Origene

a cura di Vito Limone

 





La Vita

Origene, detto Adamanzio, l’“invincibile”, nacque ad Alessandria di Egitto nel 185 da genitori cristiani, primo di sette fratelli. Il padre, Leonida, morì martire quando Origene aveva circa diciassette o diciotto anni, sotto la persecuzione dell’imperatore Settimio Severo. Immediatamente dopo la morte del padre, poiché la sua era una famiglia numerosa e poiché ogni bene era stato sottratto loro dopo il martirio del padre, Origene fu costretto a darsi da fare per provvedere al sostentamento dei suoi cari e si dedicò interamente all’insegnamento delle lettere. Nel frattempo, ebbe comunque la possibilità di completare i suoi studi e la sua formazione presso la casa di una nobildonna, assieme ad un eretico, originario di Antiochia, in Siria, di nome Paolo. Insegnò per lungo tempo la grammatica, ma, essendo esperto anche di teologia e filosofia, fu incaricato dal vescovo di Alessandria di organizzare una vera e propria scuola, il famoso Didaskaleion. Tra il 203 e il 204 si occupò della composizione e della strutturazione della scuola alessandrina: affidò l’insegnamento dei corsi propedeutici e della grammatica per i catecumeni al caro amico, Eracla – il quale avrebbe poi diretto il Didaskaleion – ed egli si dedicò solamente all’insegnamento superiore dell’esegesi biblica e della teologia, proseguendo, nello stesso tempo, nel costante sostegno dei martiri. Tra il 210 e il 211 conobbe Ambrosio, un ricco alessandrino, convertito dalla gnosi valentiniana dallo stesso Origene: egli fu sempre una figura centrale nella produzione letteraria e filosofica di Origene – non solo, infatti, gli suggerì la stesura di sue moltissime opere, ma anzi mise a sua disposizione anche un copioso numero di stenografi e tachigrafi. In questo periodo, è attestato anche un viaggio di Origene a Roma, sotto il pontificato del vescovo Zefirino. Sotto l’impero di Caracalla, Origene andò in Arabia – in sua assenza, tuttavia, scoppiarono delle cruente persecuzioni ad Alessandria d’Egitto ed Origene non poté farvi ritorno. Per questa ragione, tra il 214 e il 216 trascorse moltissimo tempo in Palestina, ben accolto dal vescovo di Gerusalemme, Alessandro, e dal vescovo di Cesarea, Teoctisto. In questo periodo, sebbene egli non fosse stato ancora ordinato presbitero dal suo vescovo di riferimento, che era il vescovo di Alessandria, Demetrio, Alessandro di Gerusalemme e Teoctisto di Cesarea lo invitarono spesso a predicare ed insegnare presso le loro comunità. Demetrio, allora, impose ad Origene di tornare immediatamente ad Alessandria e quivi riprendere l’insegnamento e la guida del Didaskaleion. Tra il 217 e il 225 si dedica alla redazione e alla conclusione della maggioranza delle sue opere teologiche, esegetiche e dottrinali, come il Commento al Vangelo di Giovanni, il Commento ai Salmi, il Commento al Genesi, i Principi. Tra il 229 e il 230, mentre era tornato in Cesarea di Palestina, è ordinato presbitero da Teoctisto di Cesarea, il quale lo ammirava moltissimo. Tra il 230 e il 231, allora, il vescovo di Alessandria, Demetrio, convoca urgentemente un sinodo in cui l’ordinazione sacerdotale di Origene non venne riconosciuta ad Alessandria. Essendogli impedito di far ritorno ad Alessandria, Origene rimase quasi ininterrottamente dal 231 in poi a Cesarea: qui realizzò la maggioranza delle Omelie; l’Esortazione al martirio fu composta sotto la persecuzione di Massimino il Trace, imperatore dal 235 al 238, per i suoi allievi Ambrosio e Protocteto. Tra il 244 e il 245 partecipò ad importanti dispute teologiche: intervenne nel sinodo di Bostra, contro il vescovo Berillo e l’eresia patripassiana, al fianco di Alessandro di Gerusalemme e di Teoctisto di Cesarea; famosa è, inoltre, la sua Disputa con Eraclide ed una discussione sul tema della salvezza del diavolo con un cristiano alessandrino ad Efeso. A partire dal 246 si dedicò quasi interamente alla stesura del Commento al Vangelo di Matteo e del Contro Celso. Nel 250 l’imperatore Decio scatenò una furiosa persecuzione contro i cristiani: Origene fu catturato e torturato violentemente, ma sopravvisse alle sevizie e alla prigionia. Morì presso la città di Tiro intorno al 254.

L’Esegesi: Lettera e Allegoria

Il metodo esegetico con cui Origene interpreta le sacre scritture è assolutamente nuovo e, tuttavia, fortemente debitore a Filone di Alessandria. Origene distingue, infatti, due livelli di interpretazione delle scritture: letterale ed allegorico. L’interpretazione letterale consiste nell’assunzione del significato puramente letterale del testo, ossia in ciò che il testo immediatamente ed esplicitamente dice; l’interpretazione spirituale, invece, consiste nell’assunzione di un significato spirituale, più profondo e nascosto nella lettera, che trascende la lettera e, tuttavia, nello stesso tempo, è inseparabilmente custodito in essa. Secondo Origene, generalmente ciascun passaggio delle scritture può essere interpretato sia secondo la lettera sia secondo l’allegoria, sia cioè secondo l’interpretazione letterale sia secondo l’interpretazione allegorica. Eppure, ci sono casi in cui è possibile applicare solamente l’interpretazione letterale e ci sono casi in cui è possibile applicare solamente l’interpretazione allegorica: non sempre, pertanto, le due interpretazioni coesistono. Ad esempio, quando in Gn. 2, 7 si dice che Dio modella la terra per creare Adamo e soffia nelle sue narici per dargli la vita, non si deve affatto pensare che ciò sia accaduto storicamente – non è possibile, cioè, applicare l’interpretazione letterale a questo passaggio: infatti, se Dio avesse effettivamente lavorato la terra e soffiato nell’uomo, allora sarebbe corporeo – ma questo è impossibile. Di questo passaggio non è possibile dare altra interpretazione se non quella allegorica. Allo stesso modo, per converso, ci sono passaggi dei quali non è possibile dare una interpretazione allegorica, ma letterale, storica. È il caso dei passaggi iniziali dei sinottici in cui si parla della nascita del Cristo, o della sua resurrezione: se, infatti, la nascita reale o la resurrezione di Gesù avessero un significato puramente simbolico o allegorico, e non storico e letterale, allora si potrebbe pensare che il Figlio di Dio sia venuto nella carne non in verità, ma in apparenza. In questo modo, si rischierebbe di cadere in un modello di cristologia doceta. Dunque, per Origene, non solo esistono due modi di interpretare la scrittura – lettera ed allegoria – ma ci sono passi della scrittura che possono avere una interpretazione solamente letterale – è il caso dell’inizio di Genesi – e ci sono passi della scrittura che possono avere una interpretazione solamente simbolico-allegorica – è il caso dei passi paralleli dei sinottici sulla nascita e sulla resurrezione del Cristo (onde evitare l’eresia doceta). Tuttavia – e questo è un motivo, tuttavia, già presente in Giustino – secondo Origene, oltre a queste due forme di esegesi del testo sacro, è possibile introdurre anche un terzo livello esegetico, la cosiddetta interpretazione tipologica o figurale dell’Antico e del Nuovo Testamento. L’introduzione da parte di Origene di questo terzo livello ermeneutico è essenziale nella polemica anti-marcionita. Marcione era un eretico dei primissimi secoli d.C., il quale sosteneva che il Dio dell’Antico Testamento, creatore crudele del mondo, fosse diverso dal Dio del Nuovo Testamento, Dio buono e Padre di Gesù Cristo, e per questa ragione, che l’Antico ed il Nuovo Testamento dovessero essere considerati due modelli teologici e due libri separati. Per contrastare questa posizione, molti autori cristiani antichi – tra cui lo stesso Origene – introducono il concetto di tipo: ci sono figure, episodi e personaggi dell’Antico Testamento che sono tipo di Cristo nel Nuovo Testamento e, se sono tipo del Cristo dei vangeli, sono comprensibili e pensabili solamente alla luce del Nuovo Testamento. Ad esempio, il sacrificio di Abele nell’Antico Testamento può essere considerato tipo del sacrificio dell’Agnello, ossia del Cristo, nel Nuovo Testamento; il Figlio dell’Uomo, che salverà dalla persecuzione del piccolo corno, nella visione di Daniele, nell’Antico Testamento, è tipo del Cristo, nel Nuovo Testamento, che verserà il suo sangue per la salvezza dell’umanità. Se, allora, numerosi passi – i cosiddetti passaggi cristologici – dell’Antico Testamento si inverano nella figura del Cristo del Nuovo Testamento, allora tra Antico e Nuovo Testamento sussiste un rapporto indisgiungibile e di continuità.

Il Commento al Vangelo di Giovanni

Indubbiamente, il Commento al Vangelo di Giovanni è una delle opere più articolare e più concettualmente dense di Origene. Ambrosio, suo allievo convertito dalla scuola gnostica di Valentino, gli suggerì di scrivere un commento sistematico ed interlineare al quarto vangelo, per contrastare le interpretazioni gnostiche che circolavano su di esso a partire dal primo secolo, in particolare, l’interpretazione di Eracleone, delle scuola valentiniana. Origene scrisse la prima parte di questo commento ad Alessandria di Egitto e la seconda parte, in Palestina, a Cesarea. La redazione di quest’opera lo tenne impegnato per almeno dieci anni. Dell’opera, la quale doveva essere in ben trentadue libri, non ci è pervenuta la versione completa, ma solo alcuni libri e numerosissimi frammenti catenari, in particolare nella Filocalia, uno sterminato corpus di frammenti origeniani tradotto da Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo e Basilio Magno. Da ciò che di questo commento ci è pervenuto, tuttavia, è possibile ricostruire la sua teologia trinitaria: secondo Origene, esistono tre persone divine, ossia il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Origene chiama queste persone “ipostasi”, ossia “sussistenze”, e chiama, invece, l’unità delle persone divine “abisso” o, nei Principi, “inizio della trinità” o “natura della trinità” o “fondamento della trinità”. Innanzitutto, è particolarmente importante che Origene chiami l’unità delle tre persone divine “abisso”: infatti, nella letteratura gnostica e, in particolare, nell’Apocrifo di Giovanni, del quale abbiamo la principale e più dettagliata testimonianza nel Contro le eresie di Ireneo di Lione, l’“abisso” è un concetto essenziale, è il divino in quanto infinitamente trascende non solo il mondo sensibile, dal quale è necessariamente separato, ma anche la stessa successione di eoni in cui il divino stesso si articola. Il fatto che Origene usi l’espressione gnostica “abisso” per riferimento al concetto cristiano di “unità della trinità” è indicativo del dialettico rapporto che egli abbia con il pensiero e il linguaggio gnostico: da una parte, infatti, Origene si rende conto che prendere le distanze dal pensiero gnostico significa prendere le distanze anche dal linguaggio gnostico; dall’altra parte, però, non solo la teologia, ma lo stesso linguaggio teologico origeniano è attraversato da idee e termini centrali nella riflessione del primo gnosticismo. Un caso esemplare è, certamente, l’espressione “abisso”. Quanto alla relazione intradivina tra il Padre ed il Figlio – il Padre eternamente genera il Figlio ed il Figlio è eternamente generato dal Padre: il Figlio, pertanto, è coeterno al Padre. Se il Figlio non fosse eternamente generato dal Padre, se cioè Padre e Figlio non fossero co-eterni, allora ci sarebbe un tempo nel quale il Figlio non sia esistito e nel quale il Figlio non abbia partecipato della divinità del Padre. Ma questo è impossibile: il Figlio è dall’eternità generato dal Padre. Il Figlio, inoltre, è colui attraverso il quale Dio Padre crea il mondo, è cioè il “pensiero” di Dio, il “cosmo intellegibile”, l’insieme della totalità delle forme e delle idee con cui Dio crea il mondo reale. Se ciascun essere è creato da Dio Padre attraverso il Figlio, che è il Logos, allora ciascun essere custodisce dentro di sé l’immagine del Figlio, ossia una parte del Logos e solo grazie al fatto che possiede dentro di sé una parte del Logos, un “seme” del Logos, può ritornare a Dio Padre. In questo modo, Origene costruisce la sua “teologia del Logos” come “teologia dell’immagine”: il Figlio-Logos è immagine di Dio-Padre e, se ciascun essere è creato a immagine del Figlio-Logos, che è immagine di Dio-Padre, allora ciascun essere è immagine del Figlio-Logos, che è immagine di Dio-Padre – dunque, ciascun essere è immagine dell’immagine di Dio-Padre, indirettamente è immagine di Dio-Padre. Se ciascun essere partecipa del Figlio-Logos e se il Figlio-Logos partecipa di Dio-Padre, allora ciascun essere mediatamente partecipa anche di Dio-Padre. L’altro grande tema del Commento a Giovanni è il cosiddetto “subordinazionismo”: se il Figlio è eternamente generato dal Padre, allora il Figlio è “subordinato” al Padre, nel senso che la sua esistenza dipende dall’esistenza del Padre – se il Padre non esistesse, nemmeno il Figlio esisterebbe. Allo stesso modo, lo Spirito Santo, che è l’unità del Padre e del Figlio, in quanto la sua esistenza dipende dall’esistenza del Padre e del Figlio, è “subordinato” al Padre e al Figlio – se il Padre e il Figlio, per assurdo, non esistessero, nemmeno lo Spirito Santo esisterebbe. Nel Commento a Giovanni emergono diversi significati che Origene attribuisce al concetto di “Spirito”: 1) spirito in quanto unità delle persone divine – in questo senso lo “spirito di Dio” è essenzialmente la divinità che è comune alle tre persone della trinità; 2) spirito in quanto terza persona della trinità, ossia potenza divina deputata alla operazione della santificazione; 3) spirito in quanto unità di tutti gli esseri che, grazie alla loro partecipazione immediata del Figlio-Logos e mediata di Dio-Padre, tornano a Dio-Padre, ossia unità di tutti i santi. In quest’ultimo significato, Origene pensa lo “spirito” come “chiesa”, ossia come comunità degli uomini che vivono nella partecipazione a Dio.

Il Commento al Cantico dei Cantici

Uno dei traduttori latini di Origene sostiene che se Origene aveva superato tutti gli altri autori cristiani dell’antichità con le sue opere, con il Commento al Cantico dei Cantici aveva indubbiamente superato se stesso. Il Cantico dei Cantici è uno dei testi più famosi e discussi dell’Antico Testamento. Associato spesso al libro della Sapienza, di matrice greca, ne condivide moltissimi temi di ispirazione chiaramente ellenistica – questa è la ragione per cui questo testo è sempre stato visto con un certo sospetto dalla cultura ebraica. Il tema centrale di questo scritto è un canto di amore di uno sposo e di una sposa. Secondo Origene, questo “canto di amore” tra i due sposi può essere interpretato almeno su tre livelli: 1) la sposa è l’anima umana e lo sposo è il Cristo – l’anima partecipa dentro di sé del Figlio-Logos e in questo modo, ha la possibilità di tornare a Dio e partecipare del Padre soltanto grazie alla mediazione del Figlio, ossia soltanto amando il Figlio-Logos che è dentro di sé; 2) la sposa è la chiesa e lo sposo è il Cristo – tutta la comunità cristiana ha la possibilità di salvarsi soltanto amando il Cristo, ossia vivendo secondo l’insegnamento delle sacre scritture e secondo il modello di Gesù; 3) la sposa è chiesa e lo sposo è Dio stesso – la comunità cristiana può conciliarsi con Dio soltanto attraverso la mediazione del Cristo. Inoltre, Origene sviluppa fortemente la distinzione tra una forma carnale di amore, che è detto eros, ed una forma spirituale di amore, che è detta agape: l’amore carnale nient’altro è se non l’amore per il corpo e del corpo; l’amore spirituale è l’amore per l’anima e dell’anima e la più alta forma di amore spirituale, a sua volta, è l’amore di Dio. Se amore è sempre amore di qualcosa di simile a colui che ama, allora l’amore spirituale null’altro è se non l’amore del divino, che è nell’anima umana, per il divino in assoluto, ossia Dio Padre, attraverso il Figlio-Logos.

La Resurrezione.

Nei Principi Origene dice di essersi occupato del tema della resurrezione dell’anima e del corpo in altri testi. La tradizione non ci ha conservato degli scritti origeniani sulla resurrezione nient’altro se non pochi frammenti. L’argomento origeniano sulla resurrezione del corpo è articolato e, nello stesso tempo, uno dei più interessanti. Il mondo greco ha pensato la “resurrezione” come liberazione dell’anima dal corpo: l’anima, in vita, è costretta entro i limiti del corpo; dopo la morte, finalmente si libera dal corpo e ha la possibilità di tornare all’assoluta divinità. Nel mondo cristiano, in particolare in Paolo, la resurrezione non può essere pensata più solamente come immortalità dell’anima, ma anche come resurrezione del corpo. Infatti, nei vangeli, il Cristo risorge non solo come anima, ma anche come corpo. Il primo argomento di Origene sulla resurrezione del corpo è lo stesso di Atenagora di Atene: è impossibile dire che dopo la morte solo l’anima risorga – infatti, l’uomo è unità di anima e corpo, perciò, se vive nel bene, è l’unità di anima e corpo a vivere nel bene, se vive nel male, è l’unità di anima e corpo a vivere nel male. Pertanto, è necessario che dopo la morte, se l’unità di anima e corpo ha vissuto nel bene, sia premiata sia l’anima sia il corpo; se, invece, l’unità di anima e corpo ha vissuto nel male, è necessario che sia punita sia l’anima sia il corpo. L’altro argomento di Origene è il seguente: la resurrezione del corpo non può essere pensata come l’atto con il corruttibile diviene incorruttibile. Infatti, se così fosse, se cioè la resurrezione del corpo fosse il farsi incorruttibile da parte del corruttibile, sarebbe auto-contraddittoria e, quindi, impossibile: infatti, è impossibile che il corruttibile sia anche il suo opposto, l’incorruttibile. Se allora la resurrezione del corpo non può essere pensata in questi termini, allora deve esserci – secondo Origene – un “sostrato” o “soggetto” comune al corruttibile e all’incorruttibile, che, in questa vita, è corruttibile e, dopo la morte, diviene incorruttibile. Questo “soggetto” o “sostrato” comune è il “corpo”. Secondo Origene, la resurrezione è l’atto con cui il corpo, prima, è corruttibile, ossia corpo materiale, e poi è incorruttibile, ossia corpo spirituale o etereo. Infatti, in questo modo, la contraddizione che si origina dall’attribuzione di predicati contraddittori allo stesso soggetto nello stesso tempo è rimossa: il corpo, prima, è materiale e, poi, è spirituale – ad esso, dunque, possono essere attribuiti predicati contraddittori in tempi diversi.

Il Contro Celso

Il Contro Celso è indubbiamente una delle più articolate opere apologetiche di Origene. Il testo è stato scritto in polemica con il platonico Celso che, tuttavia, Origene accusa di essere epicureo. Il principale argomento di Celso, contro il quale Origene dibatte lungamente, è l’impossibilità dell’incarnazione reale del Figlio di Dio, ossia l’impossibilità che il divino possa farsi umano – infatti, se Dio è perfetto, è impossibile che possa rinunciare alla sua propria divinità e perfezione per accogliere in sé l’imperfezione dell’umanità. Pertanto, secondo Celso, o è impossibile che Dio si sia incarnato nel Figlio oppure, se si ammette l’incarnazione, non può trattarsi di un’incarnazione “in verità”, ma solo “in apparenza” – l’incarnazione del Figlio non sarebbe cioè vera e propria. La risposta di Origene è la seguente: a Dio, in quanto è onnipotente, niente è impossibile – la potenza di Dio è talmente infinita ed illimitata da abbracciare anche la negazione di sé in quanto Dio, da essere cioè anche uomo. La divinità di Dio è talmente infinita ed onnipotente da rinunciare finanche a se stessa ed accogliere dentro di sé l’umanità. È molto interessante che, nonostante Origene sapesse che l’argomento di Celso fosse un argomento di chiara provenienza platonica, lo definisca “epicureo”. Si possono addurre almeno due ragioni che giustificherebbero questo giudizio: 1) Origene non può considerare l’argomento di Celso come platonico, nella misura in cui la stessa architettura filosofica e concettuale della sua teologia è platonica – rifiutare l’argomento di Celso come platonico significherebbe, quindi, mettere in discussione gli stessi concetti fondamentali su cui si fonda la teologia del Logos; 2) Origene eredita l’interpretazione di Clemente Alessandrino di At. 17, 22-31, ossia del discorso di Paolo all’Areopago di Atene – secondo Clemente, gli epicurei furono coloro che non riuscirono a comprendere le parole dell’apostolo.

I Principi

L’opera più sistematica che ci sia pervenuta di Origene è il trattato sui Principi. Il testo si compone di quattro libri, dei quali i primi due ci sono pervenuti solamente nella traduzione latina di Rufino o attraverso passi paralleli di Girolamo e Giustiniano, mentre degli ultimi due libri ci è pervenuta sia la traduzione latina sia la versione originale greca, tradotta tra i frammenti della Filocalia. Il fatto che la maggioranza del testo ci sia pervenuta non nell’originale greco, ma piuttosto nella traduzione latina di Rufino è un aspetto molto significato da un punto di vista ermeneutico: infatti, Rufino non si limita affatto ad una traduzione puramente letterale del testo di Origene, ma traduce la versione greca originale facendo in modo tale che il pensiero di Origene sia conforme e coerente con le posizioni teologiche e dottrinali dell’età dei Concili. Questo significa che è veramente difficile ricostruire la posizione originaria ed autentica di Origene solamente sulla base del testo che ci è stato trasmesso da Rufino e che, piuttosto, è necessario un serrato confronto dei frammenti greci che ci sono stati tradotti con il testo latino e con altre testimonianze indirette per avere un’idea più precisa e rigorosa del pensiero vero e proprio di Origene, nascosto dietro la traduzione latina che abbiamo. Nel primo libro, Origene si occupa della trinità, del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, della relazione tra le divine persone, delle nature angeliche, della creazione del mondo e della apocatastasi, ossia della “ricostituzione finale di tutte le cose”; nel secondo libro, il tema principale è l’incarnazione del Logos, la creazione del mondo, la realizzazione delle promesse dell’Antico Testamento nella figura del Cristo del Nuovo Testamento; nel terzo libro, invece, il tema centrale è il libero arbitrio dell’anima individuale; nel quarto ed ultimo libro, infine, Origene si occupa essenzialmente di formulare sistematicamente i principi esegetici, ossia le modalità attraverso le quali sia possibile leggere la sacra scrittura, in particolare, riprendendo Paolo, della interpretazione “secondo la lettera” e “secondo lo spirito” ed introduce anche il criterio dell’interpretazione figurale o tipologica, che lega i due testamenti.

Commento Al Vangelo di Matteo

Il Commento al Vangelo di Matteo è la sistematica analisi di Origene dei passaggi nei quali compare esplicitamente la definizione del Cristo come “re” e “Signore” e attraverso i quali è effettivamente possibile una ricostruzione del concetto stesso di “Regno del Figlio”. L’idea di Origene è che il Figlio è, per sua propria natura, “re” e “Signore”, allora all’età del Figlio corrisponde necessariamente un regno del Figlio: se il Figlio è «immagine del Dio invisibile» (Col 1, 16), se il Figlio è immagine di Dio, allora il regno del Figlio nient’altro è se non l’insieme di tutte le creature e di tutti gli esseri che si fanno ad immagine del Figlio, che è immagine di Dio. Se il Logos, seconda persona della trinità, è immagine di Dio Padre, allora gli esseri che sono ad immagine dell’immagine del Logos, gli esseri cioè che si fanno perfetta immagine del Logos, che è immagine di Dio, costituiscono il regno del Figlio. Le figure del Vangelo di Matteo che Origene affronta nel suo commento sono quella della rete, del tesoro e della perla, dello scriba del Regno dei cieli, dei due debitori, degli operai nella vigna e degli invitati al banchetto. Ciascun essere, secondo Origene, in quanto è stato creato attraverso il Figlio da Dio, è in se stesso immagine di Dio: tutti gli esseri, in quanto sono stati creati dal Logos, sono da sempre immagine del Logos; tuttavia, solo quegli esseri che vivono nel bene e facendosi perfetta immagine ed imitazione del Figlio, ossia facendo esattamente lo stesso che ha fatto il Figlio, diventano vera e perfetta imitazione del Figlio, ossia abitano il suo regno. Inoltre, l’analisi sistematica delle parabole e delle immagini regali del Vangelo di Matteo consente ad Origene di sviluppare anche una riflessione relativamente al concetto stesso di parabola e all’articolato rapporto tra immagine e realtà. Innanzitutto, secondo Origene, esiste una irriducibile asimmetria tra immagine e realtà, nel senso che né l’immagine dice perfettamente la realtà, né la realtà è mai perfettamente rappresentata dall’immagine: da una parte, infatti, la realtà è sempre più dell’immagine, pertanto, qualunque sia l’immagine che si dia della realtà, la realtà mai è perfettamente rappresentata da essa; dall’altra parte, l’immagine è sempre meno della realtà e mai è in grado di dirla perfettamente. Inoltre, secondo Origene, il fatto che l’immagine non sia in grado di dire perfettamente la realtà implica che l’immagine possa avere una molteplicità di significati: perciò, comprendere un’immagine significa che cercare di comprendere tutti i suoi diversi significati. L’immagine stessa rimanda alla polisemia dei suoi significati, che è la sua stessa natura. La parabola, allora, secondo questa interpretazione dell’immagine e della relazione tra immagine e realtà, nient’altro è se non quell’immagine che, avendo molti significati, deve essere interpretata secondo diversi livelli. Per Origene, quasi tutte le parabole del Nuovo Testamento e, in particolare, del Vangelo di Matteo, hanno una loro interpretazione e spiegazione all’interno del testo stesso, ma spesso è il lettore che, di volta in volta, ha da trovarne i diversi sensi.

Omelie sul Vangelo di Luca

Si tratta di un ciclo di omelie che Origene dedica interamente al Vangelo di Luca. È indubbiamente una delle fonti più rigorose e più sistematiche attraverso le quali sia effettivamente possibile una ricostruzione della ermeneutica origeniana. Innanzitutto, Origene distingue tra un livello letterale ed un spirituale del testo: il livello spirituale è evidentemente il significato immediato ed esplicito del testo; il livello spirituale, invece, è il significato profondo ed intimo della scrittura, che non è immediatamente comprensibile. Inoltre, egli distingue anche tra tre livelli di lettura della scrittura, sulla base, chiaramente, dei diversi livelli di cui la scrittura stessa si compone: l’interpretazione letterale della scrittura, ossia la comprensione del significato immediatamente letterale ed esplicito del testo; l’interpretazione spirituale, che consiste nella comprensione del significato spirituale e profondo della scrittura; infine, l’interpretazione morale, ossia la comprensione della prescrizione morale o del significato pratico che un passaggio della scrittura comunica. Origene chiama l’interpretazione letterale, ossia il primo livello di interpretazione, che corrisponde al contenuto più esterno della scrittura, “interpretazione somatica”; chiama il secondo livello, ossia l’interpretazione spirituale, che corrisponde al livello più profondo e nascosto della scrittura, “interpretazione pneumatica”; infine, chiama il terzo livello, che corrisponde al significato pratico o morale della scrittura, “interpretazione psichica”. La tripartizione di Origene è evidentemente in polemica con la divisione gnostica delle nature in psichica, pneumatica ed ilica.



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