PANEZIO DI RODI


Dopo Crisippo e fino a tutta la prima metà del II secolo a.C., lo Stoicismo conosce una fase alquanto statica, caratterizzata dalla tendenza a conservare in tutta la sua purezza il patrimonio dottrinale elaborato da Zenone di Cizio e dai suoi primi continuatori. Questo, oltre a contrastare col carattere non dogmatico della scuola, ne insterilì il vigore speculativo, almeno fino a quando, nel 129 a.C., la sua direzione fu assunta da Panezio di Rodi, che diede un rinnovato slancio al pensiero della Stoà: questa fase dello Stoicismo é stata più volte definita dagli studiosi come "Media Stoà", a sottolinearne il distacco dall’antico stoicismo. Panezio nacque intorno al 185 a.C. da nobile famiglia e dapprima si recò a Pergamo, per frequentare i corsi del filologo Cratete di Mallo, e poi si stanziò ad Atene, dove si avvicinò allo Stoicismo ascoltando le lezioni di Diogene di Seleucia e di Antipatro, avvicendatisi alla guida della Stoà. Dopo il 150 a.C., Panezio si recò più volte a Roma, dove entrò in contatto, probabilmente per intervento di Polibio, col circolo culturale di Scipione Emiliano. Al seguito di questo influente personaggio, Panezio vagabondò in Oriente fra il 140 e il 139, e questo contribuì probabilmente ad ampliare non di poco il suo orizzonte culturale. Divenuto scolarca nel 129, mantenne questo prestigioso incarico fino alla morte (109 a.C. circa), avvenuta dopo circa un ventennio, nel corso del quale soggiornò parecchie volte a Roma. La produzione di opere di Panezio non fu certo vasta come quella di molti altri filosofi ellenistici; tuttavia egli compose un'opera di fondamentale importanza, intitolata Sul dovere, un trattato che sarà ripreso niente poco di meno che da Cicerone nei primi due libri del De officiis; tuttavia accanto al trattato Sui doveri vanno senz'altro menzionati anche quello Sulla provvidenza, Sulla necessità di sopportare il dolore, Sulla gioia dell'animo e la Lettera a Q. Tuberone su un carme di Appio Claudio Cieco. Tuttavia di questi scritti ci sono pervenuti solo pochi frammenti, un centinaio circa. Panezio apportò modifiche di sensazionale importanza al sistema dottrinale dello Stoicismo antico, mitigandone le asprezze e inaugurando una tendenza moderatamente eclettica che sarà proseguita dal suo allievo Posidonio di Apamea e da Cicerone stesso. Gli apporti del filosofo di Rodi investono sia la fisica sia l'etica, e obbediscono alla medesima esigenza di ridimensionare il determinismo del sistema originario; per quel che concerne la fisica, Panezio negò o comunque avanzò seri dubbi sulla teoria stoica dell'ekpurosiV, la conflagrazione universale, che finiva con l'assegnare alla divinità la semplice funzione di reggitrice e non di artefice dell'universo: la divinità governa in modo razionale l'andamento del mondo, ma chi l'ha creato? Nella stessa ottica antideterministica va anche ascritta la serrata polemica di Panezio rivolta all'arte divinatoria e all'astrologia, il cui scopo é quello di prevedere un futuro già rigidamente stabilito; con parecchi secoli di anticipo rispetto all'umanista italiano Pico della Mirandola, Panezio sembra aver ravvisato nell'astrologia un qualcosa che limita il libero arbitrio umano: se tutto é già decretato necessariamente, l'uomo non ha libertà e, di conseguenza, l'etica (fulcro dell'insegnamento stoico) cade nel vuoto: a che serve insegnare ad uno come comportarsi se tutto é già determinato, compreso il suo comportamento? D'altronde gli astri per Panezio sono troppo distanti per poter influire sugli eventi della Terra. Con Panezio viene dunque messo in dubbio il caratteristico determinismo stoico. Per quel che riguarda la dottrina dell'anima, egli non arrivò a sostenere la sua immortalità, ma vi distinse una parte irrazionale, composta di aria, e una razionale, di natura ignea. In campo etico, Panezio approdò ad una concezione meno rigida e rigoristica della virtù (areth) e della saggezza (sofia), affermando che la prima non é sufficiente (ouk autarkh) quando non vi si aggiungano buona salute, agiatezza economica e vigore fisico e rispondendo in tono deliberatamente evasivo a chi gli poneva un quesito sulle caratteristiche del perfetto sapiente: "Del saggio parleremo un'altra volta!". Tuttavia é evidente che il saggio inteso da Panezio non é più quello della più rigorosa tradizione stoica, che anche se chiuso nel toro di Falaride sapeva essere felice perchè in possesso della virtù. In questo senso, si comprende come Panezio non abbia voluto occuparsi dei katorqwmata (azioni perfette), ma abbia rivolto la sua attenzione ai kaqhkonta (i doveri), intitolando a essi la sua opera più famosa: Panezio individua quali sono i doveri per tutti gli uomini, anche per quelli che non hanno ancora raggiunto la perfezione. Essi sono definibili in relazione alle diverse posizioni sociali e circostanze della vita e nel rispetto delle regole della convivenza civile. Infine possiamo cogliere un segno dei nuovi tempi correnti nel radicale rifiuto da parte di Panezio della apaqeia, l'abolizione delle passioni, perno intorno al quale ruotava la tradizionale etica stoica: a questo ripudio probabilmente non fu estraneo l'influsso della concezione attivistica sulla quale si fondava lo stato romano. L'attenzione e la comprensione del filosofo per i problemi dell'uomo ha fatto a ragion veduta parlare di umanesimo paneziano, l'humanitas dei Latini. Si é più volte detto che Panezio, non interessato a problemi di logica, abbia dato una svolta aristocratica alla dottrina stoica, cercando di liberarla dai tratti rozzi e plebei come l'ingiunzione di chiamare le cose con i loro nomi, cioè di non evitare i termini osceni e di addolcire l'originario rigorismo morale ormai anacronistico in modo tale da renderla praticabile anche da parte di una classe aristocratica e nobile, colta e raffinata. Inoltre Panezio, a differenza dello Stoicismo classico, dà un giudizio positivo sugli istinti, che non devono essere oppressi dalla ragione, ma piuttosto corretti e disciplinati. Egli elaborò un sistema di virtù in cui le tradizionali virtù cardinali stoiche (giustizia, sapienza, fortezza, temperanza) venivano reinterpretate in modo da essere viste come organico sviluppo di questi istinti fondamentali: la virtù fondamentale é per Panezio costituita dalla socialità, in cui alla tradizionale virtù cardinale si affianca la beneficenza: se alla prima spetta di "dare a ciascuno il suo", la seconda ha il compito di collaborare positivamente al benessere della comunità e di mettere a disposizione dei concittadini la persona e gli averi del singolo. La beneficenza teorizzata da Panezio corrispondeva benissimo allo stile di vita degli aristocratici romani, che , attraverso gli officia e l'elargizione nei confronti dei concittadini, sapevano procurarsi un seguito politico capace di innalzarsi alle più alte cariche dello stato. Alla virtù tradizionale della fortezza Panezio sostituisce la magnanimità (grandezza d'animo), una virtù "signorile" che scaturisce da un naturale istinto a primeggiare sugli altri, e risplende nella capacità di imporre il proprio dominio di cui da tempo il popolo romano ha dato prova di fronte al mondo.


TESTIMONIANZE SU PANEZIO

Cicerone è la fonte piú importante per conoscere il pensiero di Panezio: il De officiis ciceroniano è infatti costruito sul modello dell’opera di Panezio Perì toû kathékontos (Sul dovere):

"Tre dunque, secondo Panezio, sono i casi che si presentano, quando si deve prendere una deliberazione. Riflettere cioè se sia onorevole o turpe a farsi ciò che è argomento di deliberazione: nella quale considerazione spesso gli animi ondeggiano in opposti pensieri. Ricercare poi ed esaminare se l’argomento preso in considerazione possa arrecare o no le comodità e le giocondità della vita, gli averi, il benessere, il credito e il potere, con i quali portiamo giovamento a noi stessi ed ai nostri; la quale deliberazione rientra nel campo dell’utile. Si è infine incerti nel deliberare, quando ciò che sembra utile contrasta con ciò che è moralmente onorevole: mentre infatti l’utilità ci trascina verso di sé e l’onestà anche ci chiama a sé, avviene che il nostro animo vacilli nel prendere una decisione e rimanga perplesso fra opposti pensieri". [Cicerone, De officiis, I, 9]

"1 Panezio dunque, che senza dubbio trattò molto accuratamente dei doveri, e che io, con qualche modificazione, ho principalmente seguíto, stabilisce tre punti, su cui di solito si pondera e si riflette intorno al dovere: primo, quando si è incerti se la cosa in questione sia onesta o turpe; secondo, se sia utile o meno; terzo, se ciò che sembra onesto contrasta con ciò che sembra utile. Egli trattò dei primi due casi in tre libri, e promise che avrebbe trattato in seguito del terzo, ma non mantenne la promessa. [...]

2 Non sono poi d’accordo con quanti sostengono che questo punto non è stato dimenticato da Panezio, ma a bella posta tralasciato, e che non era il caso di parlarne perché l’utile non può mai essere in contrasto con l’onesto. Riguardo a queste due affermazioni si può discutere forse se si dovesse svolgere oppure omettere quel punto, che è il terzo nella trattazione di Panezio; ma non si può mettere in dubbio che da Panezio sia stato proposto e poi tralasciato. È evidente che, se ha diviso la materia tre parti e ne ha svolto due, rimane da trattare la terza: si aggiunga che alla fine del terzo libro Panezio dichiara che la tratterà in seguito. [...]

3 Non si può quindi dubitare dell’intenzione di Panezio: si può forse discutere se facesse bene o no ad aggiungere questa terza parte alla ricerca dei doveri. Infatti, sia l’onesto il solo bene, secondo il parere degli stoici, sia invece, come vogliono i vostri peripatetici, un bene cosí grande che tutto ciò che gli si contrappone ha piccolissimo peso, è fuori di dubbio che l’utile non può venire a conflitto con l’onesto. [...] Che se Panezio fosse stato uomo tale da proclamare che la virtú deve essere praticata perché è causa di utilità, come fanno coloro che dal piacere o dalla mancanza del dolore misurano la desiderabilità delle cose, avrebbe potuto dire che talvolta l’utile è in contrasto con l’onesto. Ma poiché è invece uno che ritiene che sia bene solo ciò che è onesto, e che non con l’accrescimento né con il decrescimento di ciò che con una qualche parvenza di utilità contrasta con l’onesto, la vita possa divenire migliore o peggiore, non mi pare che avrebbe potuto introdurre la questione sul confronto fra ciò che appare utile e l’onesto. Il sommo bene degli stoici, vivere secondo natura, significa, secondo me, essere sempre in accordo con la virtú ed accettare poi tutto ciò che è secondo natura, quando non sia contrario alla virtú". [Cicerone, De officiis, III, 7-13]


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