Commento
alle Tesi su Feuerbach di
Karl Marx
di
Marco Apolloni
(Sito
personale: http://noiperborei.blogspot.com/
Contatto
personale: escobar17@hotmail.it
)
Premessa
storica
Composte
nel febbraio 1845, le Tesi su
Feuerbach
di Karl Marx vennero successivamente pubblicate in appendice allo scritto
Ludovico
Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca
(1888) di Friedrich Engels. Dunque va subito precisata la loro natura
frammentaria, il cui significato può essere racchiuso in queste parole marxiane
tratte dallo scritto Per la
critica dell’economia politica (1859):
Abbandonammo
tanto più volentieri il manoscritto alla rodente critica dei topi, in quanto
avevamo già raggiunto il nostro scopo principale, che era di veder chiaro in noi
stessi[1].
Stesso
discorso vale per le sue Tesi su
Feuerbach
dove era implicito l’intento di Marx, che era appunto quello di «veder chiaro»
dentro di sé, cosicché da poter maturare poi una propria autonoma concezione di
stampo materialista, ma più compiuta di quella feuerbacchiana. Infatti in queste
tesi appare evidente la netta presa di posizione del giovane Marx sulle teorie
di Feuerbach, le quali per lui hanno sì avuto il merito d’infrangere con il
passato. Ossia con le vecchie concezioni del materialismo francese
settecentesco, reo di essere fin troppo pregno d’individualismo e d’a-storicismo
astratto e anche, perciò, di non tenere in degna considerazione il decisivo
apporto dell’idealismo-storicismo hegeliano[2],
che ha avuto se non altro il merito di fondare l’essere sociale e storico
dell’uomo, da cui ha poi preso spunto lo stesso Marx pur apportandovi delle
sostanziali modifiche. A tal proposito, la concezione marxiana ha avuto il molto
discusso merito d’elevarsi ad un livello qualitativamente superiore sia alla
concezione hegeliana che a quella feuerbacchiana, essendone stata il suo
naturale superamento.
In
un secondo momento l’innovativa concezione marxiana subirà un ulteriore
compimento in quelle che poi saranno le acquisizioni successive del suo
pensiero, cioè le indagini del rapporto tra “forze produttive” e “rapporti di
proprietà”, tra “struttura” e “sovrastruttura”. In questa sua accorta
riflessione su Feuerbach e sulla sua specifica concezione materialista, vi è già
contenuto il germe
del cambiamento all’interno dello straordinario pensiero marxiano e di quelli
che poi diverranno i suoi due capisaldi, per meglio dire concetti quali
“materialismo storico” e “prassi rivoluzionaria”.
In
definitiva possiamo dire che, la principale bravura di Marx è stata quella di
riuscire a far dialogare e interagire fra di loro sia l’idealismo-storicismo
hegeliano che il materialismo feuerbacchiano, ricavandone una summa
nell’assunzione del concetto della «prassi rivoluzionaria», che può essere letto
come fine ultimo della sua concezione storicista, poiché il concetto del
«materialismo storico» altro non è che una particolare rilettura, in chiave
appunto marxiana, della concezione hegeliana di opposto stampo storicista. Va
detto, quindi, che sia Feuerbach che Marx erano entrambi agguerriti esponenti
della «sinistra hegeliana» materialista,
a differenza della «destra hegeliana» altresì idealista.
Proprio in virtù di questo, vivisezionando e rivisitando sin nei minimi
particolari il pensiero di Marx, non possiamo in alcun modo prescindere da
quello di Hegel. È opportuno, all'opposto, considerare Marx come il più
illuminato fra i discepoli hegeliani, il quale ha saputo rendere il miglior
merito possibile al suo maestro, dischiudendo pertanto nuovi orizzonti
d’indagine filosofica.
Commento
La
svista più lampante del pensiero di Feuerbach è secondo Marx quella di non
concepire l’attività umana sotto forma oggettiva e non puramente astratta, ossia
di non concepirla sotto forma di prassi,
che è «attività umana sensibile». Oltre a ciò egli pecca pure di misticismo,
conservando ancora qualche strascico idealista, cosa questa inammissibile per un
materialista irreprensibile come Marx. Nella sua personale concezione è
altamente connessa di significati la parola intuizione,
che andrebbe finalmente accantonata per lui. Questi sembra non riuscire a
capacitarsi di come sia possibile intendere il lavoro teoretico
dell’uomo non in senso squisitamente pratico.
Come ci dice lui stesso riferendosi a Feuerbach nella prima delle sue tesi:
Egli,
perciò, nell’Essenza
del Cristianesimo,
considera come veramente umano soltanto l’atteggiamento teoretico, mentre la
prassi è concepita e fissata solo nel suo modo di apparire sordidamente
giudaico. Egli non comprende, perciò, il significato dell’ attività
«rivoluzionaria», «pratico-critica»[3].
Detto
ciò, vorrei ora ricollegarmi ad un altro pensiero marxiano, a mio avviso
parallelo a quello sopraccitato, prima di azzardare una qualunque
interpretazione in merito. Esso è tratto dall’altro testo marxiano dei
Manoscritti
economico-filosofici
(1844):
Ogni
prodotto è un’esca con cui si vuole attrarre a sé ciò che costituisce l’essenza
dell’altro, il suo denaro; ogni bisogno reale o soltanto possibile è una
debolezza che farà cascare la mosca nella pania - sfruttamento universale
dell’essere sociale dell’uomo; allo stesso modo che ogni imperfezione dell’uomo
è un vincolo che lo unisce al cielo, è il lato in cui il suo cuore è accessibile
ai preti[4].
Ovvero
ciò significa che la religione non è nientemeno che il prodotto delle nostre
insufficienze o carenze interiori, ad esempio: noi siamo esseri finiti,
Dio è un essere infinito
e via dicendo. Perciò Iddio stesso è soltanto una sorta di “strumento di
compensazione” al nostro incessante senso di incompletezza soggettiva, poiché
Iddio stesso cos’è se non completezza oggettiva? Coloro i quali fanno leva su
questo diffuso senso di incompletezza, che opprime miseramente tutti gli uomini,
sono naturalmente quella razza abietta dei «preti», come dice lo stesso Marx, i
quali sanno toccare in maniera taumaturgica i punti dolenti delle persone. Essi
si nutrono voracemente delle debolezze altrui, per colmarle con le loro assurde
pretese dogmatiche che vogliono: o che si faccia come dicono loro e si creda
ciecamente in ciò che loro “spacciano per vero”, oppure si é irrefutabilmente
condannati alla dannazione eterna. Infatti riprendendo un’altra affermazione
dello stesso Marx nella sua famosissima Lettera
a Ruge
datata Settembre 1843:
Il
nostro motto deve essere dunque: riforma della coscienza, non mediante
dogmi
(il
corsivo è mio), ma mediante l’analisi della coscienza mistica oscura a se
stessa, sia che si presenti in modo religioso che si presenti in modo politico.
Apparirà chiaro allora come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa
della quale non ha che da possedere la coscienza, per possederla realmente.
Quindi
Marx in contrapposizione ai preti, vuol chiarire agli altri ma innanzitutto a se
stesso quali sono le “verità reali” e perciò contrarie al dogma dell’abietta
fede, per quanto spiacevoli e poco desiderabili esse siano. Poiché, in effetti,
l’oppio
dei popoli[5]
della religione è pur sempre una droga, che procura una fortissima dipendenza e
oltre a tutto nuoce piuttosto gravemente alla nostra, già abbastanza precaria
per conto proprio “salute spirituale”. Ho usato volutamente tale espressione ad
indicare come, da recenti ricerche scientifiche, lo spirito sia esso stesso un
prodotto della materia e come se non bastasse ne sia l’espressione ben più
fulgida. Infatti certi neurologi moderni, proprio in ciò consiste la
straordinaria dote di preveggenza
marxiana, stanno fondando e dimostrando su basi empiriche l’origine
materiale-sensitiva della coscienza umana confinata esattamente nel cervello.
Per questo motivo essi[6]
stanno cominciando ad insinuare l’idea, dal forte sapore e dalla altrettanto
forte tinta marxista, che la nostra coscienza spirituale è nientemeno che “la
vita della mente”, parafrasando il titolo di un libro della Arendt. Dimostrando,
in ultima analisi, che il pensiero stesso altro non è che il prodotto più
elevato della materia stessa, che può dirsi “pura materia spirituale”.
Senza
nulla togliere ai meriti della ricerca neurologica, che in questi ultimi tempi
ha compiuto degli autentici “passi da gigante”, molti anni prima Engels lasciò
scritto nel Ludovico
Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca
(1888):
...
la nostra coscienza e il nostro pensiero, per quanto appaiono soprasensibili,
sono il prodotto di un organo materiale corporeo, il cervello. La materia non è
un prodotto dello spirito, ma lo spirito stesso non è altro che il più alto
prodotto della materia. Questo, naturalmente, è materialismo puro[7].
Ritornando
alla spietata critica marxiana della religione, vi riporto quanto detto da Marx
nell’Introduzione
al suo scritto Per la
critica della filosofia del diritto di Hegel
(1843):
La
religione è la teoria generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico,
la sua logica in forma popolare, il suo point
d’honneur
spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo completamento
solenne, la sua fondamentale ragione di consolazione e di giustificazione[8].
Esse
rievocano nella mia mente una gustosa scenetta del libro La
fattoria degli animali
di George Orwell - libercolo di corrosiva e mordente satira politica -, in cui
vi è descritta una bizzarra e gracchiante cornacchia, la quale con la sua
vociaccia squillante incita continuamente i poveri animali sempliciotti della
fattoria a lavorare molto duramente su questa Terra per guadagnarsi la
ricompensa
dei
Cieli. Dicendo ciò, essa cerca di convincere i sballottati animali della
fattoria dell’esistenza di un “mondo celeste”, che si colloca al di sopra del
loro percepibile “mondo terrestre” e in cui essi verranno ricompensati dei loro
innumerevoli sacrifici e delle loro parimenti innumerevoli fatiche terrene. Ad
aver assoldato la spergiura sibilla-cornacchia, nella sua missionaria opera di
evangelizzazione delle masse incolte, è stato il «tirannico maialino» Napolèon,
a cui faceva comodo far lavorare duramente senza posa i facinorosi animali della
fattoria. Peccato, però, che questo fantomatico “al di là” di cui parlava
instancabilmente la cornacchia agli animali della fattoria e di cui molte altre
cornacchie, non soltanto appartenenti alla specie uccellesca ma anche a quella
pretesca, tuttora continuano a straparlare ai loro perlopiù spauriti
ascoltatori, i quali non si può dire ne abbiano smarrito le tracce ma piuttosto
che non le hanno mai e poi mai possedute in quanto la religione si compone di un
fondamento essenzialmente mondano. Sono gli uomini a far la religione secondo
Marx e non viceversa!
La
“natura schiavista” della religione potrebbe darsi metaforicamente col “mito
della caverna” di Platone. Essa, cioè, ci fa brancolare nell’ignoranza
privandoci cosicché della
conoscenza,
che è disarcionamento dalle catene che ci tengono imprigionati e ci impediscono
pertanto di fuoriuscire dall’ottenebrante caverna in questione. In aggiunta essa
nasconde la nostra piena essenza umana, che non ha nulla a che fare con
l’essenza divina, che ne è inversamente uno sbiadito riflesso.
Ampliando
cosicché questa mia riflessione, ora vorrei commentare la seguente affermazione
marxiana, che compare nella seconda tesi:
Nella
pratica l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere
immanente del suo pensiero[9].
Qui
mi soffermerei particolarmente sull’espressione marxiana «carattere immanente»,
che possiede un preciso peso specifico. Per far ciò vorrei ora, però,
ricollegarmi ad un testo carpito dai Quaderni
dal carcere
di Antonio Gramsci nella sezione dedicata alla Filosofia
della praxis:
Quando
si dice che Marx adopera l’espressione «immanenza» in senso metaforico, non si
dice nulla: in realtà Marx dà al termine «immanenza» un significato proprio,
egli cioè non è un «panteista» nel senso metafisico tradizionale, ma è un
«marxista» o un «materialista storico». Di questa espressione «materialismo
storico» si è dato il maggior peso al primo membro, mentre dovrebbe esser dato
al secondo: Marx è essenzialmente uno «storicista» ecc.[10].
Gramsci
in questa sua fulminea riflessione riesce ad essere tanto efficace quanto acuto
e ancora centra appieno la questione cruciale, ossia il carattere decisamente
«immanente» e «storicista» del materialismo
storico
marxiano, che non può in alcun modo prescindere, come dice Marx stesso del
resto, dalla «verità» e in quanto essa per lui viene intesa come “miscuglio
alchemico” tra «realtà» e «potere», termini i quali non fanno altro che
determinare quel che potrebbe dirsi, a ragion veduta, come il fiore
all’occhiello della «filosofia della praxis» marxiana e cioè:
la
realtà-verità dei fatti.
Dunque
il quadro generale che qui si ricava di Marx è quello di un pensatore coi piedi
ben attaccati per terra e proprio per questo molto aristotelico e poco
platonico, grazie al quale crolla completamente l’immagine ormai divenuta
spassosa del filosofo che si azzuffa con le nuvole, un po’ come ce lo descrive
ironicamente Aristofane nella sua divertente parodia Le
nuvole,
dandoci un ritratto sostanzialmente “grottesco” del padre della filosofia
occidentale: Socrate.
Oltre
a ciò possiamo anche parlare di una certa vena pressoché inesauribile in Marx,
vale a dire del suo disincantato realismo,
che gli permetteva di meglio comprendere con stupefacente chiarezza la complessa
realtà che lo circondava e in cui lui viveva, lavorava e lottava
quotidianamente. Già, perché secondo lui vivere significava lavorare e viceversa
lavorare significava lottare[11].
Per dir ciò, vorrei riallacciarmi ad una sua precisa citazione tratta
dall’Introduzione
allo scritto Per la
critica della filosofia del diritto di Hegel (1843):
Evidentemente
l’arma della critica non può sostituire la critica delle armi, la forza
materiale non può essere abbattuta che dalla forza materiale[12].
Per
lui la rivoluzione andava combattuta sia con le armi che coi libri in pugno.
Poiché lui distingue due tipi differenti di lotte, o meglio un tipo di “lotta
spirituale” e un altro tipo, invece, di “lotta materiale”. Invero vi è un
episodio storico a cui sia Marx che Engels sono molto legati ed è quello
precisamente della rivolta dei contadini dell’aprile 1525 capeggiata da Thomas
Muntzer[13].
Ritornando alla sopraccitata affermazione marxiana vorrei allora citare una
scena del film I diari
della motocicletta,
del regista Walter Salles, che racconta le avventure-disavventure picaresche del
giovane Ernesto «Che» Guevara. Il film ci racconta di quando egli non era ancora
“il leggendario” comandante della rivoluzione cubana e, in compagnia del suo più
grande amico d’infanzia Alberto Granado, compì un imprescindibile viaggio per la
sua martoriata, ma ciò nondimeno «Maiuscola America», in sella ad una
donchisciottesca motocicletta Norton ‘500. In questa scena del film, vi è una
domanda molto esplicita diretta al giovane Ernesto dall’amico Alberto, il quale
gli chiede appunto se lui creda o
meno nella possibilità di combattere una rivoluzione senza il sanguinoso apporto
delle armi. Domanda alla quale il giovane Guevara risponde con pacatezza
imperturbabile «non potrebbe funzionare».
Detto
questo, ora vorrei continuare la mia riflessione su queste tesi marxiane,
riportando quasi per intero il testo della terza tesi:
La
dottrina materialistica della modificazione delle circostanze e dell’educazione
dimentica che le circostanze sono modificate dagli uomini e che l’educatore
stesso deve essere educato…
La
coincidenza del variare delle circostanze dell’attività umana, o
auto-trasformazione, può essere concepita e compresa razionalmente solo come
prassi
rivoluzionaria[14].
Stavolta
Marx si riferisce ad una certa parte della filosofia passata, che a suo avviso
non ha saputo eliminare l’insussistente elemento della fatalità. Egli, infatti,
si scaglia contro ogni sorta di fatalismo, poiché il fato stesso non è
nient’altro che il prodotto del «variare» delle circostanze umane. Noi soli
siamo gli unici artefici della nostra buona o cattiva sorte mediante le nostre
scelte consapevoli e inconsapevoli. Perciò è pressoché inutile, oltre che
controproducente, prendersela a tutti i costi con queste entità fittizie sia di
natura divina che di natura fatalistica. In un certo senso possiamo parlare di
una specie di scientismo marxiano, pur essendo questo un aspetto secondario
della sua dottrina. Il suo atteggiamento prettamente scientifico tutti i modi
rimane quello più indifendibile su di un piano meramente filosofico. Difatti
esso non tiene conto dell’imprevisto, che secondo il nostro senso pratico è
sempre dietro l’angolo, per dirlo usando una bellissima immagine del poeta
italiano Eugenio Montale: la storia è sì una concatenazione di eventi, ma in
questa quasi infallibile catena, c’è sempre qualche anello che non tiene; oppure
per utilizzare un’altra metafora dello stesso autore: nelle maglie della rete
del pescatore, c’è sempre qualche pesce più astuto, che riesce a sgusciar via e
mettersi cosicché in salvo.
Ritornando
al brano sopraproposto di Marx, è vero che nella stragrande maggioranza dei casi
siamo noi uomini a variare le circostanze, ma è pur vero che rare volte sono le
circostanze che ci trascinano nella loro inarrestabile “bufera”. Come quella che
fa da cornice all’incedere perplesso dell’angelus
novus
dei dipinti dell’artista svizzero Paul Klee, riconvertito poi da Walter Benjamin
nel ben noto angelo
della storia[15],
raffigurato mentre giace smarrito sopra le macerie della Storia, che si sono
ammonticchiate confusamente sotto di lui. Ecco che, però, ad un tratto
inaspettatamente questa bizzarra creatura, si volta all’improvviso attirata da
qualche cosa di non meglio precisato e vorrebbe gettare all’indietro il suo
sguardo indagatore. Ciononostante lo spirare incessante della bufera lo
costringe suo malgrado a proseguire la sua folle corsa verso l’ignoto. Dinanzi a
tale creazione artistica ci si deve soltanto limitare ad un osservazione
attonita totalmente risucchiati nel suo vortice fascinoso[16].
Proseguendo
la mia riflessione sulle tesi marxiane, vorrei a questo punto passare alla
quarta tesi, che si riferisce al «fondamento mondano» della religione fissato
dalla concezione feuerbacchiana, vale a dire:
Questo
fondamento deve essere perciò in se stesso tanto compreso nella sua
contraddizione, quanto rivoluzionato praticamente. Pertanto, dopo che, per
esempio, la famiglia terrena è stata scoperta come il segreto della sacra
famiglia, è proprio la prima a dover essere dissolta teoreticamente e
praticamente[17].
Se
Feuerbach ha parlato per primo di alienazione religiosa dell’uomo, tuttavia non
l’ha poi mai messa in pratica secondo Marx. Di ciò si preoccupa lui. La
successiva critica marxista novecentesca ha esteso il concetto di “alienazione”,
o meglio sensazione di estrazione dal proprio vero sé, alla routine
lavorativa e ripetitiva delle fabbriche capitalistiche. Non a caso essa si
realizza appieno nell’operaio alle prese con la snervante catena di montaggio,
il quale a furia di montare pezzo su pezzo e di fare di continuo le stesse
monotone operazioni, acquisisce finalmente la consapevolezza di essere cosa ben
diversa dal prodotto grezzo che sta lavorando. Senza la cui alienazione dallo
stesso – intesa come fuoriuscita del soggetto,
l’operaio, dall’oggetto,
il prodotto – non riuscirebbe a fare quel che deve fare per ottenere il suo
scopo principale: il denaro.
A questo proposito, si veda il bellissimo film di Charlie Chaplin Tempi
moderni,
che racconta le goliardiche vicende di un operaio molto stravagante da lui
stesso interpretato.
Adesso
vorrei citare uno spezzone di discorso marxiano davvero chiarificante, tratto
dai Manoscritti
economico-filosofici (1844):
Con
la massa degli oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei, ai quali
l’uomo è soggiogato, ed ogni nuovo prodotto è un potenziamento del reciproco
inganno e delle reciproche spogliazioni. L’uomo diventa tanto più povero come
uomo, ha tanto più bisogno del denaro, per impadronirsi dell’essere ostile, e la
potenza del suo denaro sta giusto in proporzione inversa alla massa di
produzione; in altre parole, la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta
la potenza del suo denaro. Perciò il bisogno del denaro è il vero bisogno
prodotto dall’economia politica, il solo bisogno ch’essa produce[18].
Il
denaro viene qui rappresentato molto chiaramente
come
l’elemento perturbatore del carattere delle persone, per il cui possesso sono
capaci di compiere qualunque efferatezza. L’accumulo di denaro è ciò che,
secondo Marx, sta conducendo la nostra società verso il baratro ed è proprio
questo il motivo che lo indurrà a scrivere Il
capitale.
La “lotta di classe” preconizzata da Marx è il compimento più logico, nonché
l’ultimo gradino della scala rivoluzionaria per compiere nella “prassi” le sue
teorie, estirpando le radici infradiciate della società e ripiantandone di
nuove. Nel tentativo di edificare un’utopica “società perfetta” priva di
disuguaglianze sociali. È importante avere un’utopia poiché, pur essendo
irraggiungibile, è proprio grazie ad essa che noi riusciamo a progredire per il
bene dell’intera collettività. In ultima analisi, finché il più ricco sarà
sempre più ricco e il più povero sempre più povero, allora avrà senso seguire
l’esempio edificante di un grande del passato il cui nome Spartaco[19]
riecheggerà nell’eternità, per tutti coloro che si ribellano alle loro
svantaggiate condizioni sociali.
In
riferimento alla quarta tesi, vi riporto uno stralcio di brano marxiano tratto
dall’Introduzione
a Per la
critica della filosofia del diritto di Hegel
(1843):
…
è dunque compito
della storia,
una volta scomparso l’al di
là della verità,
di ristabilire la verità dell’al di
qua.
È innanzitutto compito
della filosofia,
operante al servizio della storia, di smascherare l’autoalienazione dell’uomo
nelle
sue forme profane,
dopo che la forma
sacra
dell’autoalienazione umana è stata scoperta. La critica del cielo si trasforma
così in critica della terra, la
critica della religione nella critica del diritto,
la
critica della teologia nella critica della politica[20].
Qui
Marx si riaggancia a quanto detto in precedenza poiché una volta stabilito il
cosiddetto «fondamento mondano» della religione, non ha più senso arrampicarsi
sulle nuvole alla ricerca di verità più grandi di noi, che con tutta probabilità
sono un brutto scherzo giocatoci da quella razza abietta dei preti! Dunque la
«famiglia terrena» e non la «sacra famiglia» è la sola che per lui conti davvero
qualcosa. In effetti egli rimane saldamente aggrappato a questa vita terrena,
ridimensionando le pretese di un’inverosimile vita ultraterrena.
Ora,
però, vorrei passare ad analizzare la quinta tesi marxiana, che ci riporta
direttamente ai temi già trattati nella prima e li sviluppa ulteriormente,
esplicitando ancor di più il suo imprescindibile punto di vista in materia:
Feuerbach,
non soddisfatto dell’astratto pensiero, vuole (aggiungervi) l’intuizione; ma
egli non concepisce la sensibilità come attività pratica umana-sensibile[21].
Da
tenere nella giusta considerazione in questo caso, è proprio il demerito
principale imputato da Marx a Feuerbach, ossia quello di essersi fermato a dei
presupposti, poi non sviluppati. Oltretutto Feuerbach è stato per Marx colui che
ha per primo filosoficamente ben inteso i limiti dell’ideologia religiosa, ma il
cui demerito principale è stato quello di non aver superato una volta per tutte
questa rozza forma ideologica e come se non bastasse di aver risolto la
filosofia nella religione. Contro questo assurdo paradosso feuerbacchiano si
scaglia violentemente Marx, il quale non vuole affatto saperne di accettare gli
sviluppi di Feuerbach.
A
questo punto vorrei analizzare le seguenti tre affermazioni distinte estrapolate
dai Manoscritti
economico-filosofici
(1844):
L’educazione
dei cinque sensi è un’opera di tutta la storia del mondo sino ad oggi…
La
sensibilità deve costituire la base di ogni scienza…
L’uomo
è l’oggetto immediato della scienza naturale; infatti la natura sensibile
immediata per l’uomo è immediatamente la sensibilità umana (espressioni
equivalenti), immediatamente come l’altro uomo presente a lui in modo sensibile,
dato che la sua propria sensibilità si costituisce per lui stesso soltanto
attraverso l’altro uomo…[22]
Cominciamo
dalla prima. In questa considerazione Marx puntualizza la sua convinzione
materialista
e storicista
(dall’unione di questi due termini ambivalenti ne ricaviamo il termine più
propriamente marxiano di “materialismo storico”), secondo cui ogni epoca è la
“cifra” di tutte le epoche che l’hanno preceduta e che l’hanno portata a
divenire quel che poi in effetti è divenuta. Tale concezione si salda
indissolubilmente in un consequenziale contesto storico, secondo cui ogni epoca
è stata la risultante dell’epoca che l’ha cronologicamente preceduta. In questo
occorre dargli atto di essersi fatto carico mirabilmente della tradizione di
pensiero hegeliano di cui, però, ha saputo compiere un’efficace sintesi. Per
dirlo con Antonio Gramsci in un suo brano tratto dai Quaderni
dal carcere
nella sezione riservata alla Filosofia
della praxis:
…parte
essenziale del materialismo storico non è né lo spinozismo, né lo hegelismo, né
il materialismo francese, ma precisamente ciò che non era contenuto se non in
germe in tutte queste correnti e che Marx ha sviluppato, o di cui ha lasciato
gli elementi di sviluppo; la parte essenziale del marxismo è nel superamento
delle vecchie filosofie e anche nel modo di concepire la filosofia, ed è ciò che
bisogna dimostrare e sviluppare sistematicamente[23].
Questo
«sistematicamente» mi fa subito venire in mente la definizione stessa della
filosofia dataci da Hegel, qual è appunto la nozione di «sistema». È evidente
come anche per Gramsci la filosofia di Marx sia da intendersi come «sistema» più
che alternativo,
si direbbe meglio aggiuntivo
a quello hegeliano. Tuttavia come ogni «sistema», implicito è il bisogno di
essere continuamente innaffiato altrimenti appassirebbe come un bocciolo di rosa
privato dell’acqua, suo unico nutrimento. Per Marx non trovo miglior definizione
di quella di “radicale umanitario”.
Infatti
come lui stesso afferma nell’Introduzione
al suo scritto Per la
critica alla filosofia del diritto di Hegel
(1843):
Essere
radicale significa cogliere le cose alla radice. Ma la radice dell’uomo è l’uomo
stesso[24].
A
tal proposito si può parlare di umanesimo marxiano senza incorrere in alcuna
blasfemia di sorta. Personalmente quando ascolto il vibrante pulpito marxiano,
ricollego le sue palpitanti “teorie umaniste” ad un eccentrico personaggio dello
splendido romanzo di Thomas Mann
Dunque
ora vorrei passare alla terza affermazione in questione. In questa affermazione
Marx sembrerebbe dirci, sostanzialmente, che l’essere soggettivo è praticamente
insussistente e perciò ha un bisogno di rapportarsi con tutti gli altri esseri
soggettivi suoi simili. Difatti la sua smania insofferente, per venire in
qualche modo placata, necessita di trarre linfa vitale dal nutrimento
procuratogli unicamente dalla comunanza con l’altro. Questo fatto è possibile
solo se, però, egli è capace di vedere nell’altro un potenziale amico, più che
un potenziale nemico. Riconoscendo, pertanto, in lui un’immensa risorsa umana,
ossia di un possibile aiuto reciproco. Di modo che sia lui che l’altro possano
arricchirsi e trarre innumerevoli vantaggi dall’accrescimento reciproco. In
definitiva, si può anche dire che questa è l’unica vera religione marxiana,
ovvero di carattere squisitamente umano
e non divino
poiché può essere religione per lui soltanto quel “legame sublime” che unisce
fra di loro, indistintamente, tutti gli uomini. Questa romantica[26]
concezione marxiana, se si vuole, si può senz’altro ricondurre alla concezione
stessa dell’amore e dell’amicizia, ma per esprimere meglio questo mio pensiero
vorrei riportare qui di seguito alcune parole del suo amico Engels in merito a
questi legami umani, nonché religiosi, tratte dallo scritto Ludovico
Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca
(1888):
Religione
deriva da religare
e vuol dire, originariamente, legame. Ogni legame tra due uomini, dunque, è una
religione…
E
così l’amore sessuale e il legame sessuale vengono divinizzati come «religione»,
unicamente perché non scompaia dal linguaggio la parola religione, cara alla
memoria idealista[27].
Per
Engels, come per Marx del resto, l’amore e l’amicizia sono legami fortemente
caratterizzanti ed anch’essi dipendono da una consistente base empirica. Non a
caso quando una persona s’innamora di un'altra nel suo organismo avvengono delle
strane sensazioni, ad esempio: il cuore comincia a scalpitargli velocemente nel
petto, vi è un improvviso arrossamento delle sue guance, i suoi movimenti si
fanno sempre più sincopati. Tutto ciò ha una precisa spiegazione razionale,
ossia è dovuto alla “chimica delle emozioni”. Per dirlo in termini marxiani,
l’amore e l’amicizia possono dirsi un po’ come dei legami di unione-fusione
alchemica tra due affini “materie spirituali”, cioè tra due persone pressoché
“uguali nella diversità”. La sesta tesi marxiana recita in
proposito:
Feuerbach
risolve l’essenza religiosa nell’essenza umana. Ma l’essenza umana non è
qualcosa di astratto che sia immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà è
l’insieme dei rapporti sociali[28].
Mentre
la settima tesi marxiana prosegue dicendo:
Feuerbach
non vede dunque che il «sentimento religioso» è esso stesso un prodotto sociale
e che l’individuo astratto, che egli analizza, appartiene ad una forma sociale
determinata[29].
Essa
riprende, in estrema sintesi, il tema già trattato nella precedente tesi ed
evidenzia come «l’individuo astratto», da lui citato, non sia altro che
l’espressione più altisonante dell’individualismo esasperato della società
borghese. Quindi qui Marx ci fa comprendere che questi non è poi così
“astratto”, come vorrebbe lasciar ad intendere, invece, Feuerbach.
Il
pensiero marxiano può dirsi certamente anti-metafisico per definizione e
possiamo dire che lui sia stato il continuatore ideale di quella scuola
filosofica che, a partire dai primi filosofi
naturalisti
greci passando attraverso Socrate e Aristotele fino ad arrivare a lui stesso,
vorrebbe collocare la filosofia sulla sfera del sensibile “mondo di sotto”,
diversamente da quei sostenitori metafisici della scuola di pensiero platonica e
sostenitori, altresì, del famigerato “mondo di sopra”. Per questo verso, a
ragion veduta, la critica marxiana alla religione è anche e soprattutto la
critica a qualunque forma di metafisica, che distragga l’attenzione dello
scienziato-filosofo dall’universo sensibile.
Adesso
passerei al commento dell’ottava, della nona e della decima tesi marxiana, che
sono tutte e tre dominate da un comune “filo conduttore” e il cui testo afferma
rispettivamente:
Tutta
la vita sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che trascinano la
teoria verso il misticismo
trovano
la loro soluzione razionale nella prassi umana e nella comprensione di questa
prassi.
Il
punto più alto cui giunge il materialismo intuitivo,
cioè il materialismo che non intende la sensibilità come attività pratica, è
l’intuizione degli individui singoli e della società borghese.
Il
punto di vista del vecchio materialismo è la società borghese, il punto di vista
del materialismo nuovo è la società umana o l’umanità sociale[30].
Ossia,
seguendo la scia lasciataci dallo stesso Marx, nell’affermazione qui di seguito
tratta dall’Ideologia
tedesca
(1845-46), opera redatta a quattro mani insieme ad Engels:
Non
è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza[31].
In
altri termini, a differenza di Hegel, in Marx non c’è nessuna «idea assoluta»
originaria, a cui l’uomo deve essere per forza ricondotto, bensì prima di tutto
c’è l’uomo «in quanto uomo» per dirlo con Aristotele. Tutto viene poi
conseguentemente filtrato dall’uomo stesso e da nessun altro. Dunque: l’origine
prima di tutte le cose è l’uomo. Inoltre come diceva Kant «usa l’uomo come fine
e mai come mezzo». Già perché, oltre che l’origine, l’uomo è anche il fine
ultimo di tutte le cose. Se nell’ottava tesi Marx consolida la sua concezione
della «vita sociale» intesa «essenzialmente» come «pratica», dunque, «prassi»
vera e propria, nella nona tesi, invece, questi ha saputo riconoscere il merito
dell’intuizione separata «degli individui singoli e della società borghese».
Poi
nella decima tesi, lui delinea un concetto assolutamente fondamentale, o meglio
se il vecchio materialismo feuerbacchiano è circoscritto entro l’ambito
ristretto della «società borghese», il punto di vista del nuovo materialismo è
inversamente quello dell’intera «società umana», da lui detta anche «umanità
sociale». Ciò significa che per lui l’umanità va ad un certo punto
collettivizzata, ovvero allargata a tutti. Ciascuno dei quali avente le stesse
possibilità di realizzazione propria, senza che nessun altro ne pregiudichi
anche solo minimamente lo svolgimento. Questo, inoltre, permetterebbe di
conseguenza d’infrangere qualsivoglia arbitraria disuguaglianza sociale, nonché
forma di tirannide degli “oppressori sugli oppressi”, com’è nell’estrema
assunzione del pensiero marxiano d’impronta “comunista”; intendendo con
“comunismo” il mezzo per «rendere l’uomo ancor più umano», o per meglio dire
mezzo per «rimettere l’uomo sui propri piedi».
In
definitiva possiamo dire che Marx è al pari di Kant favorevole ad una
«conoscenza dal basso» da parte dell’uomo, che si riconosce nel celebre motto
hegeliano «tutto ciò che è reale, è razionale e tutto ciò che è razionale, è
reale»; ampliando di volta in volta la concezione stessa di realtà e pure
indirettamente di razionalità, a seconda dei progressi fatti dalle scienze sia
umanistiche
che scientifiche,
alle quali spetta il compito di costruire una società umana per quanto possibile
migliore in tutte le sue componenti! Questo tipo di conoscenza, però, abbatte
ogni tipo di «conoscenza dall’alto» propria di quei pensatori datisi al
misticismo più oscurantista, i quali fanno capo a quella corrente di vocazione
“superomistica”, che ha per massimo esponente Nietzsche, il quale usa anch’egli
una spietata critica della metafisica, seppur in termini alquanto più astratti,
ovvero amico delle “interpretazioni” e nemico dei “fatti”[32].
Egli fu un pensatore postero a Marx, ma che a questo ultimo son sicuro non
sarebbe affatto andato a genio. Infatti molto profeticamente egli arrivò ad
adoperare, per pseudo-pensatori di tale fatta, le seguenti parole tratte
liberamente dall’Introduzione
al suo scritto Per la
critica della filosofia del diritto di Hegel (1843):
L’uomo
che cercando un superuomo
(il corsivo è mio) nella realtà fantastica del cielo, non ha trovato che
L’immagine
riflessa
di se stesso…[33].
Detto
ciò, vorrei con questo proporre in tutta la sua potente versione aforistica il
testo integrale della famosissima undicesima tesi:
I
filosofi hanno soltanto diversamente interpretato
il mondo ma si tratta di trasformarlo[34].
Essa
è per giunta strettamente riconducibile all’altra seguente affermazione
conclusiva di Engels e del suo scritto Ludovico
Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca
(1888):
Il
movimento operaio tedesco è l’erede della filosofia classica tedesca[35].
La
forza della filosofia classica tedesca consiste appunto nel suo “pensiero”;
perciò va lasciata in eredità alla forza emergente del proletariato tedesco, che
consiste piuttosto nella sua “azione”, dalla cui “unione sinergica” possa
finalmente traboccare in tutta la sua tracimante potenza il fiume in piena della
«prassi rivoluzionaria» marxiana. Con ciò, io credo con Aristotele che «il fine
è una certa prassi» (Poetica, 6-1450, al 8); e proprio per questo: bisogna
percorrere insieme in tutta la sua lunghezza il periglioso «Cammino di
Santiago»[36],
cercando di dare un senso all’apparente non-senso della nostra esistenza. Dicesi
auto-finalizzazione propria, cioè occorre darsi uno scopo ben preciso provare in
tutti i modi a portarlo a termine, realizzando cosicché appieno la nostra
autentica “essenza umana”.
Questo
mio voluto scadimento retorico è dovuto al fatto che, lo si voglia o meno,
noialtri siamo tutti “figli del marxismo-hegelismo”, che vede nella Storia la
nostra sola e imprescindibile “maestra di vita”. E, perciò, non dobbiamo
dimenticarci che, per dirlo con Carlos Santayana, «chi dimentica la storia, è
spesso condannato a ripeterla»!
Andando
oltre, vi riporto la seguente affermazione di Engels, tratta anch’essa dal suo
scritto Ludovico
Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca
(1888):
La
conclusione è, per il vecchio materialismo, che dallo studio della storia non si
cava molto di edificante; per noi, invece, la conclusione è che nel campo della
storia il vecchio materialismo viene meno a se stesso, perché prende per cause
prime le forze motrici ideali che agiscono nella storia, invece di ricercare che
cosa si nasconde dietro di esse, quali sono le forze motrici di queste forze
motrici[37].
Essa
mi ricorda una celebre frase di Mao Tze-Tung impressa a “caratteri cubitali”
sulla lavagna del mio Istituto di Filosofia ad Urbino «il popolo, solo il
popolo, è la forza motrice della storia universale».
Chiusa
parentesi, vorrei ora continuare sulla stessa falsa riga, citando un’accorta
riflessione di Antonio Gramsci, tratta dai suoi Quaderni
dal carcere
e redatto tra il 1930 e il 1932:
…il
marxismo è stato un momento della cultura, una atmosfera diffusa, che ha
modificato i vecchi modi di pensare per azioni e reazioni non apparenti o non
immediate. Lo studio del Sorel da molti indizi a questo proposito. Bisognerebbe
però studiare specialmente la filosofia del Bergson e il pragmatismo per vedere
in quanto certe loro posizioni sarebbero inconcepibili senza l’anello storico
del marxismo; così per il Croce e il Gentile, ecc…[38].
Si
pensi ad alcuni concetti del Bergson, quali di «slancio vitale» ed «evoluzione
creatrice», che rispettivamente potrebbero venire ricondotti ai concetti
marxiani di «materialismo storico» e di «prassi rivoluzionaria», dai quali essi
dipendono interamente per meglio comprendere l’intera portata del pensiero
precursore marxiano. A questo punto, vorrei concludere questo mio commento alle
Tesi su
Feuerbach di
Marx, con le parole di Franz Mehring, uno dei più stimati biografi ufficiali del
grande filosofo tedesco:
Certamente
la grandezza senza pari di Marx risiede non da ultimo nel fatto che in lui
l’uomo di pensiero e l’uomo d’azione erano indissolubilmente legati, che si
completavano e si sostenevano a vicenda. Ma non è meno certo che in lui il
lottatore ebbe sempre il sopravvento sul pensatore[39].
Parafrasando
e condividendo un pensiero del poeta americano Walt Whitman, vorrei infine
citarvi questo suo verso memorabile «farò i poemi della materia, poiché credo
che siano i più spirituali poemi». Così sia!
Bibliografia
minima:
-
Quaderni dal
carcere,
Antonio Gramsci, Einaudi, 2001;
-
Opere
scelte,
Marx-Engels, a cura di Luciano Gruppi, Editori Riuniti, Roma,
1966;
-
Scritti sulla
religione,
Marx-Engels, a cura di Marcello Fedele, Collana la Nuova Sinistra, Edizioni
Savelli, 1973;