HERBERT MARCUSE: UN'INDAGINE SUL NAZISMO

Herbert Marcuse, Davanti al nazismo. Scritti di teoria critica 1940-1948, Laterza, Roma-Bari, 2001, pp. XXI, 181.

Dopo un lungo silenzio Herbert Marcuse torna a far parlare di sé. L’occasione è la pubblicazione di una serie di scritti, stralci di lavori incompiuti od articoli mai pubblicati, a cui il teorico francofortese lavorò in una forbice temporale che va dal 1940 al 1948. Questi inediti, curati nell’edizione italiana da Carlo Galli e Raffaele Laudani,1 vennero concepiti dal filosofo tedesco durante la sua collaborazione con il governo americano e acquistano una straordinaria rilevanza sotto due profili. Innanzitutto, fanno luce su un periodo pressoché sconosciuto della produzione marcusiana. Il rinvenimento nell’archivio del filosofo di questi testi ha infatti permesso di sfatare un luogo comune che si era fatto strada fra gli studiosi, cioè che nella fase di collaborazione con il governo americano (1942-1951) Marcuse avesse temporaneamente sospeso la sua attività filosofica per dedicarsi esclusivamente all’elaborazione di analisi sul nazismo e al progetto di denazificazione da attuarsi una volta sconfitti i regimi totalitari.

L’altro aspetto rilevante è legato al contenuto di questi scritti. L’indagine condotta sul nazismo rivela alcuni degli aspetti più originali della produzione francofortese e, nel contempo, testimonia della vicinanza teorica che accomunava Marcuse a Franz Neumann. Nel testo più interessante fra quelli qui presentati dedicati all’ "analisi del nemico", Stato e individuo sotto il nazionalsocialismo scritto nel 1942 (è la rielaborazione di una conferenza organizzata dai francofortesi, e in particolare da Pollock, durante l’esilio newyorkese nel 1941), Marcuse riprende l’impostazione elaborata da Neumann nel Behemoth2 condividendo molte delle intuizioni avanzate dal politologo francofortese.

In verità, il dibattito sul nazismo alimentato dalla Scuola di Francoforte, che, peraltro, si inseriva nel contesto più ampio delle discussioni interne al marxismo sulle forme organizzate assunte dal nuovo capitalismo, aveva determinato il sorgere di due differenti posizioni. La prima, elaborata da Pollock ed Horkheimer,3 vedeva nel nazismo la forma totalitaria del "capitalismo di Stato", il nuovo ordinamento sociale che aveva sostituito il "capitalismo monopolistico". In definitiva, l’eliminazione dell’autonomia del mercato aveva posto le basi per il superamento delle crisi endemiche che avevano caratterizzato le forme precedenti di capitalismo.

Il nazismo aveva dunque sancito il passaggio da un’economia di scambio ad un’economia strettamente dipendente dal potere politico. Neumann e Marcuse contestavano l’idea che la nuova organizzazione del capitalismo avesse determinato un superamento delle crisi endemiche, anche se la frattura fra queste due concezioni non era così ampia come fa intendere Laudani nella Postfazione, e asserivano che queste erano celate dall’apparato burocratico e dall’ideologia.

Nel saggio Stato e individuo sotto il nazionalsocialismo Marcuse avvia la sua analisi negando che il nazismo abbia prodotto una rivoluzione. Le relazioni fondamentali del processo produttivo non sono state modificate, anzi "l’organizzazione economica del Terzo Reich è costruita attorno ai grandi cartelli industriali, i quali, in larga parte con l’aiuto governativo, hanno costantemente accresciuto la loro influenza rispetto al periodo che ha preceduto l’ascesa al potere di Hitler" (p. 13). Il nazionalsocialismo, nella concezione marcusiana, ha soppresso i tratti peculiari dello Stato moderno attraverso l’abolizione di "ogni separazione fra Stato e società" e con il "trasferimento delle funzioni politiche ai gruppi sociali attualmente al potere" (p. 15). La conseguenza più tangibile di questa trasformazione era l’autogoverno diretto ed immediato dei gruppi sociali dominanti sul resto della popolazione.

Le tre caratteristiche dello Stato moderno, il rule of law, il monopolio del potere coercitivo e la sovranità nazionale, che incarnavano la separazione razionale delle funzioni tra Stato e società, vengono dunque abolite nell’architettura politica nazionalsocialista che vedeva nello Stato l’agente esecutivo dell’economia. "Se vi è qualcosa di totalitario nel nazionalsocialismo", asserisce Marcuse, "questo non è certamente lo Stato" (p. 17). Lo Stato, nell’ottica hitleriana, era solamente un tassello di uno schema molto più ampio ed articolato, il cui primo obiettivo era l’espansione industriale e, quindi, la trasformazione della Germania in un gigantesco competitore internazionale.

Ma raggiungere questa prima condizione significava automaticamente il sacrificio dello Stato democratico e della legislazione sociale weimariana che poneva ostacoli insormontabili alla realizzazione del progetto nazionalsocialista e la transazione ad un sistema politico autoritario. Con la trasformazione di tutte le relazioni economiche in relazioni politiche (e qui l’analisi del nostro converge con quella di Pollock ed Horkheimer) Hitler si era convinto di aver posto le basi per l’affermazione dell’industria tedesca nella competizione internazionale, mentre il ricorso alle armi assicurava l’apertura di nuovi mercati e la sottomissione degli altri competitori. "Per garantire la capacità industriale e la sua piena realizzazione", scrive Marcuse, "tutte le barriere fra politica ed economia, tra Stato e società dovevano essere rimosse; le istituzioni intermedie dovevano essere abbandonate; lo Stato doveva identificarsi direttamente con gli interessi economici predominanti e ordinare tutte le relazioni sociali in base ai loro bisogni" (p. 21).

Dell’analisi di Neumann, come ha osservato Laudani, Marcuse condivide anche la struttura multipla della classe dirigente nazista. La grande industria, il partito nazista e l’esercito erano le tre gerarchie al potere. Queste forze avevano un solo obiettivo comune: mantenere in vita il regime. L’eterogeneità dei loro interessi si conciliava nella figura del führer che diventava il punto di mediazione finale; "egli è il soggetto per mezzo del quale gli interessi divergenti delle tre gerarchie al potere vengono coordinati e indotti come interessi nazionali. Egli media tra le forze in competizione; è il luogo del compromesso finale, piuttosto che quello della sovranità" (p. 22). Un’armonia estremamente fragile quella che legava fra loro industria, esercito e partito che avrebbe potuto funzionare solo se il sistema avesse continuato ad espandersi. Il successo era quindi la condizione da soddisfare per mantenere in equilibrio l’intera impalcatura nazionalsocialista. Il quadro della struttura dirigenziale nazista si completava poi con la burocrazia, esecutrice materiale delle decisioni adottate dalle tre forze in competizione e definita da Marcuse come una delle "amministrazioni più altamente razionalizzate ed efficienti dell’era moderna" (p. 24).

Pur seguendo sotto diversi profili l’impostazione di Neumann, Marcuse prende in parte le distanze dalla tesi centrale del Behemoth. Neumann definiva senza mezzi termini la struttura del nazionalsocialismo come un non-Stato; Marcuse elabora invece il concetto di Stato-macchina. "Questa macchina", osserva Marcuse, "che abbraccia ovunque la vita degli uomini è la più inquietante perché, con tutta la sua efficienza e precisione, è totalmente incalcolabile e imprevedibile […]. Tutte le relazioni umane sono assorbite nell’ingranaggio oggettivo del controllo e dell’espansione" (p. 25). Il nazionalsocialismo realizzava alcuni aspetti fondamentali della società individualistica. L’individuo era la principale fonte di energia e potere, la sua efficienza e capacità andava accresciuta e coniugata con le esigenze dell’apparato produttivo. Per ottenere questo il regime nazista aveva ridotto l’individuo ad un mero numero della "folla" trasformando il Terzo Reich in uno "Stato delle masse".4 Invece di sviluppare una "coscienza" comune, gli individui erano indotti ad inseguire i loro interessi più primitivi con la conseguenza di accrescere la loro atomizzazione e il loro isolamento reciproco. Una condizione indispensabile per porre al servizio del regime le forze e le facoltà individuali.

"Il nazionalsocialismo", scrive Marcuse, "ha introdotto un elaborato sistema di educazione fisica, morale ed intellettuale che mira ad incrementare l’efficienza del lavoro attraverso metodi e tecniche scientifiche estremamente raffinate. I salari vengono differenziati a seconda dell’efficienza del singolo lavoratore. Vengono create istituzioni psicologiche e tecnologiche con il compito di studiare metodi appropriati per l’individualizzazione del lavoro e per contrastare gli effetti dannosi della meccanizzazione. Fabbriche, scuole, campi di allenamento, arene sportive, le istituzioni culturali e l’organizzazione del tempo libero sono veri e propri laboratori di "organizzazione scientifica" del lavoro" (p. 30). L’organizzazione del tempo libero da parte del regime, unica sfera nell’era liberale in cui l’individuo poteva estraniarsi dalla società ed astenersi da qualsiasi forma di prestazione competitiva, sortiva l’effetto di eliminare la privacy dell’individuo sottomettendolo alle regole disciplinatorie del lavoro. In cambio di questo sacrificio, conclude Marcuse, il nazionalsocialismo offriva due compensazioni: una nuova sicurezza economica e una nuova libertà di costumi (eliminazione della discriminazione nei confronti delle madri e dei figli illegittimi; incoraggiamento delle relazioni extraconiugali; introduzione di un nuovo culto della nudità nell’arte e nell’intrattenimento; dissoluzione del ruolo protettivo ed educativo della famiglia). Il nazismo operava paradossalmente una "liberazione" dalle forme tradizionali di repressione che era però finalizzata ad un nuovo asservimento dell’individuo alla forma di dominio totale incarnata dal nazionalsocialismo.

Il tema del nazismo, che predomina in questa raccolta di scritti, occupa un posto di primo piano anche nei testi La nuova mentalità tedesca (1942) e Presentazione del nemico (1942-1943), entrambi consegnati come rapporti periodici all’Office of War Information americano. In queste pagine Marcuse riprende alcuni temi già esposti in Stato e individuo sotto il nazionalsocialismo, ma soprattutto mira a fornire degli elementi utili per la propaganda antinazista. Di ben altro tenore è invece il testo incompiuto La filosofia tedesca nel ventesimo secolo (1940), contributo a cui Marcuse aveva lavorato nell’ambito di un progetto di ricerca intitolato German Economy, Politics and Culture 1900-1933 promosso dall’"Istituto per la ricerca sociale" sotto la direzione di Horkheimer. Il lavoro di Marcuse, mai portato a termine a causa del fallimento dell’intero progetto, si proponeva di riesaminare il ruolo avuto dalla filosofia tedesca nella fase precedente l’avvento al potere del nazismo e di rinnovare le interpretazioni tradizionali che vedevano nel nazismo la conseguenza più nefasta del nichilismo nietzschiano. Come ha correttamente osservato Carlo Galli nella Premessa, "questo uso in grande stile della categoria di nichilismo, non lascia emergere con sufficienza chiarezza, secondo Marcuse, che la grande crisi del razionalismo e della dialettica hegeliana intervenuta dopo la metà del XIX secolo ha prodotto esiti diversificati: insomma, il potenziale emancipatorio e progressista della modernità filosofica e politica, e in particolare della cultura classica tedesca – di quella costellazione, che va da Goethe a Marx, passando per Kant, Schlegel, Hegel, Feuerbach, alla quale va la fedeltà intellettuale ed etica di Marcuse – non è andato perduto in una sorte di notte in cui tutte le vacche sono nere" (p. XIII). Nel suo percorso che va da Nietzsche ad Heidegger passando per Freud, Dilthey, Weber e Husserl, Marcuse osserva e segnala di volta in volta come alcune delle tendenze considerate progressiste hanno invece facilitato la subordinazione al nazionalsocialismo e come, viceversa, filosofie giudicate spartiacque del regime hitleriano contengano al loro interno un rifiuto radicale di quell’ordine.

Gli ultimi due scritti di questa raccolta assumono invece un rilievo teorico determinante in quanto anticipano alcuni dei temi forti trattati dal filosofo negli anni ’50 e ’60.5 La nozione di arte come "grande rifiuto" dell’ordine esistente, la neutralizzazione della classe operaia come soggetto della rivoluzione, la critica della tesi sovietica delle "due fasi" e del "socialismo di Stato", l’individuazione di tratti comuni fra la società capitalista occidentale del dopoguerra e l’Unione Sovietica sono alcuni esempi delle riflessioni a cui Marcuse lavora in questo periodo e che formalizza nelle Note su Aragon. Arte e politica nell’era totalitaria (1945) e nelle 33 Tesi (1947). Le Note su Aragon costituiscono di fatto il secondo contributo, dopo la tesi di laurea Il "romanzo dell’artista" nella letteratura tedesca,6 in cui Marcuse formula la sua teoria estetica. L’arte rappresenta per Marcuse la seconda faccia (la prima è chiaramente la politica) di uno stesso problema. L’opposizione intellettuale sembra essere incapace di preservare il suo valore di negazione di fronte alle forme di vita dominanti. Assimilazione e standardizzazione hanno intrappolato l’arte in un "incantesimo". In un contesto di questo genere l’arte d’opposizione deve trovare forme differenti di espressione e trasformarsi. "Come strumento di opposizione", osserva Marcuse, "l’arte dipende dalla forza alienante della creazione estetica; dal suo potere di rimanere insolita, antagonistica, trascendente rispetto alla normalità e, nello stesso tempo, di costituire la riserva dei bisogni umani soppressi, delle sue facoltà e dei suoi desideri, di rimanere più reale della realtà" (p. 94). L’arte "autentica", come la definisce Marcuse, deve esprimere il "grande rifiuto"7 di una realtà oppressiva ed alienante. Per raggiungere questo obiettivo deve rimanere "irrealistica", in essa "il contenuto della libertà deve mostrarsi solo indirettamente" (p. 96). Essa deve incarnare una sorta di precondizione della negazione, far balenare "la promessa di felicità", ma non ha capacità rivoluzionaria diretta. "Nel medium della forma artistica, le cose sono liberate dalla loro vita – senza essere liberate nella realtà" (p. 110). Quest’ultimo compito spetta invece alla prassi.

Nelle 33 Tesi, il testo più denso da un punto di vista teorico, pensato da Marcuse come contributo al progetto di Horkheimer di rilanciare la rivista originaria dell’Istituto (Zeitschrift für Sozialforshung), sono invece abbozzate molte delle posizioni definitive che il filosofo assumerà all’interno di Soviet Marxism, ma soprattutto de L’uomo a una dimensione. In particolare, l’integrazione del proletariato, la stabilizzazione del capitalismo, la burocratizzazione del socialismo, la fine della sinistra rivoluzionaria e l’assenza di forze autentiche per un progressivo cambiamento sociale determinano in Marcuse un cortocircuito del pensiero dialettico e della prospettiva rivoluzionaria. Per certi versi, prende il via proprio in questa fase l’affannosa ricerca marcusiana del luogo e del soggetto della negazione determinata. La riconciliazione del proletariato con il capitalismo, risultato di "un mutamento nella forma dello sfruttamento" (p. 117), e la circostanza che "il socialismo di Stato mantiene in piedi i fondamenti della società classista" (p. 120) spingono Marcuse ad indagare la realtà di questi mutamenti nelle sue opere successive e ad individuare, a seconda delle contingenze storiche, nuovi luoghi e soggetti della rivoluzione.

L’ultimo atto di questo libro è la pubblicazione del breve rapporto epistolare intercorso fra Marcuse e il suo maestro Heidegger nell’immediato dopoguerra. È il tentativo posto in essere dall’allievo di ottenere dal maestro una chiarificazione sui motivi che lo hanno spinto ad aderire, seppur per un lasso di tempo breve, al nazismo. All’incalzante richiesta di Marcuse fa riscontro la fragilità di argomenti di un Heidegger imbarazzato. Questo breve, ma intenso scambio epistolare segnerà anche la rottura definitiva del rapporto fra i due.

Questo libro ha il merito di restituire al lettore una dimensione sconosciuta del pensiero marcusiano. Lo sforzo dialettico che pervade tutti i testi qui presentati e il ricorso sistematico al "pensiero negativo" hegeliano, l’intrinseca capacità del pensiero di negare "ciò che ci sta immediatamente dinanzi"8 e di offrire una via di fuga attraverso la prassi emancipatoria di un soggetto antagonista, sono indicatori di una filosofia che, pur alle prese con aporie ed errori di valutazione, non si è mai arresa di fronte al male della nostra società (sia esso il nazismo come le altre forme di dominio) e che ha sempre preservato la lucidità analitica necessaria per cogliere i repentini mutamenti delle strategie di potere.


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