struttura del cosmo. Quanto al Nolano, egli è stato certamente preceduto da molti altri nella sua concezione dell’universo (in particolare "il divino Cusano"), ma "lui lo tiene per altri proprii e più saldi principii, per i quali, non per autoritate ma per vivo senso e raggione, ha cossì certo questo come altra cosa che possa aver per certa". In ogni caso poichè Osiander ha creduto di individuare in Copernico un errore riguardante la distanza di Venere dal sole in dipendenza "dal movimento suo ne l’epiciclo", Teofilo gli oppone l’argomento secondo il quale "da l’apparenza de la quantità del corpo luminoso non possiamo inferire la verità de la sua grandezza né di sua distanza; perché, sì come non è medesima raggione d'un corpo men luminoso ed altro più luminoso e altro luminosissimo, acciò possiamo giudicare la grandezza o ver la distanza loro." Infatti una testa d'uomo non è visibile a due miglia di distanza mentre lo è una lucerna, che è più piccola, a sessanta miglia, " come da Otranto in Puglia si veggono al spesso le candele d' Avellona (Valona), tra quai paesi tramezza gran tratto del mare Jonio". Dunque, sostiene Teofilo, vi è un rapporto direttamente proporzionale tra l’intensità della luce e la distanza da cui è percepita "perché più presto da la qualità e intensa virtù de la luce, che da la quantità del corpo acceso, suole mantenersi la raggione del medesimo diametro e mole del corpo; (..) [per cui non è possibile] concludere, che a tanta distanza, quanta è il diametro de l’epiciclo di Venere, si possa inferir raggione di tanto diametro del corpo del pianeta, ed altre cose simili". Peraltro lo stesso accade quando noi osserviamo la terra da una certa altezza e lo guardo abbraccia un determinato orizzonte: quest' ultimo aumenta in proporzione dell’aumento del punto di osservazione, per cui "è da credere che, discostandosi più l’orizzonte, sempre si diminuisca" il modo con cui ci apparirà la terra. "E cossì oltre, attenuandosi l’orizzonte, sempre crescerà la comprensione de l’arco, insino alla linea emisferica ed oltre. Alla quale distanza, o circa quale posti, vedreimo la terra con quelli medesimi accidenti coi quali veggiamo la luna aver le parti lucide ed oscure, secondo che la superficie è acquea e terrestre.Tanto che, quanto più se stringe l’angolo visuale, tanto la base maggiore si comprende de l’arco emisferico, e tanto ancora in minor quantità appare l’orizzonte (..). Allontanandoci dunque, cresce sempre la comprensione de l’emisfero e il lume; il quale, quanto più il diametro si diminuisce, tanto d'avantaggio si viene a riunire; di sorte che, se noi fussemo più discosti da la luna, le sue macchie sarebbero sempre minori, sin alla vista d' un corpo piccolo e lucido solamente". Smitho trae facilmente le logiche conclusioni di questo discorso di Teofilo: un corpo luminoso più grande, irradiando con la sua luce un corpo opaco più piccolo, "de l’ombra conoidale produce la base in esso corpo opaco, ed il cono, oltre quello, ne la parte opposita: (..) la conclusione di questa raggione è, che il sole è corpo più grande che la terra, perché manda il cono de l’ombra di quella sin appresso alla sfera di Mercurio, e non passa oltre". Nello stesso modo, incalza Teofilo, "un corpo luminoso minore può illuminare più della mittà d'un corpo opaco più grande".
Il dialogo prosegue riportando un'ulteriore obiezione di Nundinio: il movimento della terra è impossibile perché si trova al centro dell’universo e quindi è "fisso e costante fundamento d' ogni moto". La risposta del Nolano è semplice: "questo medesimo può dir colui che tiene il sole essere nel mezzo de l’universo, e per tanto immobile e fisso, come intese il Copernico ed altri molti, che hanno donato termine circonferenziale a l’universo"; ma questo argomento non è valido per chi concepisce l’universo come infinito, e dunque senza che vi sia alcun corpo che occupi il centro o la periferia. Ne consegue che, per quanto riguarda i moti, "non è alcuno, che di gran lunga non differisca dal semplicemente circulare e regolare circa qualche centro". Per cui "noi che veggiamo un corpo aereo, etereo, spirituale, liquido, capace loco di moto e di quiete, sino immenso e infinito, (..) sappiamo certo che, essendo effetto e principiato da una causa infinita e principio infinito, deve, secondo la capacità sua corporale e modo suo, essere infinitamente infinito". Di fronte a questo argomento Nundinio resta attonito e stupito, come se gli fosse apparso un fantasma. Incomincia allora a "dimandar fuor di proposito" sulla materia dei vari pianeti che ora sono creduti formati di etere (o quinta essenza), materia incorruttibile di cui le stelle costituiscono la parte più densa. Il Nolano risponde che "li altri globi, che son terre, non sono in punto alcuno differenti da questo in specie; solo in esser più grandi e piccioli (..); ma quelle sfere, che son foco come è il sole, per ora, crede che differiscono in specie, come il caldo e freddo, lucido per sé e lucido per altro". Rivolgendosi a Smitho che si meraviglia della prudenza del Nolano, Teofilo gli spiega che "dal svanimento delle parti oscure ed opache del globo e dalla unione delle parti cristalline e lucide si viene sempre alle reggioni più e più distante a diffondersi più e più lume. Or se il lume è causa del calore, (..) avverrà che la terra co' gli raggi, che ella manda alle lontane parti de l’eterea reggione, secondo la virtù della luce venghi a comunicar altrettanto di virtù di calore. Ma a noi non costa che una cosa per tanto che è lucida sii calda, perché veggiamo appresso a noi molte cose lucide, ma non calde". A queste affermazioni Nundinio si mette a ridere e cita Luciano che nella "Storia vera" immagina e racconta di altre terre con le stesse proprietà della nostra. Al che il Nolano spiega che lo scrittore antico stava polemizzando con quei filosofi che affermano appunto che vi siano molte terre; in realtà "se ben consideriamo, trovarremo la terra e tanti altri corpi, che son chiamati astri, membri principali de l’universo, come danno la vita e nutrimento alle cose che da quelli toglieno la materia, e a' medesimi la restituiscano, cossì e maggiormente hanno la vita in sé; per la quale, con una ordinata e natural volontà, da intrinseco principio se muoveno alle cose e per gli spacii convenienti ad essi." Non vi sono altri tipi di movimento ed ogni essere "si muove al suo principio vitale, come al sole e altri astri; (..) e finalmente va a trovar il simile e fugge il contrario". Tutto avviene secondo un principio interno alla natura stessa che agisce in modo differente sui diversi corpi in relazione alle specifiche qualità di ognuno. Questo principio intero è detto "anima", ed è sensitiva e intellettiva come la nostra, e "forse anco più". La terra è dunque come "un grande animale" che possiede sensibilità, membra, carne, sangue, nervi, ossa, vene, cuore ma certo non simili alle nostre; e come negli animali, anche in lei le varie parti sono " in continua alterazione e moto, ed hanno un certo flusso e reflusso, dentro accogliendo sempre qualche cosa dall’estrinseco e mandando fuori qualche cosa da l’intrinseco". Per cui "essendo che ogni cosa participa de vita, molti ed innumerevoli individui vivono non solamente in noi, ma in tutte le cose composte; e quando veggiamo alcuna cosa che se dice morire, non doviamo tanto credere quella morire, quanto che la si muta, e cessa quella accidentale composizione e concordia, rimanendono le cose che quella incorreno, sempre immortali".
Infine Nundinio, irritato e ormai sconfitto, propone un'ultima questione: se fosse vero che la terra gira verso oriente, le nuvole dovrebbero scorrere verso il lato opposto "per raggione del velocissimo e rapidissimo moto di questo globo, che in spacio di ventiquattro ore deve aver compito sì gran giro." Il Nolano gli risponde che nuvole e venti fanno parte della terra, la quale comprende "tutta la machina e l’animale intero, che consta di sue parti dissimilari", dai mari ai monti ai sassi ai fiumi; dunque le nuvole si muovono in sintonia con la terra e insieme con "tutti gli accidenti, che son nel corpo de la terra." A questo punto Smitho interrompe il racconto di Teofilo per porre lui stesso una domanda: "onde avviene, che noi veggiamo l’emisfero intiero, essendo che abitiamo ne le viscere della terra?" Pacatamente Teofilo risponde che essendo la terra un globo in tutte le sue parti, "accade che alla vista de l’orizonte cossì una convessitudine doni loco all’altra"; si tratta dunque di una situazione del tutto diversa da quella in cui tra i nostri occhi e una parte del cielo si interpone un monte a impedire la vista del circolo dell’orizzonte. "La distanza dunque di cotai monti, i quali siegueno la convessitudine de la terra, la quale non è piana ma orbicolare, fa che non ne sii sensibile l’essere entro le viscere de la terra." Incalza ancora Smitho domandando se questo impedimento tocca anche coloro che sono vicino alle alte montagne. Risponde Teofilo che tocca solo coloro che sono vicino ai monti più piccoli, "perché non sono altissimi gli monti, se non sono medesimamente grandissimi in tanto, che la loro grandezza è insensibile alla nostra vista", precisando però che per altissimi non si deve intendere la dimensione delle Alpi o dei Pirenei, ma quella ad es. dell’intera Francia posta tra l’Oceano e il Mediterraneo. Del resto Alpi e Pirenei sono state in passato "la testa d'un monte altissimo. La qual, venendo tutta via fracassata dal tempo (..) forma tante montagne particolari, le quale noi chiamiamo monti." In conclusione, afferma Teofilo, "con la terra dunque si muoveno tutte le cose che si trovano in terra. Se dunque dal loco extra la terra qualche cosa fusse gittata in terra, per il moto di quella perderebbe la rettitudine." Si può provare quanto detto con qualche semplice esperienza: se uno da una riva vorrà lanciare un sasso verso una nave in corsa lungo un fiume, fallirà il bersaglio; se quello stesso sasso varrà lanciato da un marinaio posto sulla cima dell’albero maestro, lo si vedrà cadere in linea retta alla base dello stesso albero. Se dunque vi saranno due persone, una dentro la nave in corsa e l’altra fuori, ed entrambi " abbia la mano circa il medesimo punto de l’aria", lanciando contemporaneamente una pietra, "senza che gli donino spinta alcuna, quella del primo, senza perdere punto né deviar da la sua linea, verrà al prefisso loco, e quella del secondo si trovarrà tralasciata a dietro." La ragione di questo sta nel fatto che "le cose, che hanno fissione o simili appartinenze nella nave, si muoveno con quella; e la una pietra porta seco la virtù del motore il quale si muove con la nave, l’altra di quello che non ha detta participazione." Da questa esperienza si può dunque concludere che il moto rettilineo non dipende né dal punto di partenza, né da quello d'arrivo, né dall’aria, "ma da l’efficacia de la virtù primieramente impressa, dalla quale depende la differenza tutta." E con ciò il dialogo si chiude.
Dialogo quarto
Però "la divina scrittura (..) in molti luoghi accenna e suppone il contrario": questa la domanda di Smitho che apre il dialogo. Teofilo risponde che "nelli divini libri in servizio del nostro intelletto non si trattano le demostrazioni e speculazioni circa le cose naturali, come se fusse filosofia"; il fine della Scrittura è pratico, e concerne il senso morale delle nostre azioni. Dunque il divino legislatore quando tratta quelle questioni non parla sacondo verità "ma di questo lascia a gli uomini contemplativi, e parla al volgo in maniera che, secondo il suo modo di intendere e di parlare, venghi a capire quel ch'è principale". Smitho acconsente e a conferma di questa tesi cita la posizione di Al-Gazali secondo il quale "il fine delle leggi non è tanto di cercar la verità delle cose e speculazioni, quanto la bontà de' costumi, profitto della civiltà, convitto di popoli e prattica per la commodità della umana conversazione, mantenimento di pace e aumento di republiche." Anzi il sapiente non giudica cosa opportuna divulgare la verità presso il volgo ignorante che non ne capirebbe il valore e ne equivocherebbe il senso. "Parlar con i termini de la verità dove non bisogna, è voler che il volgo e la sciocca moltitudine, dalla quale si richiede la prattica, abbia il particular intendimento; sarebbe come voler che la mano abbia l’occhio, la quale non è stata fatta dalla natura per vedere, ma per oprare e consentire alla vista." Dunque la Scrittura usa un linguaggio consono alle "paroli e sentimenti comoni". Dunque nelle questioni naturali che hanno come oggetto la verità, le parole della Scrittura non devono essere usate come autorità "e prender per vero quel che è stato detto per similitudine". In ogni caso Teofilo precisa che questa distinzione tra verità e metafora (come si dimostra in seguito con un lungo esempio tratto dal libro di Giobbe) "non tocca a tutti di volerla comprendere, come non è dato a ogniuno di posserla capire". Del resto si può giudicare della rilevanza e del significato della metafora nel linguaggio religioso, osservando come la Scrittura venga usata in questo senso da ebrei, cristiani e musulmani con risultati tanto diversi e persino contrari. Piuttosto, osserva Smitho, questo valore metaforico e pratico della Scrittura fa sì che essa ben si possa conciliare con la filosofia del Nolano. Teofilo risponde che non si devono temere le obiezioni degli "onorati spirti, veri religiosi e, ed anco naturalmente uomini da bene, amici della civile conversazione e buone dottrine"; costoro infatti non tarderanno a rendersi conto che questa filosofia non solo contiene la verità, ma favorisce la religione più di qualsiasi altra che ponendo il mondo finito limita l’efficacia della potenza divina o che fissando la provvidenza sopra le azioni umane ne svilisce l’effetto rimuovendola dalle cause prime e universali.
Dopo queste considerazioni Smitho chiede a Teofilo di tornare al racconto della conversazione del Nolano, riferendo dell’intervento del dottor Torquato, presentato come molto più ignorante e arrogante di Nundinio. Costui in verità non porta argomenti ma apostrofa il Nolano accusandolo di pretendere di arrogarsi il titolo di maestro dei filosofi al posto di Aristotele. Il Nolano si volge agli astanti ridendo per queste sciocchezze e lo invita ad entrare più propriamente in argomento. Al che Torquato pone la seguente questione: se la terra si muove, come mai la stella di Marte appare talvolta più grande e talvolta più piccola? Il Nolano gli risponde che "una delle cause principali (..) è il moto della terra e di Marte ancora per gli proprii circoli, onde aviene che ora siino più prossimi ora più lontani." Alla richiesta di Torquato di descrivere la proporzione dei moti della terra e dei pianeti, il Nolano risponde di essere venuto per rispondere e non per insegnare, che questa è nozione conosciuta dagli antichi e dai moderni, "e che lui non disputa circa questo, e non è per litigare contra gli matematici, per toglier le loro misure e teorie, alle quali sottoscrive e crede; ma il suo scopo versa circa la natura e verificazione del soggetto di questi moti." In ogni caso, sollecitato dai presenti, il Nolano in una pagina densissima presenta un quadro completo della sua filosofia ribadendo l’infinità dell’universo, che consta di un immenso e unico spazio o cielo in cui sono collocati la terra e gli altri astri in quantità innumerevole, dei quali alcuni sono caldi e altri sono freddi; "questi, per comunicar l’uno all’altro, e partecipar l’un da l’altro il principio vitale, a certi spacii, con certe distanze, gli uni compiscono gli lor giri circa gli altri, come è manifesto in questi sette, che versano circa il sole." La terra è uno di questi, e il suo moto, che procede in 24 ore "dal lato chiamato occidente verso l’oriente, caggiona l’apparenza di questo moto de l’universo circa quella, che è detto mundano o diurno." Dopo questa esposizione del Nolano, seguono momenti di grande confusione con Torquato che si scalda e inveisce contro il filosofo dandogli del pazzo. Anche il Nolano alza il tono di voce e ribalta l’accusa apostrofando il professore oxoniense che non valeva più dei suoi abiti accademici i quali avrebbero dovute essere spolverati a suon di bastonate data l’asinità che aveva dimostrato nella discussione. Questo esito fornisce l’occasione a Frulla per lamentare la decadenza degli studi filosofici in Inghilterra a favore di quelli umanistici e grammaticali con la conseguente diffusione di quella pedanteria di cui fece le spese il Nolano "nato e allevato sotto più benigno cielo" durante le pubbliche dispute con i teologi di Oxford, come quella tenuta alla presenza del principe polacco A. de Lask e di altri membri della nobiltà. Riprendendo il racconto Teofilo riferisce come il Nolano si fosse ricomposto presto dal precedente scatto d' ira, rivolgendo parole amichevoli a Torquato e ricordando di aver sostenuto le stesse posizioni aristoteliche in gioventù, quando era più ignorante. Perciò augura a Torquato che Dio gli conceda di accorgersi della propria cecità per poter diventare più civile e cortese, meno ignorante e temerario. Questo naturalmente non riesce a smuovere i dottori inglesi che dichiarano di fondare la loro certezza sull’autorità di Aristotele e di altri grandi filosofi. Al che "il Nolano soggionse, che sono innumerabili sciocchi, insensati, stupidi ed ignorantissimi, che in ciò sono compagni non solo d'Aristotele e Tolomeo, ma di essi loro ancora; i quali non possono capire quel che il Nolano intende, con cui non sono, né possono essere consenzienti, ma solo uomini divini e sapientissimi, come Pitagora, Platone e altri.". Quanto ad Aristotele, essi possono essergli vicino solo nell’ignoranza, ma non certo nel sapere, perché "dove quel galantuomo fu dotto e giudicioso, credo e son certissimo, che tutti insieme ne sete troppo discosti." E a riprova di ciò milita il fatto che non sono riusciti a portare un solo argomento valido contro Copernico e contro di lui, che invece ne ha fornito molti e persuasivi. Torquato allora torna alla carica domandando la posizione dell’auge del sole. "Il Nolano rispose che lo imaginasse dove gli piace, e concludesse qualche cosa, perché l’auge si muta e non sta sempre nel medesimo grado de l’eclittica. (..) Questa interrogazione de l’auge del sole conchiuse in tutto e per tutto, che costui era ignorantissimmo di disputare." Infatti "la prima lezione, che si dà ad uno che vuole imparar di argumentare, è di non cercare e dimandar secondo i propri principi, ma quelli che sono concessi da l’avversario", la cui validità si deve cercare di demolire e confutare con apposite prove. Ovviamente gli oxoniensi non si danno per vinti: Torquato stende sulla tavola carta e calamaio, vi disegna il sistema planatario secondo i due sistemi, tolemaico e copernicano, in tal modo pretendendo di dare una lezione al Nolano. Ma sbaglia tutto, dimostrando di aver frainteso Copernico, affermando come suo "quel che il Copernico non intese, e più tosto s'arrebbe fatto tagliar il collo, che dirlo o scriverlo." Infatti portato il libro di Copernico il Nolano smaschera la loro ignoranza. Allora Torquato e Nundinio, vistisi sconfitti, se ne vanno. Anche gli altri cavalieri lasciano la sala, dopo aver pregato il Nolano di scurase la scortesia dei due e di aver compassione dell’ignoranza inglese in materia di filosofia e matematica. Così la serata era finita e anche il Nolano e i suoi amici lasciano la casa di Greville facendo ritorno alle rispettive dimore senza incontrare le difficoltà del viaggio d'andata. Così termina il racconto di Teofilo, ma Smitho lo prega di concedergli ancora del tempo per capire meglio la dottrina del Nolano.
Dialogo quinto
Il dialogo si apre subito con un lungo discorso di Teofilo che espone la cosmologia bruniana: le stelle e la terra sono tutte fisse nello stesso firmamento "che è l’aria". Si devono quindi eliminare le sfere della teoria tolemaica, "perché in una medesima eterea reggione, come in un medesimo gran spacio o campo, son questi corpi distinti e con certi convenienti intervalli allontanati gli uni dagli altri". Quanto al fatto per cui si è a lungo creduto che i cieli fossero sette per i pianeti e uno per le stelle fisse, il motivo consiste nel "vario moto, che si vedeva in sette, ed uno regolato in tutte l’altre stelle, che serbano perpetuamente la medesima equidistanza e regola", per cui a queste ultime sembra "convenir un moto, una fissione ed un orbe". Ma se noi consideriamo il movimento della terra e rapportiamo a questo movimento quello degli altri corpi nell’aria, "potremo prima credere, e poi demostrativamente concludere il contrario di quel sogno e quella fantasia". Lo stesso accade a noi che guardando le cose entro un certo giro di orizzonte ci parranno nella loro proporzione, ma oltre una determinata distanza sembreranno tutte ugualmente lontane; "cossì, alle stelle del firmamento guardando, apprendiamo la differenza de' moti e distanze d'alcuni astri più vicini, ma gli più lontani e lontanissimi ne appaiono immobili, ed equalmente distanti e lontani, quanto alla longitudine". Se dunque noi non vediamo i moti di quelle stelle, non è perché non vi siano, poiché non c'è ragione che non si verifichino negli astri gli stessi fenomeni presenti nelle altre porti del cosmo. "E però non denno esser chiamate fisse perché veramente serbino la medesima equidistanza da noi e tra loro; ma perché il loro moto non è sensibile a noi." Lo stesso accade quando una nave che procede molto distante da noi ci sembra ferma. Lo stesso si deve pensare di quei corpi grandissimi e luminisissimi come il sole, di cui è possibile ipotizzare l’esistenza in gran numero. Altri filosofi nell’antichità (Pitagora, Melisso, Eraclito, Democrito, Epicuro, Parmenide) nutrirono la stessa concezione in proposito, "onde si vede, che conobbero un spacio infinito, regione infinita, capacità infinita di mondi innumerabili simili a questo, i quali cossì compiscono i loro circoli, come la terra il suo." In questo universo sono eliminate "la virtù trattiva o impulsiva ed altre simili", così come non ha senso la distinzione tra moti naturali e violenti, ma è necessario ammettere che " questo moto sii naturale da principio interno e proprio appulso senza resistenza. Questo conviene a tutti i corpi, che senza contatto sensibile di altro impellente o attraente si muoveno." Se questo è vero se ne deve dedurre che è impossibile che la luna muova il mare, fecondi i pesci e altre cose simili: essa non è causa ma "segno ed indizio..[di un certo] ordine e corispondenza de le cose, e le leggi d'una mutazione che son conformi e corrispondenti alle leggi de l’altra." Molte filosofie cadono in questo tipo di errori, scambiando le cause con gli effetti: questo accede perché si cercano le cause dei fenomeni in modo estrinseco, mentre "il vero non repugnante è il naturale; e il naturale, o vogli o non, è principio intrinseco, il quale da per sé porta la cosa dove conviene." Quanto a coloro che non riescono a pensare che un corpo cosi grande e pesante come la terra possa muoversi, non si comprende perché poi ammettano questo moto per il sole, la luna e gli altri pianeti intorno alla terra. Ora nessun corpo è pesante o leggero nella posizione occupata, ma queste qualità e differenze "convegnono alle parti, che son divise dal tutto, e che se ritrovano fuor dal proprio continente, e come peregrine: queste non meno naturalmente si forzano verso il loco della conservazione, che il ferro verso la calamita". Perciò pezzi di terra cadono verso di noi dall’aria, "perché qua è la lor sfera"; allo stesso modo l’acqua non è pesante nel suo luogo naturale, e anzi consente ai corpi il galleggiamento; così le braccia non sono pesanti se collocate in posizione corretta nel busto. Dunque pesantezza e leggerezza non sono qualità intrinseche e assolute delle cose, ma dipendono dalla loro posizione nel cosmo in relazione estrinseca con gli altri elementi. "Ogni cosa dunque, che è naturale, è facilissima; ogni loco e moto naturale è convenientissimo. Con quella facilità, con la quale le cose che naturalmente non si muoveno persistono fisse nel suo loco, le altre cose che naturalmente si muoveno, marciano per gli lor spacii." Dunque la terra non è più pesante del sole, purché ciascuno resti nel suo spazio, e lo stesso dicasi per gli altri elementi che possiedono ciascuno una propria sfera d'appartenenza, fuor dalla quale si muovono per raggiungerla e consistervi. Quanto all’aria, essa è "generalissimo continente", è il firmamento dei corpi celesti, "da tutte parti esce, in tutte parti entra, per tutto penetra, a tutto si diffonde".
Smitho resta meravigliato dopo questo discorso, ma ancora non riesce ad avere ben chiaro come possa giustificarsi la natura (quale corpo infuocato e fonte di calore) e, date le apparenze offerte dai nostri sensi, la posizione fissa del sole mentre gli altri pianeti, compresa la terra, sono erranti attorno a lui. Infatti stando al ragionamento di prima "le parti del foco, quando non hanno facultà di montare in alto [come nelle fornaci], si svolgeno e ruotano in tondo": dunque il moto conviene più al sole che alla terra. Teofilo risponde che si potrebbe concedere che il sole si muova attorno al proprio centro e non attorno ad altro, ma bisogna considerare che esso è assai caldo, denso ed eterogeneo a proprio interno: dunque quello che noi vediamo muoversi è "aria accaso, che si chiama fiamma, come il medesimo aria alterato dal freddo della terra si chiama vapore." Tuttavia Smitho non si ritiene ancora soddisfatto poiché considera quanto detto finora piuttosto un argomento a favore della sua tesi, dato che il vapore è più simile al fuoco, che è elemento mobile, mentre l’aria è più simile alla terra. Teofilo risponde che "la caggione è, che il fuoco più si forza di fuggire da questa reggione, la quale è più connaturale al corpo di contraria qualità"; in ogni caso assicura che il Nolano non ha "determinazione alcuna circa il moto o quiete del sole", e dunque quel movimento della fiamma "ch'è ritenuta e contenuta nelle fornaci, procede da quel, che la virtù del foco perseguita, accende, altera e trasmuta l’aria vaporoso, del quale vuole aumentarsi e nodrirsi, e quell’altro si ritira e fugge il nemico del suo essere e la sua correzione." Alla successiva domanda di Smitho circa il moto locale della terra, Teofilo risponde che la sua causa è il rinnovamento e la rinascita continua di questo corpo, "il quale, secondo la medesima disposizione, non può essere perpetuo". Perciò come le cose che essendo caduche si perpetuano nella specie, così "le sustanze che non possono perpetuarsi sotto il medesimo volto, si vanno tutta via cangiando di faccia." Infatti la materia è certamente eterna e incorruttibile e deve accogliere e produrre in tutte le sue parti tutte le forma, affinché ovunque "si fia tutto, sia tutto", ovviamente non nel medesimo istante ma in tempi diversi, "in varii istanti d'eternità successiva e vicissitudinalmente". Dunque questa massa, di cui è costituito il nostro globo, non si dissolve e non si annichila, ma muta e si rinnova continuamente, "cangiando le sue parti tutte" secondo una precisa successione "ognuna prendendo il loco de l’altre tutte." Poichè la massa è omogenea, questo dinamismo tocca tutte le sue parti indistintamente, sia all’interno che alla superficie "chè nel grembo e viscere della terra altre cose s'accoglieno, ed altre cose da quelle ne si mandan fuori." In tutto ciò l’uomo non ha alcuna condizione privilegiata: noi stessi andiamo e veniamo, passiamo e ritorniamo, "e non è cosa nostra che non si faccia aliena e non è cosa aliena che non si faccia nostra". Le componenti del nostro essere andranno a formare altri esseri, così come il nostro essere è composto di elementi derivati da generi diversi. In questo processo evolutivo spirito e materia si mescolano e si trasfondono l’uno nell’altra e viceversa tanto che non si può dire se sono due generi diversi o due componenti dello stesso genere. "Cossì tutte le cose nel suo geno [genere] hanno tutte vicessitudine di dominio e servitù, felicità e infelicità, de quel stato che si chiama vita e quello che si chiama morte, di luce e tenebre, di bene e male". Nulla è eterno, tranne la materia che però è in continua evoluzione. Ne consegue che "la causa del moto locale (..) è il fine della vicessitudine, non solo perché tutto si ritrove in tutti luoghi, ma ancora perché con tal mezzo tutto abbia tutte disposizioni e forme". Il moto locale è dunque il solo esistente e costituisce il principio di ogni mutamento e ogni forma. Di questa processualità dinamica si possono fornire molti esempi tratti dall’esperienza della natura (il mare non è sempre stato tale, molti luoghi della terra hanno mutato forma, ciò che è terra non lo è stato e non lo sarà sempre, le fonti si seccano, i fiumi ingrossano e si assottigliano, un tempo Micene era fertile e Argo secca mentre oggi è il contrario, le pietre sparse nei campi in Provenza mostrano che un tempo erano battute dalle onde, la località chiamata Porto vicino a Nola testimonia che il mare un tempo arrivava fino alle porte della città, ai tempi di Cesare la terra di Francia non era adatta alla coltivazione della vite come invece lo è oggi - il che significa che il Mediterraneo si è ritirato verso la Libia lasciando la terra più secca e calda- ecc.), che in alcuni casi lo stesso Aristotele conobbe e tenne presente, anche se poi non ne seppe trarre le debite conclusioni, rimanendo invischiato nei suoi schemi fallaci. Richiesto ancora da Smitho di precisare "i moti, che convengono a questo globo", Teofilo prosegue specificando che il movimento della terra esige la compresenza degli opposti "a fin che ogni parte venghi a partecipar ogni vita, ogni generazione, ogni felicità". Di conseguenza i moti della terra sono di quattro tipi: a) il primo, al fine di fornire la vita a sé e alle cose in essa contenute, e dare "come una respirazione ed inspirazione col diurno caldo e freddo, luce e tenebra", consiste nel girare attorno al proprio asse in ventiquattro ore per esporre al calore e alla luce de sole tutta la propria superficie; b) il secondo consiste nel girare intorno al sole nell’arco di trecentosessantacinque giorni "per la rigenerazione delle cose, che nel suo dorso vivono e si dissolveno"; c) il terzo è quello per il quale la relazione che ha questo emisfero superiore della terra rispetto all’universo, si trasmetta all’emisfero inferiore e viceversa; d) vi è infine un quarto moto per cui la tendenza del vertice della terra ad orientarsi verso l’artico si trasforma nella tendenza dell’altro vertice verso il polo antartico. Di ogni moto è naturalmente possibile fornire la misura in base a determinati e adeguati criteri. In ogni caso Teofilo precisa che: benché quatto i moti "tutti concorreno in un composto"; benché siano detti circolari, questi moti non sono effettivamente tali; che questi moti non sono regolari e perciò non rappresentabili geometricamente. Data la loro connessione (Teofilo li rappresenta tutti nel moto di una palla lanciata in aria), "uno che non sii regolato, è sufficiente a far che nessuno de gli altri sia regolato; uno ignoto fa tutti gli altri ignoti". Malgrado ciò essi hanno un certo ordine in base al quale si avvicinano o si allontanano dalla regolarità, che risulta inversamente proporzionale alla vicinanza al centro, per cui la terra "prima ha il moto del suo centro, che è annuale, più regolato che tutti, e più che gli altri simile a se stesso; secondo, men regolato, è il diurno; terzo, l’irregolato, chiamiamo l’emisferico; quarto, irregolatissimo, è il polare over colurale." Dopo questa esposizione, Teofilo ingiunge a Frulla di non divulgare la sapienza perché non cada in orecchie indegne di persone che potrebbero recare danno al Nolano e ai suoi amici; quindi, annunciata la fine della cena e del dialogo, prega Prudenzio di fare un epilogo morale alla loro riunione. Questa si risolve a) in un augurio al Nolano di trovare un uditorio consono alla sua sapienza e di conservarsi l’amicizia del signor di Mauvissier; b) in un invito agli uomini e ai cavalieri di buoni costumi di accogliere nelle loro case il Nolano e di difenderlo da cattivi incontri; c) in una preghiera a Nundinio e Torquato a farsi risarcire dai loro pessimi maestri per il tempo sprecato; d) a tutti, nel caso di un prossimo dialogo, la richiesta di dar miglior prova di sé o di tacere.
Maurizio Pancaldi
Ben pochi autori sono stati interpretati sulla base di criteri estrinseci e ideologicamente condizionati quanto Giordano Bruno. Infatti, la sua complessa personalità e la sua drammatica vicenda sono stati spesso oggetto di identificazioni e proiezioni storiche che ne hanno impedito una corretta valutazione ed una oggettiva determinazione, fino a renderne del tutto irriconoscibili i tratti. La sua opera è stata più considerata sotto il profilo simbolico che effettivamente studiata, tanto che i dibattiti attorno a lui sono risultati in genere funzionali a polemiche occasionali, e raramente finalizzati all'accertamento sereno del reale spessore delle sue idee.
Già nel Seicento la sua figura diventa simbolo del pensiero moderno ateo e materialistico, che respinge gli errori e le superstizioni del passato per annunciare una visione più aperta e razionale della natura e della vita. Come tale viene, a seconda delle prospettive di parte, esaltato o esecrato, quasi mai criticamente analizzato. Così in Francia, nel periodo che segue la morte di Enrico IV, Bruno è coinvolto nell'offensiva antilibertina ed il suo nome associato a quello di Cartesio a proposito della teoria dei vortici. Al contrario, nel clima di tolleranza instauratosi in Inghilterra dopo la rivoluzione del 1689 e nel generale fermento culturale che favorisce la ricerca scientifica, il suo nome diventa sinonimo di libertà di pensiero e di antidogmatismo: significativo è l'apprezzamento espresso da un autore così particolare ma anche così rappresentativo del movimento dei liberi pensatori come J. Toland, che ne avverte profonde affinità tematiche e sintonie concettuali.
Nel corso del Settecento le polemiche sui temi religiosi ed etici non si placano, questa volta associate al nome di Spinoza. E' P. Bayle a collegare il filosofo di Amsterdam con il Nolano sul tema di una visione panteistica giudicata assurda per le sue implicazioni deterministiche e negatrici dell'autonomia dell'individualità. Altri (ad esempio il Brucker) cercheranno di distinguere le due posizioni individuando affinità con Leibniz: di Bruno viene fornita una interpretazione spiritualistica e religiosizzante, moderata e privata delle posizioni più acute e originali contenute nelle opere italiane che rimangono sconosciute. Malgrado questi limiti, egli viene a pieno titolo inserito nella filosofia moderna di cui è considerato esponente di rilievo.
Anche nella cultura romantica l'interesse per i temi dell'infinito e del panteismo consente di mantenere l'associazione tra Bruno e Spinoza: se la concezione di quest'ultimo appare più inclinata in senso ateo, quella del primo assume tinte spiritualistiche a sfondo irrazionalistico. Così in particolare F.H. Jacobi nelle "Lettere sulla dottrina di Spinoza" del 1785. Malgrado l'interpretazione hegeliana avesse evidenziato i motivi razionalistico-dialettici (Bruno avrebbe ridotto la realtà a vivente movimento di concetti, avvicinandosi a comprendere la radice razionale del tutto), è soprattutto Schelling ad accreditare, dopo quelle del secolo precedente, una immagine irrazionalistica: nel dialogo giovanile "Bruno o del divino nella natura" (1802), sullo sfondo della polemica antifichtiana, egli oppone al naturalismo spinoziano lo spiritualismo di Bruno, che avrebbe compreso come finito e infinito siano l'uno accanto all'altro entro l'assoluto. L'identità di Dio e natura costituirebbe allora un momento intermedio nel processo che vede circolarmente Dio farsi uomo e gli uomini farsi Dio. Questa linea interpretativa antirazionalistica viene mantenuta durante la reazione antihegeliana in Germania nel corso della quale Schelling espone a Berlino la sua filosofia positiva dai caratteri fortemente teistici.
Questa impostazione ermeneutica, mentre riconferma l'inserimento di Bruno nel processo di formazione della filosofia moderna, risulta di particolare rilievo perché è quella che viene accolta in Italia: paradossalmente Bruno rientra nel suo paese sotto l'egida del moderatismo filosofico e dell'irrazionalismo idealistico di matrice schellinghiana. In questo panorama si segnala T. Mamiani che scrive una prefazione alla traduzione del "Bruno", sostenendo, in funzione antispinoziana, una visione spiritualistica: Bruno avrebbe asserito non che Dio è nel mondo ma che il mondo è in Dio. Il panteismo verrebbe così riabilitato in quanto Dio costituirebbe il fondamento del mondo.
Nel clima politico e culturale della borghesia ottocentesca con le sue convinzioni anticlericali e liberali, l'interpretazione moderata si consolida affrontando il tema dei rapporti tra filosofia e libertà religiosa: di questa tendenza l'esponente più autorevole è F. Tocco. Profondo conoscitore della vita e delle opere di Bruno (il suo lavoro più notevole è "Le opere latine di Bruno confrontate con le italiane", Firenze 1889), egli intende scagionare Bruno dall'accusa di eresia presentandolo come un testimone dell'esigenza della libertà dello spirito, un razionalista che mira ad interpretare senza imposizioni autoritarie i dogmi religiosi. Dunque Bruno viene intrepretato in climi storici a lui estranei che gli impongono temi, problemi e impostazioni teoretiche in modo del tutto estrinseco. Così se da un lato è presentato quasi fosse un sincretista platonico cristiano, spiritualizzato attraverso l'influenza di Cusano e Ficino, dall'altra si giunge fino a farne il precursore delle teorie evoluzionistiche.
Tuttavia esiste un altro filone interpretativo, molto più corretto e fecondo, che intende rovesciare la posizione spiritualistica attraverso la comprensione del nesso tra la filosofia di Bruno e la storia sociale, politica e culturale dell'Italia. Si tratta di una sorta di linea maestra che collega B. Spaventa ad A. Labriola. Il primo in particolare, mediante la riscoperta dei maggiori autori italiani del Rinascimento e della loro influenza sulla cultura europea, intende offrire alla borghesia liberale il terreno più sicuro per ritrovare la migliore tradizione ed identità culturale nazionale esaltata dal contatto con il più evoluto e maturo pensiero occidentale. Del pensiero di Bruno Spaventa coglie soprattutto il nesso tra metafisica della mente e moralità, nel senso che prima di Cartesio egli evidenzia il fondamento dell'etica sulla ragione nella sua assolutezza e necessità: l'autorità è interna, è l'essenza della coscienza stessa. Ma la ragione, principio del sapere e del fare, è la stessa cosa di Dio e la natura: in tal modo emerge la progressiva esposizione della necessità dell'uomo e il significato del lavoro che mentre ci riconcilia con la natura viene a costituire il senso intrinseco della vita umana. Dunque nell'interpretazione spaventiana la metafisica della mente, che è espessione dell'infinito, si traduce in una filosofia dell'immanenza esaltante la dignità umana nella sua dimensione naturale e operativa.
Data la sua formazione marxista, A. Labriola non accetta queste conclusioni anche se è disposto ad utilizzarle come punto di partenza per collegare il naturalismo cinquecentesco italiano ai dibattiti scientifici e sociali dell'Europa moderna. Egli vede Bruno sullo sfondo della decadenza economica e politica dell'Italia di fronte al progredire dei moderni stati europei (Francia e Inghilterra in particolare) che egli aveva potuto osservare da vicino durante i suoi soggiorni. I contrasti d' idee (copernicanesimo contro aristotelismo, filosofia contro religione, sapienza contro ignoranza ecc.) rappresentati nei dialoghi e nelle opere latine sono espressione di quei contrasti sociali che travagliano la storia del nostro paese in un' epoca di transizione. Rispetto ad essa Bruno, secondo questa prospettiva ermeneutica, avrebbe ricoperto una funzione anticipatrice storica oltrechè culturale: merito di Labriola è di aver liberato Bruno dalla terminologia teologica e di aver scoperto la storia dentro il divenire della natura. Tuttavia le sue indicazioni pur così stimolanti per una lettura più appropriata del pensiero di Bruno, non riceveranno uno svolgimento adeguato: al contrario si può assistere, nella prima metà del nostro secolo, ad una involuzione che riporta l'attenzione sul piano spiritualistico e avvalla il mito di in interesse religioso da parte di Bruno. Su questa linea si collocano i volumi di J.R. Charbonel ("L'ethique de G.B. et le deuxiéme dialogue du Spaccio", Paris 1919), di A. Guzzo ( "I dialoghi di Bruno", Torino 1932, secondo il quale Bruno avrebbe sostenuto una sofferta interiorità dell'esperienza religiosa e una filosofia degna dell'infinità di Dio) e di A. Corsano ( "Il pensiero di G. B. nel suo sviluppo storico", Firenze 1940, che presenta Bruno come un riformatore religioso teso alla evoluzione e al riconoscimento della dignità etico religiosa di tutti gli uomini).
Ma gli studi su Giordano Bruno in questo arco di tempo sono dominati dalla interpretazione di Giovanni Gentile esposta in una conferenza del 1907 (rielaborata e inserita nel volume "Il pensiero italiano del Rinascimento", Firenze 1968, XIV, alle pp. 261-310). Per il teorico dell'attualismo il Nolano fu essenzialmente uno spirito contemplativo, animato esclusivamente dall'amore per l'eterno e il divino; perciò fu alieno dalla pratica e disattento verso le cose che gli stavano attorno: estraneo a tutte le chiese (ai riformati parve cattolico, ai cattolici riformato), sentì profondamente la sua solitudine, vivendo in prima persona la sovramondanità della filosofia. In quanto eroico furore, essa per Bruno si collocava su una dimensione mistica, nel senso di un' elevazione razionale al divino il cui spirito viene realizzato nell'individuo che se ne dimostra capace. La verità filosofica è dunque solo per i filosofi, e Bruno non la espose né al tribunale né al volgo; ma proprio questa coscienza aristocratica del pensiero doveva consentire l'apertura ad una visione positiva della religione e favorirne l'azione per i suoi scopi pratici e civili. Se lo stato è sostanza etica, "non c' è legge, non c' è stato senza religione", afferma Gentile in scoperta polemica contro radicali e socialisti. Se da un lato è evidente che stato e filosofia concepiscono diversamente questa sostanza, dall'altro è altrettanto chiaro che negarla significa distruggere lo stato e dissolvere la legge. Certo Bruno con la sua verità eterna si pone al di fuori della storia, e quindi anche del conflitto tra clericali e liberi pensatori che sono partiti pratici; tuttavia non c'è legge che non sia assoluta e non sia pertanto anche religione. Bisogna naturalmente separare la legge, la religione e lo stato dei filosofi da quelli del popolo; ma lo stato senza religione non può sussistere, quindi lo stato del popolo non può essere scisso dalla religione del popolo. Data la loro natura essenzialmente pratica, tutte le religioni si equivalgono in quanto tutte sono contingenti : in ciò si differenziano dalla filosofia che, quale momento ideale dello spirito, non può mai trasformarsi in una condizione storica effettiva ed empiricamente determinata. Questo spiega le repentine conversioni di Bruno al calvinismo, al luteranesimo, al cattolicesimo: non si tratta di opportunismo, ma della matura convinzione che la vita pratica in una comunità politica implica anche l'accettazione della sua legge e della sua religione. Esse possono essere criticate in astratto, ma debbono essere obbedite in concreto: se l'interesse pratico è preminente rispetto a quello teorico, Bruno combatte i teologi che portano con le loro dispute discordie, guerre, divisioni. Ma quando decide di rientrare in Italia, allora si genuflette poiché il cattolicesimo è legge civile e morale di questo paese. L'atto di obbedienza fatto a Venezia non è dunque quello del filosofo, ma dell'uomo con i suoi bisogni pratici di pace e di inserimento sociale; egli non rinuncia alla sua filosofia, ma non la difende neppure perché il tribunale dell'inquisizione è solo un istituto pratico e non un'accademia o un'università. Non avrebbe avuto senso discutere di materia dogmatica con i giudici, mentre era del tutto coerente accettare per motivi pratici (non di debolezza) i dogmi religiosi del paese in cui aveva deciso di vivere. Ma quando a Roma si pretese da lui una ritrattazione oltre il segno fino al quale aveva ritenuto di potersi spingere (cioè quando gli si impose l'abiura della sua filosofia), allora Bruno fu inflessibile e accettò serenamente la morte. Distinguendo tra verità filosofica e fede religiosa, chiedeva una libertà di pensiero senza ingerenze teologiche: per questo riconoscimento, che sperava di ottenere dal Papa, era disposto a concedere la propria sottomissione all'autorità ecclesiastica, confessando anche i propri errori di ordine morale e teologico. Però non avrebbe mai potuto rinunciare a quella verità filosofica a cui si era elevato e con cui si identificava in modo totale.
Nella prospettiva gentiliana Bruno rappresenta la conclusione logica del Rinascimento con le sue oscillazioni e le sue contraddizioni, prima tra tutte quella consistente nel distruggere l'antica concezione della realtà ma non il suo fondamento trascendente: di qui i germi della decadenza, la falsità di un intero mondo che Bruno avverte e denuncia. Anch'egli tuttavia non nega la trascendenza limitandosi a trasformarla in quella "mens insita omnibus" che è la Natura. Mancando il concetto di Spirito quale assoluto immanente, essa presuppone necessariamente, secondo Gentile, un Dio esterno, una "mens supra omnia" quale suo fondamento. Una volta ammessa questa verità ultramondana, è agevole cogliere l'importanza della religione, la cui legittimità consiste nel margine lasciato dalla filosofia nella conoscenza della verità. Ma se la verità della filosofia suppone e conferma una verità più alta, quella religiosa, allora la condanna al rogo non risulta intrinsecamente conseguente a questa dottrina? Non era stato lo stesso Bruno ad ammettere la necessità della legge e il suo fondamento nella religione? Se una filosofia combatte la religione è pericolosa e il suo autore deve essere condannato perché così impone la legge. Accettando queste premesse, la condanna a morte risulta legittima, anche se Bruno, non cosciente della contraddizione di cui lui stesso è portatore, attraverso di essa mostra l' impossibilità di una conciliazione tra l'antica concezione del mondo e le esigenze del pensiero moderno. Quest' ultimo riconosce la libertà di pensiero come fatto storico e la necessità di realizzare il divino immanente al mondo nella legge della coscienza e dello stato . La morte di Bruno è dunque il martirio per la fede nell'uomo nuovo, conclusione e correzione inveratrice della sua filosofia.
Gli studi del dipoguerra (nel complesso opere di carattere generale e di sintesi complessiva quali A. Corsano "Il pensiero di G.B. nel suo svolgimento storico" Firenze 1938, L. Cicuttini "G.B." Milano 1951, A. Guzzo "G.B." Torino 1960) sono tesi a liberare la filosofia di Bruno non solo dai condizionamenti ottocenteschi (Bruno martire del libero pensiero e teorico del laicismo) ma anche da quelli dell'attualismo gentiliano e dello spiritualismo cattolico. Sotto questo profilo il libro di N. Badaloni "Il pensiero di G.B." (Firenze 1955, rielaborato alla luce della critica più recente e ripresentato col titolo "G.B. : tra cosmologia ed etica", Bari 1988) costituisce una vera e propria svolta, perché offre una lettura dell'opera del Nolano finalmente restituita ai suoi legami con il pensiero moderno e riconosciuta nei suoi aspetti più innovatori. Sgombrato il campo da tutti i tentativi di imporre a Bruno interessi teologici o religiosi di qualunque tipo, si insiste soprattutto sugli interessi naturalistici (che ovviamente non potevano non scontrarsi polemicamente con le credenze e i modi di vita del mondo circostante) e sulle diverse matrici del suo pensiero che tuttavia si evolve all'interno dell'aristotelismo per arricchirsi e ampliarsi con l'innesto di altre fonti. Avremmo così l'evoluzione da un iniziale averroismo verso una concezione dell'infinito prima formulata in termini atomistici poi in termini neoplatonico-anassagorei. Detto altrimenti, Bruno avrebbe cercato in una natura intesa in termini di infinità e di mutevolezza continua quei fattori di costanza che la rendessero intelligibile. Le idee platoniche (private del loro aspetto finalistico) non sarebbero altro che lo stesso mondo sensibile colto nei suoi aspetti di costanza ed eternità, mentre senso e intelletto costituirebbero due modi di intendere la stessa realtà fisica la cui visione non è data da una scienza matematica ma da una penetrazione metafisica che coglie il movimento unitario del tutto. Mantenendo il pregiudizio che l'ordine delle cose sia riproducibile nel pensiero, la novità della sua filosofia consiste nella collocazione di un mondo di forme, attraverso cui passa il divenire delle cose, nell'universo infinito: quest'ultimo è segnato dal prendere forma di un'infinita materia che segue un ordine costante (e l'arte della memoria non è che lo strumento mentale per riuscire a rappresentare l'universo in una immagine riassuntiva che si basa sull'innesto delle idee nella natura). Dio è la forza vivificante delle cose, il sigillo della costanza dell'universo e della sua continua creatività. E qui Badaloni può definire la posizione di Bruno rispetto alla scienza moderna: certo la sua è ancora una posizione speculativa, filosofica, per tanti aspetti espressione di una fase di transizione, ma portando a precisazione la moderna visione del mondo, egli finisce per condizionare e influenzare la nuova ricerca scientifica. La scoperta dell'infinito (che è realtà materiale) agita e sommuove i concetti scientifici tradizionali: nella misura in cui Bruno identifica la nuova cosmologia eliocentrica con l'antica filosofia della natura di cui vuole la rinascita, quest'ultima assume un significato moderno e attuale, implicando anche la liberazione dalle superstizioni e dalle sofisticherie. In questo senso deve essere interpretato l'interesse di Bruno per la magia: posto che la scienza possiede un interesse pratico di di liberazione umana, essa si configura come ricerca oggettiva delle cause della natura e non come supposti poteri del soggetto, come anticipazione di un fatto singolo di fronte ad una sollecitazione determinata. La magia non è capacità di operare miracoli ma spiegazione del perché si ripetono certi eventi e di come sia possibile utilizzarli come vincoli. Essa spiega come sia possibile vincere con determinati simboli o atti l'animo dell'uomo facendo udire a ciascuno il richiamo dello spirito corporeo universale.
Anche la riflessione etica di Bruno viene presentata da Badaloni in continuità con quella sulla natura e quindi liberata da tutte le interpretazioni spiritualistiche che vedono la fonte dell'etica nel contatto con Dio cui tutto si subordina. Badaloni mostra come questa visione sorga dall'aver equivocato il senso del termine "divino" che Bruno impiega in senso metaforico per indicare la costanza del tutto che è oggetto di comprensione intellettuale: divina è allora la stessa coscienza del reale. Il raccogliere il reale nella mente corrisponde al carattere divino dell'uomo in quanto la mente ci dà modo di rispecchiare in forme costanti l'infinita mutevolezza delle cose. La moralità si fonda dunque sul pensare, che consente un legame con la razionalità e la vita. La contemplazione intellettuale, in cui consiste la più alta forma di moralità e alla cui elevazione Bruno richiama, significa intendere più a fondo l'oggettività delle cose e approfondire la tendenza più nascosta del nostro essere, orientando i nostri impulsi verso l'unità con la natura poiché l'intelletto è la natura stessa vista nel suo nocciolo di eternità e costanza che sta alla base del mutamento. Respingendo l'ascetismo cristiano, Bruno apprezza la religione antica, e particolarmente quelle egizia anche se egli è ben lontano da volerla riesumare e sostituirla al cristianesimo (come pretenderà la Yates). Il problema della libertà dell'uomo nasce dall'intuizione della costanza dell'essere nella sua infinitezza e l'intelligenza è condizione di libertà. La moralità sta nel dominio del transeunte raggiunto attraverso la percezione del permanere della sostanza al di là del nascere e del morire delle cose: in questa coscienza del divenire universale consiste, secondo Badaloni, la storicità (non lo storicismo) del pensiero di Bruno. Ne deriva una complessa problematica sociale e politica cui Badaloni, lungo la linea tracciata da Labriola, dedica ampio spazio così come, in generale, al rapporto di Bruno con il suo tempo. Anche il mondo sociale rispecchia questo aspetto di mutevolezza naturale: infatti, intesa la necessità del tutto, il movimento incessante delle cose nel suo significato reale, l'uomo è in grado di cogliere il vero significato delle vicende del mondo sociale. Amando il movimento, la conservazione e la vitalità del tutto, può tendere al mantenimento del corpo sociale che è lacerato all'interno dalle singole volontà. Di qui la valorizzazione delle attività volte a questo fine, compresa la religione, mentre la virtù suprema è perfezione del proprio e altrui intelletto al servizio della comunità. Anche le religioni possono contribuire a conservare e rafforzare i legami sociali e vanno bandite solo quando diventano strumento di divisione sociale. Al principe tocca creare una situazione di pace sociale e di convivenza che implichi un diritto comune: entro questo quadro può svolgersi la lotta per la ricerca della fortuna che alterna le sorti dei singoli, senza che ciò si svolga in un clima distruttivo. Badaloni sottolinea come questo orientamento sia stato suggerito a Bruno dalle sue esperienze nei paesi più avanzati dell'Europa moderna: egli ha potuto apprezzare la politica di Enrico III e di Elisabetta I che hanno impostato la convivenza civile su basi razionali e naturali. Dunque Bruno sarebbe cosciente delle trasformazioni del mondo moderno, come è testimoniato dall'apprezzamento del lavoro che apre ad un rapporto dinamico tra uomo e natura ma anche alla trasformazione dei rapporti sociali e di proprietà. Ne deriva il riconoscimento del ricambio necessario dei ceti dirigenti (la cui mancanza aveva potuto constatare a Napoli) da ricercarsi negli strati più alti della società (e qui si può giustificare chi, come l'Ogiati, ha parlato di aristocraticismo bruniano, notando la frattura con le masse popolari). In ogni caso Badaloni evidenzia la modernità di Bruno che si esplica nell'accettazione delle fratture sociali (con il conseguente abbandono delle ideologie gerarchico-feudali), della nuova struttura del principato (liberato dalle concezioni feudali del sovrano) e della funzione della legge. E' secondo natura, che è continuo mutare di forme, assecondare il nuovo che avanza e cambia il mondo: perciò si deve lasciare posto all'iniziativa del singolo e alla circolazione della ricchezza. La natura non è Provvidenza ma Fortuna che dà a ciascuno la sua sorte: essa si offre a tutti, anche se non tutti sono capaci d' afferrarla. Perciò Bruno, che non è al di sopra delle parti ma è dalla parte dell'avvenire e del progresso, approva un ordine politico non egalitaristico ma fondato sulla divisione di gradi raggiunti con l'abilità e sull'impero della legge, in base al principio "natura sit rationi lex, non naturae ratio". Questo atteggiamento generale giustifica, secondo Badaloni, anche la vicenda personale di Bruno che da Venezia, città moderna con un governo fondato sulla legge (tra l'altro Venezia era stato il primo stato cattolico a riconoscere la monarchia di Enrico IV), voleva seguire più da vicino la politica antispagnola di Enrico IV (in cui sarebbe stata coinvolta anche l'Italia) e prendere contatto con Clemente VIII, papa antispagnolo, in vista di un suo rientro in seno alla Chiesa cattolica e alla corte francese. La situazione sembrava volgere al meglio, profilandosi un accordo tra Francia e Papato che avrebbe portato ad un clima più tollerante e ad un allentamento del controllo censorio imposto agli intellettuali, cui avrebbe dovuto essere lasciata libertà di pensiero come guide politiche dei popoli. Ma egli si illuse sulla disponibilità della Chiesa e accettò la morte non volendo divenire meno alle sue convinzioni, peraltro perfettamente accertate dagli inquisitori.
Nel 1964 compare una monografia destinata a modificare radicalmente l'immagine di Bruno e ad influenzare per molto tempo gli studi e le interpretazioni del suo pensiero. Si tratta dell'opera di F. A. Yates "G.B. e la tradizione ermetica" ( trad. it., Bari 1969) La studiosa, membro del Warburg Istitute di Londra e già nota per alcuni saggi bruniani sullo sfondo della cultura inglese tra '500 e '600 (raccolti in volume e tradotti col titolo "G.B. e la cultura europea del Rinascimento", Bari 1988), propone una nuovo paradigma ermeneutico alla luce del quale leggere l'intera opera di Bruno e, più in generale, intendere il significato del Rinascimento. L'ermetismo viene così descritto nei suoi contenuti, colto nelle sue origini e seguito nei suoi sviluppi nell'ambito della cultura umanistica. In particolare viene messo in risalto il tema della magia, il suo inserimento in un quadro filosofico di stampo neoplatonico, la sintesi conciliativa con la tradizione cabalistica e soprattutto con la religione cristiana che viene realizzata del platonismo fiorentino nella seconda metà del Quattrocento. La Yates analizza, da questa prospettiva, l'opera di Marsilio Ficino, di Pico della Mirandola, di Cornelio Agrippa, ricostruendo l'intensa trama di collegamenti e di influenze nella cultura inglese e francese del Cinquecento fino a sostenere la derivazione della scienza moderna dalla magia rinascimentale. Giordano Bruno si collocherebbe allora al termine di questa tradizione di pensiero di cui trarrebbe le implicite ed estreme conseguenze: infatti, se Ficino e Pico avevano accolto i temi ermetici con estrema cautela e moderazione per non giungere a collisione con l'ortodossia religiosa, Bruno esige un ritorno esplicito e radicale alla religione egizia ed alla pratica della magia in senso nettamente pagano. Durante il suo soggiorno parigino prima e londinese poi, Bruno ha insegnato dunque la filosofia di Ermete Trismegisto, la prisca sophia di cui egli intende essere il reastauratore, alla cui luce ha letto anche il copernicanesimo e da cui ha tratti tutte le implicazioni sul piano etico e religioso. "La visione che viene elaborata dal Nolano è una nuova interpretazione ermetica della divinità dell'universo, una gnosi sviluppata. Il copernicanesimo annuncia il risorgere vittorioso dell'antica verace filosofia dopo il lungo periodo in cui era rimasta sepolta nelle tenebre. (..) La verità bruniana non è né quelle cattolica ortodossa né quella protestante ortodossa: è la verità egiziana, quella magica. (..)Bruno ha compiuto l'ascensione gnostica, ha vissuto l 'esperienza ermetica ed è pertanto divenuto un essere divino imbevuto delle Potestà [cioè dei poteri magici]". L'universo "viene trasformato da Bruno in una gnosi ermetica profondamente allargata, in una nuova rivelazione di Dio come mago che infonde una magica animazione nei mondi innumerevoli, in una visione, infine, per ricevere la quale, l'uomo mago, miraculum megnum, deve dilatarsi a proporzioni infinite per poterla riflettere in sè".
La figura di Bruno risulta centrale in un' altra opera della Yates dedicata a "L'arte della memoria" (trad. it., Torino 1972), argomento apparentemente marginale ma che invece costituisce il crocevia di numerosi fili tematici che ancora una volta fanno capo alla cultura ermetica con tutti i suoi risvolti cosmologici, magici e gnoseologici (e non si dimentichi che Bruno aveva insegnato mnemotecnica a Parigi e che per l'apprendimento di quest'arte il Mocenigo l'aveva chiamato a Venezia).
L'opera della Yates ha avuto un'eco amplissima e non si può negare che gran parte della saggistica a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta sia stata in una qualche misura influenzata dalla sua prospettiva, che, come e stato notato, ha il merito di aver collocato Bruno all'interno di tradizioni culturali in precedenza trascurate, reagendo in tal modo a schemi interpretativi ormai consunti. Essa tuttavia non ha scoperto ma ha utilizzato in modo forte e originale la chiave ermetica fino a incidere sulla discussione sulla scienza moderna e sul rapporto scienza-magia. Sul piano dei contenuti si può dire che si sia riallacciata alle ricerche di E. Garin, che a questi temi ha dedicato molti studi. Tra questi bisogna ricordare le notevoli "Considerazioni sulla magia" (comprese nel volume "Medioevo e Rinascimento", Bari 1954) dove già si sostiene il carattere operativo della magia ed il suo costante appello all'esperienza quali fattori decisivi per la formazione dello spirito scientifico moderno; "La rivoluzione copernicana e il mito solare" (nel volume "Rinascite e rivoluzioni", Bari 1975), dove si sostiene la tesi che "appunto perché la veduta di Copernico importa una concezione diversa delle cose, non può scaturire se non da una diversa filosofia", quella che lo studioso italiano ricostruisce studiando i testi del platonismo rinascimentale; ed infine "Lo zodiaco della vita" (Bari 1976) che ripercorre le fasi salienti della polemica sull'astrologia tra Trecento e Cinquecento toccando punti estremamente interessanti quali i rapporti tra astrologia e magia e quelli tra neoplatonismo ed ermetismo. Anche se Garin non si è mai occupato specificamente di Bruno, tuttavia i suoi saggi sondano il clima culturale ed il tessuto di idee in cui è cresciuto ed ha operato il Nolano confermando ed approfondendo il quadro delineato dalla Yates.
Tra gli studi emersi lungo il solco tracciato dalla studiosa inglese spicca il libro di H. Védrine "La conception de la nature chez G.B." (Paris 1967), che comunque si collega anche al lavoro di Badaloni, più volte citato. La tesi sostenuta è che Bruno appartenga integralmente al naturalismo rinascimentale e quindi in lui sia dominante la concezione animistica: la sua metafisica consiste nel mostrare la presenza dell'uno nel molteplice attraverso la nozione centrale dell'anima universale. Insistendo sull'unità dell'universo, egli getta le basi di una concezione monista che può essere considerata anche uno spiritualismo assoluto. Certo la presenza delle nozioni di anima, forma e divinità nonché il privilegio accordato in sede morale ad una eternità situata al di là di tutte le percezioni a discapito del divenire, escludono l'accusa di materialismo. Piuttosto il primato della materia incorporea (Bruno rifiuta l 'identificazione, tipica di questo periodo segnato dal rigorismo sia riformato che cattolico, di materia con peccato e vizio) conduce Bruno a identificare la sostanza con una eternità attuale, identica a se stessa e perpetuamente creatrice. Non avendo mai superato l'orizzonte dell'animismo (e del conseguente pampsichismo), è facile capire il recupero dell'ermetismo da parte di Bruno che concepisce la filosofia come ricerche di corrispondenze simpatetiche e quindi il conseguente sfociare nell'apprezzamento della magia. Quest'ultima consente di esercitare degli influssi che trasformano la natura mediante il ruolo taumaturgico dell'immaginazione che sa esercitare un benefico effetto sui corpi estrerni (e non c'è bisogno di evidenziare come l'arte della memoria si fondi proprio sulla forza delle immagini). Da questo punto di vista la Védrine polemizza con chi applica al pensiero di Bruno categorie moderne (il '600 sottolineerà le sue insufficienze scientifiche, l''800 lo riabiliterà ma solo sulla base di equivoci, il '900 cade spesso da un eccesso all'altro): la sua cultura è esclusivamente fissata sul passato sia per gli strumenti sia per il sistema di referenze, tutta riassorbita nel mondo rinascimentale (e se si pone dei problemi moderni lo fa con un linguaggio antico, con nozioni improntate alla tradizione greco-cristiana). Basta pensare al primato della contemplazione sull 'azione, dell'eterno sul divenire: tipico esempio di intellettuale aristocratico staccato dai rapporti con la storia, Bruno trascura del tutto il mondo del quotidiano, non si interessa né della tecnica né dell'industria (il che lo pone al di qua di Moro e Campanella), e lo sviluppo della borghesia non gli suscita se non pensieri nefasti sul ruolo del denaro. Cercheremmo invano in Bruno una considerazione della storia come prodotto umano, visto che la prassi è spesso solo una mera agitazione sulla superficie dell'essere (la stessa magia è più teoria che pratica): è dall'eternità che spera possa giungere ciò che il tempo non può fornire, cioè la verità e l'unità riconquistata. L'eternità che non è trascendenza ma abolizione del tempo nell'immanenza dell'uno, nella natura vivente. La natura è infinità e totalmente realizzata in atto, ma non ha storia ed esclude lo sviluppo: così il tempo è solo l'ambito dove si affrontano i destini individuali, ma non quello in cui l'uomo si fa totalmente uomo. A conclusione del saggio, tuttavia, la Védrine è disposta a riconoscere il contributo di Bruno al mondo moderno identificato nella critica agli schemi del passato tesa alla trasformazione delle abitudini di pensiero: di qui passano infatti l'audacia intellettuale e la formazione di nuovi concetti. Quello di Bruno sarebbe così un razionalismo anticipatore la cui essenza consisterebbe in una sorta di esperienza mentale sul possibile: dalla distruzione del cosmo aristotelico egli avrebbe tratto le estreme conseguenze (non a caso più audaci e radicali dei contemporanei, anche se ovviamente prive di controllo sperimentale) sia sul piano fisico che su quello metafisico ed etico.
All'orizzonte interpretativo che si ispira alla Yates può essere ascritto, senza tuttavia dipenderne in modo diretto, anche il lavoro di F. Papi "Antropologia e civiltà nel pensiero di G.B." (La Nuova Italia, Firenze, 1968), che sottolinea fortemente le valenze anticristiane e libertine del pensiero del Nolano. Partendo da un tema apparentemente marginale (ma che fu oggetto di contestazione da parte dell'inquisizione) quale quello della generazione spontanea degli esseri, egli ne evidenzia, insieme alla matrice lucreziana, le implicazioni materialistiche e anticreazioniste che sfociano in una concezione della natura come solo e autentico divino. Nella dilatazione infinita del cosmo copernicano, Bruno risolve il tradizionale problema teologico degli attributi di Dio con la loro identità: nell'infinito infatti non esiste distinzione di gradi. Ma se si razionalizza il modo teologico di porre il problema di Dio in merito ai suoi attributi, si perviene all 'idea di un Dio come unità infinita ed efficiente ab aeterno di un universo fisicamente infinito che è la sua realizzazione. Ereditando e fondendo temi della tradizione averroista e neoplatonica, si concepisce il processo che conduce da Dio all'universo come un'esplicazione nell'identità (identità di potenza ed atto e dei suoi principi, anima e materia). Ne risulta una divinizzazione della natura dove il suo essere coincide con il suo valore: infatti, neutralizzando la concezione cristiana in chiave neoplatonica, Bruno fonda l'infinità non solo come esistenza ma anche come qualità positiva in quanto infinità di luoghi abitabili dall'uomo. Una simile concezione di Dio come necessaria esplicazione nell'infinito naturale è ciò che conferisce valore alla natura che è totalità e quindi unica fonte di conforto e sostegno per l'uomo. Ma ciò significa anche piena fiducia nei mezzi umani di raggiungere la conoscenza totale dell'essere naturale e convinzione che il discorso sulla natura sia il solo discorso possibile su Dio: di conseguenza Bruno decristianizza il problema teologico (sarebbe vano cercare in lui una sostanza separata e trascendente) che viene risolto completamente in quello filosofico. Inoltre l'idea razionale di Dio che si realizza nella totalità della natura fonda anche l'omogeneità dell'infinito con se stesso, un'omogeneità metafisica che è parallela a quella fisica e che rompe non solo con la visione aristotelica ma anche con quella cristiana del mondo in tal modo desacralizzato. Se c'è sinonimia tra Dio e natura, Dio si trova in tutto e ovunque nel senso che Dio-natura è in rapporto diretto con la materia: allora la natura produce tutto dal suo seno, poiché essa è l'artista interiore, il motore che agisce dall'interno. Ma la natura è bene e quindi l'infinito è bene. Respirare, muoversi, amare, vivere: tutto si svolge nella dimensione dell'infinito in cui non c' è drammaticità, angoscia o frustrazione poiché l'uomo è sempre in rapporto organico con la natura in ogni aspetto della vita quotidiana. Nella dimensione dell'infinito ogni cosa si identifica con le altre e tutte costituiscono la natura dove sussiste nello stesso tempo infinità ed omogeneità dell'uno rispetto ad ogni vivente, senza che si possa dare alcuna gerarchia o graduazione degli esseri che risponda ad un quadro di valori prefissato. Secondo Papi la novità di Bruno consisterebbe proprio in questa visione dell'universo infinito come unità organica e vivente dove ogni essere è manifestazione dell'unità naturale, concrezione temporale destinata a scomparire e a trasformarsi in un altro organismo, secondo una prospettiva teorica in cui si mescolano in varia misura Averroè, Plotino, Ermete, Pitagora, Lucrezio.
Questa prospettiva, dalle marcate implicazioni polemiche in senso antireligioso e libertino, viene confermata dalla credenza di Bruno nei preadamiti, credenza che si riallaccia evidentemente con i temi dell'infinità della natura e della generazione spontanea delle forme all'interno della nuova cosmologia copernicana. Se non esiste tempo e luogo che sia privo di generazione umana, allora questo comporta la fine della dottrina creazionista di matrice biblica e di converso l'adozione della teoria averroista della religione quale verità pratica finalizzata a modificare le condizioni di vita di un popolo mediante l'emanazione di leggi da parte di profeti che, spezzando antiche consuetudini, educano ad una rinnovata forma di comportamento morale e civile. Ma se le credenze religiose sono un elemento costitutivo della vita collettiva, allora la civiltà ebraico cristiana codificata da Agostino viene privata del suo significato spirituale esclusivo: il profeta, quale riformatore religioso, è portatore di messaggi atti ad essere recepiti dalla moltitudine che crede che in lui parli la voce divina. Così il profeta si può avvicinare al mago per il comune intento pratico realizzato mediante l'azione esercitata sull'immaginazione allo scopo di modificare i comportamenti tra gli individui. Ancora: se l'uomo è un essere totalmente naturale, si può comprendere l'idealizzazione della religione egizia che appare a Bruno quale modello positivo di religione mondanizzata e finalizzata al bene comune (ma ciò non significa che ne caldeggi la rinascita, come vuole la Yates), antitetica alle tenebre contemporanee rappresentate dall'oscurantismo cattolico e protestante. Ma il modello agostiniano di storia (e implicitamente la cronologia della storia biblica del mondo) entra in crisi anche quando Bruno prende in considerazione i selvaggi d'America. Essi contesterebbero con la loro esistenza (per Bruno gli uomini nascono in America come in qualunque altra parte per processo spontaneo) e le loro civiltà antichissime l'etnocentrismo ebraico e cristiano il cui modello è respinto dall'alleanza congiunta tra il Nuovo Mondo e la civiltà egizia in favore di una concezione policentrica dell'umanità e della civiltà. In questo modo Bruno partecipa al dibattito assai animato e denso di fermenti all'interno della cultura europea, specie libertina, che, dalla ferocia delle guerre di religione, prende spunto per riflettere su se stessa e per immaginare un mondo in cui gli uomini vivano in confidente rapporto con la natura lontano da leggi, istituzioni, dottrine opprimenti. Tuttavia Papi ha cura di evidenziare la posizione particolare di Bruno. Egli infatti non si limita a identificare i selvaggi con le virtù degli antichi, ma rifiuta il mito dello stato naturale degli uomini in quanto bestiale. Certo l'uomo è un essere naturale, è gettato nel contesto naturale; ma egli non solo è, ma può essere: il suo poter essere è specifico della sua naturalità poiché con l'attività e l'abilità tecnica riesce a modificare le condizioni storiche d'esistenza. Queste considerazioni ci aprono alle tematiche gnoseologiche e antropologiche del pensiero bruniano. Per quanto concerne il primo aspetto, bisogna evidenziare che il conoscere è un processo naturale della vita, la garanzia che l'essere naturale pervenga al suo fine. I diversi livelli di conoscenza (senso, immaginazione, ragione, intelletto) provengono dall'unità metafisica che è identica all'unità di animazione di tutti i viventi, che agisce differentemente nelle specie e nei vari organismi. Bruno vede nella progressione dei gradi uno sviluppo del livello iniziale: il senso è lo stesso intelletto e viceversa. Ma ciò equivale a sostenere che, data la medesima mente che provoca conseguenze diverse negli esseri che si trova a vivificare, il comportamento istintuale e il discorso intellettuale hanno una stessa radice pur assolvendo a funzioni differenti. In sostanza l'unità della natura si traduce nell'unità dei processi gnoseologici. Tutto appartiene allo stesso essere naturale e natura è anche il risultato ultimo dell'ascesi conoscitiva del saggio, che sa modificare il suo stato alterando i suoi vincoli con gli oggetti, mutando l'atteggiamento verso la morte, affermando la sua indifferenza verso i beni materiali. La certezza del conoscere, costituendo una possibilità della ed entro la natura, sta nel fatto che soggetto e oggetto hanno la stessa radice metafisica (come viene espresso nel mito di Atteone). Ciò significa, secondo Bruno, valorizzare la corporeità in quanto pone le condizioni di ciò che può diventare la stessa natura manifestandosi in una qualsiasi complessione fisica. Infatti la superiorità o inferiorità tra gli esseri viventi viene stabilita in base alle possibilità che ciascuna costituzione corporea ha di trasformarsi in strumenti: quanto più largo è l'uso che un essere può fare della propria corporeità, tanto più diverse possono essere le sue operazioni. L'uomo dunque si differenzia dagli altri esseri viventi: la sua eccellenza è il risultato di un processo mediante il quale le operazioni rese possibili dalla sua corporeità hanno potuto accumularsi consentendo il passaggio alla sfera della cultura e spezzando la vicissitudine ciclica del cosmo. Se dunque la cultura deriva con passaggio obbligato dalla corporeità, essa si pone in continuità con la natura nel senso che la complessione corporea dell'uomo dà origine a fenomeni non previsti nel ciclo naturalistico. In questo contesto si può collocare l'importanza che Bruno, con evidente richiamo ad Anassagora attraverso la mediazione di Lucrezio, attribuisce alla mano (peraltro un topos della cultura cinquecentesca): infatti è il possesso di questo meta-strumento che può provocare comportamenti naturali che stabiliscono il passaggio da natura a cultura. Essendo capace di produrre una molteplicità di strumenti, essa determina un rapporto che altera le condizioni di partenza consentendo la moltiplicazione delle tecniche e lo sviluppo della civiltà quale si evidenzia nel quadro che si para davanti agli occhi di Bruno: nuove scoperte geografiche, nascita di nuove ricchezze, sfruttamento della natura, aumento delle invenzioni, organizzazione razionale dello stato. Secondo Papi non c'è contrasto tra la mistica dell'Assoluto e la valorizzazione della vita attiva, dato che vi è una natura immutabile e una natura artificiale, una necessità che non può mai essere superata e una libertà che può continuamente rinascere attraverso la mediazione della conoscenza (che comprende anche la magia, fondata sull'omogeneità strutturale di uomo e natura) e del lavoro. Tuttavia si può notare una tensione, una scissione irrisolta poiché il processo di crescita della civiltà è inscritto nel cerchio della natura che tutto comprende e in cui tutto di dissolve (così come l'uomo è un tutto in relazione a quello che ha costruito, e un niente in relazione all'infinità immutabile del tempo): il mondo umano sembra così subire un processo di innichilimento, virtù e vizio sembrano cadere nell'indifferenza dell'identità. L'uomo non può sfuggire alle condizioni naturali che sono intrinseche al suo seme connesso in natura con gli altri semi del vivente: egli vive la sua avventura naturale tutto risolto nel rapporto che si costituisce tra la necessità che vive in lui e la contingenza che si esplica nella sua vita mondana. L'ordine dell'universo è dunque regolato dalla necessità, ma quest'ordine si riferisce alle vicende naturali e non tocca la civiltà dove trovano luogo la libertà e la dignità dell'uomo. Egli come struttura corporea deve agire poiché così è scritto nel suo seme; ma agisce in connessione con l'intelligenza, cosicché mano e intelligenza sono inseriti nella struttura corporea dell'uomo in modo originale, tale da determinare un mondo nel mondo dove la necessità naturale non è eliminata ma incorporata in una struttura nuova.
L'influenza della Yates (senza per questo risultare esclusiva e monopolizzatrice del senso della ricerca) sembra essere più marcata nel lavoro di A. Ingegno "Cosmologia e filosofia nel pensiero di G.B." (La Nuova Italia, Firenze 1978), che raccoglie diversi saggi dell'autore scritti lungo un decennio. Il tema della rivoluzione astronomica viene colto, al di là degli aspetti tecnici, all'interno di un più ampio contesto culturale, a partire dalla domanda circa gli elementi sui quali Bruno abbia fondato le sue certezze delle ragioni di Copernico. Il fatto che egli presenti in chiave di catastrofe naturale la crisi del sistema aristotelico viene giustificato con la conoscenza della letteratura astrologica in cui è delineato il verificarsi di immani eventi cosmici in relazione alla fase finale in cui è entrato il vecchio mondo (e nello "Spaccio" Bruno mostra di credere al verificarsi di un'immane congiunzione astrale). Dunque in Copernico si compie ciò che è indicato nell'Apocalisse, l'avvento di cieli e terra nuova (che in termini fisici significa eliminazione del geocentrismo, del primo mobile, dell'ultimo cielo): egli è stato un segno divino e Bruno l'unico vero interprete. Le spiegazioni della nuova astronomia, mentre chiariscono la reale portata e natura dei fenomeni, forniscono le prove più sicure che essa rappresenta qualcosa di origine superiore che comporta anche conseguenze morali, poiché comprendere l'operato divino significa come vivere bene. Se seguire Dio è seguire la natura, il distacco dalla visione cristiana non potrebbe essere più profondo: la magia è la sola religione efficace sul piano pratico, e perciò l'unica vera. Ingegno interpreta in questa chiave anticristiana il primo dei dialoghi italiani, dove Bruno si presenterebbe come avente una missione religiosa, dato che distribuisce la vera cena e proprio nel giorno delle ceneri, cioè nel momento iniziale di un' epoca che segue ad un periodo di corruzione e sconvolgimenti. La sua cena riguarda un futuro che si apre solo se si riconoscono gli errori del passato a cominciare dal contrasto tra divinità e natura. Anche lo "Spaccio della bestia trionfante" è interpretato nel suo significato anticristiano: la bestia è lo stesso cristianesimo, sia cattolico che protestante, di cui Bruno intende attaccare i valori fondamentali rivelando il vero significato di quei testi (Genesi e Apocalisse) di cui a torto le chiese affermano di possedere la chiave ermeneutica. La "Cena" e lo "Spaccio" sono dunque i due dialoghi in cui, sui due piani del vero e del buono, vengono denunciati i guasti prodotti dal cristianesimo (guerre, divisioni ecc.). Risalendo con Copernico alle radici dell'errore, il sapiente è in grado di valutarne le conseguenze nefaste sia filosofiche che politiche e morali. Di conseguenza il copernicanesimo significa per Bruno una religione alternativa, la magia e la capacità di produrre influssi sulla vita civile: ma, appunto, la nuova teologia richiedeva una nuova astronomia e una nuova concezione dell'universo. Da questo punto di vista secondo Ingegno per Bruno sarebbe rilevante non il problema dell'immanenza, quanto piuttosto quello del corretto rapporto tra questa e la trascendenza, pensate in un nesso inscindibile e di complementarietà e realizzato nel momento in cui Dio viene visto come un insieme presente in ogni cosa ma non circoscrivibile in esso, partecipantesi a tutto senza che nulla possa esaurirne la natura e la potenza. Per questo Bruno rivaluta la teologia negativa e la religione degli antichi entrambe consapevoli di questo duplice rapporto, rompendo non solo con l'aristotelismo ma con tutto il cristianesimo e un certo platonismo (quello umanistico di Ficino). Egli non annulla la distinzione tra mondo sensibile e intelligibile, ma la ripropone nel senso che il primo è l'immagine del secondo che a sua volta è verità del primo. Così Dio è legato al mondo e ne è insieme svincolato, è libertà e necessità secondo un nesso inscindibile che pone l'intelligibile all'interno delle manifestazioni sensibili anche se queste ultime non lo esauriscono. Certo non è più possibile separare, come nella vecchia cosmologia, operato divino e operato della natura, anche se poi si verifica la sovrapposizione alla spiegazione fisica dei fenomeni celesti quella della teologia astrale. Essa risulta centrale soprattutto nello "Spaccio" (la struttura dell'opera poggia sulla convinzione che nell'uno-tutto vi sia un nesso tra cicli cosmici e rinnovamento delle credenze religiose), che si propone di purificare, attraverso l'ermetismo, lo zodiaco pagano dalle immagini del vizio identificato con il cristianesimo e il disordine che ha prodotto in Europa. In questa prospettiva Ingegno studia il tema dell'idolatria. Apparentemente Bruno è vicino alle posizioni cattoliche circa l'uso delle immagini anche se il suo è ovviamente diverso in chiave magica. Del resto cattolici e protestanti concordano nel rifiutare l'adorazione di semplici creature che per Bruno sono il segno del legame tra religione ebraica ed egizia (alcuni episodi della storia di Mosè mostrerebbero un chiaro significato magico) in seguito perduto. Peraltro se i protestanti accusano i cattolici di idolatria senza strumenti per sradicarla, ciò significa che non capiscono il valore di utilità morale che le immagini rivestono. Al contrario il carattere operativo (magico) dell'antica religione scaturisce dalla convinzione che la divinità non può essere attinta nella sua essenza mentre l'unico culto possibile è quello che realizza il rapporto con la natura e le forma in cui questo rapporto si realizza. L'idolatra pagana scaturisce dall'impossibilità di giungere al divino direttamente e dalla necessità di trovare il modo con cui esso comunica con la natura. Al contrario la pretesa cristiana di dare vita ad un culto diretto della divinità è già spia della sua incapacità di ottenerne i favori con efficacia: ciò significa che nel cristianesimo c'è idolatria ma senza giustificazione. Sotto questo aspetto i protestanti hanno ragione di evidenziare l'idolatria dei cattolici, ma la loro accusa presuppone proprio quella pretesa (un rapporto immediato con Dio) che è matrice dell'errore. Non vedendo il nesso tra Dio e religione pratica, il cristianesimo ha finito per recidere tale legame attuando un culto della divinità nella sua assolutezza. Perciò i cristiani non solo sono idolatri, ma lo sono imitando e fraintendendo gli egiziani e gli altri pagani che cercavano la divinità in cose vive mentre essi la cercano in cose morte. Secondo Bruno il corretto rapporto tra trascendenza e immanenza definisce anche il senso della magia; di conseguenza lo smarrirsi del primo rapporto (cioè la presenza di Dio nelle cose pur non esaurendosi in esse), verificatosi con Aristotele, porta all'oscurarsi del rapporto tra Dio e natura e quindi alla perdita dell'efficacia pratica della religione. Invece Bruno riconosce alla magia lo stato di autentica religione, poiché è solo attraverso essa che la divinità provvede ai bisogni dell'uomo, dal momento che essa vuole solo ciò che è possibile e naturale. Attraverso Copernico la magia si ricostituisce come "prisca religio" in contrapposizione al cristianesimo: ridando al cosmo la sua vera immagine (e quindi il vero rapporto trascendenza-immanenza), l'astronomo polacco ha mostrato il vero volto della religione antica, incompatibile con la nostra. Certo, la magia è un sapere esoterico per pochi eletti; tuttavia i simboli, mentre celano un contenuto più alto, nello stesso tempo lo rendono accessibile in forma sensibile stabilendo in tal modo una corretta trasmissione del vero. Per questo la religione primitiva è verità originaria, colloquio diretto tra gli uomini e gli dei; al contrario è il cristianesimo a traviare il senso della rivelazione, nel momento stesso in cui ha perduto la chiave interpretativa dei testi sacri (Genesi e Apocalisse soprattutto). Bruno l'ha ritrovata (e non va confusa con la pretesa novità filologica dell'umanesimo, che è pura pedanteria data l'estrinsecità dei suoi criteri), ed ecco il motivo della superiorità della sua filosofia. Essa insegna che gli dei hanno voluto che l'uomo fosse simile a loro, e per tale motivo gli hanno dato la libertà che significa agire e mutare la natura mediante i doni della mano e dell'intelletto. Il mutare la natura è esso stesso un fatto naturale: la struttura che spinge l'uomo ad operare avvicinandosi agli dei lo radica maggiormente nella natura. Ingegno segnala a questo punto la difficoltà che incontra il pensiero di Bruno che mentre rivendica l'importanza del lavoro in vista di una completa naturalizzazione dell'uomo, mantiene fermo il principio del determinismo come traccia inviolabile della divinità. Di qui l'impossibilità di separare l'operare magico da quello della natura e nello stesso tempo la necessità di far rientrare il primo in una sfera che non può essere sostanzialmente modificata. Il sapiente sa di muoversi in una realtà che non gli è estranea, purché sia in grado di vederla nella complessità dei suoi diversi aspetti: infatti il rigore delle leggi di natura non può non investire l'uomo, e l'equilibrio uomo-natura è lo stesso che il rapporto uomo-divinità. In questa prospettiva risulta allora fondamentale la conoscenza: agire è prima di tutto un atto dell'intelletto. Attraverso di esso sarà possibile cogliere il riflesso nell'uomo dell'identità divina di libertà e necessità.
A partire dagli anni Ottanta il paradigma ermeneutico della Yates viene esplicitamente ridimensionato: ridotta a mago, la figura di Bruno risulta deformata, insieme amplificata e contratta. Si fa largo la consapevolezza che ad un mito se ne è sostituito un altro: alla visione laica, scientistica e progressista, si è contrapposta quella magica e religiosa che priva il pensiero bruniano dello sguardo sul futuro. Si è insistito sulla perennità e continuità di una tradizione, ma non si è visto il suo intreccio con altri fattori costitutivi della modernità, il cui nesso con Bruno è apparso offuscato. Beninteso, anche in precedenza si erano levate voci critiche verso un'assunzione troppo disinvolta ed acritica delle tesi della studiosa inglese. Risalgono al periodo '73-'76 alcuni articoli di P. Rossi (riuniti poi nel volume "Immagini della scienza", Roma 1977) dove, insieme con i meriti, vengono evidenziati i limiti di uno studio, peraltro imprescindibile, come "G.B. e la tradizione ermetica". Il punto centrale del dissenso riguarda "la tendenza a sottolineare esclusivamente gli elementi di continuità fra la tradizione ermetica e la moderna immagine della scienza", tanto da trarre "l'impressione che l'intento della Yates sia quello di ricondurre la seconda fase (meccanicistica) della cosiddetta rivoluzione scientifica alla prima fase (magico-ermetica), e che lo studio delle interazioni fra queste due fasi debba servire a dimostrare che la prima fase non ha avuto, né avrà mai fine". In discussione è dunque lo specifico della modernità di cui la scienza costituisce una delle manifestazioni più notevoli. Su questo argomento negli stessi anni ha scritti pagine di straordinario vigore speculativo H. Blumenberg in "La legittimità dell'epoca moderna" (Marietti, Genova 1992). Secondo il filosofo tedesco "per il Nolano la riforma copernicana è sì compiuta e ha valore di una verità indubitabile; ma essa è ancora rinchiusa nel linguaggio tecnico, per lui inquietante, dell'astronomia matematica, che poteva solo celare la necessità di ripensare radicalmente le premesse dell'esistenza umana e di distruggere il sistema in cui egli si sentiva al sicuro". Di qui la sua contestazione radicale all'incarnazione dato che l'universo postcopernicano non può fornire più alcun luogo designato e alcun substrato eminente per l'atto di salvezza divino: "solo il cosmo infinito stesso può essere la fenomenalità, qualcosa come l'incarnazione della divinità, che per il Nolano era divenuto impossibile pensare come persona" Per questo il paganesimo di Bruno non diventa né ritorno né rinascita degli antichi dei, ma mezzo trasparente attraverso il quale deve essere reso visibile il fondo morale della formazione di figure del divino. Egli vede le figure e gli esseri come possibilità equivalenti nel tempo per continue partecipazioni, in un' eterna ridistribuzione delle parti attraverso la quale viene compiuto il poter trasformarsi di tutto in tutto. "Nel nuovo modello la divinità non solo porta innumerevoli nomi per una sostanza trascendente soggiacente (..), ma è la divinità che appare in tutte le figure senza divenire completamente una di esse e senza mischiarvisi definitivamente", realizzando una congruenza tra divinità e mondanità. "Se il mondo in quanto creazione esaurisce assolutamente le possibilità del fondamento dell'essere, diventa una contraddizione pensare che la divinità possa aver realizzato una possibilità nuova e peculiarissima dopo la creazione e all'interno di essa, anzi contro di essa. Se il mondo come tale rappresenta già in modo credibile l'autodispendio di Dio, Egli non può essersi fatto ancora una volta evento storico di un'incarnazione nel mondo". Secondo Blumenberg Bruno mostra alla sua epoca che il nuovo punto di vista dell'incommensurabilità otticamente inattesa del mondo degli astri, conseguenza dell'abbandono della visione geocentrica, non doveva necessariamente essere tradotto nella delusione del rimpicciolimento e dell'annientamento dell'uomo di fronte all'universo. Piuttosto questo poteva essere il prezzo per il superamento della coscienza tormentosa della contingenza sperimentata su sè e il mondo in seguito al cristianesimo.
Nel panorama del rinnovamento degli studi bruniani, il contributo più notevole lo ha certamente recato M. Ciliberto a partire da "La ruota del tempo" (Ed. Riuniti, Roma 1986), che lavora sulla base della consapevolezza che interpretare oggi Bruno significhi ricostruirne il pensiero individuandone mutamenti e costanti. Infatti esso è distinto in fortissimi, continui elementi di rielaborazione e autoripensamento, con paradossali ritorni al passato e proiezioni al futuro. La sua filosofia è molto ricca e articolata, non riconducibile a un solo tema o a una sola posizione: per questo è necessario distinguere fasi, momenti e programmi di ricerca per individuarne la pluralità dei quadri teorici elaborati secondo linee di scorrimento distinte da svolte, crisi, fratture, arretramenti che impongono una pluralità di livelli di lettura e di punti di vista. Tra questi Ciliberto sceglie una prospettiva di lettura che privilegia l'ambito etico-politico dell'esperienza inglese, ponendo al centro due archetipi o strutture quali l'asinità e la pedanteria che servono ad illuminare, una volta che se ne siano messe a fuoco costanti e mutamenti, le trasformazioni e le sistemazioni tematiche e concettuali nella mente di Bruno. Se l'asinità è facilmente identificabile con l'ignoranza, più complesso è il discorso riguardante la pedanteria: in generale essa incarna una visione del mondo antitetica ad una concezione positiva e non oziosa del sapere e della vita, che va combattuta perché disintegra la società e l'ordine umano e naturale. Se nel "Candelaio" questa figura sta a significare la degenerazione umanistica, nel periodo inglese essa si identifica fondamentalmente con Lutero: ciò è parallelo alla polemica anticristiana e alla riduzione del cristianesimo a paolinismo e religione riformata con la conseguente persuasione che la pedanteria sia la causa della crisi e della decadenza attuale che invade il mondo e devasta il sapere. Essa diventa quindi la chiave interpretativa della realtà, mentre asinità, pedanteria e cristianesimo si intrecciano nella stessa corrente polemica. Distruggere la pedanteria significa allora veder rinascere la civiltà: perciò la critica alla pedanteria si intreccia con la battaglia copernicana, con la riforma cosmologica e gnoseologica, con la lotta in difesa della sua filosofia dalla critica dei dottori oxoniensi in nome della lettera biblica. Infatti nella figura del pedante si saldano una concezione grammaticale del testo sacro, la visione tolemaica del mondo, una concezione della vita che esalta l'ozio e l'asinità, il rifiuto dei fondamenti della scienza e della società. Ciliberto tende a sottolineare il significato antiriformato della polemica bruniana: il pedante è Lutero che con la sua dottrina distrugge la repubblica seminando odio in nome del vangelo. Se a Parigi Bruno non è ancora interessato alla problematica etico-politica, questa balza in primo piano nel periodo inglese quando vengono abbandonate le tendenze concordatarie tra la Scrittura e la sua filosofia con la scoperta della religione civile (dei Romani) e naturale (degli Egizi) e del nesso tra etica, religione e conoscenza. Nello "Spaccio" si sostiene pertanto la tesi che la migliore religione è quella che, come presso gli antichi, riconosce il valore delle opere umane, il loro significato sociale che rinsalda le repubbliche ed incrementa il pubblico bene. Se dunque il culto divino non ha altro fine che il buon vivere degli uomini, l'asinità si configura come il luogo d'origine, come la ragion d' essere della pedanteria, in particolare quella riformata (con la Chiesa cattolica, che apprezza e sostiene la dottrina delle opere buone, Bruno ritiene possibili delle convergenze di carattere civile e politico), che trova la sua principale matrice primaria nell'esaltazione della santa ignoranza fatta da S. Paolo e S.Agostino. Ciliberto insiste sulla scansione cronologica del pensiero bruniano: sotto questo aspetto l'opera principale del periodo parigino (tra il 1582 e il 1583), il "De umbris idearum", costituisce una specie di laboratorio dell'intera ricerca del Nolano dove sono presenti tutti i temi destinati ad essere successivamente svolti ed approfonditi. Soprattutto si possono notare i motivi ermetici, che tuttavia si configurano in termini più pacati nella loro valenza anticristiana. Solo successivamente l'interesse si sposta dalla gnoseologia e dalla mnemotecnica verso la cosmologia; ma su questo terreno, nel fuoco della polemica con i teologi di Oxford, viene scoperto anche il nesso tra conoscenza ed etica (significativo che nel "Cantus circaeus" la purificazione morale si costituisca come fattore prepedeutico all'arte della memoria). Ancora: se a Parigi la mano è strumento di violenza e sofferenza di cui gli animali sono sprovvisti, a Londra, nel pieno della disputa antiriformata, essa riveste una funzione positiva quale mezzo di cui l'uomo si serve per costruire la civiltà. Essa è il fondamento del libero arbitrio e perciò opposta all'orecchio che invece è condizione della fede (fides ex auditu, secondo la definizione paolina ed agostiniana). Qui Bruno individua nella religione oziosa (Lutero) ed ascetica (la controriforma cattolica con le sue pratiche devozionali e l'esaltazione dell'imitatio Christi) la causa della decadenza universale delle opere, del sapere, dei costumi a motivo dei suoi effetti nefasti sulla vita sociale. In Francia prevale l'atteggiamento conciliativo, ma in Inghilterra si insiste sulle differenze, sulle distinzioni nei rapporti tra religione e civiltà, tra etica e conoscenza. Anche se i suoi primi scritti (la "Cena" e l'"Epistula valedictoria") sono più un invito alla discussione e al confronto che cerca di evitare la rottura radicale, il fallimento oxoniense, dovuto all'adesione al copernicanesimo (e non per la ripresa dei temi di magia desunti da Ficino, come vuole la Yates) e all'esposizione del suo programma di ricerca del sapere, apre la strada alla scoperta dell'etica quale condizione dello sviluppo della scienza e dell'umanità. L'esame della "Cena", prima opera in volgare pubblicata in Inghilterra, mette in luce la convinzione bruniana di aver scoperto l'antica verità riservata a pochi sapienti. Filosofia e religione hanno autonomia e assolutezza ciascuna nel proprio campo, ma certo non possono conciliarsi (come veniva prospettato nel "De umbris"): la verità è solo della filosofia (la cui ricerca non è più limitata al piano dell'utilità e del verisimile) che perciò si ritira dal campo pratico e civile lasciato alla Scrittura. Caduta la convinzione di un linguaggio universale, tuttavia Bruno non sembra rinunciare al tema dell'unità: ciò significa che da un lato il sapere conserva una funzione civile, e dall'altro che la Scrittura non ha solo un valore pratico. Occorre distinguere, nel discorso su Dio, tra metafora e verità, tenere separati i codici ed i livelli: ma dalla distinzione può riemergere l'unità che attiva una relazione di reciprocità tra legge e verità. Tuttavia secondo Bruno il criterio di differenziazione è costituito dalla natura, senza la cui conoscenza non si può leggere adeguatamente la Scrittura ed intenderne i vari linguaggi. Nella prospettiva aperta da Ciliberto, Bruno da un lato insisterebbe sulla distinzione tra filosofia e religione, dall'altro ne ridefinirebbe il piano d'incontro riproponendo l'unità di linguaggio divino, naturale, umano. Egli svolge l'uno o l'altro argomento a seconda delle prospettive e delle discussioni, che si snodano attraverso gli altri dialoghi metafisici, il "De l'infinito" e il "De la causa".
Secondo Ciliberto si assisterebbe ad una svolta solo con lo "Spaccio" (e con "La cabale del cavallo pegaseo", vera e propria riscrittura ironica dell'"Elogio della follia" come elogio dell'asinità), steso nel contesto dello scontro tra la corona e i puritani di cui Oxford era diventato un centro di propaganda e con i cui dottori Bruno si era scontrato. Qui nel mirino della polemica cade la pedanteria identificata con il cristianesimo paolino di cui Lutero è la massima espressione. Vero angelo del male, egli ha avvelenato il mondo e ne ha sconvolto l'ordine perseguitando e opprimendo: sotto questo aspetto lo "Spaccio" costituirebbe una vera e propria risposta al "De servo arbitrio" di cui rovescia i valori mentre si annuncia il risorgere dell'antica religione con il suo nesso tra Dio, uomo, natura. Cogliendo una significativa sintonia tematica con i "Discorsi" di Machiavelli (opposizione tra ozio e virtù, la religione come principio di mantenimento e sviluppo della civiltà come nel caso della religione eroica e civile dei Romani), Ciliberto mostra come Bruno dissolva la teologia nella religione civile mentre avanza la necessità dell'individuazione di un nuovo principio religioso (il cristianesimo che doveva essere strumento di governo è diventato strumento di corruzione sia dei costume che del sapere) ed etico a fondamento della vita civile e del rapporto con la natura. L'antica unità tra sapere, opere e costumi si è infranta, scienza filosofia e religione si sono separate e corrotte, il mondo è invecchiato. Senza buoni costumi non c'è scienza: perciò restaurare il sapere vuol dire ricostruire la base etico-religiosa del consorzio umano dissolto dai pedanti. Per questo nello "Spaccio" si insiste sull'azione, sul lavoro (la mano), sul merito e sul loro riconoscimento all'interno di un ambito caratterizzato dall'esperienza individuale e dalla sua storia dove mediante il lavoro si cerca di trasformare la Fortuna cieca in Provvidenza (nei dialoghi cosmologici infatti la moralità consisteva nel superamento della visione parziale e casuale della realtà e con la conoscenza dell'ordine naturale in cui la storia si dissolve nell'uguaglianza di tutti i destini), che appunto è frutto di quell'intreccio di merito e fortuna in cui l'uomo trova la propria libertà. In questa prospettiva restaurare la natura significa ristabilire le differenze rispetto all'indistinzione cieca e gratuita. L'ultima parte del lavoro di Ciliberto è dedicata all'esame del problema del linguaggio. Partendo dall'osservazione che Bruno definisce sempre i propri termini distinguendoli dagli analoghi della tradizione aristotelica e dell'uso comune nella consapevolezza della pluralità delle forme espressive, ne viene messa in evidenza anche la disponibilità nei confronti delle altre filosofie la cui validità non è valutata sulla base di criteri pregiudiziali ma dell'unica pietra di paragone che è la natura (Aristotele invece viene accusato di aver falsificato la filosofia degli altri). In particolare nel "De la causa" è evidente l'ammissione della compossibilità di più lessici teorici da decifrare ciascuno nella propria specificità per evitare confusione. Parole, voci ecc. non esauriscono il loro significato nell'ambito di una sola tradizione valida una volta per tutte, ma variano a seconda della filosofia in cui si dispongono. Ma la pluralità dei linguaggi si giustifica in base anche alla differenza dei loro oggetti e quindi delle forme di vita: non c'è corrispondenza univoca tra nomi e oggetti e quindi non esiste un'unica lingua perfetta. Mentre i pedanti e i filologi si fermano alle parole, si può penetrare un pensiero o una filosofia superando i limiti linguistici mediante la focalizzazione dell'attenzione sulle cose piuttosto che sui segni. Del resto anche l'astronomia è una lingua e gli astronomi sono come dei traduttori; sia il libro di Dio sia quello della natura hanno bisogno di chiavi esplicative per poterne penetrare il contenuto. In definitiva la critica del linguaggio in Bruno consiste a) nella critica all'impostazione grammaticale e filologica (e matematica se ci si riferisce all'astronomia) che non penetra nella natura e nei problemi filosofici; b) nella ricerca di un livello di comunicazione in grado di esprimere la molteplicità dei linguaggi dell'uomo, della natura, di Dio, restaurando gli elementi di una nuova unità. E' proprio la riscoperta dell'antica sapienza che porta alla luce una serie di piani comunicativi e con essi la pluralità (e relatività) dei linguaggi che la nuova filosofia è in grado di esprimere insieme con la varietà della realtà e la ricchezza dell'esperienza. Perciò da essa possono scaturire nuove concezioni etiche, politiche, religiose antitetiche a quelle dei pedanti. Presso gli egizi la comunicazione con gli dei era possibile mediante una lingua sacra, originaria, fondamento della magia e della conoscenza della verità. Oggi la lingua si è corrotta e con essa anche la sapienza: uomini e dei si sono separati e sono incapaci di parlarsi. In questo consiste la crisi della civiltà: corruzione della visione della verità, della concezione della divinità, del sapere e dell'azione umana. Ricostruire l'unità e la comunicazione vuol dire pertanto riscoprire la lingua originaria (delle figure, dei simboli, dei gesti): senza riforma della lingua non c'è renovatio mundi. Ed ecco quindi il sogno di Giordano Bruno: risalire alle radici, alla giovinezza, restaurare l'infinita pluralità dei linguaggi della vita e ricostruire la comunicazione tra Dio, uomini e natura dopo la crisi e la loro separazione.
Dopo questo volume Ciliberto ha proseguito la sua ricerca pubblicando edizioni commentate dei testi bruniani e offrendo un ricco lavoro di sintesi nel suo "Giordano Bruno" (Laterza, Bari 1992) dove riprendendo i temi indicati nello studio precedente, viene ricostruita la complessità della personalità e del pensiero del Nolano (specialmente i suoi rapporti con la "modernità") attraverso un itinerario che ne mostra l'evoluzione sullo sfondo degli ambienti in cui è vissuto e delle problematiche che via via ha dovuto affontare.
Tra gli studi degli ultimi anni si segnala, per ricchezza di informazione ed approfondimento d'analisi, quello di L. Spuit su "Il problema della conoscenza in G.B." (Napoli, Bibliopolis 1988) che intende sondare il pensiero del Nolano sullo sfondo della tradizione gnoseologica, non ermetica, dell'età rinascimentale, comprendente quindi autori platonici e aristotelici. Constatato che dopo il 1585 non si è verificata alcuna rottura nel suo pensiero (concentrato su quattro poli: cosmologia, critica ad Aristotele, organizzazione della conoscenza - con le opere lulliane e mnemotecniche -, magia - vertente sulle possibilità operative dell'uomo), lo studioso olandese evidenzia il nesso indissolubile tra metafisica e gnoseologia, che si prospetta secondo uno schema circolare poiché i fondamenti della conoscenza sono nella struttura della realtà che a sua volta determina le nostre possibilità e capacità conoscitive. In altri termini la struttura ontologica fonda l'epistemologia che nello stesso tempo è parte della struttura medesima. Con Ciliberto, anche Spruit nota il carattere complesso del pensiero bruniano che spesso cerca una soluzione per i probleme tradizionali mediante la radicalizzazione delle dottrine classiche. Nell'ampiezza dei temi affrontati, cambia lo stile (in corrispondenza del contenuto e dell'intendimento) che si serve di una terminologia di grandi sfumature. Infatti Bruno ha consapevolezza della particolarità della sua filosofia rispetto alla tradizione, peraltro da lui sempre liberamente usata, anche se non la considera un punto d' arrivo definitivo poiché il tempo (analogamente allo spazio nella problemarica cosmologica) non ha un centro; malgrado il suo carattere ciclico, esso non è immutabile poiché conserva la possibilità della crescita. Per questo Bruno non può essere inteso sulla base della sola tradizione dalla quale pure trae ispirazione ma dalla quale contemporaneamente si distacca. Tuttavia Spruit invita a non trascurare le fonti che danno struttura, significato e contenuto alle sue teorie e ai suoi concetti.
Infatti Bruno parte dal presupposto che ogni dottrina possa essere feconda: così egli accetta i principi dell'avversario per poi trarre le proprie conclusioni secondo un metodo di reductio ad absurdum. Si può così affermare che componga le proprie teorie mediante la verifica delle tesi altrui, nella convinzione che le tradizioni, mai escluse a priori, assumano un nuovo significato alla luce delle sue conclusioni (ciò vale anche per quella ermetica il cui valo