Alba M. Pasotto
Riflessioni su Auschwitz e dintorni
Università degli Studi di Urbino
Facoltà di Lettere e Filosofia
Anno Accademico: 2003 – 2004
Corso di Laurea in Filosofia
Cattedra di Filosofia Morale: Prof.re Michele Martelli
Indice
1 L’Olocausto: Una Tragedia Dell’Umanità *
1.1 Auschwitz: nella storia dell’umanità un simbolo del degrado e della follia più estremi. *
1.2 Il sonno della ragione genera mostri *
1.3 L’assenza di spiegazioni plausibili genera profonde inquietudini *
2.1 La riflessione di Hannah Arendt *
2.2 "La cosa più difficile al mondo è pensare" *
3 Luce e tenebre della politica *
3.2 La "cittadinanza fra pari" è il modello positivo da seguire *
4 Affinché non si ripeta più *
4.1 "Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario" *
4.3 Il pericolo è la perdita di memoria *
Questo breve scritto si propone di fare alcune considerazioni e riflessioni su uno dei grandi drammi del Novecento: l’Olocausto. Queste poche righe non hanno grandi pretese, anche perché sull’antisemitismo e la Shoah esiste ormai un’ampia letteratura; infinite sono le dissertazioni che esaminano le diverse prospettive: si passa dalla descrizione dell’esperienza personale del lager ad analisi storiche-politiche, a riflessioni filosofiche sull’etica, ecc. Noi vorremmo semplicemente far luce su quella che fu una tragedia dell’umanità e uno degli eventi più sconvolgenti della storia per trarre degli insegnamenti positivi ed utili, affinché simili degrado ed atrocità non avvengano più.
Anche gli eventi più negativi hanno almeno un aspetto positivo: possono illuminarci sui veri valori, possono insegnarci la verità dell’uomo e della vita. Chi è passato indenne attraverso le tempeste della vita e ha sperimentato il male dell’uomo e vissuto il dolore, di conseguenza conosce il bene perché comprende ciò che veramente conta e vale nella vita, e sa quali sono i valori imprescindibili intrinseci nell’uomo. Così, passando attraverso le tenebre della politica e le mostruosità che ha generato, vorremmo considerare quella che può essere invece la sua luce, perché certe ignominie non si ripetano più.
C’è chi ha detto che dopo Auschwitz non sarebbe stato più possibile scrivere poesie… non si sarebbe potuto più credere nell’uomo e nella bellezza… Questo hanno sostenuto e tuttora sostengono i più pessimisti. Ma noi preferiamo gli ottimisti. L’uomo è davvero un grande insondabile mistero. La storia ci offre esempi di ignoranza e infame miseria morale e spirituale, così come modelli esemplari di virtù e illuminata saggezza.
Noi crediamo, comunque, che l’uomo non sia un coacervo indomabile di istinti e passioni, ma che con un’adeguata istruzione ed educazione sia possibile un cammino di maturazione e progressione personale. Crediamo altresì che sia possibile un progresso della civiltà – anche se molto lento e faticoso - .
Le ragioni per cadere nel pessimismo certo non mancano. Basta osservare come accadano ancora tante barbarie sotto i nostri occhi increduli o indifferenti. Eppure il bene esiste. E, come recita un noto proverbio orientale "fa più rumore un albero che cade piuttosto che una foresta che cresce". Noi, malgrado tutto, siamo per la speranza e vogliamo essere ottimisti. Vogliamo credere nell’uomo nonostante tutto. Questa è la nostra sola ed unica speranza. Senza questa speranza che senso avrebbe la vita?
Auschwitz: nella storia dell’umanità un simbolo del degrado e della follia più estremi.
"L’uomo produce il male
come le api producono il miele."
(William Golding)
I lager nazisti non sono purtroppo l’unico esempio di riduzione in schiavitù, di torture e annientamento fisico e psicologico di esseri umani da parte di altri esseri umani. Nel Novecento si ricordano anche i gulag sovietici, solo per citare un altro esempio di quello che è stato il risultato di certi totalitarismi e ideologie. Per quanto riguarda gli stermini di massa anche lì abbiamo troppi esempi da proporre. Basti pensare solo alla pulizia etnica nella vicina Jugoslavia qualche anno fa. E di quanti altri casi potremmo parlare in questo senso?
La storia sembra ripetersi ciclicamente: cambiano eventi e situazioni, ideologie e partiti, ma sembra proprio che la paura del diverso e il timore di venire sottomessi da altre culture spinga a propria volta a sottomere quello che viene considerato il nemico. Guerre di religione, conflitti fra diverse etnie, contrasti fra opposte culture rischiano spesso di sfociare nell’intolleranza più assoluta e in bagni di sangue. Basta considerare quante decine di conflitti – più o meno noti – ancora oggi continuano a insanguinare la terra.
Tuttavia se pensiamo ad Auschwitz (parliamo di Auschwitz giusto per citare uno dei lager nazisti) pensiamo a un qualcosa di ancora più drammatico e terrificante rispetto ad altri eventi simili. Oltre alle dimensioni della tragedia – solo gli ebrei che morirono furono circa 6 milioni, fu praticamente decimato un intero popolo (in proporzione al numero della popolazione sarebbe come aver avuto solo in Italia una ventina di milioni di morti1) -, ma anche qui, ahimè, le cifre dei morti in altri totalitarismi sono nettamente superiori, c’è un qualcosa di ancora più inquietante che rende i lager nazisti unici nel loro genere: l’insensata follia nel progetto di sterminio. Questo è scioccante: un intero popolo venne decimato senza alcuna spiegazione logica. Non si trattava di nemici, oppositori politici, ecc. , ma di semplici persone che si sarebbero sottomesse al potere se solo fosse stato loro richiesto, e sarebbero state "fedeli e obbedienti seguaci"2.Queste persone vennero ammazzate per il semplice fatto di essere ebrei, per il semplice fatto di esistere. E’ questo che rende Auschwitz un caso piuttosto unico ed imparagonabile a nessun altro dramma della storia, perché qui non esiste logica di pensiero che possa essere minimamente compresa.
Così Auschwitz diventa atroce simbolo del degrado umano e della follia più estrema. La tragedia del lager nazista diventa sconvolgente con la sua inquietante domanda che non trova risposta: come mai il nazismo pensò e attuò un piano per distruggere milioni di persone senza alcun motivo? E come potè infine accadere tutto ciò così "banalmente"?
"A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che "ogni straniero è nemico". Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e in coordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue estreme conseguenze con rigorosa coerenza: finchè la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo."
(Primo Levi, Se questo è un uomo)
Il pensiero di Primo Levi sopra riportato esprime molto bene ciò che in realtà avvenne e come si potè arrivare all’eliminazione sistematica di milioni di persone. La tragedia della Shoah sembra quindi ricondursi ad una sorta di degenerazione del pensiero che condusse la maggior parte delle persone ad una specie di follia collettiva. Il diverso come nemico: questa sembra essere la radice malata di un pensiero che poi degenerò travolgendo ogni barlume di ragionevolezza e buonsenso…
Ciò che lascia sgomenti è come l’eliminazione dei diversi (ricordiamo non solo il massacro degli ebrei, ma anche quello degli zingari, degli omosessuali, ecc.) in realtà non trovi una vera spiegazione; rimane di fatto un mistero. Certo si possono dare risposte storico-politiche che aiutano a contestualizzare e tentano di "spiegare" ciò che accadde, ma in realtà tutto sembra essere nato da una folle, errata idea di purezza della razza che si impose fino a produrre lo scempio che poi creò.3
Ciò che colpisce è come i nazisti crearono "la caricatura di un nemico" e poi lo distrussero sistematicamente.4
Ciò su cui dobbiamo veramente riflettere è come il sonno della ragione generi mostri.
Ci intima Primo Levi:
"[…] Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli. […]"5
Tutto questo è stato. Dobbiamo riflettere su questo: sì, è stata possibile questa sorta di follia collettiva. Pensieri e idee sbagliate possono degenerare e condurre alla follia e all’orrore.
E’ bene dunque "controllare lo stato di salute della ragione" in noi, nelle ideologie e nel mondo… Che non ci sorprenda mai il "sonno della ragione"! Che possiamo mantenerci sempre liberi di pensare. Liberi, nella verità.
"Lentamente il veleno entra in circolo
non è lo sforzo, né il collasso affatica,
rimangono gli scarti, rimangono e uccidono."
(William Empson)
Storici, sociologi, psicologi, ecc., hanno tentato di fornire diverse spiegazioni sull’Olocausto. Ma Primo Levi rifiuta decisamente qualsiasi tipo di spiegazione, perché dare spiegazioni significa in qualche modo "comprendere" e "giustificare"; egli dice: "Forse quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare". Successivamente si sofferma a considerare come etimologicamente "comprendere" significhi "contenere", cioè riuscire a "mettersi nei panni dell’altro", come si suol dire, cioè identificarsi con l’altro. Così conclude affermando che nessun uomo normale può identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann, ecc. . Tutto ciò sgomenta, ma allo stesso tempo porta sollievo – continua Primo Levi - in quanto le loro parole ed opere non erano umane, anzi erano "contro umane". E prosegue: "La guerra è un terribile fatto di sempre. E’ deprecabile, ma è in noi, ha una sua razionalità, la comprendiamo. Ma nell’odio razzista non c’è razionalità, è un odio che non è in noi, è fuori dell’uomo […] "6
Penso che queste parole di Primo levi abbiano un significato profondo ed importante. Non si può e non si deve comprendere ciò che è avvenuto per salvaguardare la nostra dignità di esseri umani. Se vogliamo continuare ad avere un briciolo di speranza e un poco di fiducia nell’uomo davvero non possiamo e non dobbiamo comprendere. Non possiamo comprendere ciò che è indegno dell’essere umano, o perderemo anche noi la nostra dignità. Le loro parole ed opere non erano umane, anzi erano contro umane, come dice Primo Levi, e per questo non possiamo e non dobbiamo comprenderle.
Ma certo l’assenza di spiegazioni genera profonde inquietudini.. Che cos’è veramente l’uomo? Chi è questo sconosciuto e questo imprevedibile? Torna alla mente, in modo paradossale, la mirabile e nobile descrizione che ne dà Shakespeare in Amleto :
"Quale opera è un uomo! Come nobile per la sua ragione!
Come infinito nelle sue facoltà!
Nella forma e nel movimento, come preciso e ammirevole!
Nell’azione, come simile a un angelo! Nell’intendimento, come simile a un dio!
La bellezza del mondo! Il paragone degli animali!
E pure, per me, che è questa quintessenza di polvere? "7
Che cos’è davvero l’uomo? La domanda assillante diventa inquietante pensando a tutte le contraddizioni e i paradossi di un essere umano, eppure esige da noi una risposta. Quante risposte potremmo dare?! Quante cose positive e negative, quante contraddizioni, quante evidenti e inconciliabili dicotomie nell’essere umano! Eppure sta anche a noi scegliere quale risposta dare e in cosa riconoscersi come esseri umani. Sta a noi infatti scegliere cosa e chi voler essere. Se vogliamo credere nell’uomo – e temo che non abbiamo molta scelta se vogliamo vivere serenamente – dobbiamo darci delle risposte positive per decidere da subito che cosa siamo e cosa vogliamo essere. La realtà delle cose è sempre quella, e certo rimane l’unico dato oggettivo che abbiamo per confrontarci. Ma tutto dipende dalla prospettiva con cui si guardano le cose. Che tipo di visuale abbiamo? Da che tipo di angolazione valutiamo e misuriamo la realtà? Il classico esempio del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto… Qual è il nostro punto di vista?
Credo fermamente che sia fondamentale avere un’immagine positiva dell’uomo per progredire nel cammino di miglioramento personale e collettivo. Solo se crederemo nella possibilità reale di una giustizia, di una libertà, di una verità e di una bellezza inizieremo a incamminarci lungo questa strada… L’importante è avere degli ideali e credervi, altrimenti si fallisce in partenza… Se poi questi ideali si raggiungono e si realizzano solo in parte… ecco, ciò non sarà certo indifferente per noi, ma non saremo mai dei falliti. Fallito è solo chi ha perso la speranza e rinuncia in partenza. Fallito è chi non crede più a niente.
La Banalità Del Male
La riflessione di Hannah Arendt
"[…] Eichmann diceva la verità, non era un uomo malvagio, un crudele o un paranoico. E la cosa orribile era proprio questa, che si trattava di una persona comune, ordinaria, il più delle volte incapace di pensare, come la maggior parte di noi. […]"8
(George Kateb)
Facendo delle riflessioni sull’Olocausto non possiamo non considerare il pensiero di Hannah Arendt in merito. E’ proprio questa filosofa di identità ebraica e di origine tedesca che ci ha lasciato le riflessioni più lucide e sconvolgenti sulla tragedia della Shoah e sul male dell’uomo.
Ha scritto diverse opere che hanno avuto un notevole successo; si tratta di testi per lo più di carattere filosofico e politico, che intendono analizzare soprattutto la vita politica dell’uomo, partendo dalla riflessione sulla tragedia dell’Olocausto, che ebbe così grande influenza sulla sua vita privata e sul suo pensiero.
Se in Le origini del totalitarismo La Arendt aveva focalizzato il suo interesse per la forma peggiore della politica – considerando attentamente i tre aspetti più negativi di questa: antisemitismo, imperialismo e totalitarismo -, in La banalità del male la sua attenzione si sposta dalla riflessione sul male della politica, per scendere un po’ più a fondo sull’interiorità dell’uomo e per soffermarsi quindi sulla realtà del male.
La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme è un testo che nasce dalle considerazioni della Arendt sul processo ad Adolf Eichmann, un criminale nazista che venne processato a Gerusalemme e poi giustiziato nel 1963, dopo essere riuscito a scappare e vivere in Argentina per diversi anni. Hannah Arendt seguì il caso da vicino, scrivendone il resoconto a puntate sulla rivista The New Yorker.
La riflessione della Arendt è tutta incentrata sulla figura di Eichmann, che per tutto il corso del processo dimostrò di non aver mai avvertito nelle sue azioni alcuna responsabilità individuale. Tutto ciò apparve, ovviamente, scioccante. La Arendt analizza proprio questo aspetto di Eichmann. Egli diede varie risposte alle accuse che venivano formulate contro di lui: disse che si era limitato a seguire degli ordini e che avrebbe ritenuto disonesto non eseguirli, che la sua coscienza gli aveva imposto di essere leale con i suoi superiori. Disse inoltre di essere stato solo una piccola rotella di un grande ingranaggio.
Di qui la famosa, cinica espressione che dà il titolo al suo libro: la banalità del male. Eichmann, in fondo, diceva la verità: non era un uomo crudele, era semplicemente un uomo banale, incapace di pensare. Ciò che sconvolge è proprio come Eichmann fosse in realtà il brav’uomo di famiglia, e come fosse così banale, così totalmente incosciente di sé e delle sue azioni perché senza profondità; incapace di pensare.
"Eichmann non pensava, ed in ciò era come siamo tutti noi il più delle volte: creature soggette o all’abitudine o all’impulso meccanico. […]"9
(George Kateb)
La riflessione che emerge dal ritratto che ci fornisce la Arendt di Eichmann è sconvolgente, ed è ben riassunta da una semplice e disarmante frase di Pascal: " La cosa più difficile al mondo è pensare".
Per lo più tutti noi siamo incapaci di fermarci a riflettere, di guardare dentro noi stessi e considerare e dirci chiaramente cosa stiamo facendo. Spesso la nostra vita è guidata più dall’abitudine che dal pensiero. Le nostre azioni sono spesso determinate da "impulsi meccanici". Per questo, spesso, per la mancanza di spessore e profondità, per l’incapacità di riflettere l’uomo rischia di compiere così "banalmente", e senza averne coscienza, i crimini più atroci.
Una speranza
"Non essere mai vissuto è meglio, dicono gli antichi scrittori.
Non avere mai respirato la vita
Non avere mai guardato nell’occhio del giorno
In mancanza di ciò: buonanotte e un rapido allontanarsi."10
(Sofocle)
Il pensiero sopra riportato è ripreso dal grande coro dell’Edipo a Colono di Sofocle. In quel pensiero si esprime chiaramente che la cosa migliore sarebbe non essere mai nati, oppure morire giovani.
"La prima soluzione è non avere mai vissuto, dicevano gli antichi.
Non avere mai guardato negli occhi del giorno.
La seconda: voltare le spalle."11
E qui torna alla mente anche il pensiero sulla morte tratto dall’addio di Socrate:
"C’è una buona ragione per credere che la morte sia un bene.
Perché o la morte è uno stato d’inesistenza o è l’abbandono dell’anima.
Quindi, se la morte non è che un sonno privo di sogni, allora la morte è un guadagno."12
Il pensiero di Sofocle è ripreso dalla Arendt verso la fine di Sulla rivoluzione. Se La banalità del male è una riflessione sulla forma peggiore della politica, negli scritti Sulla rivoluzione e Vita activa, la Arendt considera quella che può essere invece la sua forma migliore. La Arendt inizia la sua meditazione partendo proprio dalla citazione di Sofocle. Il peggio della politica, cioè gli aspetti più deteriori che conducono all’orrore e alla follia, inducono Sofocle a fare la ben nota riflessione: sarebbe stato meglio non aver mai vissuto o esser morti giovani per aver potuto così evitare di assistere a tanto sfacelo. E, sullo stesso tono, dirà più tardi Leopardi:
"[…] dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?"13
Eppure esiste un’altra soluzione a quella che ci propone Sofocle, e la Arendt ce la indica. Esiste per noi una speranza e questa speranza può essere la nostra salvezza. Se è vero che la politica ha generato tanto male, allora sarà nella politica stessa che andrà trovato il rimedio. La Arendt sembra dirci proprio questo: "Il rimedio va cercato dove si trova il veleno".14 Nella politica stessa dunque possiamo trovare qualcosa che sovrasti l’orrore da lei stessa prodotto, nella sua forma peggiore. La speranza e la nostra possibilità di salvarci sta dunque in questo: "Se la politica genera la cosa peggiore della vita umana, ci deve essere anche una politica che generi la cosa migliore."15 E la politica, nella sua forma più luminosa, può mostrare un modo migliore di vivere.
"[…] la cittadinanza, se rettamente intesa, può riscattare la vita dalla sua maledizione."16
(George Kayeb)
Abbiamo considerato come i totalitarismi abbiano generato la forma peggiore della politica. Ma qual è il corrispondente positivo del totalitarismo? Qual è la forma migliore della politica? Per la Arendt essa risiede nella politica fra pari, fra cittadini uguali.
In passato la politica era qualcosa di relegato unicamente al mondo maschile. E’ interessante, a questo proposito, la considerazione che la nostra autrice riprende da Machiavelli sul termine "virtù". Essere virtuosi, ovvero avere virtù, significa essenzialmente eccellere, essere valorosi. Ebbene la radice di questa parola è "vir", dal latino: "uomo".17
La Arendt riprende questa relazione politica fra pari, questo modello di cittadinanza dalla Grecia antica. Le città greche – in particolare Atene - adottarono questo tipo di "cittadinanza" come forma politica. Ma in che cosa consisteva esattamente? La "cittadinanza" in Grecia, come già accennato, era riservata ai soli uomini, e consisteva essenzialmente in un dialogo, in un confronto fra pari sul bene comune. I cittadini si riunivano e ognuno, a turno, esprimeva la sua idea, faceva la sua proposta in merito alle questioni più importanti, ed in particolare su quello che era considerato il bene comune per i cittadini, evitando risoluzioni che si allontanavano dal bene comune.
Il pensiero della Arendt sulla retta cittadinanza quale riscatto della vita dalla sua maledizione, è in realtà un concetto che a suo avviso avevano ben chiaro gli scrittori greci quali Omero, Pindaro, Erodoto e Tucidite, ma non i filosofi.
Dunque per la Arendt il modello di cittadinanza greca sembra risultare la migliore forma di politica finora attuata, l’unica in grado di dare una risposta al profondo pessimismo di Edipo. Ma se questa idea della politica può apparire un po’ astratta, la Arendt indica dei modelli più chiari e concreti. Se in Vita activa parte proprio dalle città greche come esempi concreti delle più alte forme di cittadinanza, la Arendt in Sulla rivoluzione indica alcune situazioni rivoluzionarie quali manifestazioni di cittadinanza spontanea fra i cittadini. In particolare lei fa riferimento, come esempi, alla situazione creatasi durante la rivoluzione americana e nel primo periodo della rivoluzione francese (in particolare dal 1789 al 1790), nei primi Soviet del 1917, nella rivoluzione ungherese del 1956, ecc. In queste situazioni si manifestò infatti il confronto sul bene pubblico, la ricerca della libertà, ecc.
Per questo, proprio perché la luce della politica può indicare un modo migliore di vivere, la Arendt ritiene, secondo le parole di George Kateb, che " gli uomini, quando hanno la possibilità di fare politica, non trovano nulla nella vita che abbia altrettanto valore."18 La luce della politica può evitare le tenebre del totalitarismo.
In Vita activa il valore della politica e della pari cittadinanza per Hannah Arendt risiede anche nel fatto che " noi non possiamo conoscere noi stessi; possiamo solo essere conosciuti dagli altri e conoscere gli altri dal modo in cui essi ci conoscono."19 e le parole sul bene espresse pubblicamente rivelano il nostro io. Il proprio autentico io si rivela nel momento in cui ci si esprime liberamente in occasioni pubbliche di grande rilievo.20
" Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario" (Primo Levi)
"[…] Le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate, anche le nostre."
(Primo Levi)
Tutte le interessanti riflessioni che abbiamo fatto finora sarebbero perfettamente inutili se rimanessero sterili e non servissero invece a capire meglio la realtà in cui viviamo per poterla conoscere, giudicare e affrontare meglio.
Nel §1.3 abbiamo sottolineato il pensiero di Primo Levi circa l’impossibilità di una comprensione di quanto è accaduto con l’Olocausto. Ma se è impossibile comprendere quanto è accaduto perché le parole e le azioni dei nazisti furono "contro umane", secondo la riflessione di Primo Levi, noi abbiamo comunque il dovere di sapere ciò che è accaduto, per tentare di capire quali furono le radici malate che condussero a tali aberrazioni e follia.
Dobbiamo far sì che si sappia ciò che è accaduto. Dobbiamo raccontare ai nostri figli questa tragedia affinché non si ripetano più simili atrocità.
Ricordiamo la poesia di Primo Levi, in apertura a Se questo è un uomo che ci impone di conservare la memoria di ciò che è accaduto e di trasmetterla ai nostri figli. Proprio perché " questo è stato" e affinché non sia mai più.
"Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi."
E le parole più lucide e vere sul conservare la memoria della Shoah sono ancora quelle di Primo Levi:
"[…] Non possiamo capirlo[quello che è successo], ma possiamo e dobbiamo capire da dove nasce e stare in guardia. Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare. Le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate, anche le nostre." 21
"[…] questa fine di secolo vede vacillare senza precedenti il rapporto che i contemporanei, che noi e i nostri figli intratteniamo con il passato." 22
(Jaques Ravel)
"[…] In generale si dimentica ciò che non si ha desiderio di ricordare, nel senso che gli eventi traumatici, che hanno modificato la storia di un popolo o di un gruppo vengono rimossi. […]" 23
(Remo Bodei)
Interessanti considerazioni su la memoria e la storia e il ricordare e il dimenticare si trovano nelle riflessioni di Jacques Revel24 e Remo Bodei25 . Cito questi due autori perché forniscono interessanti osservazioni riguardo alla memoria collettiva. Perché ciò che è importante, di fronte ad eventi che riguardano la storia di un gruppo, di un paese o di più nazioni, è che se ne conservi una memoria collettiva e non solo individuale. Per far sì che resti traccia del passato per poi costruire un futuro migliore, affinché l’oblio non inghiottisca tutto.
Riguardo alla memoria collettiva, Bodei esprime il suo pessimismo circa la memoria degli eventi – soprattutto traumatici – della storia. L’oblio, in questo caso, sembra avere la meglio. "[…] Se gettiamo uno sguardo sul passato, vedremo, non senza un sentimento di malinconia, come l’oblio sembri dovunque vittorioso. Il passato è pieno di rovine, non solo di edifici e di città, ma anche di ideologie e di religioni ripudiate, di lingue morte, di esistenze, che di sé non hanno lasciato alcuna traccia, o soltanto segni sbiaditi e indecifrabili […]"26. Se a livello individuale certi ricordi permangono più facilmente, a livello collettivo si dissolvono più in fretta; e comunque in generale gli eventi traumatici tendono a essere rimossi. Allora, ciò che è importante, è coltivare la memoria non solo individuale ma anche collettiva, proprio onde evitare la ripetizione di eventi negativi e facilitare un progresso non solo personale, ma anche collettivo, un progresso della stessa civiltà.
Oggi più che mai la nostra società è proiettata nel futuro. Basti pensare all’enorme evoluzione delle tecnologie e alla frequenza di questi cambiamenti. Tutto ciò ci proietta sempre più nel futuro, e se da un lato positivamente spinge tutti a guardare oltre e " puntare sempre più in alto", dall’altro, negativamente, facilita la perdita del passato, e dunque, la perdita di memoria, perché il passato rimane qualcosa di vecchio, obsoleto, superato e alla fine inutile. Perché dunque pensare all’"arretrato"? Non serve a niente coltivare memoria dell’"inutile". Dunque in generale la tendenza della società oggi è questa, anche se poi magari paradossalmente vediamo fiorire musei che si propongono di conservare il nostro patrimonio umano (non solo storico-artistico, ma proprio umano, nella accezione più vasta e onnicomprensiva del termine). 27
Ma perdere la memoria significa perdere la propria identità. La memoria è la costruzione della nostra identità. A questo proposito Paolo Rossi cita uno dei casi clinici esaminati dal grande psichiatra e scrittore Oliver Sachs: La storia di un marinaio perduto. Il marinaio perduto è un uomo che non si ricorda più niente, non si ricorda più chi è, ricorda solo che forse è stato un marinaio. Quest’uomo quindi non ha più identità. Dunque "la memoria è la costruzione della nostra identità."28 Se non avessimo memoria non sapremmo più chi siamo. Questo concetto, già chiaro agli antichi filosofi,29 può essere esteso validamente anche alle collettività. Sottolinea ancora Paolo Rossi come l’assenza della nostalgia e della memoria sia una perdita della identità, anche a livello collettivo.30
Dunque se una comunità, una nazione, un popolo perde la memoria, non sa più chi è, ha perso la sua identità e, come il marinaio perduto, brancola nel buio come un cieco: non sa più dove va, cosa fa e chi è. Quanto sarebbe facile, dunque, per questo "popolo cieco" ricadere negli errori del passato. Per questo è importante conservare anche una memoria collettiva dei grandi eventi della storia, certo quelli negativi in primis, ma ovviamente anche quelli positivi che rimandano ancora ai valori della patria, di un popolo, ecc. . Non dimentichiamo il monito di Primo Levi: "[…] ciò che è accaduto può ritornare. Le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate, anche le nostre."
Dobbiamo allora adoprarci affinchè l’oblio non abbia la meglio. In che modo? A livello collettivo esistono tante iniziative atte a salvaguardare la memoria storica, quali i musei, l’istituzione delle ricorrenze, le varie rievocazioni e celebrazioni, ecc. Tutte queste cose sono ottime eppure a volte non bastano. Questo spesso accade perché ciò che è veramente fondamentale è formare delle coscienze, soprattutto nei giovani. Purtroppo non so quanto questo avvenga e in che misura… Questo è un grande, delicato compito che, dopo la famiglia, è affidato soprattutto alla scuola; essa dovrebbe fornire non solo istruzione, ma anche soprattutto educazione. Soprattutto l’insegnamento della storia e della filosofia, assieme a tutte le altre discipline, dovrebbero formare delle coscienze. Altrimenti a che serve "imbottire" i ragazzi di nozionismo se poi non si è appreso veramente niente?31
"[…] Sorgono allora delle domande: perché dobbiamo ricordare e che cosa dobbiamo ricordare? Bisogna ricordare il male nelle sue estreme efferatezze e conoscerlo bene, anche quando si presenta in forme apparentemente innocue. Quando si pensa che uno straniero o uno diverso da noi è un nemico, si pongono le premesse di una catena, al cui termine c’è il lager, il campo di sterminio." 32
Se dunque conoscere è necessario, il pericolo – fortunatamente per ora riferendoci solo ad un ipotetico futuro – è la perdita di memoria. E’ importante quindi trasmettere la memoria perché anche se una tragedia di così grandi proporzioni come quella della Shoah (questo termine ebraico ha il significato di distruzione totale) probabilmente non si ripeterà più, è sempre possibile comunque il meccanismo della distruzione di una minoranza da parte di una maggioranza. E gli esempi purtroppo in questo senso non mancano. Il fenomeno del razzismo, ad esempio, ancora oggi è un pericolo perché ancora la diversità è vissuta come una minaccia alla propria identità.33
Pensiamo ancora, a questo proposito, come l’immigrazione oggi in Italia desti preoccupazione. Esistono preoccupazioni reali ed oggettive, legate, per esempio, al flusso intenso e al numero degli immigrati, alle differenti culture e mentalità, e dunque alla loro integrazione, ecc.; ma esistono anche timori più irrazionali e infondati, e sono quelli che generano il razzismo, sono quelli che portano a dire: "i marocchini e gli albanesi sono tutti ignoranti e delinquenti, ci portano via il lavoro", ecc.
Primo Levi in questo ci ammonisce. "Quando si pensa che uno straniero o uno diverso da noi è un nemico, si pongono le premesse di una catena, al cui termine c’è il lager, il campo di sterminio."
Per questo dobbiamo ricordare: per evitare che si ripetano tragedie così atroci.
"[…] La pienezza della nostra vita, la gioia anche, non soltanto la tragedia del passato, consiste nel rendere il passato fruttuoso per il nostro presente e nel considerarlo come "il sogno di una cosa", avrebbe detto Marx, come l’aspettativa racchiusa nel passato, che ci apre le porte verso il futuro. Noi dobbiamo, cioè, vivere il passato non come semplicemente un magazzino in cui i nostri ricordi stanno nel tempo. Noi passiamo continuamente dalla dimensione di ciò che è stato a quella di ciò che sarà. Abbiamo bisogno nello stesso tempo di memoria e di oblio, perché dobbiamo ricordare il passato, se no non avremo identità, e dimenticarlo, se no non avremo apertura al nuovo."34
(Remo Bodei)
Che cosa possiamo fare, dunque, affinché non si ripetano più tragedie come quella dell’Olocausto?
In I sommersi e i salvati Primo Levi ci offre una delle riflessioni più sconvolgenti sull’animo umano. A proposito dei campi di concentramento egli parla dell’esistenza di una zona grigia, cioè di un tentativo più o meno consapevole, sia a livello individuale che collettivo, di sfuggire alle responsabilità. Così, nel momento in cui è necessario prendere posizione, molta gente si rifiuta di guardare la realtà e come gli struzzi nasconde la testa sotto la sabbia ignorando il problema. Per questo egli dice che la storia dei Lager "non era riducibile ai due blocchi delle vittime e dei persecutori" 35, perché in molti dei primi e dei secondi si era manifestata questa zona grigia. Quindi la prima cosa che bisognerebbe imparare a fare innanzitutto è aprire bene gli occhi ed osservare cosa succede. Non dobbiamo essere indifferenti. Non dobbiamo cedere all’oblio e all’indifferenza. Ciò che è importante è avere e conservare sempre la coscienza delle cose che avvengono intorno a noi. E, secondo le parole di Tullia Zevi, "non dimenticare, ma anche, non essere indifferente, avere il coraggio di reagire, di pensare, di rifiutare." 36 Se il nazismo ha potuto prendere potere e arrivare a sterminare milioni di persone è stato anche grazie all’indifferenza e alla mancanza di reazioni da parte della gente.
Abbiamo già parlato dell’importanza di conservare la memoria storica non solo a livello individuale, ma anche collettivo.
A proposito della memoria storica non è raro trovare critici scettici e relativisti che tentano di smontare anche quella che è la "verità" più palese ed evidente delle cose. Noi siamo d’accordo nel sostenere che la storia possa essere deformata e "non dire più la verità", perché certo, il rischio di una certa manipolazione esiste, e qui pensiamo soprattutto al delicato compito degli storici di trasmettere in modo oggettivo la realtà dei fatti, senza alcun filtro ideologico. Ma, come ricorda bene Bodei: "La memoria storica contiene in sé la possibilità dei miti, ma contiene in sé anche l’antidoto, cioè, in fondo la storia è nata proprio contro le deformazioni della memoria."37 E questo, per i Greci, è anche il concetto stesso di verità: alteseia. Lete per i Greci era il fiume della dimenticanza, la memoria consiste nel non dimenticare. In Grecia dunque la verità coincideva all’inizio col non dimenticare ciò che era successo.38 Il compito degli storici, allora, è quello di vagliare i fatti storici oggettivi, per epurarli da falsi miti che non sono e non rappresentano la realtà delle cose.
Ciò che la storia sembra insegnarci è che purtroppo la mentalità intrisa di violenza sembra non scomparire, sembra essere come intrinseca dell’uomo. Cambiano infatti situazioni ed eventi, eppure le tragedie si ripetono… In questo senso la storia sembra non essere maestra di vita. Eppure la sola cosa che possiamo fare è apprendere dalla storia. Conservare gli insegnamenti che ci tramanda dagli eventi passati. Perchè comunque esiste un cammino di miglioramento, un lento progresso della civiltà… Ad esempio, come ricorda Bodei, la schiavitù, che sembrava non dover morire mai, oggi, tranne in pochissime zone del mondo, è praticamente scomparsa (anche se è scomparsa solo la schiavitù personale, purtroppo non ancora la schiavitù economica). 39 Un piccolo, grande passo è stato fatto: è avvenuto un piccolo grande progresso nella storia della nostra civiltà.
Come sottolinea ancora Bodei, l’appello alla memoria e i vari ragionamenti che si fanno affinché non accadano più tante tragedie non sono veramente risolutivi; sono dei palliativi, sembrano essere più un cordone sanitario più che delle vere medicine contro la violenza, ma almeno questo non va abbandonato. E ancora, secondo l’esempio calzante del nostro filosofo, tutto ciò è solo un freno minimo contro il dilagare della violenza, "[…] è come cercare di frenare un jumbo con un freno di bicicletta, però almeno quello cerchiamo di usarlo o ciascuno di noi di denunciare queste violenze e queste ingiustizie e di ricordarle."40
Questo è il minimo che possiamo fare, ma almeno facciamolo.
Dobbiamo credere che le cose possono cambiare o non cambieranno mai.
Nessuno dovrebbe mai spegnere la speranza.
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