PIER DAMIANI

Biografia

Pier Damiani nacque a Ravenna nel 1007. Ebbe un’infanzia dura e dolorosa, come ci narra il suo biografo S. Giovanni da Lodi, ma non è facile riconoscere quanto vi sia di vero nel suo racconto fortemente mitizzato. Affidato dapprima alle cure di una donna che viveva nella casa di un prete, fu raccolto, essendo rimasto presto orfano, da un fratello, ma non è sicuro che per questo abbia preso, in segno di riconoscenza, il cognome Damiani. Studiò a Ravenna, poi a Faenza e a Parma e, fra i suoi maestri, cita un prete di nome Mainfredo e Ivo di Chartres. Iniziò la sua attività come professore nelle arti del trivio e del quadrivio, ma alcuni fatti, in cui egli vide la mano di Dio, lo persuasero a cambiare vita. Verso il 1035 entrò nell’eremo di Fonte Avellana, fondato poco prima del Mille e molto noto nel Medioevo. La sua personalità si impose subito in quel piccolo gruppo di eremiti e nel 1043 venne eletto priore. Tre anni dopo assiste all’incoronazione imperiale di Enrico III a Roma ed entra in rapporti con l’ambiente di corte. I suoi successivi contatti furono numerosi e cordialissimi: si recò più volte in Germania, l’imperatrice Agnese fu sua penitente e tentò di trattenere Enrico IV dal divorzio con Berta. Dal 1050 in poi, Damiani partecipò alla riforma ecclesiastica collaborando con gli scritti e con l’intervento personale all’energica azione riformatrice iniziata da Leone IX . Questo papa lo nominò priore del convento di Ocri e, almeno per i primi anni, intrattenne con lui un buon rapporto di amicizia. Anche sotto i pontificati di Stefano IX, di Niccolò II e di Alessandro II, Damiani godette di una posizione di primo piano tanto da venir creato, nel 1057, cardinale e vescovo di Ostia, ma Stefano IX era stato costretto a minacciarlo di scomunica per fargli accettare quella carica. In tali uffici assolse varie incombenze (ambasciatore papale a Cluny, paciere a Milano, a Firenze e in altre città) ma la vita di curia non era adatta a lui, carattere troppo aspro e spirito troppo indipendente. Dopo molte insistenze, sempre respinte, verso il 1067 ottenne finalmente di poter rinunciare all’episcopato e ritornò al chiostro, pur continuando a dare il suo aiuto nella riforma della Chiesa. Poco prima che il suo amico Ildebrando salisse al trono papale, Pier Damiani moriva il 22 febbraio 1072 a Faenza, dove fu sepolto nella chiesa di S. Maria fuori porta.


Pier Damiani fu, dunque, innanzi tutto, un monaco, maestro di vita religiosa e soprattutto di vita eremitica, sull’esempio di S. Romualdo di cui scrisse anche la biografia. Le sue opere, specialmente quelle dirette ai monaci, sono piene di concetti di quella "dottrina dell’eremo" - come la chiama Palazzini - formulata da Damiani stesso e rimasta poi classica: il monastero è una preparazione all’eremo, cui tutti i monaci dovrebbero tendere, come più alta forma di vita religiosa.
Un altro aspetto della figura di Damiani è delineato dal Blum che lo ha definito "consigliere dei Papi"; fu questo, infatti, il suo compito principale nella vita pubblica del periodo pregregoriano.
Damiani era afflitto dai mali della Chiesa, di cui condannò molto energicamente le manifestazioni più palesi, le cosiddette "piaghe del secolo": la simonia e il nicolaismo. Durante la prima metà dell’XI secolo, nel periodo in cui Damiani era priore di Fonte Avellana, ben otto papi avevano occupato successivamente, e a volte si erano disputati, la sede apostolica. Dopo la morte di Silvestro II (1003), con cui sembrava iniziato un periodo di riforma, la situazione era di nuovo precipitata nell’antica corruzione e il papato era diventato appannaggio delle grandi famiglie aristocratiche. Essendo stato, quindi, spettatore di questi anni agitati e profondamente corrotti, Damiani comincia ad agire in prima persona scrivendo ed incontrando i pontefici. Iniziò con Gregorio VI, il primo papa che sembrò far sperare al mondo l’attuazione di una riforma e si tenne sempre a contatto con gli altri papi che gli succedettero, divenendo quando più quando meno, uomo di fiducia e di consiglio. Ma la vocazione a consigliere dei pontefici non era dettata da altro che dal desiderio di affrettare la riforma della Chiesa. Quest’altro aspetto della figura di Damiani, il riformatore, lo portò ad avere molteplici contatti con le più note personalità ecclesiastiche e laiche dell’epoca. Egli, però, non seppe misurare, almeno in tutta l’estensione, la radice profonda del male riposta nell’investitura laica che implicava la sottomissione della Chiesa all’Impero. Anzi, Damiani era persuaso che la riforma della Chiesa poteva essere realizzata solo con l’accordo dei due poteri spirituale e temporale. Nella Disceptatio Synodalis, che compose per difendere Alessandro II dall’antipapa Onorio II, egli si propose unicamente di ricreare l’intesa tra la santa Sede e la corte germanica, senza rendersi sempre conto dell’importanza dei sacrifici accettati in vista della loro riconciliazione. Infatti, Damiani, in questo suo scritto, sembra smentire il decreto del 1059 in cui Niccolò II stabiliva che l’elezione del pontefice spettava in primo luogo ai cardinali vescovi e non all’imperatore. Ammiratore dell’istituzione imperiale, come aveva funzionato al tempo di Enrico III, egli non vide fra Chiesa e Impero la possibilità di rapporti diversi da quelli fino ad allora seguiti. Di altro parere era, invece, il suo collega nelle ambascerie papali, Ildebrando da Soana, futuro Gregorio VII, che ingaggiò la lotta contro le investiture per respingere l’ingerenza dei laici nelle elezioni dei pontefici, dei vescovi e degli abati. Per Damiani la preoccupazione maggiore era di combattere strenuamente l’incontinenza e far rivivere nel clero la virtù della purezza e della castità perfetta.
Contro la simonia, Damiani scrisse il Liber Gratissimus in cui, pur condannando questa pratica, sosteneva che i sacramenti amministrati dai preti simoniaci conservavano la loro validità perché non era dagli uomini ma da Cristo che traevano la loro efficacia. Questa posizione, però, era in disaccordo con ciò che l’autore aveva sostenuto negli scritti precedenti, in cui si era battuto fieramente contro i simoniaci. Probabilmente, Damiani cambiò il suo giudizio perché, nel frattempo, aveva saputo che anche il vescovo da cui era stato ordinato era simoniaco! Contro di lui, a causa di questo suo ripensamento, si scagliò Umberto di Silva Candida, sostenitore della tesi rigorista, il quale negò decisamente la validità del sacerdozio di Damiani.
Dopo le discussioni sollevate dal Liber Gratissimus, molto criticato nell’ambiente ecclesiastico, si verificò un certo allontanamento tra Leone IX e Pier Damiani. Ciò potrebbe essere spiegato, secondo Lucchesi, dalla posizione di Umberto di Silva Candida nella questione delle ordinazioni, poiché questi fu un cardinale molto influente su Leone IX. Altri studiosi invece ritengono che l’allontanamento sia stato determinato dalla risposta che il papa diede a Pier Damiani riguardo al suo libro.
In altri opuscoli, Damiani si occupò della necessità di una vita illibata da parte dei chierici e vi espresse le sue idee sul celibato e sulla castità del clero. In particolare, egli scrisse nel De caelibatu sacerdotum (1059) un’esortazione al papa Niccolò II, che era il dedicatario dell’opuscolo, affinché esercitasse tutto il rigore dei sacri canoni contro i prelati immorali e perché deponesse quelli che violavano la castità

. Nella lettera inviata a Cuniberto, vescovo di Torino, e in quella indirizzata alla principessa Adelaide di Susa (1064), si scaglia contro quei chierici intemperanti che vivono velut iure matrimonii confoederentur uxoribus e rivolge un’apostrofe alle concubine degli ecclesiastici chiamandole "empie tigri", "arpie" e "vipere furiose".
Un altro costume del clero che Pier Damiani riteneva dovesse essere risanato molto urgentemente era la pratica dell’omosessualità. Così, fin dai primi anni della sua attività di consigliere papale, si adoperò per guarire la Chiesa da questo "male abominevole" e, a questo scopo, scrisse il Liber Gomorrhianus dedicandolo al papa Leone IX, confidando nella volontà riformatrice del pontefice. In questo opuscolo, Damiani fa un’analisi particolareggiata di questa terribile colpa, usando termini arditi e severi.
Comunque Damiani, nonostante la grande opera di riforma che intraprese, sentì sempre la nostalgia per la vita eremitica, tant’è che negli ultimi anni della sua vita volle tornare al suo amato eremo di Fonte Avellana, rinunciando alla sede di Ostia. Dante colloca Pier Damiani nel settimo cielo fra i contemplativi e lo mostra nella sua veste di fiero fustigatore della dilagante corruzione ecclesiastica e come spirito innamorato della vita eremitica. Egli aveva un carattere ardente, nonostante il continuo sforzo di vincersi, un po’ ombroso, tanto da essere paragonato a San Girolamo. Per usare le parole di P. Brezzi, "[...] in lui vi era una assoluta purezza d’intenzione, elevatezza morale, noncuranza dei mezzi termini, fervore inesauribile, forza di convinzione".



Breve introduzione

Pier Damiani si fa portavoce di un cristianesimo ascetico che, capovolgendo il primato della vita comunitaria quale era stato stabilito dalla "Regola" di Benedetto da Norcia, ravvisa la perfezione della vita monastica nell'eremitaggio. Il fulcro della vita perfetta è, secondo Pier Damiani, la simplicitas, da lui opposta alla curiositas profana (tipicamente filosofica: la ragione socratica, curiosa di tutto) che spinge a investigare razionalmente i misteri divini; per argomentare contro la dialettica, Pier Damiani si vede costretto a fare anch'egli uso delle armi dialettiche, soprattutto nel suo scritto Sull'onnipotenza divina. In quest'opera, egli vuol mettere in luce come il linguaggio, la grammatica e le regole della dialettica restino chiuse entro limiti meramente umani e non siano in alcun modo in grado di attingere alla vera natura di Dio. Di fronte all'onnipotenza di Dio, quale è rivelata dalle Scritture, tutti gli strumenti linguistici e razionali puramente umani rivelano una totale inadeguatezza. E poichè onnipotenza significa poter fare ciò che si vuole senza limiti nè costrizioni, Pier Damiani arriva a sostenere che Dio può perfino far sì che il passato non sia avvenuto. In questo senso, allora, parlare di passato non ha più senso per Dio, il quale è eterno presente, nè si può pensare che la potenza di Dio possa essere limitata da un presunto ordine intrinseco alla natura. In realtà ogni evento, anche appartenente all'ambito degli eventi producentisi in natura, è voluto e sancito da Dio e questo volere è per gli uomini ineluttabilmente imperscrutabile: ciò vuol dire che ogni fenomeno, anche quelli che si presentano con la massima regolarità e quelli più banali, è un miracolo. Dio, inoltre, non è limitato da alcuna necessità logica, neppure dal principio di contraddizione: egli può operare anche ciò che all'uomo può apparire logicamente impossibile.


Il Liber Gomorrhianus

Pier Damiani scrisse il Liber Gomorrhianus intorno alla seconda metà del 1049. Il libro è la prima delle opere dell’autore che censura gli abusi sessuali degli ecclesiastici e, nello stesso tempo, come dice Brundage, è "l’espressione più esplicita contro la sessualità deviante di tutta la letteratura del periodo riformatore".
Bailey definisce il LG una "composizione straordinaria" e, sotto alcuni punti di vista, "l’asserzione medievale più importante sul soggetto dell’omosessualità". Infatti, prima di Damiani, nessuno aveva affrontato in modo sistematico il problema dell’omosessualità e, soprattutto, nessuno aveva mai denunciato apertamente l’esistenza di questa pratica in ambiente ecclesiastico. Damiani che, come abbiamo visto, desiderava ardentemente promuovere l’attività riformatrice dei pontefici, soprattutto al fine di restaurare la disciplina nella gerarchia ecclesiastica, volle dimostrare quanto fosse urgente risanare i costumi del clero. Così, nel LG, si scaglia contro il dilagare in nostris partibus del quadruplice vizio contro natura, ne analizza i vari tipi di comportamento e le situazioni in cui questi vengono compiuti proponendo un’unica drastica soluzione: tutti gli ecclesiastici colpevoli di qualsiasi atto omosessuale devono essere immediatamente degradati, a qualunque grado essi appartengano. Damiani ritiene "completamente assurdo che quelli che si macchiano abitualmente con questa malattia purulenta osino entrare nell’ordine o rimanere nel loro grado [...] perché è contrario alla ragione e alle sanzioni canoniche dei Padri". Comunque, egli aggiunge, "non affermo questo come pretesto per proporre una bozza di sentenza definitiva [...], ma semplicemente per spiegare la mia opinione a riguardo". Egli non prevede attenuanti anzi, rispetto all’opinione comune sulla gravità delle varie pratiche, Damiani formula un giudizio ancora più severo considerando anche la masturbazione fra gli atti innaturali e, forse, benché non lo dica esplicitamente, anche la fellatio. Damiani non assegna penitenze, non commina né digiuni, né preghiere, nessuna pena sarebbe mai sufficientemente pesante per l’espiazione di una colpa così abominevole. Se i peccatori in questione fossero dei laici, sicuramente li redarguirebbe con decisione e con durezza, ma impartirebbe loro una penitenza per riavvicinarsi a Dio e per ricevere il perdono. Ma qui gli scellerati sono dei sacerdoti, sono dei ministri del Signore! A costoro non deve più essere permesso di toccare il corpo e il sangue di Cristo, le loro mani sono sudicie e indegne. Per questi ecclesiastici nient’altro deve essere previsto se non la degradazione e l’allontanamento dall’ordine.
Damiani, anche se ammette una certa gradualità nelle colpe omosessuali, punisce la masturbazione, il rapporto interfemorale e la penetrazione anale nello stesso modo. "Perciò — egli dice — non si deve rallegrare colui che non pecca con un altro, se da solo cade nelle lussuriose contaminazioni dell'adescamento". Per questa sua severità e intransigenza, o come la chiama Brundage, ossessione, questo opuscolo di Damiani costituisce un unicum nella letteratura medievale cristiana. Credo, però, che sia più giusto dire che è la materia trattata, l’analisi dettagliata dei fatti e la drastica condanna in esso pronunciata che rendono il LG il primo vero documento decisamente contro l’omosessualità.
Secondo Payer il LG fu "il primo di una lunga serie di trattati e contro trattati sulla materia che avrebbero caratterizzato il movimento di riforma fino alla fine del secolo". A questo riguardo, bisogna precisare che, prima di Damiani, si trovano numerosi riferimenti all’omosessualità, ma tutti sono contenuti nei penitenziali o nelle collezioni canoniche che, come abbiamo visto, non si possono di certo considerare dei trattati. Dopo Damiani, anche i canonisti del periodo gregoriano si interessarono alle questioni sollevate dal LG. Il Decretum di Ivo di Chartres, per esempio, contiene numerosi canoni che condannano la sodomia, la bestialità, la pederastia e la fellatio e per queste colpe sono previste anche pene più severe rispetto agli altri peccati, ma egli attinge queste prescrizioni dalle raccolte canoniche precedenti. Nei penitenziali non si discute del problema dell’omosessualità, di quanto detestabile sia questa colpa e di come venga commessa, in essi ogni questione è studiata in relazione alla penitenza più giusta da imporre, non viene esaminata la radice del peccato come ha fatto Damiani. Credo, quindi, che si possa dire con sicurezza che, almeno nel primo Medioevo, non furono scritti sull’omosessualità altri trattati di una certa estensione paragonabili al LG.
Boswell fa riferimento a Damiani inserendolo in quel "piccolo e rumoroso gruppo di asceti" che risvegliò la violenta ostilità di Crisostomo il quale affermava che gli atti omosessuali non solo erano peccaminosi, ma così gravi da essere paragonati più all’assassinio che alla golosità o alla fornicazione. Per tutto il periodo della riforma questi uomini, continua Boswell, "lottarono per interessare la Chiesa istituzionale alla loro crociata, per cambiare le opinioni della gente e dei teologi in materia". Le autorità ecclesiastiche non stabilirono mai delle punizioni per il comportamento omosessuale e finsero di non sentire quelle poche lamentele che ricevevano dai riformatori. Oltre a Damiani che cercò, con scarso successo, di interessare al problema Leone IX e Alessandro II, lo stesso Ivo di Chartres denunciò a papa Urbano II, il pontefice che promosse la prima crociata, i nomi di alcuni prelati altolocati che erano ben conosciuti per essere coinvolti in attività omosessuali, ma anche la sua protesta cadde nel vuoto. Quasi certamente nello stesso tempo, si cercò di introdurre in Inghilterra una legislazione ecclesiastica che definiva peccaminoso il comportamento omosessuale. Il concilio di Londra del 1102 prese delle misure per far sì che il pubblico venisse informato della scorrettezza di tali atti e insistette perché la "sodomia" venisse confessata come peccato. Sant’Anselmo di Canterbury si oppose alla pubblicazione del decreto e in una lettera all’arcidiacono Guglielmo, disse: "questo peccato è stato finora così comune che difficilmente si prova imbarazzo per esso e, perciò, molti sono caduti in tale peccato perché erano inconsapevoli della sua gravità".
Boswell sottolinea giustamente che questa indifferenza della Chiesa istituzionale al comportamento omosessuale è ancora più straordinario perché fu proprio durante questo periodo che furono fatti i più strenui sforzi per rinvigorire il celibato ecclesiastico. Intanto, un altro gruppo all’interno della Chiesa cominciò a sostenere "il valore positivo delle relazioni omosessuali e le celebrò in una esplosione di letteratura gay cristiana" basata sull’esempio dell’amicizia fra Gesù e Giovanni.
In questo contesto, quindi, senza alcun dubbio, il LG riveste un ruolo unico e particolare che sembra preludere all’intolleranza che nascerà nel XIII secolo e che punirà l’omosessualità anche con la pena di morte.
Lucchesi ha individuato un’altra novità importante contenuta nel LG rispetto agli altri lavori precedenti. Fu scritto per essere sottoposto all’autorità del papa e riceverne conferma, ma anche per essere presentato all’attenzione di un sinodo: dum plurimorum consensu et iudicio res geritur. Dunque, Damiani non solo chiede al papa di approvare con una sua decretali pagina le punizioni che egli propone per i colpevoli, ma pensa anche di offrire materiale di lavoro ad un prossimo sinodo, e cioè "prepara" un prossimo sinodo.
Evidentemente Damiani riponeva molta fiducia in Leone IX, ma questi, come vedremo nel prossimo capitolo, tempera alquanto la severità del provvedimento proposto dall’autore e, a quanto pare, nessun concilio discusse mai il problema dell’omosessualità.



Pier Damiani e Leone IX

Leone IX (1049-1054) fu il primo "papa pellegrino" della storia, fu quello che venne a Roma in abiti da viandante e che nel suo breve pontificato visitò quasi tutta l’Europa cristiana. Egli seppe circondarsi di insigni personalità. Infatti, fu allora che Ildebrando lasciò definitivamente il monastero per porsi ai fianchi del papa e che vennero a Roma Umberto di Silva Candida, l’alter ego di Leone IX, Federico di Lorena, futuro Stefano IX, et ex Ravennatium partibus Petrus Damianus vir eloquentissimus.
Leone IX fu il primo vero papa riformatore. Nei sinodi tenutisi sotto il suo pontificato dichiarò guerra alla simonia e all’incontinenza del clero. Pier Damiani partecipò personalmente a ciascuno di questi sinodi e spesso le sue testimonianze sono le uniche pervenuteci circa i problemi discussi in tali assemblee. Nelle lettere contro i sacerdoti intemperanti, Damiani parla di un interdictum papae Leonis e di un decreto dello stesso pontefice contro le prostitute dei preti, entrambi emanati durante il sinodo dell’aprile del 1049. Damiani, non contento di quanto veniva discusso e decretato dal sinodo, cercò di lavorare per conto suo su certe problematiche che gli stavano particolarmente a cuore. E fu così che iniziò a concretizzare la sua opera a favore della Chiesa componendo il Liber Gomorrhianus e dedicandolo, come abbiamo visto, allo stesso Leone IX.
In risposta al LG, il pontefice scrive a Pier Damiani una cortese lettera di apprezzamento per il libello che gli ha inviato e lo rassicura di aver dimostrato a se stesso di essere un nemico della contaminazione della carne. Ne gradisce lo stile franco e il ragionamento sincero che, indiscutibilmente, lo rendono degno di combattere la lotta conto i peccati dalla parte della giustizia.
Anche Leone condanna questo vizio, questo "desiderio osceno" che allontana dalla virtù cristiana chiunque lo commetta e che, a maggior ragione, è detestabile se compiuto da dei sacerdoti: "come può uno essere ecclesiastico o chiamarsi tale, quando non ha temuto di macchiarsi di sua propria volontà?" Proprio i ministri del Signore che "avrebbero potuto chiamarsi non solo tempio sacro di Dio, ma anche il santuario in cui l’Agnello di Dio è stato immolato in splendida gloria", proprio loro conducono una vita tanto disgustosa.
Quindi, Leone approva la punizione che Damiani ha previsto per questi peccatori, perché è in accordo non solo con l’autorità dei sacri canoni ma anche con il giudizio del papa stesso (nostro iudicio). Egli definisce il tono pungente di Damiani "santa indignazione" e lo rassicura circa la validità delle sue affermazioni. Tuttavia, Leone IX ritiene opportuno imporre la sua autorità apostolica, come lo stesso Damiani aveva chiesto, in modo "da rimuovere ogni scrupoloso dubbio a quelli che leggono". Dunque, sebbene l’autorità sacra preveda l’espulsione per coloro che si sono "macchiati" in uno qualsiasi dei quattro modi enumerati da Damiani, "noi — dice Leone IX — agiremo più umanamente". Egli, infatti, desidera e ordina che gli ecclesiastici non coinvolti in tali attività "da lunga abitudine o con molti uomini" rimangano nello stesso grado che occupavano quando erano stati dichiarati colpevoli, e che solo quelli in stato particolarmente peccaminoso vengano degradati dal loro rango. In particolare, chi ha peccato nei primi tre modi — masturbazione solitaria, masturbazione reciproca e coito interfemorale — dopo un periodo di penitenza, può ritornare al grado ecclesiastico che ricopriva prima. Ma non c’è speranza di recuperare la carica per chi ha peccato in questo stesso modo ma per lungo tempo oppure per poco tempo ma con molti uomini. La stessa sorte spetta a quelli che si sono uniti mediante la penetrazione anale poiché hanno commesso il delitto più grave ed impronunciabile.
Leone IX entra in merito alla gravità degl’atti omosessuali seguendo accuratamente la "classificazione" di Damiani e stabilendo una specie di gradualità fra i diversi comportamenti. Tale distinzione sembra soddisfare la richiesta, formulata da Damiani nel LG, di stabilire "chi, tenendo conto, certamente, della diversità [dei peccati], possa ricoprire misericordiosamente questo ufficio". Nonostante ciò, le sue precisazioni rimangono molto vaghe, sembra che volutamente lasci imprecisato che cosa intenda con "abitudine" e con "pochi" o "molti" uomini, come se volesse fornire degli appigli per gli accusati.
Nelle parole di Leone si legge chiaramente un atteggiamento molto tollerante. Da un lato, sembra voler accontentare Damiani comminando la degradazione laddove la gravità del peccato sia proprio innegabile. Dall’altro lato, non si inasprisce contro i peccatori ma, anzi, usa un tono comprensivo, sed nos humanius agentes. Leone IX non giustifica la sua affermazione, la impone (volumus, atque etiam iubemus) e il tono, nel seguito della lettera, non cambia. Egli attribuisce al suo scritto la validità di un decreto: "Se qualcuno oserà fare critiche o porre dubbi su questo decreto di direzione apostolica, sappia che sta mettendo in pericolo la sua carica".
Bailey, che sembra sia stato influenzato da K.H. Mann, ha interpretato questa frase come un ammonimento per Pier Damiani. Al contrario Boswell dice in modo un po’ confuso, che non si tratta affatto di una minaccia diretta a Piero. Questo ammonimento viene chiarito dalla frase successiva in cui Leone aggiunge che "chi non commette il vizio ma lo incoraggia, costui è, giustamente, considerato colpevole di morte al pari di chi muore nel peccato". Ma, chi è che incoraggia il vizio? Colui che non lo vuole estirpare, che non lo vuole punire e che quindi è pronto a criticare le disposizioni di Leone.
L’affermazione non si riferisce direttamente a Pier Damiani ma a quelli che avrebbero preferito cancellare il decreto di Leone, quindi, con tutta probabilità agli accusati, cioè ai preti omosessuali. Tuttavia è implicito che questo sia un monito rivolto anche a Damiani che, desiderando un intervento più severo da parte del papa, avrebbe potuto protestare contro un provvedimento invece così comprensivo
È chiaro che Leone non è molto ben disposto verso il LG, i complimenti che rivolge a Damiani sono frasi di circostanza, lo saluta come un paladino della giustizia e lo premia con l’augurio della grazia eterna, ma, poco prima, gli dice "hai scritto ciò che sembrava meglio per te" sottintendendo che le sue opinioni personali non erano necessariamente identiche a quelle di Damiani. Non bisogna dimenticare che Damiani aveva chiesto a Leone di scrivere una pagina decretali, di radunare degli "uomini spirituali e prudenti per compiere questo necessario esame" e per togliere, così, ogni dubbio dal suo cuore. Questa richiesta però non fu accolta da Leone IX. Infatti, non solo la risposta del papa non può essere considerata un decreto conciliare, ma non risulta nemmeno che in qualche concilio se ne sia discusso. Le testimonianze dei sinodi di Leone ci parlano di numerosi interventi contro la simonia o il matrimonio ecclesiastico, ma non contro l’omosessualità.
Come abbiamo detto, durante gli ultimi anni del pontificato di Leone IX, fra i due si verificò un certo allontanamento. Bailey e Mann, che hanno frainteso le parole di Leone, ipotizzano che il diverbio fra i due sia stato provocato proprio dalla risposta del papa a Damiani. Ma, come dice Boswell, la prova di tale allontanamento deve essere ricercata in un’altra lettera che Damiani scrive a Leone IX tra il 1050 e il 1054.
Questa lettera mostra chiaramente che fra i due c’era stata una rottura abbastanza netta, perché Damiani dice in modo esplicito di volersi riconciliare con Leone IX e di essere pronto a fare ulteriori penitenze per meritarlo. Nello stesso tempo, l’autore non risparmia battute pungenti per Leone: è doveroso credere che Dio abiti nel suo cuore e che lo convinca a cedere alla benevolenza di chi scrive. Per capire che cosa sia successo di così tanto grave fra Damiani e Leone, analizziamo il contenuto della lettera.
Innanzitutto, l’autore si scaglia contro i suoi accusatori, contro quell’"antico nemico" che ha affilato le lingue dei maligni contro di lui e che, quotidianamente, si ingegna nella costruzione di nuove menzogne. Damiani è amareggiato e sorpreso perché "l’astuta capacità degli uomini" è riuscita ad ingannare anche il papa facendogli credere queste menzogne. Eppure il Signore insegna che non bisogna giudicare con troppa facilità le cose che non si conoscono. Di Sodoma e Gomorra, egli infatti dice: "Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me".
Dunque, Damiani rimprovera Leone IX per aver dato credito alle falsità sul suo conto senza verificare la loro corrispondenza con la verità e per non aver usato nei suoi confronti quella cautela che solitamente utilizza con tanta prudenza. Ma i suoi accusatori e l’"antico nemico" chi sono? Perché lo accusano?
Secondo Lucchesi, il LG avrebbe suscitato un certo scalpore sia tra il pubblico sia nell’ambiente pontificio e, quindi, in questa lettera indirizzata a Leone IX, Damiani risponderebbe alle perplessità e alle proteste mosse contro di lui. In effetti, più volte nel LG, il peccato di omosessualità e il diavolo che lo istiga vengono chiamati "nemici" dell’uomo. Inoltre, chi meglio delle persone colpite nel LG avrebbe avuto motivo di accusarlo e di inventare menzogne contro di lui.
Damiani non ci dice di che cosa lo accusino, non sappiamo se le malignità formulate contro di lui fossero insinuazioni circa le sue tendenze sessuali oppure semplici condanne al suo stile troppo pungente e violento. Sicuramente, qualche illazione sul suo orrore per il sesso e sulla sua triste visione della sessualità umana sarà stata fatta, ma nella lettera c’è un chiaro riferimento al suo carattere da temperare: " Per questo motivo, invoco e umilmente scongiuro quel testimone della mia coscienza [...] affinché subito ordini con la sua autorità che voi mi mitighiate, se lo giudica opportuno per la mia salvezza".
Un altro spunto per collegare la lettera con il LG ci è fornita dalla citazione del clamor Sodomorum et Gomorrhaeorum. Damiani dice che come Dio, prima di punire le due città, ha mandato gli angeli a constatare se le accuse mosse nei loro confronti erano fondate, così anche noi non dobbiamo credere alle malvagità se non dopo averle verificate. Dunque, Leone IX prima di dar fede alle falsità che le persone colpite nel LG avevano formulato contro Damiani, doveva accertarsi della sincerità e delle buone intenzioni che avevano mosso l’autore a denunciare il loro comportamento osceno. Questi elementi credo che siano sufficienti per dire, in accordo con Capecelatro, che probabilmente dopo una prima reazione favorevole o, comunque, non contraria al LG, Leone IX abbia, in seguito, cambiato la sua posizione forse a causa di alcune voci maligne che aveva sentito sul conto di Damiani. Questa ipotesi, inoltre, spiegherebbe anche la mancata applicazione dei provvedimenti stabiliti da Leone e l’assenza di ogni altra discussione sull’argomento, oltre che il tono arrabbiato della lettera di Damiani che forse aveva visto vanificarsi tutte le sue fatiche. Egli si difende, come già aveva fatto nel LG, affermando che non teme gli odi e le cattiverie di nessun uomo mortale perché è sicuro di aver agito per amore di Cristo e secondo la voce della sua coscienza.
In conclusione, la risposta di Leone è la risposta di un pontefice più interessato a mantenere la stabilità all’interno del clero che a punire le relazioni omosessuali. È molto significativo che Leone IX fosse in disaccordo con Damiani su questo problema perché, a detta del secondo, il papa era d’accordo che le prostitute a servizio dei preti fossero rese schiave, una punizione davvero severa per una pratica così comune.

Pier Damiani, Alessandro II e il "furto" del Liber Gomorrhianus

Papa Alessandro II (Anselmo da Baggio) fu un riformatore ardente e deciso dei costumi ecclesiastici. Egli era stato collega di Pier Damiani nella legazione del 1059, quando, per volere del papa Niccolò II, si recò a Milano per la riforma di quella Chiesa e di altre della Lombardia. Pier Damiani coadiuvò Alessandro II in ogni maniera per rafforzarlo nella sua posizione contro l’antipapa Onorio II (Cadalo, vescovo di Parma). Infatti, egli difese, nel 1061, la causa di Alessandro II davanti all’Assemblea di Augusta, e compose proprio a questo fine la Disceptatio synodalis inter regis advocatum et Romanae ecclesiae defensorem.
Fliche descrive Alessandro II come un uomo equilibrato, quasi timoroso e poco energico, e molto legato al suo consigliere Pier Damiani, soprattutto nei primi anni del suo pontificato. In seguito, affermata la legittimità della sua elezione e rafforzato nelle sue posizioni, il papa porta avanti le idee riformatrici dei suoi predecessori, accentrando il potere ecclesiastico attorno alla Santa Sede. Anch’egli cercò di ricondurre il clero alla continenza e alla povertà, vigilando sulla rigida applicazione dei decreti pontifici sul nicolaismo e sulla sodomia. Scrivendo ai vescovi di Dalmazia, Alessandro II ordina che un vescovo, un prete o un diacono che prendono moglie o conservano quella che hanno già, dovranno essere deposti, abbandonare il coro e non percepire rendite ecclesiastiche fino a completa resipiscenza. Egli impone ai preti fornicatori la rigida proibizione di assistere alla Messa e ordina pene severe per "quelli che osano vendere o comprare un ordine sacro, o un bene della Chiesa, ugualmente sacro": nella Chiesa di Dio nulla può essere venduto, né i beni né, a maggior ragione, i sacramenti. Perciò, nulla vien cambiato nelle direttive apostoliche riguardanti la riforma della Chiesa: la legislazione precedente rimane rigorosamente in vigore.
Però, proprio Alessandro II che sosteneva con tanto vigore la riforma e che, come abbiamo detto, riceveva spesso consigli ed aiuti da Pier Damiani sembra che abbia addirittura cercato di sopprimere il LG.
In una lettera, indirizzata ai suoi due alleati curiali, i cardinali Stefano e Ildebrando (futuro Gregorio VII), Pier Damiani racconta che il papa gli aveva chiesto in prestito il manoscritto di un suo lavoro col pretesto di volerne avere una copia ad uso personale. Durante la notte, però, Alessandro II chiude a chiave il manoscritto in un cassetto e, in seguito, si rifiuta di ridarlo all’autore. Damiani, che nella lettera racconta l’episodio ai due cardinali, si dice offeso da questo furto e si lamenta a lungo con toni infuriati e appassionati contro il comportamento del papa.
L.K. Little ritiene con certezza che il libro in questione sia il LG e questa tesi, sostenuta per primo da A. Capecelatro, è ritenuta corretta anche da J. Boswell e J. Brundage. N. Tamassia, che si è occupato dell’aspetto legale di questa lamentela di Damiani, commenta come segue la lettera. Questa lettera non può non avere carattere giocoso. Si sa che gli autori sono felici, quando sono vittime di questi furti, e Pier Damiani, per quanto se ne dolesse apparentemente, restava sempre un retore [...] non ignaro che tutti attendevano i suoi scritti con una certa ansietà.

Secondo J.J Ryan, la lamentela di Damiani non è un gioco retorico, la sua preoccupazione sembra abbastanza reale. Egli ritiene però che il LG non abbia nulla a che fare con l’incidente raccontato nella suddetta epistola perché, a suo avviso, è molto improbabile che Pier Damiani avesse con sé, a Roma, il LG quindici anni dopo la sua composizione, cosa che, invece, non esclude Boswell visto che l’autore cercava ancora di interessare il papato alla riforma di tali questioni.
Ryan cerca di dimostrare che il libro in questione è un’altra opera di Damiani ma fornisce poche prove a sostegno della sua ipotesie non dà peso all’affettuosa descrizione del volume sottratto che, secondo Boswell, è applicabile solo al LG.
In effetti, Pier Damiani descrive questo suo libro come un figlio, come quell’unicum filium (quindi ancora più prezioso per la sua unicità) che aveva stretto a sé con il dolce abbraccio di un genitore, che gli era costato tanta fatica e che aveva quasi strappato alla povertà del suo misero ingegno. L’autore si esprime con toni affettuosi come se parlasse di una persona cara e cerca di rendere partecipi gli amici Stefano ed Ildebrando del suo rammarico e del suo risentimento per il furto subito, triste ricompensa per il duro lavoro. Inoltre, l’atteggiamento canzonatorio ed evasivo del papa infastidisce ulteriormente Damiani che non esita a paragonare il pontefice ad un pazzo "che scaglia tizzoni e frecce di morte" e che poi si giustifica dicendo che era uno scherzo. Se Alessandro ritiene, come dimostra con il suo comportamento, che il sacerdote sia un attore, allora anche Damiani si sente autorizzato a giocare e a scherzare con il nome del papa, formulando così una serie di velate minacce circa il suo possibile destino. Infatti, Alessandro II porta lo stesso nome di quel pontefice che fu flagellato e di quel ramaio, avido di denaro, che S. Paolo affida al Signore perché lo punisca secondo le sue opere. Inoltre, Damiani ricorda al papa l’aiuto che gli prestò contro Cadalo e tutte le tribolazioni che dovette sopportare a servizio unicamente della sede apostolica. Perché dopo tante pene, per le quali merita di certo la beatitudine, deve subire l’oltraggio del furto e, per giunta, da parte di una persona che credeva amica?
Queste parole così pungenti non sono certamente una finzione letteraria, Damiani è veramente dispiaciuto per la perdita del suo "amico codice".
Ma l’indignazione dell’autore era dovuta solamente all’atteggiamento irrispettoso e canzonatorio del papa, al fatto che gli aveva sottratto il libro con un sotterfugio e che non si decideva a restituirglielo, oppure il libro aveva un valore particolare per Damiani? Che cosa implicava il furto di questo suo lavoro? Egli non ci fornisce nessun elemento per rispondere a queste domande e per stabilire con certezza quale sia il libro rubato. È chiaro, comunque, che l’affronto ricevuto dal papa è il motivo principale della reazione di Damiani. Ma, forse, senza forzare troppo l’interpretazione della lettera, si possono formulare altre ipotesi quali, ad esempio, che si trattasse dell’unica copia in suo possesso e che, quindi, il furto significasse per Damiani la perdita irreparabile di un suo intero lavoro. Oppure che l’argomento in esso trattato fosse particolarmente importante per Damiani, come si legge fra le righe della sua affettuosa descrizione del manoscritto e nei ripetuti solleciti che egli fa al papa per riavere il suo libro. Ma queste ipotesi non sono sufficienti, benché Boswell dica il contrario, per identificare il libro in questione con il LG. C’è un altro elemento però da prendere in considerazione e che, a mio avviso, è determinante per la comprensione della lettera. Damiani, dopo aver ricordato al papa di essersi comportato come i Daniti che rubarono tutti gli averi di Mica, lo prega di non allontanare da sé il misero autore di quel libro a causa di "un incidente di così poco conto". È difficile stabilire a che cosa si riferisca Damiani ma di certo sottintende un fatto spiacevole legato all’opera in questione. Era stato l’argomento discusso nel libro o forse qualche considerazione dell’autore ad aver provocato un incidente, ad aver suscitato del malcontento o delle reazioni negative? Neanche questo possiamo sapere con certezza. Se però interpretiamo il "fatto spiacevole" come una qualche reazione negativa nei confronti di un suo lavoro, allora quasi certamente possiamo identificare l’amico codice con il LG. Nessun’altra opera di Damiani, infatti, ricevette delle critiche così forti come quelle seguite al LG, tali da indurlo a difendersi tenacemente come ha fatto nella lettera inviata a Leone IX.
A questo poi si deve aggiungere che non era nelle intenzioni di Damiani dare quel lavoro ad Alessandro — "sapeva che non lo avrebbe potuto ottenere da me in altro modo" —, ma perché allora lo aveva con sé? Forse voleva solamente chiedergli un parere sulla qualità del suo componimento, forse voleva provare nuovamente, come aveva fatto con Leone IX, a proporre dei severi provvedimenti contro l’omosessualità del clero.
Se accettiamo l’ipotesi che la lettera parli veramente del LG, allora ci dobbiamo chiedere che cosa indusse Alessandro II, che pure sosteneva con forza la riforma della Chiesa, a nascondere quel libro anziché usarlo come spunto per legiferare contro le immoralità del clero. Forse perché era troppo violento e diretto o perché proponeva sanzioni troppo pesanti. Boswell sembra insinuare che lo stesso Alessandro II avesse delle ragioni personali che lo spingevano a tale gesto, poiché era allievo di Lanfranco di Pavia, famoso per il suo attaccamento ai giovani monaci. Senza alcun dubbio, comunque, Alessandro II considerava il LG "scomodo" e forse temeva, visto i precedenti, le reazioni che avrebbe potuto suscitare.
Dopo questa ultima vicissitudine, non sappiamo quale sia stata la storia del LG. Secondo J. Brundage, che a sua volta utilizza il pensiero di Little, Pier Damiani, nella lettera ai due cardinali, implorerebbe con successo, i due amici di recuperare il LG e di restituirlo al suo autore. In questa lettera, però, non c’è traccia di una simile richiesta. Anzi, Pier Damiani coinvolge molto poco Ildebrando e Stefano: a loro indirizza la lettera e a loro chiede una penitenza per le dure parole pronunciate contro il papa. A parte questi due chiari riferimenti, il testo della lettera sembra rivolgersi ad un pubblico molto più vasto a cui Damiani sfoga la sua amarezza per l’ingiustizia subita.

Un libro "scomodo"

Dopo aver preso in esame le varie ipotesi circa la storia del LG, a partire dal motivo che indusse Damiani a comporlo fino agli insuccessi subiti, prima con Leone IX e poi con Alessandro II, siamo giunti alla conclusione che la Chiesa dell’XI secolo cercò in tutti i modi di evitare la discussione circa la pratica omosessuale in ambiente ecclesiastico. Inoltre, l’indifferenza della Chiesa istituzionale è ancora più straordinaria se paragonata all’accanimento con cui impose il celibato ecclesiastico. I cento anni successivi al 1050, infatti, rappresentarono il culmine del prestigio morale papale e un periodo di riforma e di vigore spirituali senza confronto nel cattolicesimo romano.
Per questi motivi, come dice Boswell, "è difficile dimostrare che l’indifferenza verso la sessualità gay fosse semplicemente conseguenza di apatia". Probabilmente la denuncia e la condanna dei rapporti omosessuali fra ecclesiastici avrebbe coinvolto troppe personalità insigni del tempo, e forse proprio quelle che con più tenacia condannavano la corruzione e il malcostume. Come per la simonia, contro cui si dovettero moderare i provvedimenti a causa della vasta diffusione del problema, così anche per la pratica dell’omosessualità un intervento decisivo, come quello di Damiani, avrebbe allontanato dagli ordini o degradato molti ecclesiastici. D’altra parte, Boswell dimostra in maniera abbastanza verosimile che c’era più di una relazione casuale tra la sessualità gay e alcune riforme effettuate durante questo secolo. Egli riporta delle testimonianze in cui i preti omosessuali vengono accusati di essere più desiderosi degli eterosessuali di rinvigorire le proibizioni contro i matrimoni ecclesiastici. Una satira contro un vescovo riformatore lo accusa specificamente di essere ostile al matrimonio ecclesiastico proprio a causa delle sue inclinazioni omosessuali:L’uomo che occupa questa sede [episcopale] è più Ganimede di Ganimede. Senti perché esclude gli sposati dal clero:

Egli non ama i servizi di una moglie. Ci sono testimonianze di accese dispute tra il clero gay e quello sposato su quale delle due predilezioni dovesse essere stigmatizzata. Un ecclesiastico sposato chiede alla gerarchia ecclesiastica:

Tu che fai passare nuove leggi ed emani severi statuti

E che ci tormenti, correggi in primo luogo quel sudiciume

Che più gravemente danneggia e che maggiormente allontana dalla legge.

Perché eviti di imporre pene severe ai sodomiti?

Questo tipo di malattia (che minaccia il mondo con la morte)

Sarebbe giusto che fosse estirpata per prima.

Questi documenti sono un’ulteriore prova del fatto che il LG trattava un argomento proibito e che quindi era un libro estremamente scomodo.
I papi non lo criticarono mai pubblicamente perché altrimenti avrebbero contraddetto il loro programma di riforma, ma cercarono in tutti i modi, e con successo, di lasciarlo fuori dalla lista dei provvedimenti riformatori.
In linea con la tesi di Boswell, possiamo concludere che, probabilmente, il LG riscosse poco successo non solo perché la sua diffusione avrebbe gettato una pessima luce sul clero, ma anche perché avrebbe sollevato un problema che in quel momento non era fra i più urgenti da risolvere.
Comunque, è giusto ribadire che, nonostante, o meglio, grazie alle sue vicissitudini, il LG costituisce una fonte storica unica all’interno del Medioevo.



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