Biografia
Pier Damiani fu, dunque, innanzi tutto, un monaco, maestro di vita religiosa e soprattutto di vita eremitica, sull’esempio di S. Romualdo di cui scrisse anche la biografia. Le sue opere, specialmente quelle dirette ai monaci, sono piene di concetti di quella "dottrina dell’eremo" - come la chiama Palazzini - formulata da Damiani stesso e rimasta poi classica: il monastero è una preparazione all’eremo, cui tutti i monaci dovrebbero tendere, come più alta forma di vita religiosa.
Un altro aspetto della figura di Damiani è delineato dal Blum che lo ha definito "consigliere dei Papi"; fu questo, infatti, il suo compito principale nella vita pubblica del periodo pregregoriano.
Damiani era afflitto dai mali della Chiesa, di cui condannò molto energicamente le manifestazioni più palesi, le cosiddette "piaghe del secolo": la simonia e il nicolaismo. Durante la prima metà dell’XI secolo, nel periodo in cui Damiani era priore di Fonte Avellana, ben otto papi avevano occupato successivamente, e a volte si erano disputati, la sede apostolica. Dopo la morte di Silvestro II (1003), con cui sembrava iniziato un periodo di riforma, la situazione era di nuovo precipitata nell’antica corruzione e il papato era diventato appannaggio delle grandi famiglie aristocratiche. Essendo stato, quindi, spettatore di questi anni agitati e profondamente corrotti, Damiani comincia ad agire in prima persona scrivendo ed incontrando i pontefici. Iniziò con Gregorio VI, il primo papa che sembrò far sperare al mondo l’attuazione di una riforma e si tenne sempre a contatto con gli altri papi che gli succedettero, divenendo quando più quando meno, uomo di fiducia e di consiglio. Ma la vocazione a consigliere dei pontefici non era dettata da altro che dal desiderio di affrettare la riforma della Chiesa. Quest’altro aspetto della figura di Damiani, il riformatore, lo portò ad avere molteplici contatti con le più note personalità ecclesiastiche e laiche dell’epoca. Egli, però, non seppe misurare, almeno in tutta l’estensione, la radice profonda del male riposta nell’investitura laica che implicava la sottomissione della Chiesa all’Impero. Anzi, Damiani era persuaso che la riforma della Chiesa poteva essere realizzata solo con l’accordo dei due poteri spirituale e temporale. Nella Disceptatio Synodalis, che compose per difendere Alessandro II dall’antipapa Onorio II, egli si propose unicamente di ricreare l’intesa tra la santa Sede e la corte germanica, senza rendersi sempre conto dell’importanza dei sacrifici accettati in vista della loro riconciliazione. Infatti, Damiani, in questo suo scritto, sembra smentire il decreto del 1059 in cui Niccolò II stabiliva che l’elezione del pontefice spettava in primo luogo ai cardinali vescovi e non all’imperatore. Ammiratore dell’istituzione imperiale, come aveva funzionato al tempo di Enrico III, egli non vide fra Chiesa e Impero la possibilità di rapporti diversi da quelli fino ad allora seguiti. Di altro parere era, invece, il suo collega nelle ambascerie papali, Ildebrando da Soana, futuro Gregorio VII, che ingaggiò la lotta contro le investiture per respingere l’ingerenza dei laici nelle elezioni dei pontefici, dei vescovi e degli abati. Per Damiani la preoccupazione maggiore era di combattere strenuamente l’incontinenza e far rivivere nel clero la virtù della purezza e della castità perfetta.
Contro la simonia, Damiani scrisse il Liber Gratissimus in cui, pur condannando questa pratica, sosteneva che i sacramenti amministrati dai preti simoniaci conservavano la loro validità perché non era dagli uomini ma da Cristo che traevano la loro efficacia. Questa posizione, però, era in disaccordo con ciò che l’autore aveva sostenuto negli scritti precedenti, in cui si era battuto fieramente contro i simoniaci. Probabilmente, Damiani cambiò il suo giudizio perché, nel frattempo, aveva saputo che anche il vescovo da cui era stato ordinato era simoniaco! Contro di lui, a causa di questo suo ripensamento, si scagliò Umberto di Silva Candida, sostenitore della tesi rigorista, il quale negò decisamente la validità del sacerdozio di Damiani.
Dopo le discussioni sollevate dal Liber Gratissimus, molto criticato nell’ambiente ecclesiastico, si verificò un certo allontanamento tra Leone IX e Pier Damiani. Ciò potrebbe essere spiegato, secondo Lucchesi, dalla posizione di Umberto di Silva Candida nella questione delle ordinazioni, poiché questi fu un cardinale molto influente su Leone IX. Altri studiosi invece ritengono che l’allontanamento sia stato determinato dalla risposta che il papa diede a Pier Damiani riguardo al suo libro.
In altri opuscoli, Damiani si occupò della necessità di una vita illibata da parte dei chierici e vi espresse le sue idee sul celibato e sulla castità del clero. In particolare, egli scrisse nel De caelibatu sacerdotum (1059) un’esortazione al papa Niccolò II, che era il dedicatario dell’opuscolo, affinché esercitasse tutto il rigore dei sacri canoni contro i prelati immorali e perché deponesse quelli che violavano la castità
Breve introduzione
Secondo J.J Ryan, la lamentela di Damiani non è un gioco retorico, la sua preoccupazione sembra abbastanza reale. Egli ritiene però che il LG non abbia nulla a che fare con l’incidente raccontato nella suddetta epistola perché, a suo avviso, è molto improbabile che Pier Damiani avesse con sé, a Roma, il LG quindici anni dopo la sua composizione, cosa che, invece, non esclude Boswell visto che l’autore cercava ancora di interessare il papato alla riforma di tali questioni.
Ryan cerca di dimostrare che il libro in questione è un’altra opera di Damiani ma fornisce poche prove a sostegno della sua ipotesie non dà peso all’affettuosa descrizione del volume sottratto che, secondo Boswell, è applicabile solo al LG.
In effetti, Pier Damiani descrive questo suo libro come un figlio, come quell’unicum filium (quindi ancora più prezioso per la sua unicità) che aveva stretto a sé con il dolce abbraccio di un genitore, che gli era costato tanta fatica e che aveva quasi strappato alla povertà del suo misero ingegno. L’autore si esprime con toni affettuosi come se parlasse di una persona cara e cerca di rendere partecipi gli amici Stefano ed Ildebrando del suo rammarico e del suo risentimento per il furto subito, triste ricompensa per il duro lavoro. Inoltre, l’atteggiamento canzonatorio ed evasivo del papa infastidisce ulteriormente Damiani che non esita a paragonare il pontefice ad un pazzo "che scaglia tizzoni e frecce di morte" e che poi si giustifica dicendo che era uno scherzo. Se Alessandro ritiene, come dimostra con il suo comportamento, che il sacerdote sia un attore, allora anche Damiani si sente autorizzato a giocare e a scherzare con il nome del papa, formulando così una serie di velate minacce circa il suo possibile destino. Infatti, Alessandro II porta lo stesso nome di quel pontefice che fu flagellato e di quel ramaio, avido di denaro, che S. Paolo affida al Signore perché lo punisca secondo le sue opere. Inoltre, Damiani ricorda al papa l’aiuto che gli prestò contro Cadalo e tutte le tribolazioni che dovette sopportare a servizio unicamente della sede apostolica. Perché dopo tante pene, per le quali merita di certo la beatitudine, deve subire l’oltraggio del furto e, per giunta, da parte di una persona che credeva amica?
Queste parole così pungenti non sono certamente una finzione letteraria, Damiani è veramente dispiaciuto per la perdita del suo "amico codice".
Ma l’indignazione dell’autore era dovuta solamente all’atteggiamento irrispettoso e canzonatorio del papa, al fatto che gli aveva sottratto il libro con un sotterfugio e che non si decideva a restituirglielo, oppure il libro aveva un valore particolare per Damiani? Che cosa implicava il furto di questo suo lavoro? Egli non ci fornisce nessun elemento per rispondere a queste domande e per stabilire con certezza quale sia il libro rubato. È chiaro, comunque, che l’affronto ricevuto dal papa è il motivo principale della reazione di Damiani. Ma, forse, senza forzare troppo l’interpretazione della lettera, si possono formulare altre ipotesi quali, ad esempio, che si trattasse dell’unica copia in suo possesso e che, quindi, il furto significasse per Damiani la perdita irreparabile di un suo intero lavoro. Oppure che l’argomento in esso trattato fosse particolarmente importante per Damiani, come si legge fra le righe della sua affettuosa descrizione del manoscritto e nei ripetuti solleciti che egli fa al papa per riavere il suo libro. Ma queste ipotesi non sono sufficienti, benché Boswell dica il contrario, per identificare il libro in questione con il LG. C’è un altro elemento però da prendere in considerazione e che, a mio avviso, è determinante per la comprensione della lettera. Damiani, dopo aver ricordato al papa di essersi comportato come i Daniti che rubarono tutti gli averi di Mica, lo prega di non allontanare da sé il misero autore di quel libro a causa di "un incidente di così poco conto". È difficile stabilire a che cosa si riferisca Damiani ma di certo sottintende un fatto spiacevole legato all’opera in questione. Era stato l’argomento discusso nel libro o forse qualche considerazione dell’autore ad aver provocato un incidente, ad aver suscitato del malcontento o delle reazioni negative? Neanche questo possiamo sapere con certezza. Se però interpretiamo il "fatto spiacevole" come una qualche reazione negativa nei confronti di un suo lavoro, allora quasi certamente possiamo identificare l’amico codice con il LG. Nessun’altra opera di Damiani, infatti, ricevette delle critiche così forti come quelle seguite al LG, tali da indurlo a difendersi tenacemente come ha fatto nella lettera inviata a Leone IX.
A questo poi si deve aggiungere che non era nelle intenzioni di Damiani dare quel lavoro ad Alessandro — "sapeva che non lo avrebbe potuto ottenere da me in altro modo" —, ma perché allora lo aveva con sé? Forse voleva solamente chiedergli un parere sulla qualità del suo componimento, forse voleva provare nuovamente, come aveva fatto con Leone IX, a proporre dei severi provvedimenti contro l’omosessualità del clero.
Se accettiamo l’ipotesi che la lettera parli veramente del LG, allora ci dobbiamo chiedere che cosa indusse Alessandro II, che pure sosteneva con forza la riforma della Chiesa, a nascondere quel libro anziché usarlo come spunto per legiferare contro le immoralità del clero. Forse perché era troppo violento e diretto o perché proponeva sanzioni troppo pesanti. Boswell sembra insinuare che lo stesso Alessandro II avesse delle ragioni personali che lo spingevano a tale gesto, poiché era allievo di Lanfranco di Pavia, famoso per il suo attaccamento ai giovani monaci. Senza alcun dubbio, comunque, Alessandro II considerava il LG "scomodo" e forse temeva, visto i precedenti, le reazioni che avrebbe potuto suscitare.
Dopo questa ultima vicissitudine, non sappiamo quale sia stata la storia del LG. Secondo J. Brundage, che a sua volta utilizza il pensiero di Little, Pier Damiani, nella lettera ai due cardinali, implorerebbe con successo, i due amici di recuperare il LG e di restituirlo al suo autore. In questa lettera, però, non c’è traccia di una simile richiesta. Anzi, Pier Damiani coinvolge molto poco Ildebrando e Stefano: a loro indirizza la lettera e a loro chiede una penitenza per le dure parole pronunciate contro il papa. A parte questi due chiari riferimenti, il testo della lettera sembra rivolgersi ad un pubblico molto più vasto a cui Damiani sfoga la sua amarezza per l’ingiustizia subita.
Egli non ama i servizi di una moglie. Ci sono testimonianze di accese dispute tra il clero gay e quello sposato su quale delle due predilezioni dovesse essere stigmatizzata. Un ecclesiastico sposato chiede alla gerarchia ecclesiastica:
Tu che fai passare nuove leggi ed emani severi statuti
E che ci tormenti, correggi in primo luogo quel sudiciume
Che più gravemente danneggia e che maggiormente allontana dalla legge.
Perché eviti di imporre pene severe ai sodomiti?
Questo tipo di malattia (che minaccia il mondo con la morte)
Sarebbe giusto che fosse estirpata per prima.
Questi documenti sono un’ulteriore prova del fatto che il LG trattava un argomento proibito e che quindi era un libro estremamente scomodo.
I papi non lo criticarono mai pubblicamente perché altrimenti avrebbero contraddetto il loro programma di riforma, ma cercarono in tutti i modi, e con successo, di lasciarlo fuori dalla lista dei provvedimenti riformatori.
In linea con la tesi di Boswell, possiamo concludere che, probabilmente, il LG riscosse poco successo non solo perché la sua diffusione avrebbe gettato una pessima luce sul clero, ma anche perché avrebbe sollevato un problema che in quel momento non era fra i più urgenti da risolvere.
Comunque, è giusto ribadire che, nonostante, o meglio, grazie alle sue vicissitudini, il LG costituisce una fonte storica unica all’interno del Medioevo.