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LUCIANO DI SAMOSATA
ERMOTIMO (O DELLE SETTE)
licino ed ermotimo.
Licino - O Ermotimo, dal libro e dalla fretta che hai pare che tu corra dal maestro. Certamente pensavi a qualche cosa mentre camminavi; e agitavi le labbra, borbottavi, dimenavi la mano qua e là, come se recitassi fra te un discorso su qualche questione sottile, o considerassi qualche punto difficile di filosofia. Oh, neppur camminando per via sei disoccupato, ma studi sempre qualche bella cosa, e profitti anche della via per imparare.
Ermotimo — Sì, o Licino, quasi l'indovini. Ruminavo la lezione di ieri, e mi ripetevo nella memoria tutto ciò che egli ci disse. Non deve perder briciola di tempo chi sa come è vero il detto del medico di Coo, che breve è la vita, e l'arte è lunga. Egli lo disse della medicina, che s'impara più facilmente: ma la filosofia anche in lungo tempo non s'apprende se uno non sta sempre con gli occhi aperti e non studia continuamente. E non si tratta di poca cosa: o esser misero, e andar perduto nel volgo degli sciocchi; o divenir filosofo, e beato.
Licino — È un premio inestimabile, o Ermotino, il divenire beato. E credo che tu non ne sei lontano, se debbo argomentare dal tempo che ti sei dato alla filosofia, e dalle tante e smisurate fatiche che vi hai spese. Se ben mi ricordo son quasi vent'anni che non t'ho veduto far altro che correr per i maestri, e spesso star curvo sopra uno scartafaccio, e scrivere i ricordi delle lezioni, sempre pallido e macilento per il gran pensare : e credo che tu non debba neppure dormire, tanto ti sprofondi nello studio. E perciò mi pare che tra breve tu giungerai alla beatitudine; se pure non vi sei giunto, e non vuoi farcelo sapere.
Ermotimo - Come giunto, o Licino, se ora entro in questa via ? La casa della Virtù sta lontano assai, come dice Esiodo; e la via che mena ad essa è lunga, erta, faticosa, e fa molto sudare chi vi cammina.
Licino - E non basta quanto tu hai sudato e camminato i
Ermotimo - Oh, no. Io sarei beatissimo se fossi sulla cima: ma, o Licino mio, io sono ancora in principio.
Licino - Ma il principio è la metà di tutto, dice lo stesso Esiodo; onde se dicessimo che tu già sei a mezza salita, non diremmo poi uno sproposito.
Ermotimo - Tutt'altro! se così fosse avrei fatto moltissimo.
Licino - Dunque a che punto della via diremo che sei ?
Ermotimo — Appiè del monte, o Licino : dianzi ho presa la salita, che è sdrucciolevole ed aspra, ed ho bisogno di chi mi stenda una mano.
Licino - Cotesto può fartelo il tuo maestro: il quale dalla vetta, come il Giove d'Omero, calandoti la catena d'oro dei suoi discorsi, ti trarrà e ti leverà a sé ed alla Virtù, su quell'altezza dove egli da tanto tempo è salito.
Ermotimo — E questo è il punto, o Licino: se stesse a lui, m'avrebbe già tratto su, ed io ci sarei; ma manca ancora per me.
Licino - Oh, devi confidare e star di buon animo, considerando il termine della via, la felicità che è lassù, e specialmente che hai lui per maestro e duca. Ma che speranze ti da? Vi salirai una volta? Forse l'anno venturo sarai in cima, dopo gli altri misteri, o dopo le Panatenee ?
Ermotimo — Troppo presto, o Licino.
Licino — Alla prossima olimpiade ?
Ermotimo - Anche presto : si tratta di esercitar la virtù, e di possedere la felicità.
Licino — Via, dopo due olimpiadi, al più. Voi fate cader le braccia con cotesta lentezza, se non potete giungervi in tanto tempo, in quanto si potrebbe andare e tornare tre volte dalle colonne d'Etcole all'India con tutta comodità, e visitando tutti i paesi che sono di mezzo. Ma quanto dobbiam mettere che sia alta e ripida cotesta ròcca sopra cui sta di casa la vostra virtù, cotesto Aorno (i), che pure Alessandro in pochi giorni espugnò?
Ermotimo - Non v'è paragone, o Licino: non è cosa, come tu credi, che si faccia in poco tempo; non è ròcca che si espugni, anche se l'assalissero mille Alessandri; che molti vi monterebbero. Ora non pochi prendono a salire gagliardamente, e montano chi più chi meno: ma a mezza via trovandosi smarriti ed impacciati, si stancano, allenano, e si rivoltano trafelati e rotti dalla fatica. Quelli che durano sino alla fine, quelli pervengono sulla cima: e da quel punto diventano beati, vivendo la rimanente vita in una felicità inestimabile, e guardando da quell'altezza gli altri giù come formiche.
Licino - Bene, o Ermotimo! ci fai proprio piccini, e neppur quanto i Pigmei, ma ci schiacci interamente a terra. Hai ragione: ti sei levato tanto su, e pensi alto; e noi povero volgo, che strisciamo sulla terra, dopo gli Dei, veneriamo voi altri che state sulle nuvole, dove siete già saliti come volevate.
Ermotimo - Se fossi salito, o Licino! ma mi rimane molto.
Licino - Eppure non m'hai detto quanto tempo ci vuole. Ermotimo - Neppur io lo so bene: ma penso che non più di un vent'anni, e poi saremo certamente sulla cima. Licino - Per Èrcole! è troppo.
Ermotimo - Ma è grande la cosa per cui ci affatichiamo. Licino - Forse è: ma chi ti ha assicurato che vivrai oltre cotesti vent'anni ? forse il maestro, che è filosofo, è astrologo ? o qualche indovino ? o quelli che sanno l'arte dei Caldei, e fanno di queste predizioni ? A te non conviene, nell'incertezza se vivrai tanto da pervenire alla virtù, di sopportare tante fatiche, di affannarti dì e notte, senza sapere se mentre sei presso alla cima e nel bello delle speranze, la morte, afferrandoti per un piede, non ti tragga giù, e tu rimanga sciocco.
Ermotimo — Via, non farmi il cattivo augurio, o Licino. Potess'io vivere tanto da gustar pure un solo giorno di felicità, divenuto filosofo!
Licino - E ti basta per tante fatiche un giorno solo ? Ermotimo - A me anche un momento mi basterebbe. Licino - Ma di' : che lassù vi sia la felicità, e che ella sia sì grande che conviene sopportare ogni cosa per acquistarla, donde lo sai ? tu non vi sei mai salito.
Ermotimo - Credo al maestro che lo dice: ed egli lo sa bene, che sta in cima da tanto tempo.
Licino - Deh, per gli Dei, raccontamene qualche cosa. Come è fatta la felicità di lassù ? vi è ricchezza, vi è gloria, vi è piaceri ineffabili ?
Ermotimo - Taci, o amico; niente di questo ha che fare con la vita della virtù.
Licino - E se non questi, quali beni egli dice che avrà colui che giunge al fine di tanti studi ?
Ermotimo - La sapienza, la costanza, il bello, il giusto, la conoscenza di tutte le cose e del come esse stanno: le ricchezze poi, gli onori, i piaceri, e quanti altri sono i beni del corpo, tutti lasciarli giù, e spogliandosene salire come Èrcole che si bruciò sull'Età, e farsi Dio. E sic-
come quegli, deposto quanto di umano ebbe da sua madre, e portando pura ed intatta la parte divina, volò tra gli Dei bene affinato dal fuoco; così coloro che dalla filosofia, come da un fuoco, sono purificati e spogliati di tutti questi che paiono beni mirabili agli sciocchi, giunti sulla cima, diventano felici, e neppure ricordano di ricchezze, di gloria, di piaceri, anzi ridono di chi crede tali cose trovarsi lassù.
Licino - Per Èrcole, sull'Età, tu me li dipingi, o Ermotimo, in una felicità inestimabile ! Ma dimmi un'altra cosa : possono talvolta discendere da quella cima a piacer loro, per godere di ciò che hanno lasciato quaggiù; o è necessità che saliti una volta vi rimangano, e si stiano con la virtù, ridendosi delle ricchezze, della gloria, dei piaceri ?
Ermotimo - Non pure questo, o Licino: ma chi fosse perfetto nella virtù non sarebbe soggetto né ad ira, né a timore, né a desiderio; non sentirebbe più alcun dolore, alcuna passione.
Licino - Eppure se non avessi un riguardo, se potessi dirla schietta... ma conviene tacere, e forse è una empietà entrare nei fatti dei filosofi.
Ermotimo - Niente affatto: parla, di' quel che vuoi.
Licino — Vedi, o amico, ho un certo riguardo.
Ermotimo - Qui non c'è riguardi: tu parli a me solo.
Licino - Ebbene, o Ermotimo: io t'ho passato e t'ho creduto tutto ciò che m'hai raccontato di costoro, che diventano sapienti, e forti, e giusti, e d'un'altra pasta, come vuoi tu ; ma quando m'hai detto che sprezzano le ricchezze, gli onori, i piaceri, che non si sdegnano, né si addolorano, questo poi no (sia detto fra noi due); perché mi ricordo quel che vidi fare... vuoi che ti dica da chi ? o l'intendi, senza ch'io lo nomini ?
Ermotimo - No: ma dimmi chi è.
Licino - II tuo maestro, esso, quel rispettabilissimo vecchione.
Ermotimo - E che ha fatto egli ?
Licino - Conosci quel forestiero d'Eraclea, che imparava filosofia da lui, quel rosso, che appicca sempre questioni ?
Ermotimo - Lo conosco: ha nome Dione.
Licino - Appunto. Per la paga forse che non gli diede a tempo, egli ultimamente lo menava dinanzi all'arconte, e tenendolo pel mantello al collo, gridava e tempestava: e se alcuni amici entrati in mezzo non gli avesser cavato il giovane dalle mani, gli si era avventato, e gli avrebbe strappato il naso con un morso; tanto era infuriato il vecchio.
Ertnotimo - Era una trista lana colui, e restio al pagare. Con gli altri, ai quali egli presta, e sono tanti, non fece mai di tali cose: perché tutti puntualmente gli portavano i frutti (i).
Licino - E se anche non glieli avessero portati, doveva curarsene egli che è già levato in alto dalla filosofia, e non ha più bisogno di ciò che ha lasciato sull'Età ?
Ermotimo — E credi tu che egli badava a questo per sé ? Ha certi suoi figlioletti, e deve pensare che non vivano nella miseria.
Licino — Dovrebbe condurseli seco sul monte della virtù, per farli godere la felicità con lui, spregiando la ricchezza.
Ermotimo - Io non ho tempo, o Licino, di cianciar teco di queste cose. Ora me ne vo dal maestro, per non giungere tardi.
Licino — Non ti dar questa pena: oggi è vacanza; ti accerto io che puoi risparmiarti quest'altri passi.
Ermotimo — E come ?
Licino ~ Ora non lo potresti vedere, se si deve credere al cartello appiccato sulla porta, nel quale è scritto a lettere di speziale: oggi non si fa scuola. M'han detto che ieri avendo cenato in casa di Eucrate, quel ricco che festeggiò la nascita della figliuola, egli si sbracciò a filosofare durante il banchetto, e venne alle brutte con Eutidemo il peripatetico, per le solite questioni che sono tra stoici e peripatetici. Per le molte grida ebbe grande mal di capo, e sudò assai, essendo durata sino a mezzanotte la cena. Ma forse anche ha bevuto più del convenevole pei brindisi che si sogliono fare, ed ha mangiato più che non può un vecchio. Perciò tornato a casa ha vomitato ogni cosa, come m'han detto: poi avendo annoverati ad uno ad uno i pezzi di carne dati al servo che gli stava dietro durante la cena, e da lui segnati accuratamente, si è messo a dormire ed ha detto che non vuoi ricevere nessuno. Questo l'ho udito dire dal suo servo Mida, che lo raccontava ad alcuni discepoli, i quali se ne sono tornati tutti.
Ermotimo - E chi ha vinta la contesa, il maestro o Eutidemo ? l'ha detto Mida ?
Licino — Da prima, dice, la pugna fu pari, ma infine la vittoria fu vostra, e il vecchio vinse la puntaglia. Dice che Eutidemo si ritirò non senza sangue, anzi con una gran ferita nel capo. Era un arrogante, che convinceva, e non voleva farsi convincere, e ribatteva ogni argomento: onde il tuo bravo maestro afferra una tazza grande quanto quella di Nestore, gliela scaglia nel capo, e così vince.
Ermotimo - Bravo! Non si doveva altrimenti con chi non vuoi cedere ai maggiori di lui.
Licino - Cotesto, o Ermotino, è ragionevolissimo. Per qual ragione Eutidemo stuzzicava un vecchio così mansueto, così buono, e con una sì gran tazza in mano ? Ma giacché siamo qui in ozio, perché non racconti all'amico tuo in che modo cominciasti a filosofare, affinchè anch'io, se ancora è possibile, mi {metta sulla stessa via con voi, cominciando da questo momento ? Voi siete amici, e non mi scaccerete certamente.
Ermotimo — Se vuoi davvero, o Licino, vedrai in breve quanto sarai da più degli altri: ti parran tutti fanciulli a petto a te, tanto ne saprai di più.
Licino - A me basta se dopo vent'anni diventerò come sei tu ora.
Ermotimo — Non dubitarne: anch'io dell'età tua cominciai a filosofare, di circa quarant'anni, .quanti n'hai tu ora, credo.
Licino - Tanti, o Ermotimo. Perciò da ora mettimi dentro ai vostri segreti. Ma è giusto che tu in primo luogo mi dica una cosa: concedete voi ai discepoli di fare qualche difficoltà se non si persuadono, o noi concedete affatto ai novelli ?
Ermotimo - Niente affatto: ma tu fa' le domande e le difficoltà che vuoi; che così imparerai più facilmente.
Licino - A meraviglia, il mio Ermotimo, per quell'Er-mete onde hai il nome. Ma dimmi: una è la via che mena alla filosofia, quella di voi altri stoici; o m'han detto bene che ce ne sono molte altre ?
Ermotimo - Moltissime vie: quella dei peripatetici, quella degli epicurei, quella dei platonici, quella dei seguaci di Diogene e di Antistene, quella dei pitagorici, ed altre ancora.
Licino - Dunque è vero che sono molte. E tutti costoro, o Ermotimo, dicono le stesse cose o differenti ?
Ermotimo - Differentissime. '
Licino - Ma effettivamente forse dicono una cosa, e non sono in tutto differenti.
Ermotimo — In tutto.
Licino - Ed ora rispondimi, o amico mio. Quando la prima volta ti mettesti a filosofare, e ti stavano innanzi molte porte aperte, come ti deliberasti tu di tralasciare le altre ed entrare in quella degli stoici, e giudicasti che questa sola era la vera, ti menava alla virtù, ti metteva sulla via diritta, e che le altre t'avrebbero fatto smarrir nelle tenebre ? Da che l'argomentasti allora ? Non pensare col senno che hai adesso, che sei mezzo o tutto filosofo, e puoi discernere il meglio più che parecchi di noi: ma rispondimi come avresti fatto allora, che eri ignorante come ora sono io.
Ermotimo - Io non comprendo che vuoi dir questo, o Licino.
Licino - Eppure non è una sottigliezza. Essendoci molti filosofi, come Platone, Aristotele, Antistene, ed i vostri progenitori Crisippo e Zenone, e quanti altri mai ce ne sono, come tu ti decidesti, lasciando tutti gli altri, di sceglierne uno, e secondo lui filosofare ? Forse Apollo Pi-tio ti mandò dagli stoici, come fece a Cherefonte (i), dicendoti che essi sono i migliori fra tutti ? Egli suole dare di tali consigli, ed indicare una più che un'altra forma di filosofia, secondo che conosce confarsi a ciascuno.
Ermotimo - Niente di questo, o Licino: né di questa cosa domandai al dio.
Licino - E se non ti parve degna d'un consiglio divino, ti tenesti tu sufficiente a scegliere da te il meglio, senza l'aiuto del dio ?
Ermotimo - Mi tenni sufficiente.
Licino - Dunque ed insegnerai anche a me questo per primo, come si discerne subito ed a prima vista quale è la filosofia migliore, e la vera, e da scegliere, lasciando le altre ?
Ermotimo - Te lo dirò. Vedendo che moltissimi seguivano questa, credetti che ella fosse la migliore.
Licino - E cotesti moltissimi quanti sono più degli epicurei, dei platonici, dei peripatetici ? Certamente li contasti, come si usa nei suffragi.
Ermotimo - Non contai; ma congetturai.
Licino — Così tu non vuoi insegnarmi ma canzonarmi : quando mi dici che di una sì gran cosa hai giudicato per congettura e dalla folla, tu rifuggi di dirmi il vero.
Ermotimo - Non solo per questo, o Licino, ma perché io udivo dire a tutti che gli Epicurei sono molli e voluttuosi, i Peripatetici cercano ricchezze e contese, i Platonici sono tutti fumo e boria: degli Stoici era una voce, che sono uomini forti, sanno tutto, e chi va per la loro via egli solo è re, egli solo è ricco, egli solo è sapiente, egli è tutto.
Licino - Cotesto te lo dicevano gli altri certamente, non essi: che tu non avresti prestato fede ad essi se si fosser lodati così.
Ermotimo - No: lo dicevano gli altri.
Licino - Naturalmente non lo dicevano i loro avversari.
Ermotimo - No.
Licino - Lo dicevano dunque gli ignoranti ?
Ermotimo — Sì.
Licino - Vedi, che torni a canzonarmi, e non mi dici il vero : ma credi di parlare con un Margite, il quale possa inghiottirsi che Ermotimo, uomo di senno e di quaran-t'anni allora, nel giudicare della filosofia e dei filosofi, sia stato alla opinione della gente ignorante, e secondo le voci di costoro abbia fatta la sua scelta, e giudicato di tanti valenti uomini ? Va', non ti credo quando dici questo.
Ermotimo - Ma sappi, o Licino, che io non stavo solo al giudizio altrui, ma al mio. Perché li vedevo con andar decoroso, vestire modesto, facce sempre pensierose e maschie, tosati, senza nessuna mollezza, e senza cadere nella trascuratezza balorda e sordida dei cinici, ma starsi in quel mezzo che da tutti si dice ottimo.
Licino - E non li vedevi fare ciò che or ora ti dicevo che io ho veduto fare dal tuo maestro, o Ermotimo ? come a dire prestare ed esigere usure scannate, andare accattando brighe, far sempre i ringhiosi, e tutte le altre belle virtù che mostrano ? O questo per te è nulla di fronte al vestito grave, la barba folta, la zucca rasa ? Per l'avvenire adunque avremo questa regola e questa bilancia esatta, che Ermotimo dice: che dall'andare, dal vestire, e dal zuccone dovremo conoscere gli ottimi ? e chi non ha queste cose, chi non ha un che di torbido e di accigliato nel viso sarà da scartare e sputarlo ? Tu vuoi la baia del fatto mio, o Ermotimo; e vuoi provare se m'accorgo che mi canzoni.
Lìcino - Perché, o caro mio, delle statue si giudica così dall'aspetto. Più esse sono di bell'aspetto e di ornate vestimenta, più è da credere che sono fatte o da Fidia, o da Alcamene, o da Mirone che le fecero della forma più bella. Se da quel che tu dici si dovesse formare il giudizio, come farebbe un cieco che volesse filosofare ? Come distinguere e scegliere il meglio, se egli non può vedere né il vestire né l'andare ?
Ermotimo — Ma io non parlo per i ciechi, o Licino; né mi brigo di essi.
Licino - Eppure una cosa sì grande e generalmente sì utile dovrebbe avere un segno riconoscibile a tutti. Ma, se così vuoi, rimangano fuori della filosofia i ciechi, perché non vedono (benché essi specialmente avrebbero bisogno di filosofare per confortarsi nella loro sventura); ma quelli che hanno la vista anche acutissima che potrebbero vedere dell'anima da cotesta apparenza esterna ? quel che io voglio dire è questo : non ti avvicinasti tu a questi uomini perché ne ammiravi la mente, e credevi di render migliore la mente tua ?
Ermotimo - Certamente.
Lìcino - E come potevi da quei segni che hai detti discernere se uno filosofava bene o male ? La mente non trasparisce così, ma sta chiusa e segreta, e si mostra nel parlare, nel conversare, nell'operare, e pure tardi ed appena. Hai udito forse raccontare che rimprovero Momo fece a Vulcano: se no, te lo racconterò io. Dice la favola che Minerva, Nettuno e Vulcano vennero a contesa chi era più valente nell'arte sua, e che Nettuno formò un cavallo, Minerva disegnò una casa, e Vulcano fece l'uomo. Andati da Momo, che avevano scelto ad arbitro, questi guardò l'opera di ciascuno, e trovativi certi difettucci che non occorre dire, biasimò questo difetto nell'uomo, e riprese Vulcano di non avergli fatta una finestrella nel petto, affinchè aprendola potessero tutti conoscere quello che vuole e pensa, e se egli dice il vero o il falso. Ma Momo aveva la vista corta, e però giudicava così degli uomini: tu che l'hai più acuta di Linceo, vedi anche a traverso il petto ciò che v'è dentro; per te tutto è aperto, e conosci non solo ciò che ciascuno vuole e pensa, ma chi è migliore o peggiore.
Ermotimo - Tu scherzi, o Licino. Con l'aiuto d'un dio ho scelto bene, e non mi pento della mia scelta: questo basta per me.
Licino — Ma non dirai che basti a me. Ed avrai cuore di vedermi confuso nel volgo degli sciocchi ?
Ermotimo — Perché a te non quadra nulla di ciò che io dico.
Licino — No, caro: sei tu che non vuoi dir nulla che mi quadri. Ma giacché tu mi fai lo scemo, per un po' d'invidia che io non diventi filosofo come te, tenterò io, come posso, di trovare un modo di giudicare esattamente di queste cose, e scegliere sicurissimamente una setta. Odi anche tu, se vuoi.
Ermotimo - Ben voglio, o Licino: che forse dirai tu qualche bella cosa.
Licino — Oh, non ridere se io piglierò qualche granchio facendo questa ricerca, da uomo ignorante che io sono: io non posso altrimenti; n'hai colpa tu, che sai il buono e non vuoi dirmelo. Sia dunque la virtù come una città che abbia i felici suoi abitatori (come direbbe il tuo maestro, che ci è venuto di là) tutti cime di sapienti, costanti, giusti, prudenti, e poco meno che Dei. Le ribalderie che sono fra noi, rapire, opprimere, ingannare, in quella città neppure per sogno: ma ci si vive in pace ed in concordia grande. E naturalmente: perché, penso, le cagioni che nelle altre città fan nascere le discordie e le sedizioni, e per le quali la gente si mangiano vivi l'un l'altro, quivi non sono affatto; non c'è più né oro, né piaceri, né onori, né distinzioni; anzi queste cose son tutte bandite dalla città, e non sono credute necessarie a stare con loro. Quindi essi vivono una vita tranquilla e felicis-sima, con giustizia, con equità, con libertà, e con tutte le altre consolazioni.
Ermotimo - E che, o Licino ? Non dovrebbero tutti desiderare di divenir cittadini di cotesta città, senza perdonare alle fatiche della via, senza stancarsi per lunghezza di tempo, se si giungerà ad esservi annoverati, e partecipare di quella cittadinanza ?
Licino — Sì, o Ermotimo: tutti dovrebbero attendere solo a questo, e non brigarsi di altro; non far molto conto della patria che qui ci tira; non lasciarsi piegare da lacrime e preghiere di figliuoli o di genitori, ma esortarli a battere anch'essi la stessa via, e, se non vogliono, o non possono, lasciarli, e correr difilato a quella città felicissima; e gettar anche il mantello, se ce l'afferrano per impedirci l'andata; perché non v'è paura che ne sarai escluso se vi giungerai nudo. Una volta un vecchio a quando a quando mi raccontava di questa città come è fatta, e mi esortava ad andarvi, promettendo mi condurrebbe egli stesso, e che giuntovi mi farebbe iscrivere come cittadino e nella stessa sua tribù, e così sarei felice con tutti gli altri : ma io non mi persuadevo, che allora ero un farfallino sciocco di quindici anni; e forse già ero allora nei sobborghi e presso alle porte. Intorno a quella città il vecchio, se ben mi ricordo, fra tante cose inestimabili, mi diceva questa: che gli abitatori vi son tutti venuti di fuori ed ospiti, e nessuno indigeno; vi sono molti, e barbari, e servi, e brutti, e piccoli, e poveri; insomma vi è cittadino chi vuole. Per legge essi non sono descritti secondo ricchezze, o vestimenta, o grandezza, o bellezza, o schiatta, o splendore d'antenati: tutto questo non fa caso per loro; basta per divenir cittadino l'intelligenza, l'amore del bello, la fatica, la perseveranza, e non infiacchirsi ed accasciarsi per le difficoltà che s'incontrano per via; onde chi si mostra valente in questo, e giunge sino alla città, tosto divien cittadino, chiunque egli sia, ed eguale a tutti gli altri, che lì non v'è né maggiori né minori, né nobili, né ignobili, né servi, né liberi, anzi neppur se ne fiata.
Ermotimo - Vedi, o Licino, che non invano né per piccola cosa io m'affatico, desiderando di divenire anch'io cittadino di così bella e beata città ?
Licino - Ed anch'io, o Ermotimo, ti dirò lo stesso, e non bramerei altro più di questo. E se la città fosse vicina, e visibile a tutti, oh sappi che io non avrei indugiato, già vi sarei, e l'abiterei da un pezzo: ma giacché, come dite voi (cioè tu ed il poeta Esiodo), la sta lontano assai, bisogna cercare la via che mena ad essa, ed un'ottima guida. Non credi tu necessario di fare così ?
Ermotimo - E come vi si potrebbe andare altrimenti ?
Licino - Guide che ti promettono e dicono di conoscer la via ne trovi a bizzeffe. Molti ti si parano innanzi, e dicono che sono nati in quel paese. La via poi non pare una né la stessa, ma molte e diverse, e niente simili tra loro: perché pare che una meni a levante, un'altra a ponente, una a settentrione, un'altra a mezzogiorno; questa corre lungo i prati, ombreggiata da alberi, inaffiata, piacevole, senza intoppi o difficoltà; quest'altra petrosa e scabra sta sotto la sferza del sole, ed è arida e faticosa. Eppure tutte odi dire che menano alla città, che è una, ed esse mettono capo a punti oppostissimi. Ora qui sta tutto il mio dubbio. Perché a qualunque via io mi faccia, sull'entrata di ciascuna mi si presenta un uomo degno di riverenza in vista, che mi stende la mano, e mi esorta ad entrare in essa, dicendo che egli solo conosce la diritta via, che gli altri vanno errati, non sono andati mai in quella città, né possono condurvi chi li segue. M'avvicino ad un altro, ed egli mi fa le stesse promesse della via sua, e sfata gli altri: così un terzo; così l'un dopo l'altro tutti. Queste vie adunque che sono tante e dissimili tra loro mi confondono e mi mettono in mille dubbi: e specialmente le guide, che mi tirano chi di qua chi di là, e ciascuno loda la via sua. Ond'io non so dove rivolgermi, e chi seguire per giungere alla città.
Ermotimo - Ti scioglierò io dal dubbio. Affidati a coloro che ti hanno preceduto, e non sbaglierai, o Licino.
Licino — Ma chi ? e preceduto per qual via ? e dietro a qual guida? Ecco lo stesso dubbio sotto altra forma: dalle cose siamo passati alle persone.
Ermotimo - E come ?
Licino — Perché chi si è messo sulla via di Platone e s'accompagna con lui, loderà quella via certamente: chi su quella d'Epicuro, loderà quella; altri altra, e tu la vostra. Non è forse così, o Ermotimo ?
Ermotimo - Così.
Licino — Dunque tu non mi hai sciolto del dubbio, ed io non so ancora quali compagni io debbo scegliere: perché io vedo che ciascuno di essi e la stessa loro guida ha tentata una sola via, e quella loda, e dice che quella è la sola che meni alla città; ma io non posso chiarirmi se egli dice il vero. Che meni ad un termine e ad una città, lo concederò pure: ma che sia quella città appunto, quella di cui tu ed io desideriamo d'esser cittadini; o pure che dovendosi andare a Corinto, si giunga a Babilonia, e si creda di vedere Corinto, questo non mi è chiaro ancora. Non ogni città che si vede è Corinto, se pure non ci sono molti Corinti. Quello che più m'imbroglia è questo: io so che la verace via non può essere che una, e Corinto è una, e tutte le altre vie menano altrove che a Corinto; se pure non ci sia uno tanto pazzo da credere, che la via per la quale si va agli Iperborei o agli Indiani meni anche a Corinto.
Ermotimo - Come è possibile cotesto, o Licino ? altra via mena altrove.
Licino — E però, o mio buon Ermotimo, bisogna non poco accorgimento sulla scelta delle vie e delle guide, e non dire: andiamo dove ci portano i piedi, perché sbaglieremo così, crederemo d'andare a Corinto, e saremo a Babilonia o a Battro. E neppure sta bene di confidarsi nel caso e credere di aver forse trovata la via ottima, se senza considerazione ci siamo gettati in una via qualunque : egli è possibile questo caso, ma è avvenuto forse una volta in tanto tempo. Noi in cose sì grandi non dobbiamo avventurarci temerariamente, né mettere le nostre speranze, come dice il proverbio, in un cesto per tragittare l'Egeo o l'Ionio. Non è ragionevole di biasimar la fortuna, se tirando con l'arco non si da nel segno vero, il quale è uno, tra mille falsi, quando neppure l'arciero d'Omero riuscì ad imbroccare; mirò alla colomba, e col dardo tagliò la fune: egli fu Teucro, credo (i). Ma è molto più ragionevole attendersi di cogliere in tutt'altro segno, che in quell'uno proposto. E che il pericolo non sia piccolo, se invece di andar per la via diritta, ci troviamo smarriti in una di queste vie strane, sperando che fortuna scelga meglio di noi, vo' mostrartelo con un esempio. Chi si è affidato al vento ed ha sciolto dal lido non può più tornare indietro e salvarsi facilmente, ma per necessità è trabalzato dal mare, e sente gran nausea, e timore, e gravezza di testa. Doveva egli prima di mettersi in mare salir sopra un'altura, ed osservare se il vento è favorevole a chi vuoi navigare a Corinto, e, per Giove, provvedersi di un ottimo pilota, e di nave con buoni fianchi da reggere all'urto dei flutti.
Ermotimo — Questo è il partito migliore, o Licino. Ma io so che tra quanti ce ne sono, non troveresti guide migliori e piloti più pratici degli stoici: e se vuoi giungere a Corinto, segui essi, va' sulle orme di Crisippo e di Zenone; diversamente è impossibile.
Licino — Ma cotesto che tu mi dici, o Ermotimo, non lo dicono tutti ? Lo stesso mi direbbe un discepolo di Platone, un seguace di Epicuro, e ciascun altro, che io non andrei a Corinto se non con lui. Per ciò si deve o credere a tutti, il che è cosa ridicolissima ; o non credere a nessuno; e questo è il partito più sicuro, finché non troveremo il vero promesso. Ma poniamo che io, quale mi sono ora, ignorante di chi dica il vero fra tanti, scegliessi voi altri, e mi abbandonassi a te che mi sei amico, ma conosci i soli stoici ed hai camminato per la sola via loro; e che un iddio facesse risuscitar Platone, Pitagora, Aristotele, e gli altri. Questi ne vorrebbero ragione da me, mi menerebbero a un tribunale, mi accuserebbero d'averli ingiuriati, e direbbero : — Per qual cagione, o galantuomo, e per consiglio di chi, hai anteposto Crisippo e Zenone, nati ieri o ieri l'altro, a noi che siamo molto più vecchi, e non ci hai concesso di parlare, e non ti sei affatto informato di ciò che noi abbiamo detto ?s— Se mi dicessero questo che risponderei loro ? Mi basterebbe soggiungere che mi son confidato nel mio amico Ermotimo ? Essi mi risponderebbero: — Noi non conosciamo chi sia cotesto Ermotimo, né egli conosce noi, onde tu non dovevi riprovarci tutti e condannarci in contumacia, affidandoti ad un uomo che in filosofia conosce una sola strada, e forse neppur bene. I legislatori comandano ai giudici di non fare a cotesto modo, udire una parte sola, e non permettere all'altra di dire quel che crede in sua difesa; ma di ascoltare l'una e l'altra, affinchè, bilanciando le ragioni, trovino più facilmente il vero ed il falso: e se non si fa così, la legge concede il diritto di appellare ad altro tribunale. — Così direbbero ragionevolmente; e forse qualche filosofo di quelli mi si volterebbe, dicendomi: — Dimmi un po', o Licino, se un Etiope che non ha mai veduti altri uomini, come siamo noi, per non essere mai uscito del suo paese, in un'adunanza di Etiopi affermasse che in nessuna parte della terra ci sono uomini bianchi o biondi, ma tutti son neri, sarebbe egli creduto dai suoi ? Forse qualche vecchio Etiope gli risponderebbe: « E tu da dove lo sai, o presuntuoso, se non cacciasti mai il .capo [fuori del guscio, né sai che c'è negli altri paesi ? ». — Dovrei dire io che il vecchio ha ragione ? Tu che mi consigli, o Ermotimo ?
Ermotimo - Sì, mi pare che abbia tutta la ragione del mondo.
Licino - E pare anche a me. Ma quel che viene appresso non so se ti parrà così: a me pare, a me.
Ermotimo - E qual è ?
Licino - Quel filosofo certamente continuerà a parlare, e mi dirà: — Nello stesso conto adunque è tenuto da noi, o Licino, chi, conoscendo solamente gli stoici, come co-testo tuo amico Ermotimo, non ha viaggiato mai, non è stato né da Platone, né da Epicuro, né da alcun altro. Or quando egli dice che nelle altre sette non v'è tanto di bello e di vero quanto ve n'è nella Stoa e nelle sue dottrine, non pare anche a te che egli sia un presuntuoso, che vuoi sentenziare di tutte le cose, non conoscendone che una sola, non avendo mai messo un piede fuori dell'Etiopia ? — Che potrei rispondere io? La pura verità: cioè che noi abbiamo bene apprese le dottrine degli stoici per una certa voglia di filosofare secondo loro; e che nondimeno non ignoriamo le dottrine degli altri, perché il maestro anche ce le espone, e spiegandole le confuta. E credi che così avrò turata la bocca a Platone, a Pitagora, ad Epicuro, e agli altri ? Mi rideranno in faccia, e mi diranno: — Che fa, o Licino, il tuo amico Ermotimo ? Vuole stare alla fede dei nostri avversari, nel giudicar di noi, e crede che le nostre dottrine sono quali le dicono essi, che o non le conoscono o nascondono il vero ? Dunque se egli vede qualche atleta prima di entrare in lizza esercitarsi così a scagliare sgambetti e menare di gran pugni all'aria, come se desse veramente ad un avversario, egli, che è l'agonoteta, lo farà tosto bandir vincitore: o crederà che questa è una prova sicura e fanciullesca senza nessuno a fronte; e che egli potrà giudicar della vittoria, quando l'atleta avrà atterrato e stancato il suo avversario; altri-mente no ? Non si pensi, Ermotimo, per quel giuoco di schermaglia che i suoi maestri fanno con le ombre nostre, non si pensi che essi ci abbattano, o che le nostre dottrine siano agevoli a confutare, perché così essi fanno come i fanciulli che costruiscono le casucce che mal si reggono e tosto le abbattono; o pure fan come coloro che s'addestrano a tirare con l'arco, i quali, legato un fascio di paglia ad un palo, e allontanati un po', tirano in quel bersaglio: e se vi. danno e trapassan la paglia, tosto gridano, come se avesser fatto un gran colpo a trapassar di saetta fuor fuora un fantoccio. Non fanno così gli arcieri Persiani e Sciti; i quali cavalcando saettano, ed in segno che si mova e trascorra, e non stia saldo ad aspettare il dardo, ma corra velocissimo; onde spesso saettan le fiere, e taluni imbroccano anche gli uccelli. E quando vogliono provare come il colpo entri, mettono per bersaglio un legno, o uno scudo coperto di cuoi freschi, e correndo tirano in esso, e così si addestrano a fare di simili colpi quando sono in guerra. Or di' da parte nostra ad Ermotimo che i suoi maestri saettano in fantocci di paglia, e dicono di avere atterrati uomini armati: dipingono le nostre immagini, e con quelle lottano; da bravi le vincono,
e si pensano di vincer noi. Ma ciascuno di noi dirà a costoro le parole che disse Achille di Ettore:
Dell'elmo mio non guarderan la fronte.
E questo lo dicono tutti insieme, e ciascuno in particolare. E mi pare che Platone racconterà uno di quei fatterelli avvenuti in Sicilia, e dei quali egli è pieno. È fama che a Gelone Siracusano putiva il fiato, ed egli non se n'era accorto, perché nessuno s'attentava di dire questo difetto ad un tiranno, finché una donnetta forestiera che si giacque con lui ebbe l'ardire di dirglielo schiettamente. Egli andò dalla moglie, e la rimproverò perché non gli avesse detto mai di quel putore, che specialmente ella aveva dovuto sentire. Ed ella lo pregò che le perdonasse, perché non aveva mai conosciuto né avvicinato altro uomo, ed aveva creduto che a tutti gli uomini sentisse così la bocca. Così Ermotimo essendo stato coi soli stoici (direbbe, vedi, Platone) ragionevolmente non sa come son fatte le bocche degli altri. — Simili cose mi direbbe Crisippo, e forse anche più di queste, se io lo piantassi senza sentir le sue ragioni, e mi mettessi a seguir Platone, affidandomi in chi ha conosciuto il solo Platone. Insomma io dico che fintantoché non è chiaro quale setta in filosofia è la vera, non se ne debba scegliere nessuna: perché questo è un far torto alle altre.
Ermotimo - Deh, per Vesta, o Licino, lasciamo star Platone, Aristotele, Epicuro, e tutti gli altri, che io non sono da tener fronte a costoro. Noi due, tu ed io, discorriamo così tra noi se questa faccenda della filosofia è come
10 dico. Che bisognava far venire nel nostro discorso gli Etiopi, e fin da Siracusa la moglie di Gelone ?
Licino - Ebbene, se ne vadano subito se tu credi che sono soverchi nel nostro discorso. Parla tu ora che mi parevi di voler dire una gran cosa.
Ermotimo — A me pare, o Licino, poter bene essere che uno ammaestrato nella sola dottrina degli stoici, conosca
11 vero da questa, ancorché non vada imparando le dottrine degli altri. E vedi un po': se uno ti dice che due e due fan quattro, hai tu bisogno di andar domandando a tutti gli aritmetici se c'è chi dica che fan cinque, o sette ; o pure vedi subito che egli dice il vero ?
Licino — Lo vedo subito, o Ermotimo.
Ermotimo — Come mai adunque ti pare impossibile che
uno incontratesi nei soli stoici, che dicono il vero, si persuada e li segua, senza aver bisogno di ascoltar gli altri, sapendo che quattro non sarebbe mai cinque, neppure se
10 dicessero mille Fiatoni e Pitagori ?
Licino - Non è il caso cotesto, o Ermotimo: e tu pigli il controverso per il concesso, che sono ben diversi tra loro. Dici tu che non ti sei mai incontrato in uno che afferma che due e due fanno sette, o undici.
Ermotimo — Io no : e chi dicesse che non fan quattro sarebbe pazzo.
Licino - Come ? T'imbattesti mai (per le Grazie, dimmi
11 vero) in unp stoico ed in un epicureo, che non discordano tra loro nel principio o nella fine ?
Ermotimo - No, mai.
Licino - Bada dunque di non nigarbugliar con parole il tuo amico. Noi cerchiamo chi dice il vero in filosofia; tu hai preso questo vero, e l'hai dato in mano agli stoici, dicendo che essi son quelli che dicono che due e due fan quattro: il che è incerto se sia cosi. Poiché gli epicurei ed i platonici direbbero che il mal conto lo fate voi, dite voi che fanno sette o cinque. E non ti pare che sia così quando voi tenete l'onesto per il sommo bene, e gli epicurei il piacere; quando voi dite che tutte le cose son corpi, e Platone crede che negli enti sia qualche cosa d'incorporeo ? Tu, come io dicevo, con un po' di malizia hai presa la cosa controversa e l'hai concessa agli stoici, come se fosse indubbiamente roba loro: mentre gli altri dicono di no, ed affermano che è loro; or qui sta il punto, si deve giudicar di chi sia. Se fosse chiarito che i soli stoici dicono che due e due fan quattro, gli altri si dovrebbero tacere: ma finché di questo appunto si contende, bisogna ascoltar tutti, o riconoscere che giudichiamo con parzialità.
Ermotimo — Non mi pare, o Licino, che l'hai compresa come io voglio dirla.
Licino - Dunque spiegati meglio, se intendi dire altro.
Ermotimo - Ora ti spiegherò che voglio dire. Poniamo che due persone siano entrate nel tempio di Esculapio o in quello di Bacco; e che si sia perduta una delle coppe sacre. Converrà certamente ricercare addosso ad ambedue, per trovare chi dei due ha la coppa in seno.
Licino — Bene.
Ermotimo - L'un dei due l'ha certamente.
Licino - Come no, s'ella è perduta ?
Ermotimo - Dunque se la troverai al primo,' non
più ricercherai il secondo, perché è chiaro che egli non l'ha.
Licino - È chiaro.
Ermotimo - E se non la troveremo in seno al primo, il secondo l'avrà certamente, e neppure sarà bisogno ricercargli nelle vesti. Licino — L'avrà.
Ermotimo — Noi dunque se troveremo che gli stoici hanno la coppa, non dovremo ricercar gli altri. Già abbiamo ciò che cercavamo : perché prenderci altra pena ?
Licino - Non bisogna; se voi la trovate, e trovatala riconoscete che è la perduta, o se v'è ben noto che essa fu offerta in voto. Ma anzitutto, o amico mio, non sono due quelli che entraron nel tempio per modo che l'uno di essi necessariamente debba avere la cosa rubata; ma son molti. Dipoi non si sa bene che cosa s'è perduta, se una coppa, o una tazza, o una corona. I sacerdoti, chi dice questo, chi dice quello: e neppur della materia si accordano, che chi la dice d'oro, chi d'argento, chi di bronzo. È necessità dunque spogliare tutti quelli che sono entrati, se vuoi trovare ciò che s'è perduto. E se subito trovasi al primo una coppa d'oro, dovresti anche spogliare gli altri. Ermotimo — E perché, o Licino ?
Licino — Perché non è certo se perduta era la coppa. E se tutti s'accordano a dir coppa, non tutti dicono che è d'oro: e se anche fosse certo essersi perduta una coppa d'oro, e tu la ritrovassi al primo, non però dovresti non ricercar gli altri: perché non è certo se è essa la coppa del Dio. Non ci sono forse di molte coppe d'oro ? Ermotimo — Certamente.
Licino - Converrà dunque ricercar le vesti a tutti quanti, e le cose che trovi addosso a ciascuno porle in mezzo, e così fare un giudizio quale di esse può appartenere al Dio. Ma l'imbroglio maggiore è che ciascuno di coloro che tu spoglierai, ha una cosa addosso, chi una tazza, chi una coppa, chi una corona, e chi l'ha di bronzo, chi d'oro, chi d'argento: ora quale sia la cosa sacra, non si sa. Perciò si deve dubitare e non dar del sacrilego a nessuno, perché se anche tutti avessero cose simili, non però è certo chi abbia rubata la coppa del Dio: che uno può averne una sua propria. La cagione di questa incertezza, penso, è una, non v'essere una scritta sulla coppa perduta (poniamo che una coppa sia perduta), che se vi fosse scritto il nome del Dio o dell'oblatore, non ci affanneremmo tanto, e trovata quella con la scritta cesseremmo di ricercare e noiare gli altri. Io credo che tu, o Ermotimo, hai veduti i giucchi molte volte.
Ermotimo - Ben sai che sì: molte volte e in molti luoghi.
Licino - E ti sei mai seduto vicino a coloro che vi presiedono ?
Ermotimo - Sì, or è poco negli Olimpici, sedei a sinistra degli arbitri, dove Evandride d'Elea mi fece trovare un posto fra i suoi compatriotti. Io avevo gran voglia di guardar da vicino ciò che fanno gli arbitri.
Licino - E ti ricordi il modo che tengono nel sortire ed accoppiare i lottatori e i pancraziasti ?
Ermotimo — Me ne ricordo bene.
Libino - Tu dunque puoi dirlo meglio di me, che l'hai veduto da vicino.
Ermatimo - Anticamente, quando Èrcole stabilì i giuo-chi, le fronde dell'alloro...
Licino - Lascia le anticaglie, o Ermotimo: e dimmi quel che hai veduto da vicino.
Ermotimo — Un' urna d'argento sacra al Dio sta in mezzo; in essa si pongono le sorti, che sono piccole come favucce, e scritte. Due di queste hanno scritta un A, due un B, due un C, e così di seguito, e sono tante quanti sono gli atleti, e sempre due sorti portano scritta una medesima lettera. Ciascuno degli atleti si avvicina, e, fatta una preghiera a Giove, pone la mano nell'urna, e ne trae fuori una sorte, e dopo lui un altro: e vicino a ciascuno un sergente gli tiene la mano chiusa, e non gli permette di leggere la lettera che ha tratta. Quando tutti hanno in mano le sorti loro fanno cerchio, e l'atletarca, o uno degli arbitri (che non più me ne ricordo), va intorno guardando i due che hanno l'A, e li accoppia per la lotta o pel pan-crazio, poi unisce il B al B, e così gli altri che hanno la medesima lettera. A questo modo si fa se gli atleti sono di numero pari, come quattro, otto, dodici; se sono dispari, come cinque, sette, nove, una lettera dispari e senza corrispondente si scrive sopra una sola sorte, che si pone nell'urna con le altre: chi trae questa lettera rimane seduto ad aspettare finché gli altri abbiano combattuto, perché non v'è controlettera. E questo non è piccolo vantaggio per un atleta venir fresco alle prese coi già stanchi.
Licino - Fermati : di costui avevo bisogno, che noi chiamiamo l'efedro. Siamo dunque nove: ciascuno ha tratta
la sua sorte, e la tiene in mano. Or tu (io voglio farti arbitro, invece di spettatore), andando attorno, guarderai le lettere, e, penso, non saprai chi sarà l'efedro, se prima non le avrai tutte vedute ed accoppiate.
Ermotimo - Come dici questo, o Licino ?
Licino - È impossibile trovare subito la lettera che indichi l'efedro; e se pure la trovi, non sai se è quella, perché non è detto innanzi se il C, o l'M, o l'I, sarà la lettera dell'efedre. Ma come avrai trovata l'A, cercherai chi tiene l'altra A, e li accoppierai: poi troverai il B, e cercherai l'altro B, che gli risponde; e così di mano in mano finché rimarrà colui che tiene la lettera sola senza la corrispondente.
Ermotimo - E se questa lettera la troverai al primo tratto o al secondo, che farai ?
Licino - Niente: ma vo' sapere che farai tu che sei arbitro; se dirai subito: questi è l'efedro. O dovrai andar girando attorno per vedere se v'è una lettera simile ? Sicché se non avrai osservate tutte le sorti, non potrai conoscere l'efedro.
Ermotimo - Eppure, o Licino, io lo conoscerei facilmente. Son nove: se trovo l'È al primo o al secondo chi l'ha è l'efedro.
Licino - E come, o Ermotimo ?
Ermotimo - Ecco come. Due hanno l'A, due il B, e son quattro: altri due han tratto il C, ed altri due il D; e sono otto atleti e quattro lettere. È chiaro che resta dispari la seguente lettera E: e chi l'ha tirata è l'efedro.
Licino - Bravo! tu hai molto acume, o Ermotimo: ma vuoi che io ti dica come io la credo ?
Ermotimo — Di', per Giove: io non saprei che potresti rispondere ragionevolmente a questo.
Licino - Tu hai prese le lettere nell'ordine che stanno, prima l'A, poi il B, e così per ordine, finché in una di esse ti compia il numero degli atleti: ti concedo che così si faccia in Olimpia. Ma, e se prenderemo cinque lettere a caso, come TX, lo Z, l'S, il C, ed il T; se scriveremo quattro lettere, ciascuna due volte, sopra le otto sorti, e il solo Z sulla nona, la quale indicherà l'efedro, che farai tu trovando lo Z in prima ? Deciderai che chi l'ha è l'efedro, senza prima guardar tutti ed accertarti che non v'è lettera corrispondente ? In questo caso l'ordine delle lettere non ti giova.
Ermotimo - È difficile rispondere a questa domanda.
Licino — Guarda ora la cosa da un altro verso. Che sarebbe se non scrivessimo lettere sulle sorti, ma quei segni e quelle figure, di che usano gli Egiziani invece delle lettere, come uomini con teste di cane o di Icone ? Ma lasciamo le cose strane: dipingiamovi figure semplici, come due uomini su due sorti, due cavalli sopra due altre, e poi due cani, due galli, e sulla nona sia l'immagine d'un leone. Se dapprima t'incontri in chi ha questa sorte del Icone, come potrai dire: questi sarà l'efedro, senza andar guardando fra tutti se v'è un altro che abbia anche il leone ?
Ermotimo — Non ho che risponderti, o Licino.
Licino — E sì, che non potresti dirmi niente di probabile. Perciò se noi vogliamo trovare chi ha la coppa sacra, chi sarà l'efedro, chi ci può essere la migliore guida per quella città di Corinto, è necessario che ci avviciniamo a tutti, ricerchiamo, tentiamo, spogliamo, osserviamo attentamente: ed anche così appena sapremo il vero. Se io debbo credere a chi mi consiglia di filosofare secondo una certa filosofia, crederò solo a chi le conosce tutte: gli altri non hanno conoscenze perfette, ed io non mi affiderei a loro, ancorché ne ignorassero solamente una, la quale po-trebb'esser essa l'ottima. Poniamo che uno ci presenti un bell'uomo, e ci dica: questi è il più bello fra tutti gli uomini; noi certamente non gli crediamo, se non sappiamo che egli ha veduto tutti gli uomini; forse questo è bello, ma se sia il più bello fra tutti, non può cono-scerlo se non chi ha veduto tutti. E noi non abbiamo bisogno di trovar solo il bello, ma vogliamo il più bello: e finché non avremo trovato questo, ci parrà di non aver fatto nulla. Non ci contentiamo di qualunque bellezza ci venga innanzi, ma cerchiamo quella bellezza perfetta che di necessità è una.
Ermotimo — È vero.
Licino — Or di': puoi tu additarmi uno che sia pratico di tutte le vie in filosofia, e che avendo conosciuto tutto ciò che han detto e Platone, e Pitagora, ed Aristotele, e Crisippo, ed Epicuro, abbia scelta la via migliore fra tutte, provata la vera, e veduto per esperienza che essa sola mena diritto alla felicità ? Se troveremo un tale uomo, non ci daremo più alcuna briga.
Ermotimo — Non è facile, o Licino, rinvenire un uomo tale.
Licino — E che faremo dunque, o Ermotimo ? Non dobbiamo rimanercene per mancanza di una tal guida al pre-
sente. Non sarebbe questo il partito migliore e più sicuro, ciascuno mettersi da sé a percorrere tutte le sette, e considerare attentamente quello che tutte dicono ?
Ermotimo — Sarebbe il migliore: ma a cotesto s'oppone ciò che tu dicevi poco fa, che chi s'è avviato ed ha spiegato le vele non torna indietro sì facilmente. Come è possibile percorrere tutte le vie a chi, come tu dici, è ravviluppato nella prima ?
Licino - Te lo dirò io. Imiteremo quel che fece Te-seo, e tenendo in mano il filo d'Arianna, come dice la tragedia, entreremo in ciascun labirinto: e così aggomitolando, usciremo facilmente.
Ermotimo — E chi sarà per noi Arianna ? e da dove avremo il filo ?
Licino - Sta" di buon animo, o amico: che io credo d'aver trovato che cosa ci guiderà ad uscire.
Ermotimo - E che è ?
Licino - Quel detto, non mio, ma di uno dei sapienti: Sii cauto, e ricordati di non credere. Se alle cose che udiamo non accorderemo fede così da prima, ma a ragion veduta, e serbandoci a discorrerne di poi, forse facilmente usciremo dei labirinti.
Ermotimo - Ben dici: e così facciamo.
Licino - Sia. Or da chi andremo prima ? Ma non importa: cominciamo da chicchessia, da Pitagora, così a caso. Quantìanni vogliamo ad imparar tutta la dottrina di Pitagora ? Non togliere i cinque anni del silenzio, ma con quei cinque, bastano trenta, credo; se no, almeno venti.
Ermotimo — Poniamo venti. '
Licino — Appresso dobbiam porre altrettanti per Platone, e non meno per Aristotele.
Ermotimo — Non meno.
Licino - Per Crisippo non dirò quanti: tu stesso m'hai detto che appena bastano quaranta.
Ermotimo - Così è.
Licino - Poi per Epicuro, poi per gli altri. E che io non ponga le partite troppo grosse, puoi vederlo se consideri quanti stoici, epicurei e platonici ci sono, che vecchi d'ottant'anni confessano di non sapere così a fondo le dottrine della setta loro, che non rimanga loro qualche cosa a sapere. E se no, lo diranno Crisippo, ed Aristotele, e Platone, e prima di essi Socrate che non t da meno di costoro, e che gridava a tutti non già che egli sapeva ogni cosa, ma che egli non sapeva niente, o sapeva solo di non
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LUCIANO DI SAMOSATA
sapere. Rifacciam dunque il conto: abbiamo venti per Pi-tagora, venti per Platone, altrettanti per ciascuno degli altri: ora che somma d'anni avremo, se ne poniamo solo diciassette in filosofia ?
Ermotimo - Sopra dugento, o Licino.
Licino - Ne vogliam togliere il quarto, e farli rimanere cencinquanta ? o la metà ?
Ermotimo — Come ti pare: io vedo questo, che così pochissimi le percorrerebbero tutte, ancorché cominciassero da che nascono.
Licino - Ma che ci vuoi fare, o Ermotimo, se la cosa così sta ? Ritratteremo forse il nostro convenuto, che uno non può scegliere tra molte cose la migliore, se non ha esperienza di tutte ? e che senza questa esperienza si va più per divinazione che per giudizio alla ricerca del vero ? Non dicevamo questo, noi ?
Ermotimo -*• Sì.
Licino - Dunque tanto dobbiamo vivere, se vogliamo scegliere bene, avendo fatta esperienza di tutte le sette, e dopo la scelta filosofare, e filosofando divenire beati. Prima di far così, noi balleremo al buio, come si dice, urteremo di qua e di là, e qualunque cosa ci verrà alle mani crederemo sia quella che noi cerchiamo, perché non conosciamo la vera. E se per buona fortuna c'imbattiamo in essa, non siamo certi che è essa quel